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mercoledì 30 dicembre 2015

L'Associazione 21 luglio e la chiusura del Best House ROM

L’Associazione 21 luglio esprime profonda soddisfazione per la chiusura, nella Capitale, del Best House Rom, la struttura senza finestre, da due anni oggetto di numerose denunce dell’Associazione, dove negli ultimi mesi 135 persone, di cui oltre la metà minori, vivevano in condizioni drammatiche, al di sotto degli standard minimi di tutela dei diritti umani.
«A Roma è iniziato un processo irreversibile: non soltanto dal 2012 si è impedito la costruzione di nuovi “campi rom”, ma si inizia finalmente a mettere i sigilli su questi ghetti e luoghi di discriminazione istituzionale, che rappresentano un’anomalia italiana nel contesto europeo», afferma il presidente dell’Associazione 21 luglio Carlo Stasolla.
La chiusura del Best House Rom, situato in via Visso, nella periferia est della Capitale, è stata predisposta dal Comune di Roma in seguito a una “interdittiva antimafia” nei confronti della Cooperativa Inopera, l’ente gestore della struttura che nel 2014, come documentato dal rapporto dell’Associazione 21 luglioCentri di raccolta S.p.a.”, è costata 2,8 milioni di euro, di cui quasi 2,6 milioni affidati senza bando pubblico alla stessa Cooperativa Inopera. Alle famiglie che vivevano nella struttura è stata offerta una sistemazione alternativa da loro giudicata adeguata, come hanno potuto constatare rappresentanti dell'Associazione 21 luglio che in questi giorni hanno seguito la vicenda sul posto.
Nato nel 2012, il Best House Rom si è consolidato tra dicembre 2013 e marzo 2014 in seguito al collocamento nella struttura di 137 persone provenienti dallo smantellamento del “villaggio attrezzato” della Cesarina e di altre 64 sgomberate da alcuni insediamenti informali.
L’Associazione 21 luglio, per prima, ha denunciato le condizioni di vita drammatiche all’interno del centro. Nel report “Senza Luce”, pubblicato a marzo 2014, l’Associazione ha puntato i riflettori sulle condizioni strutturali del Best House Rom, caratterizzato da stanze anguste, prive di finestre e punti di areazione naturale; sulla sua incompatibilità con i requisiti previsti dalla normativa regionale che regola il funzionamento di strutture di accoglienza; e sugli altissimi costi della sua gestione, a fronte di stanziamenti nulli per l’inclusione sociale degli uomini, delle donne e dei bambini rom residenti.
Alle numerose denunce dell’Associazione 21 luglio sul Best House Rom, sono seguite l’apertura di un’istruttoria sul centro da parte dell’Autorità Anticorruzione, dopo un esposto presentato dall’area legale dell’Associazione lo scorso febbraio, e varie visite ispettive con rappresentanti delle istituzioni locali, nazionali e internazionali: con il consigliere di Roma Capitale Riccardo Magi, con la Commissione Diritti Umani del Senato, con il presidente del Comitato Europeo dei Diritti Sociali Luis Quimena Quesada, con una delegazione della Commissione Europea contro il Razzismo e l’Intolleranza (ECRI).
La chiusura del Best House Rom va così ad aggiungersi a due importanti battaglie che hanno visto, nei mesi scorsi, l’Associazione 21 luglio in prima linea contro la costruzione di due nuovi “campi per soli rom” nella Capitale: il nuovo “villaggio attrezzato” della Cesarina, che nelle intenzioni dell’allora Assessore alle Politiche Sociali Rita Cutini avrebbe dovuto sostituire quello raso al suolo a dicembre 2013, e il nuovo “villaggio attrezzato” La Barbuta, che sarebbe dovuto essere realizzato dalla multinazionale Leroy Merlin in base a un progetto su cui, come emerso dalle intercettazioni su Mafia Capitale, aveva messo gli occhi anche il cosiddetto “ras delle cooperative” Salvatore Buzzi.
Entrambi i progetti furono bloccati in seguito al lancio di due campagne di mail bombing e mobilitazione on line (“#DiscriminareCosta” e “Leroy Merlin, un campo rom è un ghetto: non costruirlo!”) sul sito dell’Associazione 21 luglio. Lo scorso maggio, per di più, era stato il Tribunale di Roma, con una sentenza storica, in seguito a un’azione legale promossa da Associazione 21 luglio e Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione, a riconoscere per la prima volta in Italia e in Europa il carattere discriminatorio dei “campi rom”, con specifico riferimento al “villaggio attrezzato” La Barbuta.
«La chiusura del Best House Rom, sebbene non sia stata accompagnata dall’individuazione di soluzioni che favoriscano l’inclusione sociale delle comunità rom, rappresenta comunque un punto di svolta cruciale per Roma: nella Capitale non si costruiscono più nuovi “campi” e si è iniziato a mettere la parola fine ai ghetti esistenti – conclude il presidente dell’Associazione 21 luglio Carlo Stasolla -. Oggi è evidentemente cominciato un percorso dal quale non sarà più possibile tornare indietro: il sistema campi va definitivamente superato e l’inclusione sociale dei rom deve far parte dell’agenda politica della nuova Amministrazione che sarà guidata a governare la città». 
 
PER APPROFONDIRE:
 

martedì 29 dicembre 2015

Parte la seconda carovana per Gaza

Dopo un anno di preparativi e una partenza sfumata a Luglio, finalmente il progetto iniziato lo scorso anno del “Festival delle culture tra arte e sport” può continuare e rinnovarsi   (da Nenanews.it)




