martedì 10 marzo 2015

Due donne, due nazionalità: ma emozioni e sentimenti comuni





Due voci, due donne: una italiana e l'altra moldava. Due destini apparentemente diversi. Ma potrebbe essere la voce della stessa donna, che esprime le propsie emozioni, che racconta le proprie esperienze. Sentimenti universali si fanno poesia in forma di romanzo, per riflettere sulle difficoltà di chi è csotretto a lasciare il Paese d'origine e gli affetti e il dolore di chi è ammalato nell'anima. La solitudine, la compassione; il vuoto, la rinascita. Insieme. Questo e molto altro nel romanzo intitolato Sottobosco, di Simona Castiglione, edito da Ratio e Revelatio.



Abbiamo rivolto alcune domande all'autrice che ringraziamo molto.




Antonella e Vasiliţa sono due donne, una italiana e l'altra moldava: quali sono i tratti comuni in quanto donne e persone con destini diversi?


Sottobosco è un romanzo caratterizzato da una forte tensione verso l’abbattimento di stereotipi e pregiudizi. Uno fra tutti: le differenze culturali, religiose, censitarie renderebbero impossibile lo sviluppo di rapporti umani profondi e duraturi. Antonella e Vassi, in questo, sono esemplari: coltivano reciproche diffidenze, hanno lunghi periodi di distacco, anche emotivo, l’una dall’altra, hanno storie personali e facciate culturali diversissime, tuttavia non possono fare a meno di riconoscersi l’una nell’altra, di rispecchiarsi direi – in quanto madri sofferenti, in quanto donne con storie d’amore tormentate, ma soprattutto in quanto donne, di fatto, sole al mondo – accedendo a una dimensione parallela che tutti gli esseri umani occasionalmente frequentano: quella dell’empatia, della condivisione e dell’intimità vera a prescindere da ogni sovrastruttura. La loro amicizia è quasi un matrimonio, nella misura in cui “è per sempre”. Il messaggio di fondo è che tutti noi dovremmo frequentare più spesso questa dimensione alternativa, perché è estremamente arricchente e dà senso all’esistere.

 

Quali sono i motivi che l'hanno indotta a scrivere questa storia?


Motivi molto personali, che però mi piace condividere: qualche anno fa ho dato alla luce il mio secondo figlio e ho avuto la necessità di tornare al lavoro dopo soli tre mesi dalla sua nascita. Mi occorreva una tata e ho trovato una ragazza moldava che, inutile negarlo, assomiglia tantissimo alla Vassiliţa del romanzo. Anche io, come Antonella, ho provato inizialmente a trattarla come una “donna di servizio”, così, per non complicarmi la vita: non è stato assolutamente possibile! L’empatia ha preso il sopravvento. Dopo pochi mesi discorrevamo di tutto, infischiandocene bellamente di ogni barriera linguistica e culturale, ed eravamo in un rapporto di intimità e fiducia che raramente ho sperimentato con altre persone. Anche lei, però, è stata costretta a ritornare in patria. Siamo rimaste in contatto e spero con tutto il cuore di poterla riabbracciare, quest’estate, in occasione del tour promozionale per la traduzione romena di Sottobosco, che mi porterà anche in Moldavia.


Quanto è importante imparare a mettersi “nei panni dell'altro”?


È tutto. Per uno scrittore è la principale fonte d’ispirazione, ma anche per chi non scrive, sviluppare la capacità di sentire l’altro significa poter vivere molte altre vite, oltre alla nostra singola esistenza; fare a meno dei luoghi comuni, che sono comodi e pratici per incasellare il mondo e le persone, ma che falsano la realtà proponendocela “preconfezionata”; aprire la mente, elevare lo spirito e allenare il cuore che, essendo un muscolo, ne ha bisogno. In poche parole: crescere come individuo e come membro di una collettività.


Uno dei temi principali riguarda il fallimento di un'esperienza di migrazione...


È proprio così: il libro nasce da una serie di domande che io mi sono posta in forma speculativa, ma alla quale ho voluto dare risposta attraverso un’accurata indagine in loco. “Cosa accade quando un tentativo di migrazione fallisce? Cosa succede alla persona che sperimenta tale “fallimento” e alla sua famiglia? Come reagisce la comunità che la riaccoglie?”. Per rispondere, ho viaggiato a lungo in Moldavia, sulle tracce di storie non felici di emigrazione, e ho scoperto un’enorme quantità di dolore nascosto che urlava per venire allo scoperto. Ho voluto che il mio romanzo fosse uno spazio in cui dare voce a questo dolore, ho pensato che tutti noi, che abbiamo badanti, baby sitter e donne delle pulizie straniere, dovessimo contattarlo questo dolore, perché ci appartiene e non volerlo vedere sarebbe falsa coscienza. Mi piace citare, a questo punto, la mia amica moldava Lilia Bicec, che ha pubblicato per Einaudi un’opera epistolare di toccante bellezza, Miei cari figli vi scrivo, dove mette in luce, senza mai scadere nel patetico, la sofferenza dell’emigrante perfino quando ha successo, come nel suo caso. Noi italiani dovremmo ricordarcela bene, questa sofferenza, perché ci è appartenuta a lungo storicamente. Il problema, e qui parlo da docente e non da scrittrice, è che le nuove generazioni sono state educate dalla temperie culturale dominante all’oblio della storia, perché porre gli eventi in una prospettiva storicizzata apre squarci di consapevolezza che non sono desiderabili per chi vuole formare eserciti di mediadipendenti manipolabili.
 

La scrittura del testo presenta alcune simmetrie, quali ad esempio, quella tra le protagoniste, ma anche tra i due Paesi. Quali sono le sue considerazioni a riguardo?


Ci siamo illusi a lungo, noi “occidentali”, di vivere in una situazione di benessere inestinguibile. La recente crisi ci ha smentito in pieno. Il benessere ha abbandonato molti di noi, la disoccupazione galoppa, il futuro non promette nulla di buono. E c’è chi lascia l’Italia per cercare fortuna altrove, è già in atto un piccolo fenomeno migratorio che ci riguarda. La Moldavia, con la sua povertà, la sua mancanza di risorse, la sua fragilità, non ci sembra più così lontana come pochi anni fa. Siamo regrediti e abbiamo paura, gli “stranieri” ci appaiono ora più forti, capaci di lavorare più a lungo e meglio, in grado di rifarsi una vita in un Paese spesso ostile, e perfino di condurre un’esistenza di qualità: molti immigrati ibridi prendono la laurea e spesso hanno ottimi risultati nello studio e nel lavoro. Non c’è una ricetta per superare la paura e l’ansia di questo periodo critico, ma il consiglio che mi sento di dare è questo: accogliere, sostenere, empatizzare invece di rifiutare, ostacolare, disconoscere.