venerdì 31 luglio 2015

Family reunification not deportation!

di Mayra Landaverde  (Mayralandaverde.it)



Ogni volta che lui era in ritardo anche di soli cinque minuti io pensavo subito che l’avessero fermato. Pensavo gli avessero chiesto i documenti e sapevo bene che andava in giro senza nemmeno una fotocopia del passaporto, perché fra gli stranieri senza permesso di soggiorno si dice così, non portare il passaporto se no ti mandano indietro al tuo paese, invece senza documenti loro non possono sapere da dove vieni.

Io sono stata fermata solo una volta quando non avevo ancora il mio permesso ma non mi hanno fatto niente, mi hanno lasciata andare subito. I poliziotti erano impegnati con due ragazzi che non parlavano l’italiano.

Così quando lui era in ritardo cominciavo ad agitarmi tanto, tantissimo. Perché avevamo già un bambino...Se l’avessero fermato, io cosa avrei fatto? Nel migliore dei casi l’avrebbero espulso, nel peggiore dei casi l’avrebbero rinchiuso in un CIE, e lì sì che sarei andata fuori di testa. Decisi, nel caso l’avessero espulso, di andare subito a vivere nel suo Paese perché volevo vivere con lui e il nostro bimbo, non importa dove.

Non è mai successo, siamo ancora qui a Milano insieme e tutti quanti ora abbiamo il permesso di soggiorno. Anche se ogni due anni ci viene l’ansia del rinnovo, che comunque è legato al lavoro, e si sa, noi siamo solo mano d’opera, mica abbiamo una vita vera.

Il 20 luglio 2015 Emma Sanchez (messicana) e Michael Paulsen (statunitense) si sono sposati con rito cattolico davanti al muro che separa Tijuana in Messico da San Diego negli Stati Uniti.

Non hanno scelto loro il posto. Emma è stata espulsa dagli USA 10 anni fa. Ha vissuto negli Stati Uniti per 5 anni senza permesso di soggiorno, ha conosciuto suo marito, si sono sposati in Comune e hanno avuto dei figli. Così Emma ha deciso di tornare a Ciudad Juarez in Messico per rientrare negli Stati Uniti in modo legale. L’hanno fermata e le hanno dato il divieto di ingresso negli USA per 10 anni, anche se lei era già sposata con un cittadino americano e aveva tre figli.

I suoi figli la vanno a trovare a Tijuana una volta a settimana. Questo è l’ultimo anno dal mandato. L’anno prossimo proverà ancora ad entrare legalmente negli Stati Uniti.

Il governo statunitense deporta in media ogni anno 400.000 migranti, il 75% dei quali sono messicani. Di questi, 152.000 sono genitori di bambini nati su suolo americano, quindi con la cittadinanza americana. I bambini rimangono negli USA con i parenti più vicini oppure nelle strutture fatte apposta per accogliere i figli di migranti deportati.

Nel 2011 erano 5.100 minori. Non ci sono dati attuali precisi, visto che l’ICE (Immigration and Customs Enforcement) non li considera nemmeno.

Nel 2013 un gruppo di parlamentari repubblicani e democratici ha proposto una riforma alla legge per l’immigrazione con dei punti specifici sulla “Reunification family”. Queste riforme permetterebbero ad esempio di richiedere un visto temporaneo ai genitori deportati affinché regolarizzino la propria situazione rimanendo nel Paese, cioè senza essere obbligati a lasciare i propri figli.

Mentre il parlamento discute questa legge le persone si sposano davanti ai muri di confine, i bambini crescono senza madri o padri e le mogli piangono per i loro mariti. Chi può rispondere ad Alexis Molina, figlio di Sandra Payes deportata da anni in Guatemala, che si chiede come mai sua madre non c’è più?


giovedì 30 luglio 2015

E' arrivata mia figlia: una madre e una figlia per il diritto alla dignità



Val e Jessica: una madre e una figlia nel Brasile di oggi. Val è una donna di mezza età, da tanti anni è al servizio come domestica presso una famiglia, in una villa di San Paolo. Ha cresciuto i figli di Bàrbara e di Carlos e Fabinho, il ragazzo adolescente, la considera la sua “seconda mamma”. Jessica arriva a scompaginare la ritmica e monotona quotidianità di Val, un giorno, all'improvviso: dopo un'infanzia trascorsa con il padre e la nonna, vuole trascorrere a San Paolo un po' di tempo per poter accedere al test di ingresso in università. Val non ha altra alternativa che quella di farla soggiornare nella sua stanza – stretta e soffocante – mentre cerca un alloggio per entrambe. Ma la convivenza tra i componenti della famiglia ricca e le due donne non è facile. Da qui prende l'avvio la trama del film intitolato E' arrivata mia figlia, di Anna Muyleart, vincitore del Premio speciale della Giuria al Sundance Festival e del Premio del pubblico al Festival di Berlino 2015.

I personaggi, ben caratterizzati, formano il puzzle della società brasiliana delle metropoli: Bàrbara, la moglie ambiziosa e consapevole di sé e del proprio ruolo sociale, Carlos il marito depresso, privo di spina dorsale, del tutto steso sulla propria ricchezza ereditata, i due figli poco più che bambini poco maturi e molto viziati. E, tra loro, spicca anzi giganteggia la figura di Val: una donna, una madre per tutti. Affettuosa, rispettosa delle regole, accudente: solido punto di riferimento, ma sempre al proprio posto, mai sopra le righe, quasi un oggetto da arredamento utile, ma non indispensabile (se non per Fabinho e per la sua fragile psicologia).  

Jessica, appartiene a un'altra generazione e cova rancore per quella madre che le ha sempre inviato i soldi per il mantenimento, ma che le è stata lontana. La ragazza non sopporta le imposizioni di una differenza di classe ancora evidente, nonostante i piccoli gesti ipocriti; non accetta le avances di un uomo scontento e annoiato; non tollera la rassegnazione della propria genitrice. E allora si butta in piscina con i figli dei “padroni”, mangia il gelato di Fabinho, chiede sfacciatamente di poter studiare nella stanza degli ospiti, si rivolge apertamente ed esprime le proprie opinioni. Piccoli/grandi gesti di rivolta, che operano una rivoluzione: una rivoluzione raccontata con maestria dalla regista brasiliana. La macchina da presa segue con calma ogni movimento dei personaggi, spesso rimane ferma, entra negli ambienti della villa e al di fuori, proprio per far cogliere agli spettatori quelle piccole sfumature che creano – come i muri e le pareti – le barriere tra ricchi e poveri, tra chi sta in cima e chi sta alla base della gerarchia anche culturale. Ma col tempo, Jessica impara a capire, le scelte obbligate della madre e la madre impara a riconoscere l'importanza della libertà e della dignità grazie alla figlia. E allora entra anche lei nella piscina, ride e telefona alla ragazza per dirglielo. In seguito madre e figlia troveranno una piccola, semplice casa tutta per loro...e Val si sentirà chiamare, finalmente, “mamma”.

mercoledì 29 luglio 2015

Solidarietà per il guerriero di Scampia






  (da Il fattoquotidiano.it)





Lo diceva Henry David Thoureau: “La solidarietà è l’unico investimento che non fallisce mai”. Da questa convinzione, da questo sentimento nasce l’appello per sostenere economicamente i genitori di Ivan Grimaldi Anna e Antonio, che vivono ancora a Scampia, senza Ivan, il figlio disabile morto il 5 luglio per il quale Vittorio Passeggio del Comitato delle Vele di Scampia, insieme a Lorenzo Liparulo e Omero Benfenati, è stato in prima fila, anzi, accanto a Ivan nella sua lunga battaglia.

Genitori senza un lavoro e in attesa per settembre 2015 di un nuovo alloggio che – come gli altri 5 casi di disabilità dei nuclei delle Vele – gli verrà consegnato nei prossimi mesi. L’ha dichiarato Luigi De Magistris in una recente intervista: “A settembre la famiglia di Ivan avrà un alloggio nuovo. Il Comune darà case ai disabili di Scampia”. Fa piacere a tutti sapere che finalmente la famiglia di Ivan riceverà quello per cui lottava. Una lotta in cui Ivan, va ricordato, mai dimenticato, è stato sempre attivo, non solo per se stesso – raccontava con il suo carattere, forte e generoso – ma anche per le persone con la sua stessa vita.