Il 27 dicembre partirà la seconda carovana per Gaza, un programma che avrà molteplici obiettivi: sostenere la resistenza palestinese e la popolazione della Striscia che vive da anni una situazione di assedio perenne e di isolamento internazionale; dare la possibilità ai Gazawi di avere l’occasione di potersi esprimere liberamente e con serenità in contesti differenti rispetto alle condizioni esistenziali che sono costretti a sopportare; essere testimoni di quello che accade sia della fase attuale che del contesto generale; diffondere questa testimonianza per rendere tutti coscienti della realtà dei fatti a fronte di una campagna mediatica che ha dipinto e dipinge Israele come vittima, anziché come paese colonizzatore e oppressore; scambiare competenze nell’ottica di un arricchimento culturale reciproco.
Il progetto è quindi rilevante nell’immediato e nel breve periodo, in quanto coglie la necessità primaria per la popolazione di uscire da una quotidianità caratterizzata dal perenne status di guerra, ma è ancora più fondamentale nel lungo periodo, poiché si tratta di un investimento che si spera continui nel tempo e che sia soprattutto in grado di innestarsi nell’intricata e complessa situazione della resistenza palestinese contro il governo israeliano, che nel corso degli anni si è dimostrato non solo colonizzatore, ma fascista nei modi e xenofobo nell’azione.
L’anno scorso lo scenario era quello del periodo post operazione “Margine Protettivo”, una strategia sanguinaria che aveva messo in ginocchio i Gazawi con una guerra impari che ha portato distruzione ovunque (gli aiuti sono iniziati ad arrivare a settembre di quest’anno), massacri, morti, povertà diffusa, impossibilità di condizioni di vita decenti (taglio dell’energia elettrica; bombardamenti continui lungo il confine e in mare; mancanza di acqua; difficoltà strutturali nelle scuole che hanno impedito per molto tempo lo svolgimento delle lezioni …). Questo si aggiungeva già ad un contesto in cui l’autosufficienza della Striscia versava in condizioni di estrema precarietà: un altissimo tasso di disoccupazione (circa il  Il 43 per cento degli 1,8 milioni dei residenti della Striscia sono disoccupati. Tra i giovani è il 60 per cento a non avere un lavoro), una situazione economica al collasso per l’embargo egiziano e israeliano e per le guerre (le esportazioni dal territorio palestinese sono infatti azzerate e il settore manifatturiero è stato abbattuto del 60 per cento), un tasso di povertà altissimo, circa il 40%.
Secondo la Banca Mondiale, la ripresa economica è fortemente ostacolata dall’impossibilità per merci e persone di muoversi.
Quest’anno la situazione che la carovana si troverà ad affrontare non sembra affatto più rosea.
E’ ancora in corso infatti un periodo di tumulti e ribellioni, soffocati dalla forza repressiva israeliana che sta mietendo vittime ogni giorno.
L’hanno chiamata “Intifada dei coltelli”, ma come abbiamo visto, questa terza fase di rivolte si presenta in modo totalmente differente rispetto alle precedenti.
Anzitutto, dietro agli episodi che si sono verificati non c’è alcuna strategia di gruppi organizzati o partiti.
Questo si è potuto rilevare sia dall’assenza di una rappresentanza politica a cui si rifanno gli scontri (a parte Hamas che per un momento ha cavalcato la questione cercando di determinare quella situazione), sia dal carattere di spontaneità che hanno caratterizzato certi episodi, che dalle persone coinvolte: giovani uomini e donne che hanno agito mossi da un sentimento di disperazione e disillusione totale.
Un sentire che pesa per i tre anni di guerra che ha subito la Striscia (2 guerre in 3 anni) e per il grave regime di apartheid che subisce la popolazione palestinese ogni giorni in Cisgiordania e nei territori occupati.
Protagonista di questa Intifada, quindi, è soprattutto la popolazione giovanile, generazioni che sono cresciute sull’eredità del fallimento degli accordi di Oslo e sulla vana speranza di trovare un modo per uscire da una situazione di emarginazione ed oppressione che non permette la realizzazione dei più banali (per noi) obiettivi di vita.
E’ in questa matassa che si inserisce questo festival: per rispondere ad esigenze umane, sociali, politiche della popolazione e per restituire una realtà alterata e falsificata dai media.
Sostenere l’autodeterminazione dei popoli e dei territori, lottare contro i meccanismi di colonizzazione ed imperialismo che strozzano i palestinesi, condannare a gran voce un vero e proprio sistema di apartheid o informarsi ed informare è dovere morale di tutti.


Chi desidera mandare un aiuto economico, ecco l’Iban del Centro Vittorio Arrigoni a Gaza
IT35C0312703241000000051775
INTESTAZIONE: Giovanni Lisi   Maria Teresa Bartolucci
Causale: per Gaza, Centro Italiano. Attività festival
BIC: BAECIT2B
- See more at: http://nena-news.it/parte-la-seconda-carovana-per-gaza/#sthash.9Esvv3xa.dpuf

giovedì 24 dicembre 2015

Hate crimes in Europe!. Alloggio per la popolazione Rom: un viaggio d'esclusione



di Cinzia D'Ambrosi

 

Nel mio ultimo blog su 'peridirittiumani.com' ho scritto una breve riflessione sull'iniziativa chiamata 'Decade dell'inclusione della popolazione Rom' in cui ho sottolineato le aree che gli otto paesi partecipanti alla Decade avevano pattuito per migliorare il tenore di vita delle comunita' Rom in Europa e ho concluso che queste non hanno riportato miglioramenti se non per la formazione scolastica, seppur breve.

Per le comunita' Rom la realta' e' grave perchè sono sottoposte a continue violazioni dei loro diritti umani. Le popolazioni Rom sono ancora oggi private d'alloggio, costrette a vivere ai margini di zone urbane, in aree affollate e povere creando dei ghetti ed insediamenti illegali o carovane. Per le comunita' Rom o Travellers in Gran Bretagna, gli sfratti e la negazione del diritto di parcheggio per una caravan vengono continuamente reiterati. La realta' non cambia di molto da un paese europeo all'altro; in Fakulteta Mahala (un ghetto Rom a Sofia, in Bulgaria) che e' un ghetto Rom nella zona centrale della citta', i servizi comunali - come la raccolta dei rifiuti - non viene effettuata. Questa non e' nemmeno la situazione piu' grave per i Rom nel paese, considerando che per coloro che vivono in Kjustendil, Plovdi - in Kosovo, Bosnia Herzegovina - le comunita' Rom vivono in campi in zone industriali in disuso, spesso a rischio per la loro salute. Sgomberi forzati sono numerosissimi, condannando le popolazioni Rom ad una vita in costante insicurezza. Sgomberi e distruzioni di campi sembrano far parte della politica statale anche in Italia. European Roma Rights Centre ha riportato piu' di 21,000 sfratti in Francia nel 2014. Circa il 45 per cento della popolazione Rom in Europa vive in un'abitazione a cui mancano i servizi primari. Questi sono scenari ripetuti in vari paesi europei e alimentao i pregiudizi esistenti.

Purtroppo, poter ottenere un alloggio tramite i servizi sociali e' alquanto difficile per moltissime ragioni, ma principalmente per la mancanza di lavoro e di un contratto d'affitto locale. Negli ultimi anni, anche se ci sono state delle iniziative come il Programma d'integrazione allogggio in Ungheria con l'obbiettivo d'integrazione dei Rom in case gestite dal governo, il problema centrale e' quello che ancora oggi non esiste un vero programma centrato sulla de-segregazione. Un programma di integrazione d'alloggio che rispecchia l'aspetto politico, fisico e mentale per poter sviluppare l'aspetto integrativo; per questo alcuni interventi hanno solamente fatto ottenere ai Rom un alloggio, ma la conseguenza è stata quella di contribuire alla crescita di ghetti urbani.

Per costruire una societa' priva di discriminazioni si dovrebbero eliminare le aree d'esclusione (ghetti), generare opportunita' lavorative, celebrare la diversita' invece di soffocarla. L'obiettivo dovrebbe essere quello di sradicare la discriminazione istituzionale e la 'policy' che rende i campi e gli alloggi Rom 'invisibili'.


Housing for the Roma: a Journey of Exclusion.

In my last post on ' peridirittiumani.org' I have written a short reflection on the decade of the Roma inclusion. Outlined there were some of the areas that the eight countries that participated in the decade (Decade for Roma Inclusion) had agreed on working to improve lives for the Roma communities in Europe. Summarily there were outlined the areas being touched and the resulting data which demonstrated that the living conditions for the Roma population in Europe is still grave and we would need a lot of concentrated and concerted efforts to improve it. Still today, basic human rights are continuously breached. Anyone that has had any encounter with Roma communities would know that more often than not they live in illegal settlements, in sheds, or housing without basic amenities. Most of these precarious living spaces are often based at the margin of urban areas, or using what urbanity can give them, and thus living under a bridge, a motorway intersection, or in concentrated urban areas creating what are being referred to as Roma ghettos.

