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mercoledì 30 dicembre 2015

L'Associazione 21 luglio e la chiusura del Best House ROM

L’Associazione 21 luglio esprime profonda soddisfazione per la chiusura, nella Capitale, del Best House Rom, la struttura senza finestre, da due anni oggetto di numerose denunce dell’Associazione, dove negli ultimi mesi 135 persone, di cui oltre la metà minori, vivevano in condizioni drammatiche, al di sotto degli standard minimi di tutela dei diritti umani.
«A Roma è iniziato un processo irreversibile: non soltanto dal 2012 si è impedito la costruzione di nuovi “campi rom”, ma si inizia finalmente a mettere i sigilli su questi ghetti e luoghi di discriminazione istituzionale, che rappresentano un’anomalia italiana nel contesto europeo», afferma il presidente dell’Associazione 21 luglio Carlo Stasolla.
La chiusura del Best House Rom, situato in via Visso, nella periferia est della Capitale, è stata predisposta dal Comune di Roma in seguito a una “interdittiva antimafia” nei confronti della Cooperativa Inopera, l’ente gestore della struttura che nel 2014, come documentato dal rapporto dell’Associazione 21 luglioCentri di raccolta S.p.a.”, è costata 2,8 milioni di euro, di cui quasi 2,6 milioni affidati senza bando pubblico alla stessa Cooperativa Inopera. Alle famiglie che vivevano nella struttura è stata offerta una sistemazione alternativa da loro giudicata adeguata, come hanno potuto constatare rappresentanti dell'Associazione 21 luglio che in questi giorni hanno seguito la vicenda sul posto.
Nato nel 2012, il Best House Rom si è consolidato tra dicembre 2013 e marzo 2014 in seguito al collocamento nella struttura di 137 persone provenienti dallo smantellamento del “villaggio attrezzato” della Cesarina e di altre 64 sgomberate da alcuni insediamenti informali.
L’Associazione 21 luglio, per prima, ha denunciato le condizioni di vita drammatiche all’interno del centro. Nel report “Senza Luce”, pubblicato a marzo 2014, l’Associazione ha puntato i riflettori sulle condizioni strutturali del Best House Rom, caratterizzato da stanze anguste, prive di finestre e punti di areazione naturale; sulla sua incompatibilità con i requisiti previsti dalla normativa regionale che regola il funzionamento di strutture di accoglienza; e sugli altissimi costi della sua gestione, a fronte di stanziamenti nulli per l’inclusione sociale degli uomini, delle donne e dei bambini rom residenti.
Alle numerose denunce dell’Associazione 21 luglio sul Best House Rom, sono seguite l’apertura di un’istruttoria sul centro da parte dell’Autorità Anticorruzione, dopo un esposto presentato dall’area legale dell’Associazione lo scorso febbraio, e varie visite ispettive con rappresentanti delle istituzioni locali, nazionali e internazionali: con il consigliere di Roma Capitale Riccardo Magi, con la Commissione Diritti Umani del Senato, con il presidente del Comitato Europeo dei Diritti Sociali Luis Quimena Quesada, con una delegazione della Commissione Europea contro il Razzismo e l’Intolleranza (ECRI).
La chiusura del Best House Rom va così ad aggiungersi a due importanti battaglie che hanno visto, nei mesi scorsi, l’Associazione 21 luglio in prima linea contro la costruzione di due nuovi “campi per soli rom” nella Capitale: il nuovo “villaggio attrezzato” della Cesarina, che nelle intenzioni dell’allora Assessore alle Politiche Sociali Rita Cutini avrebbe dovuto sostituire quello raso al suolo a dicembre 2013, e il nuovo “villaggio attrezzato” La Barbuta, che sarebbe dovuto essere realizzato dalla multinazionale Leroy Merlin in base a un progetto su cui, come emerso dalle intercettazioni su Mafia Capitale, aveva messo gli occhi anche il cosiddetto “ras delle cooperative” Salvatore Buzzi.
Entrambi i progetti furono bloccati in seguito al lancio di due campagne di mail bombing e mobilitazione on line (“#DiscriminareCosta” e “Leroy Merlin, un campo rom è un ghetto: non costruirlo!”) sul sito dell’Associazione 21 luglio. Lo scorso maggio, per di più, era stato il Tribunale di Roma, con una sentenza storica, in seguito a un’azione legale promossa da Associazione 21 luglio e Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione, a riconoscere per la prima volta in Italia e in Europa il carattere discriminatorio dei “campi rom”, con specifico riferimento al “villaggio attrezzato” La Barbuta.
«La chiusura del Best House Rom, sebbene non sia stata accompagnata dall’individuazione di soluzioni che favoriscano l’inclusione sociale delle comunità rom, rappresenta comunque un punto di svolta cruciale per Roma: nella Capitale non si costruiscono più nuovi “campi” e si è iniziato a mettere la parola fine ai ghetti esistenti – conclude il presidente dell’Associazione 21 luglio Carlo Stasolla -. Oggi è evidentemente cominciato un percorso dal quale non sarà più possibile tornare indietro: il sistema campi va definitivamente superato e l’inclusione sociale dei rom deve far parte dell’agenda politica della nuova Amministrazione che sarà guidata a governare la città». 
 
PER APPROFONDIRE:
 

sabato 26 dicembre 2015

Se in Danimarca tramonta l'Europa



di Adriano Prosperi (da La Republica)