Eppure oggi l’amarezza è tanta, uno stato d’animo condiviso tra chi conosceva la storia di Ivan. Stringe il cuore sapere che in questo passaggio dall’alloggio nelle Vele a un altro più dignitoso non ci sarà a varcarne la soglia lui, “il guerriero di Scampia”, ma solo il suo ricordo ad accompagnare la famiglia.

Stringe il cuore, sì, ma pensiamo a chi resta, a chi è qui, vivo e continuerà a lottare: pensiamo ai genitori di Ivan. Oggi nelle Vele, va ricordato, sono rimasti loro. Non hanno lavoro e vivono senza sostegni economici.

Dimenticare Ivan e la sua battaglia non sarà possibile. “Il guerriero di Scampia”, così piace a tutti ricordarlo, continuerà a esistere nella memoria e nelle battaglie che verranno portate avanti. Ma a partire da un profondo senso di solidarietà, dal valore della sua lotta, dalla cura per chi resta, dal pensiero di Anna e Antonio che dopo il funerale hanno passeggiato dietro il carro funebre fino alla Vela Gialla, perché la salma di Ivan passasse per l’ultima volta lì dove è nato e cresciuto, a partire da tutto questo così come è avvenuto nel 2011 sosteniamo di nuovo, con forza, questa famiglia.

L’appello invita dunque istituzioni, fedeli sostenitori di Ivan, amici, conoscenti, associazioni, stampa e chi vorrà esprimere solidarietà a effettuare una donazione libera prendendo informazioni direttamente da questo link, dove tra i primi firmatari compaiono: Maurizio De Giovanni, scrittore; Erri De Luca, scrittore; Domenico Lopresto, Unione Inquilini Napoli; Vittorio Passeggio, Comitato delle Vele di Scampia; Toni Pellicane, Comitato di Lotta per la Casa 12 luglio.

Dopo due giorni in cui la salma è stata esposta presso la camera ardente all’interno dell’Ottava Municipalità di Napoli, a Scampia, il quartiere di Ivan, domenica 19 luglio i funerali si sono svolti presso la chiesa del Buon Rimedio del Don Guanella. Accanto alla famiglia Vittorio Passeggio, del Comitato delle Vele di Scampia, delegati del sindaco Carmine Piscopo, Assessore all’Urbanistica, Arnaldo Maurino e Maria Teresa Caiazzo, Consigliere Comunale. Angelo Pisani, Presidente dell’VIII Municipalità, Domenico Lopresto, Segretario Unione Inquilini Napoli, Chiara Ciccarelli, Comitato Territoriale Mammut...

Lapidate Safiya: nella terra di Boko Haram




 

La storia che state per leggere è una storia vera e proviene dai territori nei quali oggi Boko Haram, con le sue azioni, sparge il terrore. È la storia di una donna, Safiya Hussaini, che nei primi anni Duemila fu condannata alla lapidazione per adulterio. Una condanna che era la normale conseguenza dell’applicazione rigida della legge coranica che, negli Stati del Nord della Nigeria, era stata adottata per la prima volta pochi mesi prima, sebbene la popolazione di queste regioni sia storicamente islamica. (Dall'introduzione)

La storia di Safiya è stata raccolta dal giornalista Raffaele Masto, dieci anni fa, ma è ancora di grande attualità.

(Si può acquistare il libro direttamente dal sito www.buongiornoafrica.it)




L'Associazione per i Diritti Umani ha rivolto alcune domande a Raffaele Masto e lo ringrazia per la sua disponibilità.




Qual è il contesto in cui questa storia affonda le sue radici?



Il contesto è la Nigeria dei primi anni 2000 dove era stata promulgata, negli Stati del Nord, la legge coranica - a dispetto degli Stati del Sud che non la volevano - e, dunque, un'aplicazione rigida della legge stessa faceva sì che una donna come Safiya venisse considerata adultera e condannata alla lapidazione: Safiya ha avuto un figlio fuori dal matrimonio, nel senso che il marito l'aveva ripudiata sei mesi prima.

Sono andato a trovarla, in un viaggio avventuroso in cui ho attraversato tutta la Nigeria, e mi sono fatto raccontare la sua storia.



E' una storia di dieci anni fa, ma perchè è ancora attuale?



Perchè quelli sono i territori in cui, proprio in quegli anni, è nata Boko Haram che era molto diversa da oggi, ma quello è l'humus che ha consentito la nascita e la crescita di una setta surreale come quella di Boko Haram.

Boko Haram oggi è una delle formazioni jihadiste più crudeli e feroci che ci siano in circolazione e l'attualità risiede proprio qui.



Nel libro c'è un capitolo intitolato “Il mondo deve sapere”: cosa deve sapere? Cosa può fare l'Occidente?



Il nostro mondo non finisce nei territori dove possiamo andare, dove facciamo le vacanze, ma è molto più ampio e ci sono anche realtà - come quella della Nigeria del Nord - che, appunto, produce queste aberrazioni. Il mondo deve sapere che una donna come Safiya può finire in un meccanismo enormemente più grande di lei, che la stritola e la utilizza per propaganda, per politica. Il mondo deve sapere queste cose perchè solo apparentemente sono lontane da noi: in realtà ci sono vicinissime e spesso noi, con le nsotre relazioni con il mondo più lontano, siamo in qualche modo responsabili di lasciare i territori in quelle condizioni.



Cosa le è rimasto più impresso di Safiya?

La cosa che mi aveva colpito tantissimo era il fatto che Safiya, nonostante tutto, non avesse mai perso la propria fede. Lei era musulmana, è rimasta musulmana fino all'assoluzione, dopo una vicenda lunghissima.

Chi la condannava era un Islam aberrante, letto in modo distorto.




Questo dimostra che un conto è l'Islam tradizionale, religioso e un altro è l'Islam politico...



Molte volte noi parliamo di “guerra di religione”, ma la religione c'entra veramente poco. In genere sono guerre di protettorati, di lobby politiche o economiche che non hanno scrupoli ad usare la religione e lo fanno sapendo che la religione è un nervo scoperto perchè l'uomo ha bisogno di trascendenza. Chi usa la religione, sa di usare un tasto molto efficace.



Qual è il futuro delle ragazze e delle donne delle regioni del Nord-Nigeria?



Come dicevo, il sentimento religioso in questi territori è un sentimento storico. L'Islam è una galassia complessa e affascinante: se riuscissimo a dialogare con le persone di vera fede musulmana, ci sarebbe davvero per loro un futuro. Questo non significa disconoscere la propria religione perchè tutti, ripeto, abbiamo bisogno di spiritualità.






martedì 28 luglio 2015

Centro Astalli: deludente l’esito del Consiglio Europeo in tema di immigrazione





Al termine del Consiglio Europeo riunitosi ieri pomeriggio, il Centro Astalli ribadisce la propria delusione e preoccupazione che si profila rispetto alle decisioni adottate e, soprattutto, rispetto alla prospettiva europea sul tema della protezione internazionale dei migranti, particolarmente urgente in un momento di eccezionale emergenza umanitaria come questo.

In particolare pongono particolari criticità i seguenti punti:

- Il regolamento di
Dublino, uno strumento che già da tempo ha rivelato la sua inadeguatezza e inefficacia, continua a essere riproposto rigidamente come unico approccio possibile al tema dell’accoglienza dei rifugiati.

- L’insistenza sulle
procedure di identificazione, anche coatte, che Italia e Grecia sarebbero tenute a assicurare come condizione per la messa in atto delle misure di redistribuzione previste rivela che non c’è alcuna volontà di lavorare per un nuovo approccio di condivisione effettiva delle responsabilità.

- Il cosiddetto meccanismo di “
hot spot” che consiste nell’identificazione dei migranti mediante una presenza più forte, in Italia e Grecia, di funzionari di EASO, Frontex ed Europol è fonte di grandi perplessità. Difficile immaginarne il funzionamento nel caso in cui le persone si rifiutino sistematicamente di farsi foto segnalare, a meno che non si intenda fare ricorso in maniera quasi sistematica al trattenimento.