The living spaces demonstrate their status within societies in Europe, in marginalised spaces. These 'homes' are makeshift sheds built illegally, others are informal settlements, caravans or camps.

Notably, for the Travellers communities in Great Britain, evictions and a right for stay in their home caravans has been revoked in many events in recent years. One of the most well known cases is the Travellers of Dale Farm. The Roma communities living in Fakulteta (Bulgaria) do not have access to normal city services so their rubbish is not being collected, there is no sewage system, water and electricity is sparse and sanitation often non existent. Similarly in Kosovo, Bosnia Herzegovina the Roma communities live in disused industrial area, often at risk for their health from polluted lands. Circa 45 per cent of Roma communities in Europe live in housing that lacks of basic amenities.

All these are repeated scenarios in many countries and have further segregated the Roma communities and alimented prejudices.

For the Roma communities and the Travellers alike housing in the private sector is an unattainable dream. The social sector is also very difficult for them because lack of work, valid rental agreements. Illegal and forced evictions are high condemning them to a life of constant insecurity wondering from one settlement to another. Evictions and destruction of their homes is a matter of state policy in Italy. In France the European Roma Rights Centre has recorded more than 21,000 evictions (2014).

In recent years, there have been some initiatives aimed at housing integration as we noted in Hungary, which had the objective of Roma communities being housed in social housings. However, the programme on an housing level particularly failed in rural areas and in urban areas it proved to escalate urban ghetto-isation. The main issue is that still today there is not a programme that is central to de-segregation in a way that it would reflect integration at all levels, political, physical and mental. In this way, many interventions have only contributed to the growing number of urban housing ghetto-isation for the Roma population.

To have a society free of discrimination we would aim to eradicate the creation of ghetto areas, increase opportunities for education and work and generate integration celebrating diversity rather than suffocate it. Institutional discrimination should be addressed and the 'policy' that works on making Roma housing 'invisible'.





Caption:

Roma in the illegal camp of Zitkovac in the outskirts of Mitrovice, Kosovo.

Didascalia:

Una comunita' Rom in un campo illegale di Zitkovac nei pressi di Mitrovice, Kosovo.

mercoledì 23 dicembre 2015

Burundi e Nigeria: tra Passato e Presente




Burundi
Mancato impegno dei governi africani nella gestione della crisi in Burundi


L'Associazione per i Popoli Minacciati (APM) esorta i governi africani a impegnarsi maggiormente per una soluzione politica della crisi in Burundi e per la tutela della popolazione civile dalle violazioni dei diritti umani. Non mancano certo gli appelli alla pace e al dialogo delle organizzazioni non governative e dei singoli politici, ma sia l'Unione Africana (UA), sia la Comunità dell'Africa orientale (EAC) sia la Conferenza Internazionale sulla regione dei grandi laghi sembrano muoversi con troppa esitazione, senza molte idee e con poca coerenza. Gli interessi nazionali , la concorrenza tra di loro e la mancante neutralità così come la mancanza di volontà politica e la divergenza di opinioni in questioni basilari intralciano ogni tentativo di trovare una soluzione politica per la crisi in Burundi. I governi africani hanno perso un'occasione per mostrare responsabilità in una situazione di crisi.

Il fallimento dell'EAC è probabilmente l'esempio più eclatante della mancata assunzione di responsabilità dei governi africani. Nel vertice dell'EAC previsto per lo scorso 30 novembre 2015 la presidenza dell'organizzazione sarebbe dovuta toccare al Burundi. Per evitare discussioni interne e non urtare il discusso governo del Burundi scegliendo un altro paese per la presidenza, l'EAC ha semplicemente rimandato il vertice a data da definire. L'atteggiamento con cui si è scelto di mettere la testa nella sabbia piuttosto che affrontare i problemi, certamente non può contribuire in modo costruttivo alla risoluzione della grave crisi che scuote il Burundi.

Anche l'Unione Africana (UA) ha per mesi mantenuto una posizione di attesa. Il presidente ugandese Yoweri Museveni incaricato dall'UA di mediare per un dialogo in Burundi sembra invece essere occupato più con la propria campagna elettorale che con la crisi in Burundi e la sua non sembra essere una posizione neutra. Il dialogo in questo modo non fa progressi. Inoltre nei colloqui finora tenuti sulla crisi in Burundi non si è mai tenuto conto della situazione della popolazione civile. Nonostante l'UA abbia deciso delle sanzioni contro il Burundi e il Consiglio di Sicurezza dell'Unione Africana abbia in ottobre 2015 proposto di prepararsi a un intervento delle truppe di pace africane, tale intervento rischia di creare maggiori tensioni per la mancata neutralità dei paesi vicini del Burundi. Inoltre non è chiaro se la missione di pace africana voglia far impiegare le truppe dell'"African Capacity for Immediate Response to Crises (ACIRC)" o dell'"African Standby Force (ASF)". Non manca certo il sostegno finanziario a entrambe le truppe, ma loro efficienza in situazioni di crisi è più che dubbia.


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IL DOCUMENTARIO “DEVIL COMES TO KOKO” al MUDEC di Milano






DEVIL COMES TO KOKO”, che si terrà all'Auditorium del Mudec mercoledì 23 dicembre 2015 alle ore 19.00.


Il Mudec - Museo delle Culture - presenta “Devil comes to Koko”, il documentario prodotto da Fabrica - centro di ricerca sulla comunicazione di Benetton Group - nell’ambito del programma di eventi a cura del Forum della Città Mondo.
Il documentario si concentra su due brutali episodi avvenuti in Nigeria, visti attraverso lo sguardo di Alfie Nze, regista teatrale nigeriano trasferitosi in Italia negli anni novanta.
Il film narra della sanguinosa invasione inglese di Benin City del 1897 e dello scandalo dei rifiuti tossici scaricati nel 1987 nel porto della città di Koko.
A partire dai due eventi drammatici, il regista percorre un viaggio alla ricerca di radici, di complessità intime, visioni oniriche e corto circuiti tra comunità locali e politiche internazionali.
La direzione creativa del progetto è di Alfie Nze, regista alla sua prima opera e già vincitore nel 2013 del Premio Mutti Amm, premio dedicato ai registi migranti attivi in Italia, e Cineteca di Bologna.
Prodotto da Fabrica, da sempre luogo di sperimentazione, di confronto, di crescita culturale e attento all'espressione libera di ogni arte.

La proiezione, della durata di circa 50 minuti, sarà ad
ingresso libero fino ad esaurimento posti, con prenotazione attraverso la piattaforma eventbrite al seguente link:


http://www.eventbrite.com/e/devil-comes-to-koko-proiettato-al-mudec-tickets-20033760517


lunedì 30 novembre 2015

29 novembre: Giornata Internazionale di solidarietà con il popolo palestinese

di Monica Macchi


Il 29 novembre 1947 con la risoluzione 181, l’Assemblea Generale dell’Onu ha approvato il Piano di partizione della Palestina con cui si stabiliva la creazione di due Stati, uno ebraico e uno arabo, con Gerusalemme sotto regime internazionale speciale….una delle tante risoluzioni mai implementate.