UN pagamento anticipato delle spese di asilo e di assistenza. È una notizia che merita di essere attentamente considerata da tutti i cittadini europei. È un passo ulteriore nell'inedito esperimento di rapporti tra popoli migranti e popoli stanziali in atto ai nostri giorni.
Non del tutto inedito, tuttavia. Esso ci richiama alla mente quella tripartizione di ruoli che secondo lo storico Raul Hilberg si disegnò ai tempi del genocidio nazista e divise i contemporanei dei fatti tra carnefici, vittime, spettatori. Ci si chiede se sia possibile applicare questa tripartizione ai nostri tempi. Quali siano le vittime è evidente: in Europa attendiamo fra poco l'arrivo del milionesimo migrante per chiudere il bilancio del raccolto di questo anno. L'estate scorsa se ne attendevano ottocentomila e sembravano già troppi. Nel conto ci sarebbe da considerare anche quelli morti per via. All'Università di Amsterdam si censiscono i casi di "Death at the borders of Southern Europe". È l'elenco dei caduti di una guerra senza fine. A differenza di quelli delle guerre mondiali europee del ‘900 questi morti sono rappresentanti con una infografica fatta di tanti puntini dai colori diversi: in blu chiaro quelli identificati, in blu scuro quelli senza nome. Soldati ignoti della grande guerra in atto. Ma le vittime non sono solo quelle morte in viaggio. La strada dell'Europa è dura e piena di imprevisti anche per via di terra. I piedi dei bambini e delle donne migranti fanno pensare a quelli della sirenetta di Andersen. La nostra Europa così poco unita sembra divisa solo dalla diversa asprezza delle prove a cui sottopone i dannati della terra. E gli europei, cioè noi, sembrano impegnati in mutevoli giochi di ruolo: oggi carnefici ieri spettatori. Pronti comunque anche a livello politico ufficiale a rigettare responsabilità sul vicino e sempre protetti da chi caccia le cattive notizie nelle pagine interne dei giornali: come quella dei cinque bambini annegati due giorni fa nelle acque turche. Bambini sì, ma migranti. Fossero stati figli di gitanti ne avremmo conosciuto nomi e nazionalità e visto le foto in prima pagina. Chi non ricorda il corpo del piccolo Aylan, quella sua t-shirt rossa e quei pantaloncini blu scuro? La donna che scattò la fotografia disse di essersi sentita pietrificata: e sembra che il premier inglese Cameron dopo averla vista abbia modificato la durezza delle sue posizioni sull'immigrazione. Ma oggi tira un vento diverso. Impallidiscono i colori delle buone intenzioni dell'estate passata . Quelle della Merkel, che permisero a tutti i tedeschi per una volta almeno di sentirsi buoni, per ora hanno incontrato più ostacoli che consensi. Alla prova dei fatti contano le mura, quelle materiali e quelle legali e burocratiche che sono state alzate davanti a ogni frontiera, specialmente ma non solo a quella orientale dell'Europa, dove intanto la Turchia svolge il lavoro sporco ma ben retribuito di cane da guardia. È bastata l'ombra del terrorismo, l'idea che sui barconi arrivino da noi dei fanatici votati al martirio stragistico e la paura ha fatto il resto, gonfiando le vele dei partiti xenofobi, cambiando di colpo il paesaggio politico francese.
Il rapporto tra parole e fatti può essere misurato da quello che è accaduto il 18 dicembre. Era il giorno della Giornata internazionale di solidarietà con i migranti, fissato a ricordo della data in cui l'Assemblea generale delle Nazioni Unite adottò nel 1990 la Convenzione internazionale per la tutela dei diritti dei migranti. Ma proprio in quel giorno, sulla festa delle buone intenzioni è calata dalla Danimarca l'ombra cupa del progetto di legge che abbiamo ricordato. In quel paese di una democrazia e di un welfare idoleggiati non solo dai migranti si avanza la legge che promette di essere la soluzione finale del problema. Il governo, espresso dal partito xenofobo Venstre, ha già fatto parecchio in questo senso.
Ora sta progettando un vero salto di qualità. Chi si presenterà alle frontiere sarà perquisito e si vedrà sequestrare danaro e ogni oggetto di valore. Si lasceranno le fedi nuziali, si dice: e non si arriverà certo a strappare ai migranti i denti d'oro, come i nazisti facevano alle loro vittime. È il danaro che conta: è questa la misura unica del valore nell'età del neoliberismo.
Anche se la violenza sui corpi non è una frontiera insuperabile. Proprio in questi giorni le cosiddette autorità europee hanno rimproverato quelle italiane per le mancate registrazioni delle impronte digitali dei migranti: e hanno imposto di permettere l'uso della forza per la raccolta delle impronte e di "trattenere più a lungo" i migranti che oppongono resistenza.
Dunque, guardiamo alla sostanza, ai duri fatti di un conflitto tra le ragioni della più elementare umanità e l'avanzare strisciante di un ritorno preventivo a misure che sono iscritte nelle pagine peggiori del nostro recente passato. Tocca a tutti noi come spettatori decidere se voltare altrove lo sguardo o resistere attivamente al degrado della realtà - questa sinistra realtà europea dei nostri giorni. I valori che sono in gioco non sono solo i soldi e gli oggetti preziosi dei migranti: sono quelli immateriali che dovrebbero costituire il fondamento di una costruzione europea oggi tutta da ripensare.

 

giovedì 24 dicembre 2015

Hate crimes in Europe!. Alloggio per la popolazione Rom: un viaggio d'esclusione



di Cinzia D'Ambrosi

 

Nel mio ultimo blog su 'peridirittiumani.com' ho scritto una breve riflessione sull'iniziativa chiamata 'Decade dell'inclusione della popolazione Rom' in cui ho sottolineato le aree che gli otto paesi partecipanti alla Decade avevano pattuito per migliorare il tenore di vita delle comunita' Rom in Europa e ho concluso che queste non hanno riportato miglioramenti se non per la formazione scolastica, seppur breve.

Per le comunita' Rom la realta' e' grave perchè sono sottoposte a continue violazioni dei loro diritti umani. Le popolazioni Rom sono ancora oggi private d'alloggio, costrette a vivere ai margini di zone urbane, in aree affollate e povere creando dei ghetti ed insediamenti illegali o carovane. Per le comunita' Rom o Travellers in Gran Bretagna, gli sfratti e la negazione del diritto di parcheggio per una caravan vengono continuamente reiterati. La realta' non cambia di molto da un paese europeo all'altro; in Fakulteta Mahala (un ghetto Rom a Sofia, in Bulgaria) che e' un ghetto Rom nella zona centrale della citta', i servizi comunali - come la raccolta dei rifiuti - non viene effettuata. Questa non e' nemmeno la situazione piu' grave per i Rom nel paese, considerando che per coloro che vivono in Kjustendil, Plovdi - in Kosovo, Bosnia Herzegovina - le comunita' Rom vivono in campi in zone industriali in disuso, spesso a rischio per la loro salute. Sgomberi forzati sono numerosissimi, condannando le popolazioni Rom ad una vita in costante insicurezza. Sgomberi e distruzioni di campi sembrano far parte della politica statale anche in Italia. European Roma Rights Centre ha riportato piu' di 21,000 sfratti in Francia nel 2014. Circa il 45 per cento della popolazione Rom in Europa vive in un'abitazione a cui mancano i servizi primari. Questi sono scenari ripetuti in vari paesi europei e alimentao i pregiudizi esistenti.

Purtroppo, poter ottenere un alloggio tramite i servizi sociali e' alquanto difficile per moltissime ragioni, ma principalmente per la mancanza di lavoro e di un contratto d'affitto locale. Negli ultimi anni, anche se ci sono state delle iniziative come il Programma d'integrazione allogggio in Ungheria con l'obbiettivo d'integrazione dei Rom in case gestite dal governo, il problema centrale e' quello che ancora oggi non esiste un vero programma centrato sulla de-segregazione. Un programma di integrazione d'alloggio che rispecchia l'aspetto politico, fisico e mentale per poter sviluppare l'aspetto integrativo; per questo alcuni interventi hanno solamente fatto ottenere ai Rom un alloggio, ma la conseguenza è stata quella di contribuire alla crescita di ghetti urbani.