- Considerando peraltro i numeri irrisori del piano di “solidarietà” (appena 24.000 trasferimenti dall’Italia in 24 mesi), è facile prevedere, alla luce del trend degli arrivi del 2015, che se tale provvedimento fosse applicato l’Italia si troverebbe a dover far fronte a
un numero di domande più che raddoppiato rispetto alla situazione attuale.

- Un altro strumento su cui il Consiglio Europeo punta per la gestione del fenomeno è una lista dei 
Paesi “sicuri” da cui i migranti non hanno motivo di scappare e in cui possono quindi essere rimandati. Più volte l’UNHCR ha espresso riserve e preoccupazione sull’uso di tale definizione nelle Direttive Europee: designare un paese come “paese terzo sicuro” può comportare infatti che una richiesta di protezione internazionale non venga esaminata nel merito e sia dichiarata inammissibile, o sia esaminata mediante una procedura accelerata con garanzie procedurali ridotte. La compatibilità di questa misura con lo spirito della Convenzione di Ginevra è stata più volte messa in discussione.



P. Camillo Ripamonti, presidente Centro Astalli, commenta così gli esiti del summit di ieri: “Riconosciamo che l’Unione Europea ha compiuto un primo passo per una gestione unitaria e programmata del fenomeno migratorio. Tuttavia ci pare si continui a ragionare su politiche di chiusura dei confini che non consentono un cambio di prospettiva rispetto alle grandi crisi umanitarie che interessano il mondo. Ancora una volta rileviamo che per l'Unione Europea la sicurezza e il controllo delle proprie frontiere sono prioritari rispetto all'accoglienza e alla protezione di chi scappa da guerre e persecuzioni".

lunedì 27 luglio 2015

Condanna all'Italia per le unioni omosessuali

 
 




L'Articolo 8 della Convenzione dei Diritti umani parla di “diritto al rispetto della vita familiare e privata”: l'Italia è stata condannata, dalla Corte europea dei diritti umani, proprio per la violazione di questo articolo. La violazione riguarda tre coppie omosessuali.

Una coppia vive a Trento, una a Milano e la terza a Lissone (in provincia del capoluogo lombardo); le persone convivono da anni e avevano chiesto alle proprie municipalità di fare le pubblicazioni per celebrare il matrimonio, ma la loro proposta è stata rifiutata. Enrico Oliari – presidente di Gaylib (Associazione dei gay liberali e di centrodestra) – ha fatto ricorso a Strasburgo e, nei giorni scorsi, è arrivata la sentenza.

Come abbiamo sentito dai telegiornali, la presidente della Camera,Laura Boldrini, ha commentato così la decisione della Corte: “Ora bisogna agire. Il Parlamento non può più rinviare, deve esprimersi chiaramente su un tema così centrale. Farò tutto quanto è nelle mie facoltà perchè ciò avvenga. Non possiamo continuare ad essere un Paese malato di disuguaglianza, economica prima di tutto, ma anche sociale”.

Nella nota della Corte europea dei diritti umani – che non è un organismo della Ue – si legge: “La Corte ha considerato che la tutela legale attualmente disponibile in Italia per le coppie omosessuali non solo fallisce nel provvedere ai bisogni chiave di una coppia impegnata in una relazione stabile, ma non è nemmeno sufficientemente affidabile” e dunque: “un'unione civile o una partnership registrata sarebbe il modo più adeguato per riconoscere legalmente le coppie dello stesso sesso”. Ma non si limita a questo: Strasburgo ha stabilito che lo Stato italiano dovrà versare a ognuno dei concorrenti la somma di 5 mila euro per danni morali.

Anche il Parlamento europeo di recente si era espresso sul tema: a giugno ha approvato una relazione in cui si chiede di riconoscere i diritti alle famiglie composte da persone dello stesso genere, ma solo 27 Stati su 47, tra gli Stati membri, hanno una legislazione adeguata.

domenica 26 luglio 2015

Cento morti sulle coste libiche

(da Avvenire.it)




Almeno un centinaio di morti sono stati raccolti nei giorni scorsi sulle spiagge e nel mare di Tajoura, in Libia. Tra di loro donne e bambine. I corpi sono stati portati nell’ospedale di Tripoli. La notizia è stata lanciata ieri da Migrant Report, organo di informazione con base maltese ed è rimbalzata sui siti di news dell’Africa subsahariana, area da cui proverrebbero le vittime. La fonte citata è un portavoce del dipartimento libico della migrazione. Le autorità, riporta il sito, non sono ancora in grado di comunicare con certezza né il numero esatto dei corpi né la nazionalità delle vittime. Ma se le cifre fossero confermate, sarebbe la tragedia migratoria più grave dopo la morte di almeno 800 persone nel Canale di Sicilia, avvenuta il 18 aprile scorso.


È quasi certo che si tratti dei resti del naufragio di un’imbarcazione (un gommone, probabilmente, dato il numero dei morti) partita dalla città libica, posta a una decina di chilometri da Tripoli, uno dei punti di partenza principali di chi tenta di entrare in Europa. Possibili conferme arrivano dal sacerdote eritreo don Mosè Zerai, riferimento per i profughi del Corno d’Africa diretti in Italia, che racconta di un’imbarcazione salpata il 5 o il 6 luglio scorso, ma di cui mancano informazioni sull’arrivo. Don Zerai conferma la presenza a bordo di molte donne e bambini.


Oggi arriverà a Messina la nave privata My Phoenix, dei coniugi maltesi Catambrone, con a bordo 414 migranti soccorsi in mare. Le partenze dalle coste libiche stanno ormai avvenendo solo su gommoni. Una scelta, quella dei trafficanti dettata in parte dalla contingenza, dato che è sempre più difficile recuperare barconi e pescherecci. Ma ci sono anche altre ragioni, come conferma il Consiglio Italiano per i Rifugiati: «I gommoni sono più economici, e quindi consentono ai trafficanti di aumentare il margine di guadagno. Sono più facili da recuperare, anche sui mercati internazionali. Inoltre i natanti gonfiabili sono quasi invisibili ai radar, sono meno agevoli da intercettare. Ma sono anche le minacce di distruggere le imbarcazioni in Libia a spingere i trafficanti ad adoperarli». I gommoni, inoltre, salpano in massa: «Se partono in tanti è più difficile reagire. Per i prossimi giorni dobbiamo aspettarci altre partenze di questo tipo».


Questi gommoni sono pensati per ospitare una trentina di persone: i trafficanti ci caricano sopra tra i cento e i centoventi migranti. Ma c’è anche un ulteriore aspetto che desta particolare preoccupazione: per i gommoni non servono scafisti. «Non sono necessarie competenze particolari come per le imbarcazioni più grandi. A volte ci sono migranti che già hanno esperienza, altre volte fanno una rapida prova in acqua. Spesso in questi casi chi guida ottiene uno sconto sul passaggio o la gratuità. Ma non servono grandi incentivi: tutti vogliono lasciare la Libia il prima possibile».


Ancora Migrant Report segnala la scoperta di tre corpi nel deserto libico, presso la città di Sabha. Si tratta di una coppia nigeriana e di un terzo uomo di nazionalità incerta. Una ventina di altri corpi sarebbero invece presso l’obitorio dell’ospedale locale. Si tratta di persone cadute nella rete di finti trafficanti che rapiscono i migranti per estorcere denaro alle loro famiglie. Secondo alcuni testimoni, il riscatto richiesto oscilla tra i 200 e gli 8.000 dollari. «Quando il denaro non arriva – dice una fonte locale di Migrant Report – gli ostaggi vengono torturati. A volte vengono uccisi e i loro corpi vengono gettati sul bordo della strada, nel deserto».

sabato 25 luglio 2015

Il sistema di protezione dei diritti umani del continente africano




di Veronica Tedeschi




Il continente africano ha un proprio sistema di protezione dei diritti umani grazie all'adozione, avvenuta il 27 giugno 1981, della Carta Africana dei diritti dell'uomo e dei popoli, entrata in vigore nel 1986. Questa istituisce una Commissione africana dei diritti dell'uomo e dei popoli, composta da 11 commissari, che vi siedono a titolo individuale e a tempo parziale, con il compito di promuovere il rispetto dei diritti umani in Africa ed esaminare i rapporti periodici redatti dagli Stati parte alla Carta. La Commissione si trova a Banjul, in Zambia; dal momento che essa può adottare soltanto rapporti sprovvisti di efficacia vincolante, è stata favorita e voluta una Corte Africana dei diritti dell’uomo e dei popoli (che ha sede in Tanzania) la quale, a sua differenza, potrà emettere sentenze con efficacia vincolante su ricorsi statali eD individuali.