 
Situato a est di Qalqilia, Kufr Qaddum è un villaggio palestinese di circa 4000 abitanti con una superficie di 24.000 donum: in base agli Accordi di Oslo è stato suddiviso in “area B” (circa 8.384 dunum dove l’Autorità Nazionale Palestinese ha il controllo sulle questioni civili, e Israele continua ad avere la responsabilità della sicurezza) e “area C” dove Israele ha il pieno controllo sia sulla sicurezza che sulla gestione amministrativa sia di questa area che degli insediamenti illegali che la circondano (Kedumim, Kedumim Zefon, Jit Mitzpe Yisha, e Giv'at HaMerkaziz che costituiscono la colonia di Ariel Kedumim abitata da circa 3000 coloni).

Attorno al villaggio c’è il muro di Separazione (che Israele chiama “Barriera di Sicurezza) che isola 7.175 dunum (38,2% della superficie totale) e impedisce ai contadini di accedere alle loro terre (il 70% degli abitanti lavorano anzi lavorerebbero nell’agricoltura!) e ci sono molte bypass road (strade costruite dagli israeliani per collegare gli insediamenti in Cisgiordania a Israele). De iure secondo gli accordi di Oslo, i palestinesi avevano il permesso di utilizzare queste strade ma dopo lo scoppio della Seconda Intifada, Israele ne ha chiuso l’accesso ai palestinesi per “ragioni di sicurezza” ossia per proteggere insediamenti e coloni. Questo ha creato moltissimi problemi sia per l’economia (l’agricoltura è in ginocchio) sia per la libertà di movimento per i lavoratori, gli studenti e anche i malati, costretti ad andare all’ ospedale di Darweesh Nazzal a una trentina di chilometri o negli ospedali di Nablus a una ventina… su percorsi alternativi e di fortuna su stradine non asfaltate continuamente interrotte da check-point anche improvvisati.

Così il 1 luglio 2011 è iniziata una resistenza popolare, sotto forma di una marcia pacifica dopo la preghiera del Venerdì per rivendicare il diritto e la libertà di movimento chiedendo la riapertura delle strade che collegano direttamente Kufr Qaddum agli altri villaggi palestinesi. Da allora ogni venerdì tutto il villaggio, compresi attivisti stranieri e pacifisti israeliani marciano non solo perchè le strade sono rimaste chiuse ma anche per denunciare il taglio di acqua ed elettricità che Israele usa come forma di punizione collettiva per fiaccare la resistenza.

 

Ed ecco con le parole di Murad Shtaiwi coordinatore dei movimenti popolari di resistenza non violenta, la situazione di Kufr Qaddum:


 




venerdì 13 novembre 2015


L'ASSOCIAZIONE PER I DIRITTI UMANI



Associazione per i Diritti Umani




PRESENTA



il saggio “Egitto, democrazia militare”

di Giuseppe Acconcia





mercoledì 18 NOVEMBRE, ore 19

presso



BISTROT DEL TEMPO RITROVATO

Via Foppa, 4 (MM Sant'Agostino) MILANO





L’Associazione per i Diritti Umani organizza l'incontro nell'ambito della manifestazione “D(I)RITTI AL CENTRO!”.



Presentazione del saggio il saggio “Egitto, democrazia militare” di Giuseppe Acconcia, Exòrma edizioni.







Il saggio:

L'incoronazione dell'ex generale Abdel Fattah al-Sisi come nuovo presidente egiziano ha chiuso tre anni rivoluzionari che hanno cambiato il Paese. Il racconto dal basso delle rivolte di piazza descrive un Egitto straordinario, diviso tra modernità e tradizione, dalla repressione di migranti e minoranze, alla punizione collettiva delle tribù del Sinai, dagli operai delle fabbriche di Suez al massacro di Rabaa al-Adaweya.





Coordina: Alessandra Montesanto, Vicepresidente Associazione per i Diritti Umani





domenica 1 novembre 2015

Giornata internazionale di solidarietà con Kobane



La città kurdo-siriana è ancora in pericolo - gravi accuse alla Turchia


A un anno dai sanguinosi scontri con le milizie dello "Stato Islamico" terminati con la cacciatia delle milizie estremiste, gli abitanti della città kurdo-siriana di Kobane sono tuttora in pericolo. In occasione della Giornata internazionale di solidarietà con Kobane (1 novembre) l'Associazione per i Popoli Minacciati (APM) accusa la Turchia di sparare alle postazioni di difesa kurde oltre frontiera. Un anno fa, Ankara era accusata di sostenere o, se non altro, tollerare gli estremisti dell'IS; ora il governo turco è andato oltre e attacca con il proprio esercito le postazioni kurde nella speranza di indebolire l'autodifesa kurda e di assumere direttamente il controllo sulle zone d'insediamento dei Kurdi. Le autorità turche inoltre stanno bloccando alla frontiera gli aiuti alimentari, l'acqua potabile e i farmaci inviati ai circa 150.000 civili che hanno deciso di tornare nella propria casa a Kobane.

Nonostante l'IS sia stato cacciato da Kobane, le sue milizie potrebbero farvi ritorno se la resistenza kurda dovesse allentare la presa. Nella battaglia per Kobane hanno perso la vita tra 1.000 e 1.5000 combattenti kurde e kurdi e circa altri 500 civili turchi. Altri 5.000 sono rimasti feriti e sono stati medicati in ospedali d'emergenza improvvisati o nei vicini comuni kurdi in Turchia. Le autorità turche hanno ripetutamente negato i trattamenti medici in Turchia e spesso i combattenti kurdi feriti hanno dovuto aspettare giorni interi al valico di frontiera prima di poter entrare in Turchia ed essere medicati. Durante la battaglia di Kobane i circa 400.000 abitanti della città e dei dintorni erano quasi tutti fuggiti. Nonostante le attuali condizioni catastrofiche, circa 1.000 persone lasciano ogni settimana i campi profughi nel sud della Turchia per tornare a casa propria. Molti altri hanno invece continuato la loro fuga in Europa e non hanno per ora alcuna possibilità di poter tornare a casa. La città di Kobane è per l'80% distrutta e negli unici due ospedali rimasti aperti, uno civile e l'altro militare, manca praticamente tutto. Attualmente il valico di frontiera dalla Turchia verso Kobane è aperto solo due volte in settimana e solamente per chi è disposto a tornare a Kobane.

La Giornata internazionale di solidarietà con Kobane è stata celebrata la prima volta l'1 novembre 2014 dai Kurdi in esilio e dai loro amici in Europa, America, Africa e Australia per sostenere almeno moralmente le cittadine e i cittadini di Kobane. Le milizie dell'IS avevano tentato la conquista della città kurda già alla fine del 2013 ma erano stati bloccati dalle unità di difesa popolari (YPG) kurde. A metà settembre 2024 l'IS aveva allora avviato una massiccia offensiva contro la città. Dopo mesi di sanguinosi scontri strada per strada e casa per casa, le unità kurde hanno ottenuto armi e il sostegno aereo degli USA. Il governo turco ha invece continuato a negare ogni forma di aiuto ai combattenti assediati e solo in seguito alle pesanti pressioni internazionali agli inizi di novembre ha permesso a 150 peshmerga kurdo-iracheni di raggiungere Kobane per sostenere i combattenti kurdi con armamenti pesanti.