Per costruire una societa' priva di discriminazioni si dovrebbero eliminare le aree d'esclusione (ghetti), generare opportunita' lavorative, celebrare la diversita' invece di soffocarla. L'obiettivo dovrebbe essere quello di sradicare la discriminazione istituzionale e la 'policy' che rende i campi e gli alloggi Rom 'invisibili'.


Housing for the Roma: a Journey of Exclusion.

In my last post on ' peridirittiumani.org' I have written a short reflection on the decade of the Roma inclusion. Outlined there were some of the areas that the eight countries that participated in the decade (Decade for Roma Inclusion) had agreed on working to improve lives for the Roma communities in Europe. Summarily there were outlined the areas being touched and the resulting data which demonstrated that the living conditions for the Roma population in Europe is still grave and we would need a lot of concentrated and concerted efforts to improve it. Still today, basic human rights are continuously breached. Anyone that has had any encounter with Roma communities would know that more often than not they live in illegal settlements, in sheds, or housing without basic amenities. Most of these precarious living spaces are often based at the margin of urban areas, or using what urbanity can give them, and thus living under a bridge, a motorway intersection, or in concentrated urban areas creating what are being referred to as Roma ghettos.

The living spaces demonstrate their status within societies in Europe, in marginalised spaces. These 'homes' are makeshift sheds built illegally, others are informal settlements, caravans or camps.

Notably, for the Travellers communities in Great Britain, evictions and a right for stay in their home caravans has been revoked in many events in recent years. One of the most well known cases is the Travellers of Dale Farm. The Roma communities living in Fakulteta (Bulgaria) do not have access to normal city services so their rubbish is not being collected, there is no sewage system, water and electricity is sparse and sanitation often non existent. Similarly in Kosovo, Bosnia Herzegovina the Roma communities live in disused industrial area, often at risk for their health from polluted lands. Circa 45 per cent of Roma communities in Europe live in housing that lacks of basic amenities.

All these are repeated scenarios in many countries and have further segregated the Roma communities and alimented prejudices.

For the Roma communities and the Travellers alike housing in the private sector is an unattainable dream. The social sector is also very difficult for them because lack of work, valid rental agreements. Illegal and forced evictions are high condemning them to a life of constant insecurity wondering from one settlement to another. Evictions and destruction of their homes is a matter of state policy in Italy. In France the European Roma Rights Centre has recorded more than 21,000 evictions (2014).

In recent years, there have been some initiatives aimed at housing integration as we noted in Hungary, which had the objective of Roma communities being housed in social housings. However, the programme on an housing level particularly failed in rural areas and in urban areas it proved to escalate urban ghetto-isation. The main issue is that still today there is not a programme that is central to de-segregation in a way that it would reflect integration at all levels, political, physical and mental. In this way, many interventions have only contributed to the growing number of urban housing ghetto-isation for the Roma population.

To have a society free of discrimination we would aim to eradicate the creation of ghetto areas, increase opportunities for education and work and generate integration celebrating diversity rather than suffocate it. Institutional discrimination should be addressed and the 'policy' that works on making Roma housing 'invisible'.





Caption:

Roma in the illegal camp of Zitkovac in the outskirts of Mitrovice, Kosovo.

Didascalia:

Una comunita' Rom in un campo illegale di Zitkovac nei pressi di Mitrovice, Kosovo.

sabato 19 dicembre 2015

Sulla legge anti-niqab

L'Associazione per i Diritti umani ringrazia moltissimo Omar Jibril -  dirigente CAIM (Coordinamento Associazioni Islamiche di Milano) e Resp. Servizi Edilizi e valorizzazione del Territorio - per aver scritto per i nostri lettori questo suo contributo a commento della nuova legge regionale sul divieto del niqab in alcuni luoghi pubblici.
Ecco il testo di Omar Jibril:


A chi non è capitato di leggere od ascoltare almeno una volta, tra i banchi di scuola, l’ Articolo 3 della Costituzione Italiana che recita: “Tutti i cittadini hanno hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali….”?

La tendenza dell’uomo ad etichettare, escludere, categorizzare ha avuto influenze nefaste nel corso della storia, spingendo gli uni contro gli altri, determinando guerre e conflitti, schiavitù, orrori e massacri.

Il 10 dicembre del 1948 a Parigi l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò e proclamò la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani: ogni stato di diritto avrebbe assicurato la salvaguardia ed il rispetto dei diritti umani e delle libertà individuali, e avrebbe posto le proprie fondamenta sui principi di uguaglianza, giustizia ed equità.

Gli oltre 70 milioni di morti della Seconda Guerra Mondiale costituivano un tributo terrificante, il Mondo Civile voleva voltare pagina e scrivere un nuovo capitolo di pace ed armonia.

Nel 1960, Cassius Clay Mohamed Ali gettò nel fiume la medaglia d’oro di pugilato vinta alle Olimpiadi di Roma: tornato a casa sua a Louisville, nel Kentuchy, non potè fare colazione in un bar in quanto dedicato ai soli cittadini bianchi.

E se l’apartheid, la politica di segregazione razziale in Sudafrica, è perdurato fino al 1993, molti paesi vivono ancora oggi la medesima condizione.

In Italia la situazione è certamente molto diversa, ma non possiamo dire d’aver compiuto grandi passi avanti per es. sul tema della cittadinanza, che l’Impero Romano garantiva ad ogni cittadino residente entro i confini territoriali dello Stato che, all’epoca, dominava un quarto della popolazione mondiale. Oggi tra dispute parlamentari e proposte di legge, lo ius soli è entrato in vigore solo parzialmente.

Negli ultimi anni abbiamo assistito al proliferare del populismo politico, delle cassandre visionarie, dei profeti della paura. Se negli anni ’60-70 il problema erano i “terun” che emigravano verso il nord Italia rubando il lavoro agli autoctoni, negli anni ’90 hanno lasciato il posto agli immigrati da paesi esteri.

L’accanimento di alcune forze politiche e di alcuni media è oggi concentrato verso una categoria ben precisa: i musulmani.

Autoctoni o di origine straniera, i musulmani nel Belpaese sono circa 2 milioni, lavorano e contribuiscono al mantenimento dello Stato che da loro riceve più di quanto spende.

A inizio 2015 la Regione Lombardia ha attuato una legge che presenta tratti evidenti di incostituzionalità, la famosa Legge 12 definita “Anti-moschee”, perché mira ad impedire la costruzione di luogo di culto musulmani. La legge è già stata impugnata dal Governo e la sentenza è prevista a metà del 2016.