La prima pronuncia “Michelot Yogogombaye vs Senegal”, risale al 2009 ed è una decisione di scarso valore con la quale la Corte ha dichiarato difetto di giurisdizione, limitandosi ad argomentare che il Senegal non avesse effettuato la dichiarazione volta ad accettare la competenza della Corte a pronunciarsi sui ricorsi individuali.

L’operato della Corte è sicuramente partito con il piede sbagliato e possiamo affermare che ha continuato nella stessa direzione; le sue successive pronunce si basano infatti, su rinvii all’attenzione della Commissione africana, secondo quanto previsto ex articolo 6, paragrafo 3, del Protocollo di Ouagadougou.

Il sistema regionale africano di protezione dei diritti umani è ben strutturato e costruito, ma solo su carta; uno dei pochi interventi della Corte effettivamente rilevanti lo troviamo nel 2011 quando quest’ultima viene interpellata dalla Commissione per le ripetute violazioni della Carta Africana dei diritti dell’uomo e dei popoli in conseguenza della violenta repressione messa in atto dal Governo di Tripoli per contenere le proteste popolari contro il regime del colonnello Muammar Gheddafi. La Corte non poteva permettersi di non intervenire in una situazione così tanto violenta e cosi tanto popolare in Occidente, nè tanto meno poteva rinviare il tutto alla Commissione. Nel caso di specie la Corte adottò misure cautelari dopo aver rilevato prima facie l'esistenza della propria giurisdizione nel merito, e adottando l'ordinanza in esame inaudita altera parte e senza addurre eccessive motivazioni.
Riassumendo, fino ad oggi la Corte ha emesso quasi solo sentenze di inammissibilità, non sfruttando a pieno i poteri a lei conferiti.

Un altro aspetto degno di nota riguarda la possibilità che anche uno Stato che non abbia accettato la competenza della Corte africana, debba comunque convenire dinanzi alla Corte per ricorsi proposti da individui o Ong. Ed è proprio questo il punto di forza di tutti i sistemi regionali di protezione di diritti umani, dai più funzionanti come quello europeo (Corte europea dei diritti umani) ai meno operativi, come quello africano: garantire protezione e possibilità di ricorso a persone/Ong/Stati contro Stati che commettano gravi violazioni dei diritti umani e contemporaneamente non accettino la competenza di suddette Corti. Nel continente africano in esame, come possiamo immaginare, non tutti gli Stati hanno accettato la competenza della Corte e, senza l’applicazione di questo principio, i suddetti Stati non potrebbero essere giudicati per le violazioni da loro commesse.

La creazione dei sistemi regionali di protezione di diritti umani ha segnato, nei continenti nei quali questi sono presenti (Africa, Europa, America), una svolta importante per la lotta alle violazioni dei diritti umani commesse dagli Stati; naturalmente è necessario contestualizzare il lavoro di tali Corti: la Tanzania riceverà ricorsi diversi da quelli che riceverà Strasburgo, ma la cosa fondamentale da far passare in ogni contesto, è la consapevolezza e la spinta all’utilizzo di tali mezzi di supporto.

In un qualsiasi Stato europeo, per esempio, sarà difficile che un cittadino padroneggi il suo diritto di adire la Corte europea dei diritti umani qualora ritenga che i suoi diritti fondamentali siano stati violati e, allo stesso modo, probabilmente in maniera più accentuata, il cittadino di uno Stato africano che subirà violazioni ancora più gravi e inabilitanti non sarà incline ad un viaggio in Tanzania per denunciare i sopprusi commessi dal suo Stato o, in maniera ancora più accentuata, non saprà di poterlo fare.

venerdì 24 luglio 2015

Quelle tante, troppe morti per amianto




Ammonta a 24 il numero degli operai deceduti per forme tumorali provocate da esposizione all'amianto. E i responsabili sono stati condannati.

Il giudice della Sesta sezione penale del Tribunale di Milano, Raffaele Martorelli, ha condannato undici ex dirigenti della Pirelli con pene tra i 3 e i 7 anni e 8 mesi di reclusione per il reato di omocidio colposo. Tra i loro nomi spicca, purtroppo Guido Veronesi, fratello del celebre oncologo ed ex ministro che, come gli altri, faceva parte del consiglio di amministrazione dell'azienda nel periodo tra gli anni '70 e '80.

Prendiamo atto con rammarico della sentenza di primo grado e aspettiamo di leggere le motivazioni non appena saranno depositate. Sulla base delle evidenze scientifiche ad oggi disponbili emerse nel corso della fase dibattimentale del processo, siamo certi della correttezza dell'operato dei nostri assistiti per i fatti contestati risalenti a oltre 25 anni fa, e presenteremo impugnazione in appello”: questo il commento dei legali della Pirelli. I fatti sono accauduti decenni fa e, infatti, questa prima sentenza arriva con enorme ritardo: l'accusa aveva chiesto per gli imputati otto anni di carcere e il giudice si è spinto oltre, accordando ai parenti delle vittime, costituitisi ovviamente come parte civile, anche un risarcimento economico e accettando in pieno l'impianto accusatorio del PM Ascione secondo il quale gli operai si sono ammalati e sono deceduti a causa del lavoro presso impianti contaminati senza alcuna protezione e, quindi, a causa di esalazioni “massicce e ripetute” di amianto.

Medicina democratica e Associazione italiana esposti amianto (presenti al processo) hanno esposto striscioni, esultato alla lettura della sentenza e hanno affermato: “ Abbiamo dimostrato che uniti si vince. Questa volta siamo riusciti a far condannare il padrone”.

Sempre a Milano, altri processi che vedono coinvolti gli ex dirigenti della centrale Enel di Turbigo e della Franco Tosi di Legnano si sono conclusi con l'assoluzione degli imputati, ma la sentenza Pirelli e il rinvio a giudizio per i dirigenti dell'Ilva di Taranto, per distastro ambientale, fanno ben sperare nel giusto corso della verità.



Per approfondire il tema, l'Associazione per i Diritti Umani vi ripropone il video dell'incontro che ha organizzato con lo scrittore Stefano Valenti, autore del romanzo “La fabbrica del panico”, vicnitore del Premio Campiello – giovani, 2014.
 
 
 
 
 

giovedì 23 luglio 2015

Sit in di solidarietà alle famiglie rom sgomberate


Donne e bambini, anziani e malati. Sotto il sole, a quasi 40 gradi, senz'acqua. Sono trascore più di due ore e l'Assessore Danese non ha ancora ricevuto le famiglie rom sgomberate. L'incontro era previsto per le ore 12 ma dall'Assessorato ancora nessun segnale. La tensione sta montando e tra le persone si registrano i primi malori.

Lo rendono noto Associazione 21 luglio e Popica Onlus che da questa mattina stanno partecipando a un sit in davanti all’Assessorato alle Politiche Sociali del Comune di Roma, assieme alle famiglie rom sgomberate due giorni fa dall’insediamento informale di Val d’Ala, le famiglie a rischio sgombero nei centri di via San Cipirello, via Torre Morena e via Toraldo, nonché cittadini che hanno voluto mostrare la loro solidarietà.

Cinquantanove sgomberi forzati dall’inizio dell’anno, con una decisa impennata dopo l’annuncio del Giubileo Straordinario da parte di Papa Francesco, assenza di una strategia concreta per il superamento del “sistema campi”, nonostante i continui proclami, e promesse non mantenute.

Così Associazione 21 luglio e Popica Onlus descrivono lo stato dell’arte della politica sui rom dell’Amministrazione capitolina.