Vedi anche in gfbv.it: www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150916it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150828it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150806it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150730it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150727it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150624it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150611it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150609it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150522it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150320it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150128it.html | www.gfbv.it/3dossier/kurdi/indexkur.html | www.gfbv.it/3dossier/kurdi/kurtur-it.html
in www: http://it.wikipedia.org/wiki/Yazidi | http://it.wikipedia.org/wiki/Kurdistan

lunedì 19 ottobre 2015

I muri di Tunisi: la Tunisia prima e dopo la rivoluzione



Associazione per i Diritti Umani
PRESENTA

 
il saggio “I MURI DI TUNISI. Scritti e immagini di un Paese che cambia”, di Luce Lacquaniti

ed. Exòrma

 

giovedì 22 OTTOBRE, ore 19

presso

 
CENTRO ASTERIA

(Piazza Carrara 17.1 (ang Via G. da Cermenate,2 MM Romolo) Milano
 

L’Associazione per i Diritti Umani organizza l'incontro nell'ambito della manifestazione “D(I)RITTI AL CENTRO!”.
 

Presentazione del saggio “I MURI DI TUNISI. Scritti e immagini di un Paese che cambia”, di Luce Lacquaniti

ed. Exòrma

Il saggio, a partire dai graffiti realizzati sui muri della città di Tunisi, permette di fare un viaggio in un Paese in grande via di trasformazione politica, culturale e sociale. Si parlerà della Tunisia anche alla luce dell'attacco terroristico e del Premio Nobel per la pace.
 

Coordina: Alessandra Montesanto, Vicepresidente Associazione per i Diritti Umani

giovedì 15 ottobre 2015

I muri di Tunisi: la Tunisia prima e dopo la rivoluzione


Associazione per i Diritti Umani




PRESENTA



il saggio “I MURI DI TUNISI. Scritti e immagini di un Paese che cambia”, di Luce Lacquaniti

ed. Exòrma

 




giovedì 22 OTTOBRE, ore 19

presso



CENTRO ASTERIA

(Piazza Carrara 17.1 (ang Via G. da Cermenate,2 MM Romolo) Milano





L’Associazione per i Diritti Umani organizza l'incontro nell'ambito della manifestazione “D(I)RITTI AL CENTRO!”.



Presentazione del saggio “I MURI DI TUNISI. Scritti e immagini di un Paese che cambia”, di Luce Lacquaniti

ed. Exòrma



Il saggio, a partire dai graffiti realizzati sui muri della città di Tunisi, permette di fare un viaggio in un Paese in grande via di trasformazione politica, culturale e sociale. Si parlerà della Tunisia anche alla luce dell'attacco terroristico e del Premio Nobel per la pace.



Coordina: Alessandra Montesanto, Vicepresidente Associazione per i Diritti Umani



mercoledì 7 ottobre 2015


Associazione per i Diritti Umani




PRESENTA



Continuare a parlare di Medioriente: come sta cambiando lo scenario e quali le conseguenze per il resto del mondo. Focus SIRIA





GIOVEDI 8 OTTOBRE, ore 19

presso



CENTRO ASTERIA

Piazza Carrara 17.1 (Ang. Via G. da Cermenate, 2. MM ROMOLO, FAMAGOSTA )
Milano





Milano, 15/9/2015 L’Associazione per i Diritti Umani organizza l'incontro intitolato “Continuare a parlare di Medioriente: come sta cambiando lo scenario e quali le conseguenze per il resto del mondo. Focus SIRIA”, nell'ambito della manifestazione “D(I)RITTI AL CENTRO!”.



Presentazione del documentario “Young Syrian Lenses” alla presenza dei registi Ruben Lagattola e Filippo Biagianti e di Monica Macchi, esperta di mondo arabo.

Il documentario:

“Prima di essere media attivisti, siamo tutti ribelli, il nostro impegno nella rivoluzione si è evoluto nell’informazione”. Parla così il reporter Karam Al Halabi, uno dei protagonisti del documentario girato in Syria da Lagattolla fra il 30 Aprile e il 9 Maggio 2014 e sostenuto da Amnesty International sezione Italia.

L’intento del documentario è infatti proprio quello di filmare l’attività dei ragazzi che lavorano nei network di informazione, documentare il loro lavoro di fotografi e di raccontare la realtà siriana con un approccio il più possibile umano. Il progetto “Young Syrian Lenses” è stato portato avanti e concluso senza nessun budget, in maniera totalmente indipendente e volontaria e viene ora diffuso in tutta Italia con l'obiettivo di raccontare la storia di questi reporter e di far conoscere in modo chiaro e approfondito la situazione della Siria.



Inaugurazione della mostra fotografica “Volti della Syria” di Salvatore Di Vinti



La mostra:

Volti della Syria” di Salvatore Di Vinti, volontario di “Insieme si può fare”. Attraverso le immigini Salvatore Di Vinti racconta i due viaggi fatti con l’associazione per portare aiuti umanitari al popolo siriano.



Coordina: Alessandra Montesanto, Vicepresidente Associazione per i Diritti Umani










domenica 30 agosto 2015

Nidaa Badwan e l’arte a Gaza




di Monica Macchi






L’isolamento è l’unico modo che ho trovato per sfuggire al giogo della società.

E’ l’unica cosa che mi permette di avere uno spazio di espressione e libertà”





Di fronte allo stillicidio di una guerra quotidiana, alle macerie e all’oppressione religiosa, l’artista Nidaa Badwan ha scelto di vivere reclusa nella sua stanza a Dayr al-Balah, nel sud di Gaza, dal dicembre 2013. Laureata alla Facoltà di Belle Arti dell’Università Al-Aqsa ha fatto dell’isolamento un progetto fotografico dal titolo “Cento giorni di solitudine”, (esplicito omaggio a Gabriel García Márquez), in mostra in questi giorni al Centro Culturale di Ramallah. Sono quattordici autoritratti costruiti come nature morte dai colori forti che ricordano la pittura fiamminga, una risposta alla mostra “Also this is Gaza” (Anche questo è Gaza), in cui aveva presentato una testa di donna chiusa in un sacchetto di plastica, metafora del soffocamento che già avvertiva. La foto ha attirato l’attenzione di Anthony Bruno, direttore dell'Istituto Francese di Gaza, che le ha organizzato una mostra presso la Galleria di al-Hoash a Gerusalemme Est. Ma le autorità israeliane non le concedono il visto come del resto non gliel’hanno concesso neppure per la mostra a Ramallah: le sue opere possono uscire da Gaza, lei no.


mercoledì 26 agosto 2015

Turchia / Kurdistan: aiutare i Kurdi contro lo "Stato Islamico"




Ankara deve interrompere immediatamente il bombardamento della popolazione civile kurda!




(da Associazione per i popoli minacciati)





Sabato 8 agosto 2015 alle ore 16 in piazza del Grano a Bolzano, la comunità kurda di Bolzano e provincia protesterà contro i bombardamenti dell'aviazione turca contro i villaggi kurdi. L'Associazione per i Popoli Minacciati (APM) appoggia questa ennesima protesta pacifica: da tempo ormai la popolazione kurda sta pagando il prezzo della politica di Ankara, che mostra più interesse ad un appoggio allo Stato Islamico piuttosto che a una soluzione pacifica e concordata della questione kurda.

Con il pretesto della lotta al terrorismo, Ankara, più che impegnarsi nella lotta all'IS, bombarda le postazioni del PKK e di fatto tenta di soffocare le ambizioni di autonomia della popolazione kurda. Come riportano anche molti media, i bombardamenti indiscriminati dell'aviazione turca sui villaggi sono costati la vita a 260 persone, per lo più civili, in soli 7 giorni.

Mentre lo scorso 24 luglio 75 jet dell'aviazione turca bombardavano postazioni del PKK in Iraq solo 3 aerei turchi bombardavano le postazioni dello Stato Islamico (IS) in Siria. Secondo testimonianze dirette ricevute dall'APM di Göttingen, nelle prime ore del mattino del 25 luglio, l'artiglieria turca ha attaccato anche le postazioni delle unità di autodifesa popolari kurdo-siriane opposte alle milizie dell'IS del villaggio di Zornmaghr, situato a ovest di Kobane. Sempre secondo le testimonianze, il 31 luglio l'aviazione turca avrebbe attaccato il villaggio siriano di Hillel, solo poco dopo che le milizie kurde l'avevano liberato dalle milizie dello Stato Islamico. Bombardando coloro che finora sono gli unici ad essere riusciti a limitare e respingere le milizie dell'IS, il governo turco di fatto sostiene proprio l'IS.

L'esercito turco ha attaccato anche molteplici villaggi nell'Iraq del Nord, da Zakho a ovest fino alle montagne di Qandil a est. I villaggi e le località bombardate sono state Mergasor, Khakurk, Piran, Keshan, Mizdor, Kato, Swel, Kesta, Balok e Sidekan. I bombardamenti del villaggio kurdo-irakeno di Zarggele hanno causato dieci vittime civili e undici feriti.

Gli attacchi dell'esercito turco sono stati accompagnati in Turchia da un'ondata senza precedenti di arresti di presunti simpatizzanti del PKK. In seguito agli attacchi turchi il PKK ha dichiarato conclusa la tregua firmata con il governo turco nel 2013 e ha quindi sferrato diversi attacchi a postazioni militari turche causando a sua volta vittime e feriti.

Selahattin Demirtas, leader del Partito Democratico del Popolo (HDP), formazione pro-kurda che alle ultime elezioni in Turchia ha ottenuto uno storico 13%, ha lanciato un appello al governo di Ankara e ai membri del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) chiedendo loro di cessare immediatamente le ostilità e invitando entrambe le parti al dialogo. L'APM non può che associarsi a questa richiesta.

La comunità kurda di Bolzano e provincia invita tutti a partecipare alla manifestazione contro i bombardamenti turchi al PKK sabato 8 agosto, a partire dalle ore 16 in piazza del Grano a Bolzano.

Vedi anche in
gfbv.it: www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150730it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150727it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150624it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150611it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150609it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150522it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150320it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150128it.html | www.gfbv.it/3dossier/kurdi/indexkur.html | www.gfbv.it/3dossier/kurdi/kurtur-it.html
in www:
http://it.wikipedia.org/wiki/Yazidi | http://it.wikipedia.org/wiki/Kurdistan

venerdì 14 agosto 2015

Giornata internazionale dei Popoli Indigeni (9 agosto)



Attivisti indigeni per l'ambiente rischiano la vita - Un nuovo rapporto documenta le sempre maggiori minacce in tutto il mondo.
(da Associazione per i popoli minacciati)


In occasione della Giornata internazionale dei Popoli indigeni (9 agosto), l'Associazione per i Popoli Minacciati (APM) pubblica un nuovo rapporto sulla situazione degli attivisti indigeni. Per gli attivisti indigeni di tutto il mondo chiedere il rispetto dei propri diritti o protestare per la salvaguardia delle proprie terre significa rischiare la vita. In molti paesi del mondo, alzare la voce a favore delle popolazioni indigene comporta la concreta probabilità di diventare vittima di assassinii di Stato, di arresti arbitrari, di essere condannati a lunghe pene detentive ingiustificate, di subire torture o importanti limitazioni della propria libertà di movimento e di parola.

Il nuovo rapporto pubblicato dall'APM mette in evidenza le pratiche adottate da governi e multinazionali per assicurarsi profitti economici senza riguardo delle comunità indigene e delle loro terre. Solamente sull'isola di Mindanao (Filippine) tra ottobre 2014 e giugno 2015 sono stati uccisi 23 leader indigeni impegnati a salvaguardare la loro terra dallo sfruttamento selvaggio imposto da progetti minerari. A Mindanao come altrove nel mondo, gli assassini, che siano sono semplici criminali, paramilitari o forze dell'ordine statali, restano impuniti.

Il rapporto analizza la situazione di dieci paesi in Asia, Centroamerica, Sudamerica e nella federazione Russa e mostra le metodologie violente e senza scrupoli messe in campo da latifondisti, governi e multinazionali per realizzare enormi progetti per lo sfruttamento di risorse naturali quali petrolio, gas, minerali, legname, ma anche di costruzione di dighe o di traffico di droga a scapito della vita non solo dei singoli attivisti ma di intere comunità indigene.

I membri delle comunità indigene sono attivisti per l'ambiente particolarmente motivati, proprio perché la loro sopravvivenza come comunità dipende perlopiù da un ambiente intatto, pulito e sano. La loro agricoltura sostenibile e i fortissimi legami con la propria terra tradizionale da cui traggono sia il senso identitario sia di appartenenza comunitaria dipendono proprio dal rispetto per la natura e l'ambiente. La realizzazione di mega-progetti sulla loro terra implica la distruzione dell'ambiente, l'avvelenamento dei terreni e troppo spesso la messa in fuga o la deportazione delle comunità indigene che ci vivono. Per loro ciò significa cadere nel baratro della povertà estrema, malattia, la perdita dei legami comunitari e delle proprie radici culturali.

La politica ambientale delle nazioni industrializzate sembra limitarsi all'organizzazione e alla partecipazione di vertici per il clima e giornate per la terra, nel proclamare compiaciuti sempre nuovi obiettivi da raggiungere per la salvaguardia del clima, ma di fatto non va molto oltre. Non solo non si impegna a proteggere la vita degli attivisti indigeni, le prime vittime e le maggiormente colpite dalla distruzione ambientale a livello mondiale, ma non pare nemmeno interessata ad ascoltare la loro voce.