Confermando la propria vocazione, il Presidente della Regione Lombardia Maroni ha approvato un regolamento che vieta l’ingresso a volto coperto nei luoghi pubblici, facendo riferimento ad una Legge già esistente, la n° 152 del 22 maggio 1975 che dice: “È vietato l’uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo”.

Il 6 maggio del 2009 i deputati Sibai e Contento hanno presentato una proposta di legge con la quale volevano venisse integrato l’art. n° 152: “Al primo comma dell'articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152, e successive modificazioni, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: «È altresì vietato, al fine di cui al primo periodo, l'utilizzo degli indumenti femminili in uso presso le donne di religione islamica denominati burqa e niqab»”.

È chiaro ed evidente che una certa classe politica manifesta un palese accanimento nei confronti della comunità islamica italiana, negando de facto ai cittadini musulmani la possibilità di poter professare la propria religione in maniera dignitosa, e addirittura approvando regolamenti che vogliono colpire quella minoranza.

La “Legge anti-niqab” vuole impedire alle donne musulmane che portano il niqab, il velo che copre il viso lasciando scoperti solo gli occhi, l’accesso ai luoghi pubblici.

Partendo da un semplice calcolo statistico (le donne che indossano il niqab in Lombardia si contano sulle dita di una mano), non è ben chiaro per quale motivo in regione abbiano voluto rimarcare un principio che già fa parte del nostro ordinamento giuridico e che è sempre stato applicato con la regola del buonsenso.

Si vuol far passare l’idea che un certo abbigliamento è pericoloso, e che chi lo indossa può perseguire scopi violenti, sulla base della squallida equazione musulmani = terroristi.

Ogni individuo ha il diritto di vestirsi come ritiene opportuno, nei limiti della decenza, ben vengano i controlli a random (come le postazioni dei carabinieri lungo le grandi vie di esodo), chi non ha nulla da nascondere non avrà problemi a mostrare il proprio documento di riconoscimento, col volto celato o scoperto, ma davvero non abbiamo bisogno di questo clima di sospetto e diffidenza.

Bob Marley due giorni prima di un importante concerto fu ferito in un attentato; ciò non lo scoraggiò ed il 5 dicembre 1976 si esibì davanti ad una folla oceanica. Quando qualcuno gli chiese perchè avesse cantato quella sera lui rispose con quella che divenne una delle sue frasi più celebri: “Perché le persone che cercano di far diventare peggiore questo mondo non si concedono un giorno libero… Come potrei farlo io?!“.

Dio dice nel Corano: “O uomini, vi abbiamo creato da un maschio e da una femmina e abbiamo fatto di voi popoli e tribù, affinchè vi conosceste a vicenda”. E forse, supereremo il pregiudizio.


martedì 15 dicembre 2015

America latina: i diritti negati. Che cosa fare?



di Mayra Landaverde



In questi giorni di cortei, presidi e riunioni ho notato che tanti compagni si chiedono se davanti a tutte queste tragedie sia davvero utile continuare nella lotta. La lotta contro il razzismo, la corruzione, l'indifferenza ecc.

I risultati sono spesso scarsi o nulli. La stanchezza si fa molto presente fra noi.

Ieri, durante un corso, una partecipante ha chiesto al relatore cosa fare.

Sì, cosa fare? Andare in manifestazione? Realizzare uno striscione? Fare uno sciopero della fame? Incatenarsi davanti a qualche palazzo istituzionale?

Io non credo che nessun attivista o nessun docente abbia una risposta concreta.

E anche a me viene una stanchezza terribile quando vedo al nostro presidio per i nuovi desaparecidos - ogni giovedì - la gente che passa e non si ferma, non ci guarda e tante volte non accetta nemmeno il nostro volantino.

Sono tutti impegnati a faregli acquisti di Natale.

Come potrebbero essere interessati a dei ragazzi che ormai sono morti e sepolti in fondo al Mediterraneo? A chi potrebbe mai interessare la sorte di migliaia di centroamericani dispersi da qualche parte in Messico? Chi vorrebbe mai sapere di tutti i messicani che muoiono abbandonati nel deserto o annegati nel Río Bravo per attraversare la frontiera con gli Stati Uniti?

Non interessa a nessuno. Perché non li vedono. Perché sono numeri, cifre da telegiornale. Statistiche.

Allora, chiedono i compagni. Che cosa fare?

Facciamoglieli vedere. Proprio davanti ai loro occhi. Portiamoli qui nel centro città.

Il 25 aprile scorso , come Rete per i Nuovi Desaparecidos, abbiamo deciso di creare cartelli con le foto dei ragazzi algerini e tunisini dispersi nel Mediterraneo. Poche volte nella mia vita mi sono commossa in questo modo. La gente ha cominciato ad applaudire mentre noi camminavano in silenzio con i cartelli e quei volti appesi al collo , volti di persone di cui non si sa più nulla da anni.

Sono spariti, sono desaparecidos.

Noi li stiamo cercando! Vogliamo sapere dove sono. Non li portiamo per fare qualsiasi cosa.

Li portiamo perché le loro famiglie li cercano ma non possono essere qui. Perché ci hanno affidato questo grandissimo impegno e noi lo abbiamo accettato. Io l'ho accettato perché sono madre e non riesco nemmeno a immaginare la disperazione del non sapere dove sia finito mio figlio.

Che cosa fare chiedono i compagni.

Bene, prendete una di queste foto e cercateli con noi.

Ieri, 14 dicembre 2015, giornata importante a Milano, mentre si ricordava la strage di Piazza Fontana, abbiamo deciso di continuare ancora col nostro presidio, ma non da soli. Ora ci sono anche Torino, Palermo e Roma. E la stanchezza si sente già meno.

Facciamoci contagiare dai movimenti dell'America Latina. Noi siamo stanchi, ormai è da giugno che organizziamo questo presidio.

La carovana di madri centroamericane in cerca dei loro figli e figlie dispersi in Messico lo fanno da 11 anni. Saranno stanche anche loro, certo.

Ma stanno cercando i loro cari e vanno avanti, nessuno le ferma, neanche il governo messicano che ci ha provato in tutti i modi, negando il loro ingresso nel paese. Nessuno le ha fermate. Nemmeno quando trovano i propri figli. Emeteria Martínez cercò per 21 anni sua figlia. E continuò ad accompagnare le altre mamme anche dopo aver trovato la figlia.

Questo movimento ha trovato finora 200 persone e soltanto quest'anno ne sono già stati ritrovati altri quattro.

Ecco cosa fare.