Lo sgombero forzato di Val d’Ala, che ha coinvolto le medesime persone sgomberate esattamente un anno fa dallo stesso insediamento in seguito a un’operazione dal costo complessiva di oltre 168 mila euro, si configura in violazione degli standard internazionali in materia di sgomberi previsti dal Comitato sui Diritti Economici, Sociali e Culturali delle Nazioni Unite. Lo sgombero improvviso, peraltro, ha mandato all’aria le consultazioni e il dialogo che lo stesso Assessorato aveva iniziato a intavolare con le famiglie, nella speranza che il caso Val d’Ala potesse diventare un modello virtuoso per affrontare la questione degli insediamenti informali a Roma. Nella giornata di ieri, anche Amnesty International Italia ha espresso forte preoccupazione sull’ennesimo sgombero forzato realizzato dall’inizio dell’anno nella Capitale.

Nel 2015, infatti, sono stati 59 gli sgomberi forzati a Roma, una cifra che ha già ampiamente superato i 34 totali realizzati nell’intero 2014. Il loro numero – sottolineano Associazione 21 luglio e Popica Onlus – ha subito una netta impennata dal 13 marzo in poi, giorno dell’annuncio del Giubileo Straordinario. Fino ad allora, gli sgomberi erano stati sette. Allo stesso modo, denunciano le due associazioni, non si intravvede nessun passo significativo, nell’azione dell’Amministrazione, verso il superamento del “sistema campi” nella Capitale, sul quale si sono alimentati gli affari di oro emersi dall’inchiesta su Mafia Capitale.

«Chiediamo all’assessore Danese di produrre finalmente un piano sociale credibile e sostenibile per il superamento dei “campi”», afferma l’Associazione 21 luglio.

Secondo l’Associazione 21 luglio, la questione rom a Roma è intimamente legata a quella della illegalità istituzionale che ha il suo fulcro nell’Ufficio Rom, Sinti e Caminanti presente all’interno dell’Assessorato alle Politiche Sociali di Roma Capitale. È dall’azzeramento di tale Ufficio che occorre ripartire per una politica diversa.

Non possiamo dimenticare come il primo a dirigere quindici anni fa l’“Ufficio Nomadi” di Roma fu Luigi Lusi, oggi in carcere con la condanna di essersi appropriato di 25 milioni di euro, continua l’Associazione. Poi, sotto l’Amministrazione Veltroni fu la volta del suo capo-gabinetto Luca Odevaine a condizionare fortemente le scelte dell’Ufficio. Anche lui è oggi in carcere per corruzione aggravata nell’inchiesta denominata “Mondo di Mezzo”. Quando il governo della città passò al sindaco Alemanno fu la volta del soggetto attuatore del Piano Nomadi, Angelo Scozzafava, a commissariare l’Ufficio prendendolo nelle sue mani. Oggi sul suo capo pende l’accusa di associazione mafiosa e corruzione aggravata. Nel dicembre 2014 la responsabile dell’”Ufficio Nomadi”, nel frattempo diventato “Ufficio Rom, Sinti e Caminanti”, Emanuela Salvatori, è stata arrestata per corruzione aggravata. Il suo posto è stato preso da Ivana Bigari, il cui nome, secondo la stampa, sembrerebbe nella lista dei dirigenti che per il prefetto Gabrielli dovrebbero essere rimossi perché troppo vicini al sistema di stampo mafioso ideato da Buzzi e Carminati.

«Chiediamo oggi con forza la chiusura di questo Ufficio e la rimozione della dirigente che lo coordina», è la richiesta urgente al sindaco Marino da parte di Associazione 21 luglio e Popica Onlus».

«Chiediamo inoltre – proseguono le due organizzazioni - una moratoria sugli sgomberi forzati da oggi e per tutta la durata del Giubileo indetto da papa Francesco. In assenza di risposte adeguate a tali richieste continueremo a considerare le politiche di Roma Capitale nei confronti dei rom costose, lesive dei diritti umani, discriminatorie e offensive nei confronti della cittadinanza che vive in maniera più o meno diretta le problematiche legate alla vicinanza ad insediamenti formali e informali.

Sul rischio sgombero delle famiglie rom che attualmente vivono nei centri di via San Cipirello, via Torre Morena e via Toraldo, infine, si esprime così Popica Onlus: «La chiusura dei centri in cui abitano famiglie che da tempo avevano intrapreso percorsi abitativi degni segna un passo indietro inaccettabile. L'Amministrazione, che da un lato persegue solo a parole la politica della chiusura dei campi, dall'altro costringe decine di nuclei a tornarci, dopo che da questo mondo si erano allontanati autonomamente recuperando spazi in disuso».

«A Roma – conclude Popica Onlus - il problema abitativo sta esplodendo per tutti e il Comune di Roma, dopo aver banchettato per anni con Mafia Capitale, oggi non solo non risolve il problema ma continua a generarne di nuovi».

mercoledì 22 luglio 2015

Nave di MSF non autorizzata a sbarcare 700 persone in Sicilia a causa dell’incapacità di accoglienza



La nave di MSF per la ricerca e soccorso Bourbon Argos sta ora navigando a nord della costa siciliana, in direzione Reggio Calabria, con 700 persone a bordo, dove dovrebbe approdare sabato mattina. Nonostante lunghe discussioni con le autorità italiane e gli sforzi compiuti dalla guardia costiera italiana, a causa dell’incapacità del sistema d’accoglienza, la Bourbon Argos non è stata autorizzata a far sbarcare in Sicilia le 700 persone a bordo.

Mercoledì 15 luglio, durante 6 diverse operazioni di salvataggio, la nave di MSF ha tratto in salvo 678 persone. A bordo persone provenienti da Bangladesh, Costa d’Avorio, Eritrea, Gambia, Guinea,Libia, Mali, Nigeria, Senegal e Somalia, tra le principali nazionalità.

L’équipe di MSF è stata impegnata 24 ore al giorno per fornire assistenza a chi aveva bisogno di cure mediche. La nave è sovraffollata e le persone a bordo sono sistemate sul ponte in uno spazio molto limitato” dichiara Alexander Buchmann, coordinatore per MSF della Bourbon Argos. “Nelle ultime 24 ore questa situazione ha provocato tensioni tra la persone e potrebbe causare gravi problemi di sicurezza a bordo della nave”.

Nonostante la buona coordinazione tra la guardia costiera italiana e gli sforzi del Centro di Ricerca e soccorso marittimo (MRCC), le autorità italiane non hanno autorizzato lo sbarco delle persone a bordo della Bourbon Argos in nessuno porto siciliano a causa dell’incapacità del sistema d’accoglienza. Giovedì sera, le autorità italiane hanno autorizzato lo sbarco di 150 persone su 700 nel porto di Trapani. Tuttavia, MSF ha deciso di non procedere con uno sbarco parziale perché una simile operazione, in una situazione di tale sovraffollamento, avrebbe posto seri rischi per la sicurezza. La situazione a bordo era molto tesa e molte delle persone hanno espresso la loro preoccupazione e paura di essere “riportati in Libia”.

Soltanto 7 pazienti che necessitavano di urgenti cure mediche sono stati sbarcati insieme alle loro famiglie. Tra i casi più seri: una donna adulta, trasferita dalla nave della guardia costiera italiana, soffriva di ipotensione e forti dolori addominali, e aveva bisogno di un ricovero urgente; e un bambino di 12 mesi con polmonite, febbre e difficoltà respiratorie a cui MSF ha fornito un trattamento antibiotico, ma che necessitava di un ricovero urgente per ulteriori accertamenti e cure.

Per due giorni, abbiamo cercato di capire dove ci sarebbe stato permesso di sbarcare, attraverso un coordinamento continuo con la Guardia Costiera italiana, cercando di mantenere un livello accettabile di sicurezza a bordo”, aggiunge Alexander Buchmann. “Questo ha causato gravi rischi per la sicurezza a bordo della nave, obbligando 700 persone in difficoltà a trascorrere due notti intere sul ponte della nave in condizioni molto difficili”.


Venerdì mattina, dopo lunghe trattative, la Bourbon Argos è stata diretta a Messina. Tale decisione è stata poi modificata alcune ore dopo e la destinazione finale è ora Reggio Calabria. La nave sta navigando lungo la costa settentrionale della Sicilia - in modo da mantenere un contatto visivo con la terraferma e non alimentare paure tra i migranti a bordo. L’arrivo è previsto sabato mattina presto.

