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domenica 29 novembre 2015

Il voto sulla radicalizzazione e i rischi della politica della paura

 

Strasburgo, 26 novembre 2015

Ieri il Parlamento europeo riunito in sessione plenaria ha votato la Relazione sulla prevenzione della radicalizzazione, relatrice Rachida Dati (PPE).
In qualità di relatore ombra per il GUE-NGL, Barbara Spinelli ha dato indicazione di voto contrario. «Non è stata una decisione semplice. Dopo mesi di discussione tra la relatrice e i rappresentanti “ombra” degli altri gruppi politici, ho deciso di dare al mio gruppo un'indicazione di voto contrario. Nonostante i negoziati si siano svolti nel rispetto delle reciproche posizioni, e una serie di nostri emendamenti molto importanti sia stata accolta nella Commissione Libertà pubbliche e nell'Assemblea plenaria (sul commercio d’armi, sul legame tra l’estendersi dell’islamofobia e le prolungate guerre anti-terrore dell’Occidente, ecc), il risultato finale ha risentito in maniera a mio parere affrettata degli attentati parigini del 13 novembre: il PPE ha accentuato negli ultimi giorni la natura repressiva del rapporto e ulteriori misure anti-terrorismo sono state adottate, senza che ancora siano valutate la necessaria proporzionalità nonché la necessità legale. La politica della paura, sotto molti aspetti, ha prevalso nella maggioranza dei gruppi, pur creando importanti divisioni nel gruppo socialista, in quello dei Verdi, e perfino nel GUE-NGL». 
«Il GUE-NGL è contrario da tempo all'introduzione della Direttiva PNR, soprattutto se estesa ai voli interni all'Unione, come richiesto nella risoluzione: si tratta di una misura che il Garante europeo per la protezione dei dati e altre importanti autorità hanno definito non necessaria né proporzionata. Allo stesso modo, concordiamo con l'analisi effettuata da European Digital Rights (EDRI) secondo cui gli standard di crittografia non dovrebbero essere arbitrariamente indeboliti, come di fatto lo sono nel rapporto approvato dal Parlamento, perché ciò rischia di avere effetti negativi sulla privacy di persone innocenti». 
«Riteniamo inoltre che la risoluzione criminalizzi le compagnie internet, obbligandole a una sistematica cooperazione con gli Stati e mettendole praticamente sotto la loro tutela. É un messaggio assai pericoloso che per questa via viene trasmesso ai regimi autoritari nel mondo, tanto più che di tale misura si chiede l’applicazione perfino per quanto concerne materiale considerato legale».
«Anche se di per sé non sono affatto contraria ai controlli alle frontiere, ritengo tuttavia – come si affermava in un emendamento presentato dal gruppo S&D sfortunatamente rigettato – che gli Stati Membri “debbano astenersi dal ricorrere a misure di controllo alle frontiere finalizzate alla lotta contro il terrorismo e all'arresto di individui sospettati di terrorismo con lo scopo di esercitare un controllo dell'immigrazione”».
«Al pari dell'European Network Against Racism (ENAR), quel che temo è che una serie di proposte contenute nella relazione possa mettere a repentaglio alcuni diritti fondamentali nell'UE, soprattutto nei confronti dei rifugiati e dei musulmani, esplicitamente confusi gli uni con gli altri».
 «Particolarmente grave mi è parso il rifiuto di un nostro emendamento specifico contro la vendita di armi a paesi della Lega Araba come Arabia Saudita, Egitto e Marocco, e contro la collusione politica con Paesi terzi a guida dittatoriale. Per finire, è stato rigettato uno dei nostri emendamenti che consideravamo fondamentali: il rifiuto della “falsa dicotomia tra sicurezza e libertà”. In ogni democrazia il rifiuto di tale dicotomia dovrebbe essere un concetto ovvio. Non lo è più di questi tempi, dominati più dalla paura e dalla collera che dalla ragione e dalla rule of law».

mercoledì 13 novembre 2013

Aung San Suu Kyi e il premio in ritardo





Era il 1990: la leader dell'opposizione birmana, Aung San Suu Kyi, si trovava agli arresti domiciliari a causa della dittatura militare, ma continuava la sua lotta per i diritti umani e per la democrazia. Una detenzione che è durata quindici anni.
Nel '90 le viene assegnato il premio Sakharov per la Libertà di Pensiero e, l'anno dopo, il Nobel per la Pace.
Nel 2013, a 68 anni e con un fiore giallo tra i capelli, l'attivista ha potuto finalmente ricevere il primo riconoscimento direttamente dalle mani del presidente dell'Europarlmento, Martin Schultz.
Tanta commozione e un lungo applauso hanno accompagnato questo giorno importante che ha segnato l'inizio di un percorso in Europa. Il viaggio di Aung San Suu Kyi si pone l'obiettivo di chiedere una nuova Costituzione per il Myanmar perchè quella attuale attribuisce il 25% dei seggi nelle assemblee ai militari e rappresenta un ostacolo per la candidatura della stessa attivista alle prossime elezioni presidenziali, nel 2015.
Appoggiata dal suo partito, la National League for Democracy, San Suu Kyi chiede “il diritto ad esistere in base alla propria coscienza”. La leader democratica ha, infatti, puntualizzato: “ La nostra gente sta solamente iniziando ad imparare che la libertà di pensiero è possibile. Ma vogliamo che diventi una certezza la necessità di preservare il diritto a un credo libero e a una vita in pieno accordo con la propria coscienza”.
Importanti anche le sue parole riguardo alla principio di libertà e, in particolare, ancora sulla libertà di pensiero: “ La libertà di pensiero inizia con il diritto di fare domande. A molti dei nostri cittadini, tra i tanti che sono stati arrestati con cadenza quotidiana, abbiamo dovuto insegnare a chiedere a coloro che andavano a metterli in manette: Perchè?...La libertà di pensiero è essenziale per il progresso umano, se interrompiamo la libertà di pensiero interromperemo anche il progresso del nostro mondo...Perchè è una delle parole più importanti in ogni lingua. E' importante che lavoriamo sulle imperfezioni delle nostre società, che lavoriamo sulle leggi che ci colpiscono come esseri umani, sulle leggi che erodono le fondamenta della dignità umana. E questo perchè la nostra ricerca della democrazia non è terminata”.
A proposito di leggi che ostacolano la candidatura alla presidenza democratica del Paese: la Costituzione attuale vieta ad un birmano sposato ad uno straniero di occupare la Presidenza dello Stato: il marito di Aung San Suu Kyi, oggi scomparso, era di nazionalità britannica, come lo sono i figli. Anche per loro continuerà la battaglia, come donna, come moglie, come madre e come cittadina.