Facciamoci contagiare da loro, dalla loro inesauribile voglia di cambiare il mondo.


domenica 13 dicembre 2015

CHIUDE il campo Rom di Via Idro a Milano


NON MANCATE, come si dice. Anche se la coloratissima locandina prosegue proclamando E’ L’ULTIMA OCCASIONE PER VISITARE IL CAMPO ROM DI VIA IDRO.

Anche questo si dice, pur di richiamare l’attenzione e (mi raccomando!) la presenza.

O forse si tratta di scaramanzia: dirlo per allontanare la possibilità che succeda.

Invece, per quanto ci risulta, il campo comunale di via Idro, uno dei più antichi di Milano; il più bello, con le sue casette immerse nel verde; il più attrezzato, con il suo centro sociale, ormai in rovina per eccesso di manutenzione; quello con più speranze, avendo una volta una cooperativa interna che gestiva serre di piantine e fiori per il Comune di Milano; l’unico difeso dal suo Consiglio di Zona; ma, soprattutto e comunque il più ‘integrato’: non solo scuola, lavori, amicizie, ma parte della festa di via Padova, con mostre, installazioni d’arte, spettacoli, proiezioni, musica…be’, il Comune di Milano lo chiude.


Ci sarà un motivo, direte voi. Noi non lo abbiamo scoperto. Ad ogni buon conto, si ricorre al TAR.

Un risultato c’è: le persone che lì sono cresciute, donne uomini bambini, insieme alle loro case, andando nelle scuole del quartiere, stringendo amicizie, trovando qualche lavoro, finiranno in un CES (l’acronimo è municipale): in container con altre famiglie, separate da tende, con qualche doccia, qualche cucina più o meno funzionante, sradicati da tutto, in condizioni emergenziali e provvisorie. Non c’è altro da aggiungere.
 

venerdì 11 dicembre 2015

Il vuoto al di qua delle barriere: il razzismo...nel calcio e le parole di un allenatore



di Max Mauro (*) (da La bottega del Barbieri)







Un giocatore dilettante di calcio viene squalificato per dieci giornate per insulti razzisti rivolti a un avversario di origine africana. Capita in Friuli, campionato di prima categoria della provincia di Udine. Così riferisce il quotidiano locale, «Il messaggero veneto». Gli insulti razzisti sono consuetudine domenicale per i calciatori dilettanti di colore, ma il più delle volte non vengono sentiti dall’arbitro e pertanto non finiscono nel referto. Talvolta – raramente – l’autore dell’insulto è così sboccato e sfacciato che l’arbitro non può ignorarlo. Scatta così la squalifica di dieci giornate, introdotta dalla Figc nel 2013 per dare un segnale “forte” di impegno contro il razzismo nel calcio a tutti i livelli, come sollecitato dalla Uefa. In realtà, questa norma è stata applicata in pochissime occasioni.

Nel corso degli ultimi due anni la squalifica per insulti razzisti ha colpito giocatori di diverse categorie dilettantistiche, e perfino un ex giocatore di serie A, Emiliano Bonazzoli, esibitosi in insulti razzisti verso un arbitro di origine immigrata durante una partita di Serie D. A di là del numero di tesserati squalificati, il problema è diffuso, capillare. Il sistema calcio italiano è impregnato di una cultura razzista storicizzata e di pregiudizi verso tutto quello che non è “bianco, italiano, maschio, apparentemente eterosessuale”. Così si spiegano le uscite apertamente razziste del presidente della Figc, Carlo Tavecchio, di quelle altrettanto razziste di Arrigo Sacchi (“troppi neri nelle squadre giovanili”), di Stefano Eranio (“i neri non san difendere”), di Aurelio De Laurentis (“meno male che erano olandesi, mica nigeriani”), di Paolo Berlusconi (“il negretto Balotelli”), di Maurizio Zamparini (“lo zingaro Mutu”), di Marcello Lippi (“nel calcio italiano non esiste razzismo”) giusto per citarne alcuni entrati nelle cronache negli ultimi anni. E che dire delle dichiarazioni dell’ex presidente della Lega Nazionale dilettanti contro il calcio femminile (“quattro lesbiche”) e quelle omofobe dell’allenatore dell’Arezzo (“in campo non voglio checche”).

In questo triste contesto, la storia di Udine diventa significativa soprattutto per le dichiarazioni rilasciate al giornale locale dall’allenatore del giocatore squalificato. Per la cronaca, lo stesso giocatore aveva da poco completato una squalifica di quattro mesi, poi ridotta a due, per aver aggredito l’arbitro durante una partita ufficiale. Nonostante ciò, l’allenatore si perita di difenderlo rivoltando la questione, operando una capriola dialettica inspiegabile con gli strumenti della ragione. Lo fa facendo passare il giocatore razzista e tutti “noi bianchi” (nelle sue parole) come vittime. «Siamo arrivati al punto in cui a essere penalizzati siamo noi bianchi. I giocatori di altra razza possono insultarci passandola sempre liscia, mentre chi offende loro viene punito. Ma forse non è nemmeno il caso di arrabbiarci o meravigliarci, visto che stiamo mettendo in discussione perfino il presepio nelle scuole».

E’ difficile immaginare un’argomentazione così limpidamente, profondamente razzista e allo stesso tempo diretta, comprensibile ai più e destinata a trovare purtroppo consensi. E’ un piccolo saggio di ignoranza storica che andrebbe inserito nei libri di scuola per aiutarci a capire cosa non va in una società che non (ri)conosce il razzismo. Non dimentichiamo che pochi mesi fa il Parlamento italiano ha assolto, con voto trasversale, il senatore della Lega Nord ed ex-ministro Roberto Calderoli che aveva paragonato l’ex ministra Cecile Kyenge a una scimmia. Per i parlamentari di “opposte” fazioni politiche il suo non è un insulto che incita all’odio razziale e non merita di essere giudicato da un tribunale. Conta meno di una querela per diffamazione.

A parte tutto questo, la dichiarazione dell’allenatore di Udine merita una riflessione e una risposta. Non può essere ignorata, perché è molto più grave degli insulti rivolti dal suo giocatore a un avversario di colore e perché fa capire che il problema è più profondo di quello che appare.