La mancanza di preparazione del sistema di accoglienza italiano sta avendo conseguenze molto concrete che stiamo sperimentando in prima persona”, dichiara Loris de Filippi, Presidente di MSF Italia. “Basta un minimo problema logistico che il sistema collassa. Siamo ancora a luglio, e gli arrivi non si fermeranno molto presto. Il Ministero dell’Interno dovrebbe autorizzare lo sbarco nei porti siciliani più vicini al fine di facilitare le operazioni di sbarco e permettere alle navi di tornare il prima possibile nella zona di ricerca e soccorso

L'Ufficio Stampa di Medici Senza Frontiere



martedì 21 luglio 2015

La casa del nulla: una riflessione sugli istituti penitenziari e un esempio di letterartura carceraria

 
 
 
 
 
 
 



Naria Giuliano e Rosella Simone sono le autrici del libro intitolato La casa del nulla (Milieu edizioni) opera sospesa tra storia orale, letteratura carceraria, racconto corale e antropologico. Pubblicato per la prima volta a metà degli anni ottanta da Tullio Pironti, e riproposto in una versione ridotta nel 1997 con il titolo "I duri", il testo ha avuto, come i suoi autori, diverse vicissitudini, ma rimane un testo fondamentale per capire gli anni settanta-ottanta e conserva ancora oggi una freschezza narrativa inossidabile.



Abbiamo rivolto alcune domande a Rosella Simone che ringraziamo.
 
 
Il libro racconta storie ambientate nelle carceri degli anni '70, anni difficili per il nostro Paese: qual era la popolazione carceraria dell'epoca ? E quali relazioni si instauravano tra le mura degli istituti?
Era una popolazione carceraria particolare e rispecchiava, come sempre fa il carcere, la società di allora. Nelle carceri speciali appena istituite erano stati concentrati due soggetti diciamo “nuovi”: ”terroristi” e rapinatori. Le istituzioni ritenevano che le regole durissime di quel carcere (colloqui con i vetri, arie d’aria ridotte all’osso, perquisizioni corporali….) e mettere insieme soggetti così apparentemente diversi avrebbe creato conflitti e piegato gli irriducibili. Non fu così. Proprio le condizioni brutali in cui erano costretti a vivere i detenuti creò una saldatura, una solidarietà, una amicizia, tra politici e banditi che fece detonare il circuito carcerario italiano.
Facciamo un paragone tra le condizioni di vita all'interno dei luoghi di detenzione di ieri e in quelli di oggi...
Il carcere è cambiato ma non è detto che sia sempre e solo in meglio. La carcerazione è differenziata e c’è chi può avere accesso alle pene alternative, andare a scuola, fare teatro e chi è chiuso nell’orrore del 41 bis. Di recente mi sono occupata del caso di un carcerato rinchiuso a Sulmona, Domenico Belfiore ergastolano in carcere da 32 anni, con un tumore all’intestino che, andato in coma, era stato ricoverato con urgenza, operato e rimandato immediatamente in carcere deve nel giro di pochi giorni è ritornato, ovviamente, in coma. Fortunatamente siamo venuti a saperlo e c’è stata una mobilitazione che ha portato alla concessione degli arresti domiciliari. Ma quanti i casi di cui non si sa niente?
Non sono contraria al carcere attenuato ma non posso giustificare, neanche per un capomafia alla Reina, una detenzione che equivale, per me, alla tortura.
Tra l’altro è proprio questa differenziazione che crea nei soggetti detenuti un processo di desolidarizzazione. Se io aspiro al premio (e non dico che non sia legittimo) dovrò guardarmi da stringere amicizie o essere solidale con chi gode fama di “cattivo”. E un carcere dove non c’è solidarietà tra i reclusi è un carcere dove si vive molto male.
Com'è nata l'idea di scrivere questo libro?
E’ una storia vecchia di 30 anni. Nell’agosto del 1985 Giuliano Naria, allora mio marito (abbiamo divorziato nel 1993), (condannato per banda armata denominata Brigate rosse e accusato, poi assolto, del delitto del Procuratore della Repubblica di Genova Francesco Coco) dopo un durissimo sciopero della fame che lo aveva portato a pesare 40 chili e dopo aver scontato 9 anni e sei mesi aveva ottenuto gli arresti domiciliari a Garlenda, un paesino dell’entroterra ligure nella casa che era dei mia nonna e che avevo dato in uso a i suoi genitori. Io lo avevo raggiunto lasciando Milano e il lavoro di giornalista. Era una bella cosa ma cosa ci facevamo lì? Non ci amavamo più così tanto da fare un figlio ma un libro forse potevamo provare a farlo. Avevamo a disposizioni personaggi straordinari da far impazzire di gioia qualsiasi aspirante scrittore! Giuliano era il narratore che sa guardare il carcere con ironia e gusto del paradosso, io l’intervistatrice. L’idea era raccontare la brutalità del carcere ma senza piagnistei, volevamo racconti scanzonati anche nella tragedia. Volevamo raccontare persone, non criminali o terroristi. Persone curiose, sbruffone, prepotenti, generose, crudeli anche e, soprattutto, non volevamo dare giudizi. Quelli li aveva già dati la legge.
Il testo fa fare una riflessione anche sull'utilità del carcere: qual è la sua opinione in merito?
L’obbiettivo di fondo per cui è stato scritto il libro è far si che chi lo legge si chieda: a cosa serve il carcere? Credo, credevamo, che il carcere non sia riformabili e, come da tempo insiste il mio amico Vincenzo Guagliardo, e fortunatamente non solo lui, che dovremmo liberarci dalla necessità del carcere.
Si tratta di storie che, da una parte, attingono alla realtà e, da un'altra, sono romanzate: perchè questa scelta?
Il libro è firmato da due persone ma in realtà è un canto corale e tutti i personaggi citati ne sono in qualche modo gli autori. E’ un documento di storia orale, storia raccontate come intorno a un bivacco (molti racconti sono nati all’Asinara a celle distrutte), dove ciascuno racconta la sua di storia e magari la abbellisce, omette, confonde. Non sono la verità ma sono più che vere.

 
 

lunedì 20 luglio 2015

La lettera della madre di Federico Aldrovandi




L’Associazione “Federico Aldrovandi” nasce come naturale evoluzione del Comitato “Verità per Aldro”, creato nel gennaio del 2006 per chiedere verità e giustizia per Federico Aldrovandi, il diciottenne ferrarese ucciso durante un controllo di polizia il 25 settembre 2005.
In questi anni, dopo una fase iniziale di stallo nelle indagini e numerose omissioni, si è riusciti ad arrivare al processo e nel giugno del 2012 i quattro poliziotti che avevano fermato Federico sono stati condannati definitivamente a 3 anni e 6 mesi di reclusione per eccesso colposo in omicidio colposo.
Ma il “lavoro” non è finito. Abbiamo visto con i nostri occhi come sia difficile vedere applicato un banale principio di giustizia per cui se chi commette un reato indossi o no una divisa dovrebbe essere indifferente ai fini dell’azione giudiziaria.



Per tutto questo crediamo che passaggi fondamentali siano l’approvazione di una legge sulla tortura e la democratizzazione delle forze dell’ordine.
Perché, come recitava lo striscione che apriva il corteo nazionale che organizzammo nel 2006, ad un anno dall’uccisione di Federico…


Verità grido il tuo nome.
Per quello che non doveva succedere.
Per quello che non è ancora successo.
Perché non accada mai più.



Di seguito, pubblihciamo la lettera della mamma di Federico, pubblicata sul sito della loro associazione.