Scarica il report [solo in tedesco] in:


https://www.gfbv.de/fileadmin/redaktion/Reporte_Memoranden/2015/Menschenrechtsreport_Nr._77_Indigene_Umweltaktivisten.compressed.pdf

Vedi anche in:



gfbv.it: www.gfbv.it/2c-stampa/2014/140909it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2014/140801it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2013/130806it.html | www.gfbv.it/3dossier/ind-voelker/brasil-tras.html | www.gfbv.it/3dossier/ind-voelker/global-it.html | www.gfbv.it/3dossier/ind-voelker/dekade-it.html
in www:
http://en.wikipedia.org/wiki/Indigenous_peoples

mercoledì 15 luglio 2015

Macerie: l'impegno dei pacifisti israeliani per la causa palestinese





Intrecciando cronaca e letteratura, Miriam Marino racconta l’impotenza dei pacifisti israeliani, sullo sfondo delle due Intifade, il cui impegno si assottiglia e s’infrange contro il muro dell’odio e dei grandi interessi. Nessuno spazio di vita è esente dal dolore. Tikva, la protagonista, però, ha scelto il suo campo. E un “dolore diverso” da quello che l’attanaglia da mesi la raggiunge a Hebron. La bellezza di Jamal la colpisce “come un pugno allo stomaco”, portando per un attimo l’illusione di poter chiudere la porta all’angoscia. Ma la parola “Tajush”, che in arabo vuol dire “insieme”, non sarà per domani. E nell’epilogo del romanzo, lucido e intenso come l’impegno dell’autrice per la causa palestinese, emerge una “dolorosa consapevolezza” : il genocidio dei palestinesi continua, “avvolto nella menzogna e nel silenzio” di quel discorso mediatico che dipinge i conflitti a misura dei potenti. Dalla Prefazione di Geraldina Colotti Giornalista de "Il Manifesto"





L'Associazione per i Diritti Umani ha rivolto alcune domande a Myriam Marino e la ringrazia molto.




Un romanzo che parla di attualità: Tikva, la protagonista, cosa rappresenta all'interno di uno scenario e di una guerra tra due popoli che continua da decenni?


Tikva è come un ponte tra due realtà, due culture, due punti di vista. E’ cresciuta credendo di essere ebrea, per di più ha un temperamento mistico e assorbe, come una linfa vitale per la sua spiritualità, gli insegnamenti della religione che crede essere la sua. Ma la sincerità di tale adesione, l’onestà di intenti di Tikva esigono la coerenza del comportamento rispetto all’interiorità, e la giustizia per lei non è una prostituta che può vendersi a chiunque possa pagarla, per questo scopre presto dietro alle chiacchiere vane la vera natura e gli intenti del paese in cui vive, non solo per quanto riguarda i politici e le loro scelte, ma anche la popolazione a partire dai suoi parenti. Quando nella sua vita irromperà la rivelazione sconvolgente che la inscriverà nella storia palestinese, dopo un trauma iniziale Tikva assumerà su di se anche il carico di questa appartenenza e lo farà con la stessa passione e con la stessa sincerità. Il suo è un percorso di coscienza che la porterà al disvelamento di tutte le menzogne, al guardare negli occhi le vittime, a riconoscere la meschinità e la feroce violenza dell’occupazione israeliana che uccide tortura imprigiona rende la vita impossibile a un popolo intero piangendo e dichiarandosi vittima mentre distrugge, a capire che non c’è una guerra in corso ma un’aggressione sistematica rinnovata ogni giorno e a fare alla fine una scelta di campo. In tutti i momenti della storia Tikva non è mai estranea nè al mondo ebraico nè a quello palestinese, conosce bene entrambe le anime perciò la sua scelta ha un profondo significato. Ma racchiuso nel suo nome c’è anche un pensiero di speranza, speranza è infatti il significato di Tikva in ebraico.


Uno dei temi principali del libro è quello dell'identità: vuole anticipare una riflessione?


Noi umani, in genere, abbiamo bisogno di qualcosa di solido che ci dia sicurezza, che ci racconti chi siamo qual’è la nostra storia, i nostri miti, le leggi interiori a cui ci dobbiamo attenere, e anche le nostre forme d’arte, la nostra cucina, la lingua, insomma qualcosa di certo che ci identifichi, questo accade quando si assume un’identità. In Terra Santa la faccenda dell’identità è profonda e radicata per questo non ne potevo prescindere scrivendo questa storia, ma l’identità forte di Tikva come ebrea renderà forte anche la sua scelta e l’identità forte dei giovani palestinesi che vogliono la libertà nella loro terra renderà ancora più eroiche le loro lotte.
Personalmente riconosco una sola identità: quella di umano appartenente al mondo umano, per me è anche troppo, anche se la mia storia personale non mi permette di liberarmi in un colpo solo di appartenenze che comunque mi hanno formato. Questo superamento dell’identità, che a volte può diventare una gabbia, è accennato nel libro a pag 123, quando Avi consola Tikva in preda allo smarrimento, all’indomani della morte del suo amico Shadi. “Se tu fossi soltanto te stessa?” le dice.


Qual è la situazione dei giovani palestinesi oggi? Quali i loro sogni e quali le loro possibilità...

I giovani palestinesi vivono la tragica situazione dell’occupazione militare israeliana con tutto ciò che questo comporta di sospensione della vita, di checkpoint, di arresti, detenzione amministrativa e quant’altro. Israele si accanisce in modo particolare sui giovani e sui bambini per spezzare la resistenza e il futuro. I genitori dei bambini arrestati subiscono un trauma terribile e i bambini del tutto indifesi nelle mani dei carcerieri subiscono un trauma ancora più grande che condizionerà tutta la loro vita, questo serve a stroncare la resistenza al suo nascere. I loro sogni sono quelli di tutti i giovani, essere liberi, studiare e circolare liberamente, poter viaggiare, non dover chiedere un permesso per ogni sciocchezza, vivere da uomini liberi. I giovani palestinesi sono molto creativi, li troviamo attivi in ogni forma d’arte, a Ramallah ho assistito a uno spettacolo di danza da mozzare il fiato e i danzatori erano bambini e adolescenti, i bambini di Gaza si costruiscono da soli meravigliosi acquiloni con i quali riempiono letteralmente il cielo di colori. Sono bravissimi anche nello sport e sappiamo che cosa fa Israele per stroncare la vita e la carriera dei giovani calciatori. Le loro possibilità ovviamente sono legate alla fine dell’occupazione che spezza qualsiasi iniziativa ogni volta che vuole e blocca qualsiasi manifestazione culturale anche se a carattere internazionale con la partecipazione di artisti e scrittori da tutto il mondo.



Interessante il rapporto tra Tikva e il padre israeliano: come si sviluppa questa relazione? E che ruolo ha la madre?

Il padre di Tikva è un progressista israeliano, laico e abbastanza razionale per capire dove sono le ragioni e dove i torti, ma manca di empatia, come la maggior parte degli israeliani la sua percezione dei palestinesi è negativa. La paura gioca anche per lui un ruolo fondamentale che si esprime nei vani tentativi di tenere separate madre e figlia. Ha però un alibi: il matrimonio fallito con la madre di Tikva e l’abbandono di costei. Il rapporto tra padre e figlia è sereno fino a che la figlia non scopre la sua seconda identità, nascerà una crisi che si risolverà solo verso la fine della storia quando quest’uomo deciderà di esprimere la parte migliore di se e lasciando vecchi rancori e rimpianti di cui si era nutrito sceglie di avere una nuova relazione con un’attivista pro-Palestina. Il suo rapporto con Tikva è sempre stato superprotettivo in quanto non doveva proteggere solo l’incolumità fisica e psicologica di sua figlia, ma anche il suo equilibrio, la sua interiorità di fronte ai possibili assalti dall’esterno che infatti puntualmente ci saranno. Quando le scelte di Tikva saranno conclamate non avrà più bisogno di mantenere questo controllo. La madre avrà il ruolo di portarla per mano all’interno del suo nuovo mondo e della sua nuova famiglia, di farle scoprire il calore e la dolcezza degli affetti familiari, di mostrarle il lato allegro e tenero della sua nuova vita.




Ci spiega il significato profondo del titolo ?

Non avrei voluto dare a questo libro un titolo così drammatico, ma per quanto ci abbia pensato non ne ho trovato uno più adatto. Le macerie ovviamente non sono solo quelle dei palazzi sventrati di Nablus, dei muri delle case crollati del campo profughi di Jenin, della distruzione dell’areoporto e del porto di Gaza, le macerie sono anche quelle che un’intera popolazione si porterà nel cuore, le macerie sono anche quelle delle persone che hanno perso il loro equilibrio psicologico, sono anche le macerie dell’anima di chi sarà stato distrutto nella propria interiorità dal veleno corrosivo della violenza israeliana e risponderà al suo livello, le macerie sono quelle del futuro che sarà sempre più difficile visualizzare.


Da dove nasce questo suo lavoro?

Questo è il terzo libro in cui scrivo dell’Intifada, ma in questo più che nei precedenti, i quali erano raccolte di racconti in cui scrivevo anche di altri argomenti affini. In questo libro, che essendo un romanzo mi ha dato la possibilità di dispiegare di più nel tempo la storia, racconto anche della prima Intifada che è importante non solo per la lotta esemplare che è stata, ma anche perchè serve per capire lo scoppio della seconda Intifada. Nella seconda Intifada la lotta era diventata disperata e la repressione inenarrabile, inconcepibile disumana. Ne avevo sentite di tutti i colori, ma la seconda Intifada che seguii giorno per giorno, con un carico di morte e distruzione che non sembrava mai finire, mi sconvolse in modo particolare e mi riempì di tristezza, di dolore e di rabbia come non era mai successo prima. Il romanzo nasce dal bisogno di raccontare, di esprimere, di lenire questi forti sentimenti, ma anche dal bisogno di spiegare attraverso una storia che cosa è successo realmente, e che cosa significa occupazione militare israeliana.
  
   


giovedì 2 luglio 2015

La Grecia, l'Europa e noi: intervista a Margherita Dean, giornalista greca





L'Associazione per i Diritti Umani ha posto alcune domande alla giornalista Margherita Dean, che vive e lavora ad Atene, per capire con lei cosa sta accadendo in Grecia, dopo le lezioni di Alexis Tsipras, e quale può essere l'apporto del nuovo governo per l'Europa e, quindi, anche per l'Italia.

Ringraziamo moltissimo Margherita Dean per la sua disponibilità.





La Grecia ha attraversato una delle crisi più gravi degli ultimi tempi: quali sono le conseguenze per la popolazione?

Le conseguenze sono state: l'impoverimento, con tagli agli stipendi e alle pensioni, che sono arrivati fino al 40% sia nel settore privato sia in quello pubblico. Al momento lo stipendio minimo garantito, nel privato, è di 560 euro e il nuovo governo vorrebbe portarlo a 760 euro; inoltre, ci sono stati la deregulation dei contratti di lavoro e l'innalzamento dell'età pensionabile a 67 anni e questo ha comportato l'allargamento della forbice tra ricchi e poveri. Nella sola Atene i nuovi “senza casa” sono 30mila e gli altri hanno dovuto mettere mano ai loro risparmi; è aumentata molto anche la pressione fiscale e l'ultimo caso è stato quello della tassa sulla prima casa (ENFIA) che ha considerato i valori catastali dell'immobile quando, invece, quei valori non hanno più alcun contatto con la realtà perchè, in alcuni casi, sono molto più alti rispetto al valore reale. C'è stato, quindi, un ribaltamento totale rispetto alla situazione pre-crisi.

La disoccupazione ha toccato il 27% e ora tenderebbe a stabilizzrasi sul 26% con gli under 256 che sono disoccupati in una percentuale di 65 su 100, senza contare i 300mila laureati che sono andati via dalla Grecia, in cerca di fortuna all'estero.




Ma c'è stata davvero una piccola ripresa?




E' una ripresa sulla carta, dovuta ai meccanismi di scrittura del bilancio. La ripresa si è vista nel settore turistico, ma se ci sono quei tassi di disoccupazione di cui abbiamo parlato prima, è improbabile parlare di ripresa. Non bisogna dimenticare poi che, stando agli accordi precedenti a quello dello scorso 20 febbraio 2015 con la Troika, la Grecia avrebbe dovuto presentare un avanzo primario determinato che strozza tutto il resto.
In Grecia, inoltre, non c'era una base produttiva solida di partenza: è sempre stata un'economia fatiscente, un po' di servizio, e questa è una distorsione come lo è anche quella dei cartelli che sembrerebbe che il nuovo governo voglia mettere al palo.


In che modo Tsipras può far cambiare direzione alla Grecia e all'Europa?


Il nuovo governo sta andando una bozza di riforme strutturali, basate sulla lotta all'evasione fiscale e alla corruzione (che a un'impresa costa il 12%), sulla lotta ai cartelli e al contrabbando, soprattutto di carbuti. Un'altra misura sarebbe quella di rendere funzionale l'apparato pubblico e amministrativo. Infine, ma non meno importante, c'è da ricostruire lo Stato sociale, ma sarà difficile farlo senza i creditori. Gli intenti ci sono: per esempio, è nato il Ministero della Ricostruzione Produttiva, con cui il governo vorrebbe ripensare tutto il modello produttivo greco.

Per quanto riguarda l'Europa: la Grecia, all'inzio, era veramente sola. Negli ultimi tempi c'è stata una timida apertura da parte, ad esempio, di Francia e Italia, ma nessuno ha veramente ancora fiducia nel governo greco.

Secondo me bisogna sperare nella Commissione europea perchè Juncker, conservatore e profondamemte europeista, ha ammesso l'errore nella gestione della crisi greca. Ha, infatti, affermato: “Abbiamo lasciato fare la Troika” che è un organismo non istituzionale che, però, ha fatto politica, attuando imposizioni alla Grecia, senza un controllo. C'è anche una bella immagine che vorrei ricordare: la prima volta che Tsipras ha incontrato Juncker a Bruxelles, Juncker lo ha preso per mano...

Probabilmente tutti si stanno rendendo conto che se non si tratta con Tsipras, si finirà per trattare con Marine Le Pen.



Quali sono i motivi dell'alleanza con gli indipendenti greci e l'apertura verso Anel?
 

I greci erano già preparati a questo: in campagna pre-elettorale gli indipendenti hanno fatto addirittura uno spot pubblicitario con un trenino in cui il conducente era il piccolo Alexis, ma il capo degli Anel sarebbe stato quello che lo avrebbe supportato.

Anel è un partito di destra, ultranazionalista, ma il punto di contatto è la retorica, l'ideologia contro l'austerità (e lì si possono incontrare tutti).

A sinistra, Tsipras non trova nessuno perchè il Partito comunista ha commentato la riunione con l'eurogruppo allo stesso modo di Alba dorata, quindi c'è una chiusura totale.

In questa situazione il capo degli indipendenti ha ottenuto il Ministero della Difesa che è un ministero abbastanza isolato: è vero che c'è anche la Nato, ma il Ministro degli Esteri è appena stato in Russia e in Cina. Questo dimostra che la Grecia si sta muovendo e non dialoga solo con il resto dell'Europa. La posizione geopolitica della Grecia è importante (vedi Libia, Ucraina...) e questo dovrebbe far riflettere.