Come per altri aspetti, il calcio funziona da amplificatore di sentimenti che scorrono sottopelle nella società e ne rappresentano i tratti meglio di molti testi sociologici o di editoriali giornalistici. In termini rozzi l’allenatore ci dice: il razzismo esiste, ma i razzisti sono “loro”. Per loro si intende tutto quello che è “altro” dall’idea di “italiano” trasmessaci dalla scuola, dalla televisione, dalla politica, dalla società. E’ altro chi ha un colore della pelle un po’ più scuro, èaltro lo straniero in generale, l’immigrato, l’extracomunitario. E’ ovvio che il nero è più “altro” di altri perché quella che è semplicemente una caratteristica somatica assomma nel discorso razzista tutte le altre categorie. E’ l’altro per definizione. James Baldwin, in un illuminante saggio attorno a un suo viaggio in Svizzera negli anni cinquanta del novecento, sottolinea come il nero (the black man) cerca, utilizzando tutte le risorse a sua disposizione, di far sì che il bianco (the white man) smetta di considerarlo un’esotica rarità e lo riconosca come un essere umano. D’altra parte, ricorda Baldwin, è stato l’uomo bianco occidentale a trascinare violentemente il nero dentro la sua storia riducendolo in schiavitù e privandolo irrimediabilmente del suo passato. Baldwin aveva negli occhi la sua stessa storia famigliare, essendo figlio di un figlio di schiavi della Louisiana.

Dunque, le parole dell’allenatore. Come è possibile un simile ragionamento? Da dove nasce un tale vuoto culturale e umano? Perché i grandi veicoli di cultura popolare non fanno uno sforzo per spiegare la società ai suoi cittadini?

Tutte domande che reclamano risposta. Io credo che al di là delle squalifiche quello che può realmente portare un cambiamento, nello sport e nella società, è il dialogo. Il dialogo e l’educazione, intendendo per questo l’intervento formativo delle istituzioni, ma non solo. In questo caso specifico, mi chiedo perché la federazione invece di comminare una squalifica di dieci giornate non ne dia una di cinque ma obbligando lo squalificato a un breve percorso formativo sull’ABC del razzismo. Che so, un incontro di tre ore nella sede della federazione con una persona esperta di interculturalismo e sport. Magari una persona di colore. O l’obbligo ad arbitrare una partita fra bambini di varie origini etniche. Se non si presenta all’incontro la squalifica viene raddoppiata. E’ un’idea, un suggerimento. Ovviamente, nel caso di Udine il percorso formativo sarebbe ancora più necessario per l’allenatore, visto che ricopre la doppia funzione di persona pubblica (rilascia dichiarazioni ai mass media) e di educatore, visto che gestisce un gruppo di giovani uomini, molti ancora ragazzi. La formazione non solo sportiva è il nodo nevralgico del sistema sportivo. L’ignoranza combinata all’arroganza, cioè l’arroganza data dall’ignoranza, trova numerosissimi esponenti nel calcio, a tutti i livelli.

Il problema riguarda non solo gli appassionati di calcio, chi lo pratica e lo gestisce: non è purtroppo nuovo. Quante volte abbiamo dovuto sentire affermare che “sì, insomma, se mi dicono che son grasso mica posso accusarli di razzismo, e cosa vogliono questi, un insulto è un insulto, non c’è differenza tra dare del ciccione a uno o dirgli sporco negro”. Un insulto è un insulto, non c’è differenza. Questo è l’assunto di molte persone, anche laureate, anche impegnate nel sociale. Non è verbo che attecchisce solo nelle menti di moltitudini annebbiate da giornate passate con la televisione accesa e l’occhio alle ultime offerte per un nuovo telefono cellulare. E’ un’idea che ha a che fare con la mancanza di istruzione basica e di informazione.

Un insulto razzista non è un insulto come un altro. Qualsiasi insulto è un gesto violento, che vuole offendere e urtare chi lo riceve. Ma un insulto personale è diretto alla persona o al massimo ai suoi familiari. L’insulto che fa riferimento a un’origine, alla provenienza e soprattutto l’offesa che usa le caratteristiche somatiche – come il colore della pelle – per definire qualcuno (in termini espressamente spregiativi) ha un carico di violenza diverso. Soprattutto ha una storia che non può essere ignorata. E’ un insulto che riguarda moltitudini. Riguarda persone che possono sentirsi comprensibilmente toccate da questo attacco anche senza riceverlo direttamente. Questa è solo una approssimazione dell’insulto razzista. Un tentativo di mirare a un uditorio dall’udito malfunzionante o parzialmente disconnesso come quello rappresentato dall’allenatore sopracitato. L’insulto razzista è solo una componente, la più immediatamente visibile, del razzismo che pervade la società. Per questo non può essere ignorato.

L’insulto razzista va compreso nel quadro di una società, quella italiana, che ha disconosciuto la sua criminogena storia coloniale e le leggi razziali del fascismo (quanto spazio hanno questi temi nei manuali di storia in uso nelle scuole?) e che ha chiamato immigrati perché ne aveva e ne ha bisogno, ma non ha permesso loro e ai loro figli di diventare altro che mano d’opera sottopagata e quando i lavori umili non sono più disponibili o diventano estremamente volatili, lascia loro come destino, spesso, solamente l’emarginazione.

E’ facile dar la colpa a Salvini, alla sua esposizione mediatica, all’arsenale di surreali parabole che infila una dietro l’altra per manipolare la realtà e fare degli immigrati, degli stranieri, il capro espiatorio di tutti problemi. E’ vero, non si può negare la pericolosità di simili discorsi. Allo stesso tempo non va sottovalutata l’importanza della televisione nel dare insistentemente voce a messaggi allucinati e renderli “popolari”. Ma questa è solo una parte della storia. Le parole uscite dal senno dell’allenatore di Udine segnalano un salto di qualità nel razzismo popolare perché identificano una forma di “vittimismo” inedita, almeno in Italia.

Il contesto generale di instabilità economica e sociale (che non è problema esclusivo dell’Italia, va detto, ma trova qui particolare enfasi), i flussi di rifugiati (che fuggono il più delle volte da guerre avviate dall’Occidente), l’idea di un Islam necessariamente ostile reiterata a destra e a manca, contribuiscono a creare un tappeto emotivo di insicurezze dove chi è predisposto ad accettare discorsi razzisti ne diventa latore entusiasta e sordo alla ragione. E riesce perfino a inventarsi vittima. Vittima di cosa? E’ questo che è difficile da comprendere. Serve uno sforzo condiviso per arrivare alle sorgenti di ignoranza. Per esempio, gli stessi che si scandalizzano perché un preside di una scuola multietnica mette in discussione l’opportunità di canti natalizi di una sola religione sono i primi a iscrivere i propri figli in scuole con basse presenze di immigrati. Il pregiudizio è loro, non di chi cerca forme di dialogo che fanno parte della storia di tutte le società, da che mondo è mondo.

Uno sforzo andrebbe anche diretto a comprendere che lo sport, oggi più che mai, va inteso come fenomeno culturale che ha implicazioni nel modo in cui vediamo e capiamo il mondo. Il calcio non può essere lasciato a chi non capisce e non è interessato a fare della società un posto migliore per tutti. Parafrasando quanto scrisse C. R. L. James nel suo straordinario studio sul cricket e il post-colonialismo nei Caraibi potremmo chiederci: cosa capisce di calcio chi solo di calcio sa?