Perché rimetto le querele contro Paolo Forlani, Franco Maccari e Carlo Giovanardi

Ho perso Federico che aveva 18 anni la notte del 25 settembre di dieci anni fa per l’azione scellerata di quattro poliziotti che vestivano una divisa dello stato, e forti di quella divisa hanno infierito su mio figlio fino a farlo morire. Non avrebbero mai più dovuto indossarla.
I giudici hanno riconosciuto l’estrema violenza, l’assurda esigenza di “vincere” Federico, e una mancanza di valutazione – da parte di quei quattro agenti – al di fuori da ogni criterio di senso comune, logico, giuridico e umanitario.
Non dovevano più indossare quella divisa: nessuno può indossare una divisa dello stato se pensa che sia giusto o lecito uccidere.  O se pensa che magari non si dovrebbe, ma ogni tanto può succedere, e allora fa lo stesso, il tutto verrà ben coperto. Con la speranza che il sospetto di una morte insensata, inutile e violenta scivoli via fra la rassicurante verità di carte col timbro dello Stato, di fronte alle quali tutti si dovrebbero rassegnare. E poi con quella stessa divisa si continuerà a chiedere il rispetto di quello stesso Stato: che però sarà inevitabilmente più debole e colpevole. Come un padre ubriaco che ha picchiato e ucciso i suoi figli.
Il delitto è stato accertato, le sentenze per omicidio emesse. Invece le divise restano sulle spalle dei condannati fino alla pensione. Fine del discorso.
L’orrore e gli errori, con la morte e dopo la morte di Federico. La mancanza di provvedimenti non guarda al futuro, non protegge i diritti e la vita: non tutela nemmeno l’onestà delle forze dell’ordine.
Alla fine del percorso giudiziario che ha condannato gli agenti tutto ciò ora mi è ben chiaro: ed è il messaggio che voglio continuare a consegnare alla politica e all’amministrazione del mio Paese.
Dopo la morte di Federico, abbiamo dovuto difendere la sua vita vissuta e la sua dignità assurdamente minacciate. Era pazzesco, sembrava il processo contro Federico.
Ho chiesto risposte alla giustizia e la giustizia ha riconosciuto che Federico non doveva morire così.
Il processo è stato per me, mio marito Lino e mio figlio Stefano una fatica atroce, ma era necessario prendervi parte e lottare ad ogni udienza: ci ha sostenuti l’amore per Federico.
Su quel processo e da quel processo in tanti hanno espresso un’opinione. E’ stato un modo per crescere.
Alcuni hanno colto l’occasione per offendere me, Federico e la nostra famiglia. Qualcuno l’ha fatto per quella che ritengo gratuita sciatteria e volgarità, altri per disegni politici volti a negare o a sminuire la responsabilità per la morte di Federico.
Avevo chiesto alla giustizia di tutelarci ancora. In quel momento era l’unica strada, e non me ne pento.
Sono passati due anni dai fatti per cui ho sporto querela. Ci sono state le reazioni pubbliche e anche quelle politiche. Però poi non è cambiato niente.
Ho riflettuto a lungo e ho maturato la decisione di dismettere questa richiesta alle Procure e ai Tribunali: non perché non mi ritenga offesa da chi ha stoltamente proclamato la falsità delle foto di mio figlio sul lettino di obitorio, di chi ha definito mio figlio un “cucciolo di maiale”, o da chi mi ha insultata, diffamata e definita faccia da culo falsa e avvoltoio.
Non dimenticherò mai le offese che mi ha rivolto Paolo Forlani dopo la sentenza della Cassazione: è stati lui, sconosciuto e violento, ad appropriarsi degli ultimi istanti di vita di mio figlio. Le sue offese pubbliche, arroganti e spavalde le ho vissute come lo sputo sprezzante sul corpo di mio figlio. E lo stesso sapore ha ogni applauso dedicato a quei quattro poliziotti. Applausi compiaciuti, applausi alla morte, applausi di morte. Per me non sono nulla di diverso.
Rappresentano un modo di pensare molto diverso dal mio.
Non sarà una sentenza di condanna per diffamazione a fare la differenza nel loro atteggiamento.
Rifiuto di mantenere questo livello basato su bugie e provocazioni per ferirmi ancora e costringermi a rapportarmi con loro. Io ci sto male, per loro – credo di capire – è un mestiere.
Forlani e i suoi colleghi li lascio con le loro offese e i loro applausi, magari ad interrogare ogni tanto quella loro vecchia divisa, quando sarà messa in un cassetto dopo la pensione, sull’onore e la dignità che essa avrebbe preteso.
Un onore che avrebbero minimamente potuto rivendicare se da uomini, cittadini, pubblici ufficiali e servitori dello Stato, coloro che hanno ucciso mio figlio e coloro che li hanno sostenuti avessero raccontato la verità su cosa era successo quella notte, e non invece le menzogne accertate dietro alle quali si sono nascosti prima, durante e dopo il processo, cercando di negare anche l’esistenza di quella mezzora in cui erano stati a contatto con Federico prima dei suoi ultimi respiri.
Da Forlani e dai suoi colleghi avrei voluto in quest’ultimo processo solo la semplice verità, tutta.
Chi ha ucciso Federico sa perfettamente quale strazio sta dando ad una madre, un padre e un fratello privandoli della piena verità dopo avergli strappato il loro figlio e fratello. Nessun onore di indossare la divisa dello stato, nessun onore.
E nessun onore neanche a chi da dieci anni cerca nella morte di mio figlio l’occasione per dire che in fondo andava bene così: i poliziotti non possono aver sbagliato, in fondo deve essere stata colpa di Federico se è morto in quel modo a 18 anni.
Costruite pure su questo le vostre carriere e la vostra visibilità. Dite pure, da oggi in poi, che il mio silenzio è la vostra vittoria. Muscoli, volantini, telecamere, libri, convegni e applausi. Per dire che non c’è stato nessun problema il 25 settembre 2005. E per convincere voi stessi e il vostro pubblico che il problema l’hanno creato solo Federico Aldrovandi e sua madre Patrizia Moretti.
Vi esorto soltanto, da bravi cattolici quali vi dichiarate, a ricordare il quinto comandamento: non uccidere.
Non spenderò più minuti della mia vita per queste persone e per i loro pensieri. Mi voglio sottrarre a questo stillicidio: una fatica soltanto mia che nulla aggiungerebbe utilmente e concretamente a nessuno se non alla loro ansia di visibilità. Trovo stancante anche pronunciare i loro nomi. Inutile commentare le loro dichiarazioni pubbliche.
A dieci anni dalla morte di Federico per il mio ruolo di madre, ma anche per le mie aspirazioni e per la mia attuale visione del mondo, penso che il dedicare anche solo alcuni minuti a persone che disprezzo sia un’imperdonabile perdita di tempo. Non voglio più doverli vedere né ascoltare o parlare di loro.
Perciò ritirerò le querele ancora in corso.
Non lo faccio perché mi è venuta meno la fiducia nella giustizia, ma dieci anni sono troppi, ed è il momento di dire basta.
Non è il perdono, d’altra parte nessuno mi ha mai chiesto scusa, ma prendere atto che per me andare avanti nelle azioni giudiziarie rappresenta soltanto un doloroso e inutile accanimento.
Ritiro le querele perché sono convinta che una sentenza di condanna non potrebbe cambiare persone che  – da quanto capisco – costruiscono la loro carriera sull’aggressività e sul rancore.
Non ci potrà mai essere un dialogo costruttivo, perciò addio.
Questo non significa che verrà meno il mio impegno di cittadina per contribuire a rendere questo paese un po’ più civile, e questo impegno mi vedrà come sempre a fianco dell’associazione degli amici di Federico per l’introduzione del reato di tortura e ogni altra forma di trasparenza e giustizia.
C’è molta strada da fare: confronti, discussioni, leggi giuste. Bisogna affrontare il problema degli abusi in divisa in modo costruttivo.
Le parole e le espressioni contro Federico, contro me e la nostra famiglia le lascio alla valutazione in coscienza di chi ha avuto il coraggio di dirle. E soprattutto alla valutazione di chi se le ricorda. Io ne conservo solo il disprezzo.
Per me l’onore è un’altra cosa.
L’onore appartiene a chi ha cercato di capire, a chi ha ascoltato la coscienza e a chi ha fatto professionalmente il proprio dovere, a chi ha messo il cuore e l’arte oltre quel muro di gomma costruito attorno all’omicidio di Federico, a tutti coloro che gli dedicano un pensiero, un rimpianto, gli mandano un bacio.
Sono queste le persone che ringrazierò sempre, è grazie a loro che Federico è stato restituito al suo onore di figlio, fratello, amico, ragazzo che voleva vivere, e tornare a casa.
 
Patrizia Moretti


domenica 19 luglio 2015

Milano ricorda Paolo Borsellino

19 luglio 1992 - 19 luglio 2015
Milano ricorda Paolo Borsellino



Domenica 19 luglio 2015 Milano ricorda Paolo Borsellino e gli agenti Agostino Catalano, Eddie Walter Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi, Claudio Traina.
Al mattino alle 10.30 convegno in Sala Alessi a Palazzo Marino dalle ore 10.30 con un convegno e al pomeriggio dalle 16.15 all'albero Falcone-Borsellino, in via Benedetto Marcello per osservare - alle 16.58 - un minuto di silenzio.


Di seguito le iniziative


Mattino: convegno dalle 10.30 alle 12.30 in Sala Alessi, Palazzo Marino

Basilio Rizzo, pres. Consiglio Comunale di Milano Saluti istituzionali

Laura Incantalupo, Scuola Caponnetto“Vivere l’antimafia nel quotidiano è possibile per tutti”

David Gentili, pres. Comm. Consiliare Antimafia Comune di Milano"L'impegno del Comune di Milano nella lotta alle mafie: dal negazionismo alla costituzione di parte civile"

Lucilla Andreucci, referente Libera Milano“Libera Milano, esperienza di antimafia sociale. Un popolo in movimento”

Giuseppe Teri,  Scuola Caponnetto, Coordinamento Scuole Milanesi"Rocco Chinnici, precursore del pool antimafia. Il magistrato che per primo intuì l'importanza di organizzare e coordinare la lotta alla mafia"

Sabrina D'Elpidio, Agende Rosse di Milano gruppo Peppino Impastato "Via D'Amelio: la difficile ricerca della verità tra depistaggi e menzogne"

Donata Costa, pubblico ministero presso la Procura di Monza "Corruzione: anticamera della mafia al nord"

Nando dalla Chiesa,  pres. Scuola Caponnetto, pre. onorario Libera "La stagione delle stragi. Significati storici e convergenze strategiche"



Pomeriggio: cittadini e Istituzioni si incontrano dalle 16.15 all'albero Falcone-Borsellino in via Benedetto Marcello, davanti al Liceo Volta

Alle h. 16.58 un minuto di silenzio e la sirena dei Vigili del Fuoco. Installazioni d’arte a cura di Jerry Bogani e di Studio Pace10 “Gli eroi non muoiono mai” e “L’agenda rossa di Paolo Borsellino

Il caso di Sahar Gul, la ragazzina afghana che non voleva prostituirsi





L'immagine parla chiaro e, in questo caso, ci scusiamo per i particolari che vanno, però, resi noti: occhi gonfi, collo tumefatto, unghie strappate...Queste solo alcune delle violenze subite da Sahar Gul, una ragazza di 15 anni data in sposa ad un soldato con la complicità della famiglia.

Il corpo della bambina è talmente provato che è arrivata nell'ospedale di Kabul su una sedia a rotelle. Sette mesi fa il matrimonio forzato, ma non bastava. L'uomo le propone di prostituirsi, ma lei rifiuta. Lui la massacra di botte. Sahar riesce a fuggire e scappa dai vicini di casa ai quali dice: “Se siete dei musulmani dovete dire alle autorità quello che mi sta succedendo: vogliono farmi prostituire”, ma nessuno ha il coraggio di aiutarla.

Come purtroppo spesso accade, la Polizia crede alla promessa del marito di non usare più la violenza e restituisce la ragazza ai suoi carnefici. Sahar viene rinchiusa, di nuovo, in seminterrato, affamata, abusata per altri tre mesi fino a quando un parente venuto in visista da lontano scopre l'accaduto e fa scoppiare lo scandalo. Sì, perchè si tenta sempre di insabbiare, di non far arrivare queste notizie alla stampa.

Invece la fotografia di Sahar Gul sta facendo il giro del mondo e Sahar è diventata, suo malgrado, un altro simbolo di donna violata e di tutte quelle altre donne e bambine che vanno salvate.

Nonostante una nuova legge che punisce la violenza domestica, in Afghanistan la realtà dimostra il contrario: “Ma qualcosa si sta muovendo”, ha dichiarato all'Associated Press Fawzia Kofi, deputata e capo della Commissione parlamentare sulle questioni delle donne “Penso che ora ci sia un maggiore senso di consapevolezza dei diritti delle donne. La gente sembra voler cambiare e parla di questi temi” ha aggiunto. Intanto, grazie anche alla condanna mondiale di ciò che è accaduto a Sahar, il presidente afghano, Hamid Karzai, si è deciso ad aprire un'inchiesta: il marito torturatore è ricercato e la sua famiglia è stata arrestata.

Resta la piccola Sahar che dovrà essere seguita anche psicologicamente...come tutte le giovani come lei, ferite nel corpo e nell'anima.

sabato 18 luglio 2015

Buone notizie da Addis Abeba


(da Rete Ong)


I rappresentanti dell'Associazione delle organizzazioni italiane di cooperazione e solidarietà internazionale (AOI), del Coordinamento Italiano Networks Internazionali (CINI) e di Link 2007 Cooperazione in Rete, presenti nella delegazione italiana alla terza conferenza sui finanziamenti per lo sviluppo in corso ad Addis Abeba, valutano positivamente gli impegni enunciati ieri nella capitale etiopica dal Presidente del Consiglio Matteo Renzi.
E' intanto da registrare come una buona notizia che l'Italia sia una delle poche nazioni ad essere rappresentata nell'assise internazionale dal capo del governo. Si accoglie con soddisfazione l'impegno ad aumentare in modo significativo le risorse destinate all'aiuto allo sviluppo fin dalla prossima legge di stabilità. L'obiettivo, ha detto Renzi, è fare sì che al prossimo vertice "G7" previsto in Italia nel 2017 il nostro paese non sia più all'ultimo posto per ciò che concerne la percentuale del Prodotto Interno Lordo destinata alla cooperazione internazionale.
Non possiamo poi che condividere l'affermazione fatta dal presidente del consiglio circa l'impegno morale, non negoziabile, di soccorrere e salvare i migranti in arrivo sulle nostre coste. Così come fondamentale saranno i progetti volti a costruire ponti tra le comunità migranti e i paesi di provenienza.
La Conferenza di Addis Abeba conferma l'ampiezza e la difficoltà delle sfide dei prossimi anni. Il nostro paese può e deve avere un ruolo di primo piano

Addis Abeba, 15 luglio 2015


L'ACCORDO DI ADDIS ABEBA:
RESPONSABILITA’ CONDIVISE E EQUITA’ FISCALE

La Terza Conferenza internazionale sul "Finanziamento per lo sviluppo" è stata chiamata a rispondere in modo chiaro ad alcune domande cruciali, quali: come verrà finanziata l’agenda “post 2015”?; quali impegni concreti da parte dei paesi più ricchi e dell’Unione Europea?; quali impegni da parte dei paesi partner e in particolare (ma non solo) africani?; quale ruolo per il settore privato nelle strategie globali di lotta alla povertà?
Paolo Dieci, presidente di Link2007, Cooperazione in Rete, che ha partecipato ai lavori della Conferenza, ne ha tratto alcune considerazioni interessanti.
La novità principale di Addis Abeba rispetto a Monterrey e Doha risiede nel maggiore accento posto sulle responsabilità condivise. E’ in questo quadro che si colloca l’enfasi posta sulla mobilitazione delle risorse domestiche, a partire da più efficienti ed equi sistemi fiscali. Così come in questa direzione va l’apertura al settore privato, dal quale si attendono investimenti a favore della crescita inclusiva e sostenibile. Al tempo stesso il “messaggio” di Addis Abeba è che l’aiuto pubblico allo sviluppo rimane uno strumento indispensabile nell’ottica dell’eliminazione della povertà assoluta entro i prossimi 15 anni.


Per un ulteriore approfondimento: Nino Sergi
http://www.onuitalia.com/2015/07/16/la-nuova-sfida-di-renzi-e-dellitalia-creare-occupazione-in-africa/