(*) Max Mauro è autore de «La mia casa è dove sono felice» (2005). Nel 2016 manderà alle stampe uno studio sul calcio e i giovani di origine immigrata realizzato in collaborazione con il Cies, Centro internazionale di studi dello sport.



LA VIGNETTA – sulle “gaffes” di Carlo Tavecchio – E’ DI MAURO BIANI.

giovedì 10 dicembre 2015

Hate crimes in Europe: riflessioni sui dieci anni d'inclusione dei Rom (2005 - 2015)


di Cinzia D'Ambrosi
 
Nel 2005, nella capitale della Bulgaria, Sofia, molti paesi europei firmarono una iniziativa inaudita che doveva puntare sul marcato divario socio economico della popolazione Rom in Europa. Cosi' ebbe inizio 'The Decade of Roma inclusion 2005-2015' che dava ai paesi europei l'opportunita' d'intervenire e migliorare i vari settori dalla Salute, Educazione, Alloggio a Discriminazione.
Oggi, trascorsi i dieci anni, possiamo soffermarci a riflettere. Il 10-11 Settembre 2015, alla 28esima International Steering Committee in Sarajevo, sono stati invitati i governi che si erano impegnati nell'iniziativa per marcare la scadenza dei dieci anni e poter fare un bilancio riflessivo attuale della situazione dei Rom. Il segretario della Decade ha presentato il bilancio sommario constatando che molte aree come quella della salute non hanno presentato miglioramenti mentre l'area educativa ne ha riscontrato solo alcuni.
Come fotoreporter ho lavorato a lungo sulle comunita' dei Rom, in particolare nei Balcani, in Kosovo, Bosnia Herzegovina, Bulgaria. Una delle riflessioni piu' significative e' quella che molte persone Rom non erano nemmeno al corrente della Decade. La maggior parte della loro quotidianità si svolge nel lottare per sopravvivere, alle prese con numerosi problemi. Cinicamente, coloro che per varie vie ne sono venuti a conoscenza, sono arrivati alla conclusione che i 'Professionisti' ricavano fondi dai loro problemi.
La questione è che se non ci si impegna ad abbracciare le comunita' dei Rom nel vero senso della parola, non ci sara' mai un progresso profondo. Si dovrebbe combattere la discriminazione, partendo dal linguaggio e dagli stereotipi. La discriminazione non e' diminuita negli ultimi dieci anni.
A meno che il razzismo istituzionale scompaia, le comunita' dei Rom non vedranno alcun miglioramento nelle loro vite. Quindi, riflettendo sulla 'Decade of the Roma inclusion 2005-2015', ci si dovrebbe domandare il perche' non fare del buon uso delle risorse umane che nel tempo porteranno all'inclusione dei Rom a tutti i livelli, partendo da un punto sociale di non esclusione e facendo si' che i Rom non siano messi da parte, ma vengano integrati nelle nostre societa'.


Reflections on the 'Decade of the Roma inclusion (2005-2015)



In the year 2005 in Sofia, Bulgaria, Central and South-Eastern governments in an unprecedented effort to bridge the existing wide socio economic gaps for the Roma population in Europe signed for an initiative that was to mark the beginning of the "Decade of Roma Inclusion 2005-2015". This initiative was to look at the different areas of needed improvements for the Roma communities in Europe from education, housing, health, discrimination etc. and intervene where needed.
Ten years later, on the 10th-11th September 2015, at the 28th International Steering Committee in Sarajevo, Bosnia and Herzegovina, the same countries that signed the initiative were marking the closure of the Roma Decade initiative. Thus, the Decade Secretariat provided an overall reflection on the initiative with areas noted as improved such as education and those like health that have had little to none improvements.
As a photojournalist, I have been covering the lives of the Roma for a long time, particularly in the Balkans from Kosovo, Bosnia Herzegovina and Bulgaria. One of the most significant reflections is that the Roma communities have hardly be made aware of the Decade Initiative and if they have, they would be too bitterly embroiled in survival and thus cynically looking at the initiative as another 'means for others to discuss and win funds on their behalf'. The problem is that unless we are to embrace the Roma population as a community that is not a separated entity then there will be no progress. Discrimination is still rife and it has not diminished in the last ten years.
Unless institutional racism is wiped out, Roma communities will not see any improvements in their lives. Thus, on reflection on the 'Decade of the Roma inclusion 2005-2015' it would be great to make use of our human resources to create inclusion from housing, health and education. Thus, starting from a non-exclusion society, where Roma are not set aside, but are integrated at all levels.





Caption:
Roma gypsies in the Roma ghetto of Kjustendil in Bulgaria.

Didascalia:
Le comunita' dei Rom nel ghetto di Kjustendil in Bulgaria.









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giovedì 3 dicembre 2015

“So Dukhalma – Quello che mi fa soffrire”, il nuovo rapporto dell’Associazione 21 luglio sul disagio interiore dei minori e delle famiglie rom

Come vivono i minori rom all’interno di un ghetto, isolati dal centro abitato e senza spazi per giocare ed esprimere la propria personalità? Quali disagi provocano la povertà, la discriminazione della società e la mancanza totale di stimoli e riconoscimenti all’interno del proprio contesto abitativo?
Sono questi gli interrogativi alla base di “So Dukhalma – Quello che mi fa soffrire, il nuovo rapporto dell’Associazione 21 luglio sul disagio interiore dei minori e delle famiglie rom residenti negli insediamenti istituzionali che verrà presentato giovedì 10 dicembre alle ore 17.30, presso l’aula V della facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università la Sapienza di Roma (città universitaria), in Piazzale Aldo Moro, 5.
La ricerca ha sviluppato un’indagine su un campione di minori tra gli 8 e i 15 anni che vivono nel “villaggio della solidarietà” di Castel Romano, comparando dati e osservazioni con le famiglie rom che vivono in abitazioni convenzionali.
 
Interverranno alla presentazione del rapporto:
 
Carlo STASOLLA, presidente dell’Associazione 21 luglio
Natale LOSI, antropologo-medico e direttore della Scuola Quadriennale di Psicoterapia Etno Sistemico Narrativa di Roma
Angela TULLIO CATALDO, autrice della ricerca, Associazione 21 luglio
 
Ai partecipanti sarà distribuita copia gratuita del reportage fotografico ispirato alla ricerca, “So Dukhalma –Quello che mi fa soffrire“.
La ricerca è stata realizzata con il sostegno della Fondazione Bernard Van Leer.
L’autrice del testo, Angela Tullio Cataldo, ha condotto la ricerca con il supporto di Luca Facchinelli, Cristiana Ingigneri, Emiliana Iacomini e sotto la supervisione scientifica di Natale Losi, direttore della Scuola Quadriennale di Psicoterapia Etno Sistemico Narrativa di Roma.
Le fotografie del reportage sono state scattate da
Stefano Sbrulli, photoreporter e digital designer, presso il “villaggio della solidarietà” Castel Romano e presso le famiglie rom residenti in abitazioni private a Roma.

mercoledì 2 dicembre 2015

Il posto giusto: NO al razzismo






Cari amici, vi invitiamo a partecipare numerosi a questa bellissima iniziativa:

Il 1 dicembre 1955 su un autobus dell'Alabama una donna ha cambiato la storia dei diritti civili. A 60 anni dal no al razzismo di Rosa Parks, il Comune di Milano la ricorda con un tram storico che partirà il 3 dicembre
dalle 17,15 alle 21,00 - ogni 30 minuti -  dalle fermate di via Cantù e Porta Genova. 

L'iniziativa è organizzata in collaborazione con ATM e con l’Associazione Città Mondo e grazie all'Associazione Il razzismo é una brutta storia e l'Associazione Mondadori: un percorso artistico su un tram storico in giro per la città. 


Un attore condurrà il pubblico in un percorso di riscoperta del tema della lotta per i diritti civili, e durante questo viaggio, gli spettatori avranno la possibilità di rivivere la forza del rifiuto di Rosa Parks, che verrà rimesso in scena dagli attori presenti sul tram. 
L’episodio sarà trasposto teatralmente ai giorni nostri: sono passati sessant’anni dalla denuncia di Rosa, ma certe violenze fanno ancora parte della vita di tutti i giorni. Un percussionista scandirà il ritmo della performance evocando con i tamburi atmosfere tribali africane e una cantante soul farà da cornice con le sue note alla lettura di alcuni passi del nuovo romanzo di Harper Lee.

Gli interpreti in scena sono Michel Koffi Fadonougbo, Betty Gilmore, Stephane Ngono e Andrea Panigatti; Riccardo Mallus firma la regia.

Radio Popolare, media partner dell’evento, condurrà una diretta dal tram offrendo momenti di approfondimento con il pubblico e garantendo la diffusione radiofonica della manifestazione.

La partecipazione è gratuita previa prenotazione obbligatoria – indicando nome, orario prescelto e numero di partecipanti (max 4) – alla mail:  rosaparks.milano@gmail.com

lunedì 30 novembre 2015

I minori Rom in emergenza abitativa

 
Associazione 21 luglio: «Sono circa 17.000 i minori rom in emergenza abitativa in Italia. Verso di essi amnesia delle istituzioni»
Nel nostro Paese, circa 17 mila bambini e adolescenti rom continuano a vivere in condizioni di grave disagio abitativo, igienico e sanitario, vittime di discriminazione ed emarginazione.
Lo denuncia l’Associazione 21 luglio in occasione della Giornata Internazionale dei Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza, che si celebra domani per ricordare l’adozione, il 20 novembre 1989, della Convenzione Onu sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
La questione abitativa dei rom in Italia, che continua ad essere affrontata dalle istituzioni attraverso approcci discriminatori e basati su una visione emergenziale, è alla radice del profondo disagio che caratterizza il presente e il futuro dei bambini e adolescenti rom. Oggi, infatti, nel nostro Paese circa 11 mila minori rom vivono nei quasi 200 insediamenti formali, ovvero creati e gestiti dalle istituzioni, mentre più di 6.000 risiedono in insediamenti informali costituiti da tende e baracche. Un numero in costante aumento per effetto di politiche non lungimiranti e inefficaci, che tendono non a risolvere ma ad aggravare la problematica, reiterando le ormai consolidate dinamiche dell’esclusione sociale.
Una delle conseguenze più evidenti delle condizioni abitative in cui vivono i minori rom è quella legata alle “malattie della povertà” che si declina, nella vita del bambino o dell’adolescente, nelle cosiddette “patologie da ghetto”. La vita nel ghetto incide fortemente sull’aspettativa di vita dei minori rom, che risulta mediamente più bassa di circa 10 anni rispetto al resto della popolazione.
La condizione abitativa ha inoltre un impatto negativo sul percorso scolastico dei minori rom, caratterizzato dall’abbandono e da una frequenza discontinua. Chi vive nei cosiddetti “campi nomadi” avrà possibilità prossime allo 0 di accedere ad un percorso universitario, mentre quelle di poter frequentare le scuole superiori non supereranno l’1%. In 1 caso su 5, del resto, il minore rom abitante del “campo” non inizierà mai il percorso scolastico.
Ad incidere sul disagio dei bambini e degli adolescenti rom vi è infine la questione degli sgomberi forzati degli insediamenti informali, che hanno conseguenze drammatiche sulla vita dei minori e rendono ancora più vulnerabili le loro famiglie, spostandole da una parte all’altra della città.
Particolare preoccupazione suscita l’impennata di sgomberi forzati registratisi nella Capitale in seguito all’annuncio del Giubileo della Misericordia da parte di Papa Francesco: sistematiche violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale che l’Associazione 21 luglio ha voluto portare all’attenzione della pubblica opinione attraverso il lancio della campagna #PeccatoCapitale, una raccolta firme per chiedere alle autorità capitoline una moratoria sugli sgomberi forzati alla quale hanno già aderito 25 associazioni e personaggi noti come Roberto Saviano, Gad Lerner, Ascanio Celestini, Piotta, Sabina Guzzanti e Padre Alex Zanotelli.
Malgrado lo sgombero forzato di un insediamento, così come l’allontanamento di un minore rom dalla famiglia naturale, venga giustificato dal “superiore interesse del minore”, spesso si rileva dietro queste azioni un carattere di sproporzionalità che porta a compromettere, talvolta in maniera irrimediabile, una condizione familiare e sociale già difficile dalla nascita.
«Nonostante il drammatico quadro – afferma l’Associazione 21 luglio – le amministrazioni locali e nazionali sembrano muoversi in una direzione contraria alla risoluzione della problematica del disagio dei bambini e degli adolescenti rom in Italia. Anche nella Giornata che verrà celebrata domani, sembra essere l’amnesia la vera protagonista delle politiche che si continuano a mettere in atto. Costruzione di nuovi “campi”, azioni di sgombero, politiche scolastiche differenziate, discorsi d’odio e di discriminazione: questo è il leitmotiv che anche oggi condiziona il futuro dei minori rom. Bambini e giovani che rappresentano la cartina di tornasole della civiltà e del livello di democrazia del nostro Paese che predilige nascondere le problematiche sotto il tappeto ed affrontare all’insegna dell’emergenza una questione che meriterebbe riflessione e programmazione nel lungo periodo».
 
Per approfondire: