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giovedì 7 gennaio 2016

Nuovo sito

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mercoledì 23 dicembre 2015

Burundi e Nigeria: tra Passato e Presente




Burundi
Mancato impegno dei governi africani nella gestione della crisi in Burundi


L'Associazione per i Popoli Minacciati (APM) esorta i governi africani a impegnarsi maggiormente per una soluzione politica della crisi in Burundi e per la tutela della popolazione civile dalle violazioni dei diritti umani. Non mancano certo gli appelli alla pace e al dialogo delle organizzazioni non governative e dei singoli politici, ma sia l'Unione Africana (UA), sia la Comunità dell'Africa orientale (EAC) sia la Conferenza Internazionale sulla regione dei grandi laghi sembrano muoversi con troppa esitazione, senza molte idee e con poca coerenza. Gli interessi nazionali , la concorrenza tra di loro e la mancante neutralità così come la mancanza di volontà politica e la divergenza di opinioni in questioni basilari intralciano ogni tentativo di trovare una soluzione politica per la crisi in Burundi. I governi africani hanno perso un'occasione per mostrare responsabilità in una situazione di crisi.

Il fallimento dell'EAC è probabilmente l'esempio più eclatante della mancata assunzione di responsabilità dei governi africani. Nel vertice dell'EAC previsto per lo scorso 30 novembre 2015 la presidenza dell'organizzazione sarebbe dovuta toccare al Burundi. Per evitare discussioni interne e non urtare il discusso governo del Burundi scegliendo un altro paese per la presidenza, l'EAC ha semplicemente rimandato il vertice a data da definire. L'atteggiamento con cui si è scelto di mettere la testa nella sabbia piuttosto che affrontare i problemi, certamente non può contribuire in modo costruttivo alla risoluzione della grave crisi che scuote il Burundi.

Anche l'Unione Africana (UA) ha per mesi mantenuto una posizione di attesa. Il presidente ugandese Yoweri Museveni incaricato dall'UA di mediare per un dialogo in Burundi sembra invece essere occupato più con la propria campagna elettorale che con la crisi in Burundi e la sua non sembra essere una posizione neutra. Il dialogo in questo modo non fa progressi. Inoltre nei colloqui finora tenuti sulla crisi in Burundi non si è mai tenuto conto della situazione della popolazione civile. Nonostante l'UA abbia deciso delle sanzioni contro il Burundi e il Consiglio di Sicurezza dell'Unione Africana abbia in ottobre 2015 proposto di prepararsi a un intervento delle truppe di pace africane, tale intervento rischia di creare maggiori tensioni per la mancata neutralità dei paesi vicini del Burundi. Inoltre non è chiaro se la missione di pace africana voglia far impiegare le truppe dell'"African Capacity for Immediate Response to Crises (ACIRC)" o dell'"African Standby Force (ASF)". Non manca certo il sostegno finanziario a entrambe le truppe, ma loro efficienza in situazioni di crisi è più che dubbia.


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IL DOCUMENTARIO “DEVIL COMES TO KOKO” al MUDEC di Milano






DEVIL COMES TO KOKO”, che si terrà all'Auditorium del Mudec mercoledì 23 dicembre 2015 alle ore 19.00.


Il Mudec - Museo delle Culture - presenta “Devil comes to Koko”, il documentario prodotto da Fabrica - centro di ricerca sulla comunicazione di Benetton Group - nell’ambito del programma di eventi a cura del Forum della Città Mondo.
Il documentario si concentra su due brutali episodi avvenuti in Nigeria, visti attraverso lo sguardo di Alfie Nze, regista teatrale nigeriano trasferitosi in Italia negli anni novanta.
Il film narra della sanguinosa invasione inglese di Benin City del 1897 e dello scandalo dei rifiuti tossici scaricati nel 1987 nel porto della città di Koko.
A partire dai due eventi drammatici, il regista percorre un viaggio alla ricerca di radici, di complessità intime, visioni oniriche e corto circuiti tra comunità locali e politiche internazionali.
La direzione creativa del progetto è di Alfie Nze, regista alla sua prima opera e già vincitore nel 2013 del Premio Mutti Amm, premio dedicato ai registi migranti attivi in Italia, e Cineteca di Bologna.
Prodotto da Fabrica, da sempre luogo di sperimentazione, di confronto, di crescita culturale e attento all'espressione libera di ogni arte.

La proiezione, della durata di circa 50 minuti, sarà ad
ingresso libero fino ad esaurimento posti, con prenotazione attraverso la piattaforma eventbrite al seguente link:


http://www.eventbrite.com/e/devil-comes-to-koko-proiettato-al-mudec-tickets-20033760517


martedì 22 dicembre 2015

Una giornata nell'agenzia di stampa delle donne curde



Kurdistan, a Diyarbakir arrestata una giornalista curda La reporter Beritan Canozer è stata arrestata a Diyarbakir, nel corso di una manifestazione. Fa parte dell'agenzia di stampa JinHa, gestita interamente al femminile



di Martino Seniga (da www.rainews.it)






Turchia, due morti negli scontri a Diyarbakir tra curdi e polizia di Martino Seniga 17 dicembre 2015. E' stata arrestata mentre cercava di svolgere il suo lavoro, raccontare quello che stava accadendo durante la manifestazione per chiedere la fine del coprifuoco nel Sur, la città vecchia di Diyarbakir. Si chiama Beritan Canözer, la giornalista dell'agenzia di stampa JinHa, all’ultimo piano di uno degli edifici più alti di Diyarbakir. Jin in curdo vuol dire donna e qui lavorano solo donne. Le giornaliste sono una decina nella “capitale” e 5 o 6 dislocate in altre città del Kurdstan. Le notizie scritte in curdo, turco e inglese non raccontano solo la lotta quotidiana delle donne e degli uomini curdi in Turchia, Rojava (Siria), Iraq e Iran ma anche le storie di violenza contro le donne che arrivano da tutto il mondo. Qualche volta si trovano anche notizie positive, che raccontano i risultati ottenuti dalle donne nei campi del rispetto dei diritti umani e dell’uguaglianza. Da quando, dopo le elezioni del 6 giugno, è stato interrotto il processo di pace tra il governo turco e i rappresentanti del movimento curdo, la homepage è generalmente riempita dalle notizie dei coprifuoco e degli scontri, che da alcuni mesi caratterizzano la vita quotidiana in molti distretti del Kurdistan turco. L’attenzione delle giornaliste si concentra in particolare sui casi in cui tra le vittime dei conflitti ci sono donne e bambini.




Tra una notizia e l’altra scambio qualche parola con una delle collaboratrici mentre beviamo un caffè curdo nella cucina comune affianco alla redazione. Mi racconta che i proventi del lavoro dell’agenzia vengono ridistribuiti tra tutte le redattrici secondo i loro bisogni. Se una giornalista deve mantenere uno o più bambini o un genitore malato riceve un compenso maggiore di quello che va ad una single che vive con i genitori. Anche le decisioni editoriali vengono prese in modo collegiale, non c’è un direttore anche se una delle giornaliste più anziane è considerata quella con maggiore esperienza. Finisco il caffe curdo, che è sempre lo stesso caffè che i turchi chiamano caffè turco e i greci caffe greco.

venerdì 18 dicembre 2015

Umanità in transito verso il nulla

 di Sarantis Thanopulos   (da Il Manifesto)
 
Il dramma del migrante non sta nel suo essere in «mezzo al guado»: non più nella terra che lascia, non ancora nella terra che vuole raggiungere. Sta nel fatto che nelle migrazioni, anche quelle dall’esito più felice, si deve sempre attraversare una terra di nessuno, in cui non si profila altro all’orizzonte che cielo e deserto o acqua. In questa terra più si mette alle spalle ciò che si è lasciato, più appare lontana, irraggiungibile la meta del proprio cammino.
C’è nella migrazione una dimensione ineliminabile che rappresenta il «negativo» del viaggio di Ulisse. L’Itaca che ti dà l’avventura del viaggio (Kavafis), la meta di ritorno che più l’avvicini più si allontana –allargando definitivamente l’orizzonte della tua esperienza– non fa parte dell’esilio quando esso appare definitivo, un andarsene per sempre, una volta tolti gli ormeggi. Il viandante perde la condizione prima del viaggio –il punto di partenza come meta di un ritorno da rimandare il più a lungo possibile– e cerca di ritrovarla da un’altra parte. Andando avanti nello spazio, viaggia a ritroso nel tempo. L’opposto di Ulisse, che, tornando indietro nello spazio, viaggia avanti nel tempo.
La migrazione dei nostri tempi è evento particolarmente traumatico, sradicamento totale che può portare a un ritiro catastrofico del proprio desiderio dal mondo.
Il «cittadino del mondo» non dimora qui, neppure l’esploratore alla ricerca di terre nuove (per necessità o spirito di avventura). La scena è abitata da naufraghi che la deriva può portare a una spiaggia accogliente o a sbattere sugli scogli.
Le spiagge e le scogliere nella nostra civiltà iper-tecnologica e sovraffollata sono fatte di materia umana.
Sulle sponde dell’Occidente siamo noi in carne e ossa a tendere la mano ai senza terra o a restare a braccia conserte facendo cadere l’acrobata di turno nel vuoto. Sennonché, noi privilegiati, con la presunzione di potere scegliere tra accoglienza, ostilità e indifferenza, siamo ugualmente naufraghi, perduti e senza approdo visibile nel luogo in cui viviamo. Orfani dell’altro, di colui che vive dall’altra parte del confine (della strada, dello steccato) o in un altrove oltre la sottile linea di un orizzonte lontano, diffidiamo di noi stessi e abbiamo bisogno di «infiltrati» con cui prendersela, per non impazzire.
Si nasce per sradicamento e se l’esperienza, di per sé lacerante, della separazione dal sentimento di appartenenza, non esita in rovina, è perché l’altro si costituisce come sponda necessaria per la scoperta del mondo e il radicamento in esso. Questo radicamento non è quello di un albero: è fondato, al tempo stesso, sul senso di appartenenza a un posto e sul viaggio. Se tutto va bene, alloggiamo nel mondo in modo eccentrico, isterico: ben radicati e in transito, cittadini e apolidi.
Il sentimento di appartenenza è da sempre frainteso come patto tribale difensivo, che divide il familiare dall’estraneo. In realtà il legame con le proprie origini è sentimento di auto-appartenenza, presenza in sé che presente l’alterità. Le nostre radici sono la vita nel suo spontaneo fluire, l’essere tutt’uno con le cose vive del mondo che sono parte di noi, sentono e respirano con noi. L’appartenenza a se stessi uniti alla materia prima della vita, è alla base del sentire comune. Questo sentire non è chiuso in un posto: l’affinità è presentimento di ciò che è diverso.
Dove l’appartenenza perde il suo legame con l’alterità — il principio della differenza che plasma la materia umana– si perde il senso stesso del viaggio. L’umanità è in transito verso il nulla, mentre l’indifferenza danza con la paranoia.

domenica 13 dicembre 2015

La situazione odierna in Medioriente e le prospettive possibili nel conflitto israelo-palestinese



di Monica Macchi



LECTIO MAGISTRALIS DI GIDEON LEVY



Israele è come certi maestosi alberi del New England in Usa,

che sembrano solidissimi e forti, ma crollano all’improvviso,

perché sono marci dal di dentro.

Ecco la società israeliana è ormai persa,

ma dalle vostre società civili può arrivare una scossa,

attraverso il boicottaggio e altre iniziative”

Gideon Levy



Mercoledì scorso alla Casa della Cultura di Milano, organizzata dall’Associazione Oltre il Mare e senza patrocini istituzionali, la conferenza stampa del pomeriggio è andata deserta ma all’incontro serale con Gideon Levy la sala era strapiena per ascoltare una versione lontana dal pensiero unico mainstream…eccola anche a voi:
 
Figlio di rifugiati europei, giornalista di Ha’aretz e di Internazionale, Gideon Levy si autodefinisce come il tipico prodotto del sistema socio-educativo israeliano: convinto dello status di vittima obbligata ad una difesa permanente, non ha mai sentito parlare della Nakba fino agli anni ‘80 quando, durante la Prima Intifada, va in Cisgiordania come inviato e scopre “il dramma nel cortile dietro casa”, dramma che pochi giornalisti documentano. Ed è proprio per questo ha iniziato e continua a denunciare i crimini commessi ai danni dei palestinesi: “ci sarà un giorno in cui ci verrà chiesto conto di tutto questo. Ed è giusto che ne resti memoria. Gli israeliani non sono consapevoli e non sono informati, ma non potranno dire ‘io non sapevo’”.



Il filo conduttore di questo intervento è la domanda di apertura che Levy fa al pubblico e a sé stesso: “Perché un popolo generoso come gli israeliani che danno spesso aiuti nelle calamità internazionali (come è successo recentemente dopo il terremoto in Nepal e con i rifugiati siriani ospitati nelle sinagoghe di diversi Paesi) non ha dubbi morali e non protesta per il dramma e i crimini che stanno compiendo contro i Palestinesi?”

La risposta parte dalla constatazione che Israele è l’unico Stato al mondo con 3 regimi al suo interno: una democrazia liberale per gli ebrei (seppur resa debole e fragile da una legislazione anti-democratica); un regime discriminatorio per la minoranza palestinese (20% della popolazione) che partecipa solo formalmente; un regime totalitario e di apartheid nei Territori Occupati Militarmente. Dunque la prima cosa da fare è sfatare il mito di “Israele unica democrazia del Medio Oriente”: una democrazia non può essere “a metà” solo per un gruppo privilegiato di cittadini; o c’è uguaglianza o non c’è democrazia. E la seconda immagine iconica da abbattere è “l’eccezionalismo”: dall’unicità della Shoah per cui gli ebrei sono le uniche vittime della Storia..e anzi sono vittime anche degli occupati che impongono loro l’occupazione (Golda Meir è arrivata a dire non perdoneremo mai i Palestinesi per averci obbligato a uccidere i loro figli”) fino alla convinzione di essere il “popolo eletto” per cui le norme del diritto internazionale valgono solo per gli altri popoli e non si applicano agli ebrei che hanno invece un diritto di origine divina la cui fonte è direttamente nella Bibbia. Parallelamente si sta assistendo anche da parte dei media ad una deumanizzazione e criminalizzazione dei Palestinesi rappresentati come sub-umani (quindi obtorto collo non si possono neppure applicare i diritti umani a “loro”); sono “intrinsecamente cattivi”, “nati per uccidere” e la recente “Intifada dei coltelli” viene raccontata come se accoltellare ebrei fosse il nuovo hobby degli adolescenti palestinesi… esattamente come altri adolescenti collezionano farfalle, figurine o francobolli.

Gideon Levy non vede quindi una possibilità di cambiamento endogena nella società israeliana, che negli anni è diventata sempre più nazionalista, razzista e militarista e delegittima voci coraggiose ed impegnate come quella di “Breaking the silence”, un’associazione che raccoglie e diffonde testimonianze di soldati sui crimini dell’occupazione. Ripone invece speranze in variabili esogene, non tanto nell’Europa troppo paralizzata dal suo passato e dalla sua storia né negli Stati Uniti che danno un supporto cieco ed automatico a Israele al punto tale che Gideon Levy chiede provocatoriamente: “chi è il burattino e chi la super-potenza?” ma nel Sud-Africa… o meglio nel modello del Sud-Africa. Infatti dopo un viaggio a Johannesburg, si è reso conto che l’apartheid è stato sconfitto dal boicottaggio e dal fatto che i responsabili siano stati chiamati a render conto dei loro comportamenti: solo la giustizia può disinnescare l’odio. E ha cambiato idea sull’ipotesi dei 2 Stati, di cui è stato a lungo sostenitore. Visto che è dal 1967 che esiste un unico Stato ma il problema è il regime, propone di applicare il principio “una testa, un voto” perché “Israele non avrà altra scelta che accettare o essere costretta ad ammettere di praticare l’Apartheid. E chi è disposto ad accettarlo nel 2015?”.



sabato 28 novembre 2015

Stay human - Africa: Cosa succede in Burundi?


di Veronica Tedeschi


Trovare notizie chiare su quello che sta succedendo in Burundi in questi ultimi mesi è abbastanza difficile, la guerra che sta vivendo questa popolazione sta passando in secondo piano, almeno nel giornalismo italiano.

Questo non significa che sia una guerra “meno importante” o con “meno morti”: da aprile 2015, quando sono scoppiate le violenze tra il governo e gli oppositori per la candidatura ad un terzo mandato del Presidente Pierre Nkurunziza, sono morte circa duecento persone.

Duecento persone che rappresentano un popolo che non ha nessuna intenzione di mollare, che non vuole sottostare al comando di un Presidente completamente disinteressato al benessere della sua popolazione, colpita per il 66% da denutrizione e caratterizzata da un tasso di povertà altissimo.



Lunedì mattina abbiamo assistito quasi 60 feriti arrivati al pronto soccorso in un breve lasso di tempo” spiega Richard Veerman, responsabile dei progetti Medici Senza Frontiere in Burundi. “Abbiamo aperto una seconda sala operatoria ed eseguito cinque interventi chirurgici d’emergenza nelle ore immediatamente successive. Ci impegniamo a portare cure mediche di qualità alle persone, senza distinzioni di razza, religione o orientamento politico”.



Per la prima volta la guerra in Burundi non riguarda solo le differenze etniche ma è legata soprattutto ad una lotta di potere. Nel maggio scorso ci fu un colpo di Stato, fallito, che vide i responsabili arrestati poco dopo. Nonostante questo, le manifestazioni e le morti sono continuate, tra il 3 e il 4 ottobre sono morte 15 persone negli scontri a Bukumbura tra la polizia e alcuni giovani che si opponevano al terzo mandato di Nkurunziza. Il 13 ottobre, almeno 7 persone sono morte per colpi di granata e arma da fuoco e ancora, altre 3 persone hanno perso la vita lo scorso 27 ottobre, giorno in cui il Presidente ottenne un terzo mandato. La violenza è ormai norma nel paese, dilaniato da una crisi politica di livelli eccezionali che ha costretto 200mila burundesi a lasciare il paese.

In quest’ottica si può leggere la creazione di una nuova polizia antisommossa, istituita il mese scorso e chiamata ad intervenire in caso di rivolte; secondo alcune fonti di stampa, sarebbe composta da 300 uomini, tra tiratori scelti e ufficiali al comando. La polizia da sola non regge più il peso di queste manifestazioni che, ormai, continuano da ben 8 mesi e che non cesseranno facilmente.

Il 7 novembre è scaduto l’ultimatum di cinque giorni dato dal Presidente ai suoi oppositori per consegnare le armi spontaneamente in cambio di un’amnistia. Questo invito di Nkurunziza non è stato accolto, infatti, nella notte tra il 7 e l’8 novembre altre 9 persone sono state uccise in un bar a Bukumbura.

Il 9 novembre è iniziata l’operazione di disarmo avviata dalla polizia in quartieri controllati dall’opposizione, il giorno stesso durante tali eventi sono morte altre 2 persone.

La situazione in Burundi peggiora progressivamente senza che la comunità internazionale riesca (o voglia) fermare la spirale di violenza che sta travolgendo questo paese.

Ricordiamo, inoltre, che nei prossimi mesi anche le popolazioni di Rwanda e Repubblica Democratica del Congo saranno chiamate alle urne, nella speranza che le conseguenze della guerra in Burundi non invadano anche gli altri Stati africani.




Il Burundi è un paese fragile e il modo in cui questa crisi verrà risolta avrà sicuramente ripercussioni sia sulla popolazione che sulle conquiste politiche future. Il tutto potrebbe concludersi con soluzioni militari molto pericolose, non solo per il Burundi ma per tutta la regione.



martedì 10 novembre 2015

Fotografia: libertà di espressione, etica e e diritto alla dignità




L' Associazione per i Diritti umani ha partecipato al Festival di Fotografia etica che si è svolto a Lodi dal 10 al 25 ottobre.

Come ogni anno la manifestazione ha proposto al pubblico molte esposizioni di autori italiani e stranieri che lavorano sull'atualità, calandosi nelle situazioni più gravi che attanagliano l'umanità: conflitti, razzismi, malattie, miseria, per citarne solo alcune. Durante le giornate dedicate alla fotografia, gli organizzatori organizzano anche approndimenti e interviste; quest'anno abbiamo assistito ad un convegno dal titolo “Etica e fotografia: un rapporto complesso” alla presenza di Elio Franzini, Sandro Jovine, Gianmarco Maraviglia, Pirtro Collini, Lucy Conticello, Marco Capovilla e Emanuela Mirabelli.



Riportiamo, per voi, alcuni interventi.



Elio Franzini inizia citando Walter Benjamin il quale soteneva che la fotografia non ci fa cogliere il senso della realtà perchè è una risproduzione della stessa. Restituendo una interpretazione della realtà, non si consegna una verità reale. Ma la dimenticanza consiste nel fatto che la fotografia è una RAPPRESENTAZIONE per cui, quando si parla di fotografia o di un'immagine con una valenza comunicativa, la loro caratteristica è quella di racontare qualcosa che sta dietro, che rinvia ad un senso che non si esaurisce con l'immagine in sé. Per questo motivo tali immagini possono avere anche una certa pericolosità per il pubblico: qual è, infatti, il loro limite? C'è un limite per la rappresentazione?

C'è un modo etico POSITIVO che è quello di far intuire la storia sottostante; in questo caso l'immagine è simbolica, è una struttura di rinvio a qualcos'altro. Ma c'è anche un modo etico NEGATIVO: qui il fotografo deve chiedersi se la realtà ripresa è comunicativa oppure se è irrapresentabile. Alcuni oggetti non andrebbero ripresi perchè offenderebbero la sensibilità degli spettatori? Kant risponde a questa domanda, ponendo un limite soggettivo alla rappresentazione: non possiamo rappresentare ciò che ingenera in noi disgusto (che è un rifiuto anche fisico perchè i nostri sensi non accettano quell'immagine).

La risposta del filosofo, però, non è del tutto soddisfacente perchè c'è un altro problema: Lessing, già nel '700, scrive un Manifesto dell'immagine moderna in cui la rappresentabilità o meno di una scena dipendeva dai segni da cui era costituita. I segni dell'immagine sono icnici (non diacronici) per cui noi spettatori non recepiamo l'immagine come brutta o violenta. Ciò significa che il mondo delle immagini è pericoloso quando rappresenta lo sgardevole perchè l'immagine stessa non ha intrinsecamente quei segni che fanno accettare allo spetttaore ciò che è disturbante.
E' anche vero, d'altra parte, che il disgustante mette in luce la nostra mancanza di accettazione del Male. Il pittore Paul Klee si chiedeva: bisogna che tutto sia conosciuto? La risposta del Prof. Franzini è: “Io non lo credo”.



Pietro Collini lancia alcune provocazioni. Vedere, registrare, mostrare: questo sarebbe il motto del bravo fotografo. Ma questo non è possibile perchè l'obiettività assoluta non esiste, dato che – attraverso il background culturale, la fede politica o la religiosità – il fotografo è condizionato dalla propria vita, dalle esperienze, dalle opinioni e da questo nascono le manipolazioni delle immagini e dell'opinione pubblica.
Trovare sempre temi e stili nuovi: questo è l'imperativo della fotografia moderna e questo ha generato anche un'ansia nel professionista che – soprattutto da quando la fotografia si è accostata alla politica – ha iniziato ad usare maggiormente la tecnica (luci e colori), finendo col distaccarsi progressivamente dalla documentazione della realtà.



Marco Capovilla fa riferimento ai principi etici del giornalismo perchè anche la Fotografia deve adottarne i principi e le logiche. Esiste un codice di autodisciplina (che non è una legge dello Stato) affidato alle associazioni di categoria (la deontologia professionale), secondo cui anche il fotografo deve aderire ai fatti, deve essere onesto e imparziale, autonomo e indipendente e deve avere umanità nei confronti dei soggetti deboli rappresentati e consapevolezza della responsabilità sociale del proprio operato. Questo principi, come sappiamo, vengono spesso disattesi e con la fotografia è più facile violarli perchè le immagini sono maggiormente manipolabili grazie alla tecnologia.


Gianmarco Maraviglia dirige una rivista che si chiama “ECHO” perchè i grandi eventi di attualità lasciano un'eco per cui lui e i suoi collaboratori raccontano le conseguenze di tali eventi.
Racconta di un progetto intitolato “Break the silence” realizzato in Egitto, un paio di anni fa. Per realizzarlo ha ascoltato molto musica hip hop, ha seguito i ragazzi che usano gli skates e fanno parkour, ha frequentato il modo dei tatuatori: ha, cioè, ripreso un mondo underground egiziano, strettamente legato alla rivoluzione e ha dimostrato, con i suoi scatti, che quei giovani stavano mettendo in atto non tanto una rivoluzione politica, ma una rivoluzione socila,e culturale e di impegno civile.

Poco prima della sua partenza per l'Egitto, racconta Maraviglia, riceve una telefonata di intimidazione da parte dei Fratelli musulmani. Lui parte ugualmente e realizza il progetto. Viene contattato, dopo qualche tempo, dal Washington Post che pubblica le sue foto e, nel giro di qualche minuto, il suo account di Facebook viene riempito di insulti, soprattutto in linga araba. Cos'era successo? Era successo che la testata principale egiziana, El Watan, aveva preso le foto del Washington Post, modificate, manipolando titolo e articolo e aveva strumentalizzato politicamente il reportage.

Il fotografo racconta anche di un'esperienza professionale sui rifugi siriani di origine armena. Per realizzare questo progetto, ha cercato alcuni sopravvissuti alla battaglia di Kessab ed entra in contatto con persone che erano riuscite a scappare grazie all'aiuto di un'associazione: tra queste c'era un ragazzino che gli racconta la propria storia terribile. Appena usciti dalla ONG, il ragazzino gli passa un numero di telefono per prendere un appuntamento da soli: durante l'incontro dà al fotografo una versione totlamente diversa. Racconta che, in realtà, lui era scappato per sfuggire all'esercito di Assad che aveva messo in mano a tutti i bambini e ragazzi un fucile, ma lui non voleva andare a combattere al confine con la Turchia.

Questo esempio mette in luce il serio problema della propaganda.














venerdì 25 settembre 2015

Guida sanitaria per espatriati


Con piacere vi informiamo che il progetto Siscos - Guida sanitaria per espatriati - è disponibile online, con un sito web aggiornato e facilmente navigabile. Lo scopo è quello di fornire alcune semplici norme di comportamento per i tanti problemi sanitari che tutti gli operatori delle ONG convenzionate con SISCOS possono dover affrontare nelle missioni all’estero.
“Siamo convinti che partendo dalla prevenzione sanitaria si possa contribuire alla sicurezza degli operatori delle Ong” – ha sottolineato Cinzia Giudici, Presidente della Siscos, in occasione della presentazione della Guida alla conferenza “La sicurezza è una cosa seria”, organizzata dalle tre reti ONG alla Farnesina con la presenza del Ministro degli Affari Esteri Paolo Gentiloni. E’ per questo che la Guida consente di raggiungere i migliori siti internazionali che approfondiscono il tema della protezione del personale impegnato in missioni in paesi tropicali e non, offrendo aggiornamenti costanti
sulle emergenze sanitarie inatto.

La Guida ospita inoltre il dossier “
Suggerimenti per la gestione dei rischi e la sicurezza degli operatori delle Organizzazioni di Cooperazione e Solidarietà Internazionale”, predisposto dalle reti di Ong Aoi, Cini, Link2007 in collaborazione con l’Unità di Crisi del MAECI, con informazioni e suggerimenti utili a fornire una visione d’insieme delle problematiche relative alla sicurezza in contesti potenzialmente pericolosi.


Il sito della guida sanitaria è visitabile al link http://guidasanitaria.siscos.org, oppure raggiungibile dal portale Siscos www.siscos.org

martedì 15 settembre 2015

Corso di narrazione sociale...anche a MONZA !


L'ASSOCIAZIONE PER I DIRITTI UMANI



L'Associazione per i Diritti Umani



in collaborazione con ARCI SCUOTIVENTO

Via Monte Grappa, 4B - MONZA


  


presenta

corso di narrazione civile

con STEFANO VALENTI, autore del romanzo “La fabbrica del panico”, vincitore del Premio Campiello – Opera prima



LA NARRAZIONE AUTOBIOGRAFICA: DAL RACCONTO ORALE AL RACCONTO SCRITTO

In particolare: narrazione sociale e civile



La narrazione è un affidabile metodo di condivisione in quanto permette al soggetto narrante di esporre fatti reali inerenti la propria vita. Nel raccontarla, il narratore tende a intensificare la conoscenza pratica che ha di sé stesso e del mondo perché, attraverso la trasposizione in forma orale e scritta degli eventi che ha vissuto, scopre un significato più profondo della sua esistenza. Fin da epoche remote, e indistintamente ai quattro angoli del mondo, le storie tramandate sono state veicolo di trasmissione culturale e di costruzione civile.

La narrazione è una metodologia che permette di raccontare sé stessi e il proprio vissuto, ma trasformando l’esperienza personale e il proprio punto di vista in un racconto interessante e fruibile da un pubblico vasto e variegato. In particolare nel caso di vicende drammatiche e dolorose, o quando ci si trova in momenti di grande cambiamento personale e sociale, l’esigenza di raccontare si fa impellente, sia che si tratti di costruire memoria per quelli che verranno sia che si tratti di verbalizzarla per riuscire a chiarire quello che accade.

Per narrazione s’intende quindi sia l’arte di usare il linguaggio, la vocalità e la gestualità, sia quella di verbalizzarlo, per rivelare a un pubblico specifico gli elementi o le immagini di una storia la cui fruizione primaria è in tempo reale e da persona a persona.

La narrazione trova il proprio raggio d’azione non solo in ambito performativo ma anche nel settore dell’istruzione, della mediazione culturale, e del racconto civile.

RACCONTARE SE STESSI E RACCONTARE GLI ALTRI

Obiettivi: aprirsi e condividere con altri un racconto personale significa sapere esprimere il proprio punto di vista e la propria sensibilità attraverso simboli archetipi universali e tradurre il proprio vissuto in un linguaggio artistico filtrato dalla realtà.

Regalando e condividendo una storia personale si può raggiungere la giusta distanza dall’esperienza o dall’emozione vissuta, che consente di oggettivarla e relativizzarla, facilitando così il superamento dei conflitti.

Condividere e scambiarsi storie, consentendo ad altri di collaborare alla creazione del racconto, crea un forte sentimento di gruppo, di fiducia reciproca e di intimità. Chi impara a raccontare impara anche ad ascoltare meglio, a cogliere nella voce, nelle parole e nei gesti di chi si incontra lo spirito, il senso profondo della narrazione. Essere capaci di ascoltare attivamente, di raccogliere le storie che incontriamo o che ci vengono regalate, ci apre agli altri, ci avvicina a loro in uno scambio piacevole e gratificante per entrambi.

SCRIVERE IL RACCONTO



Obiettivi: il Laboratorio mira a risvegliare la capacità narrativa e ad esercitarla e arricchirla attraverso il confronto con altre narrazioni. Raccontare è ricordare e trasmettere, affidare all’immaginario dell’altro e condividere con l’altro la propria vita. Narrare è anche una necessità civile, e attraverso la narrazione l’adulto rielabora e conserva il proprio vissuto, così come il ragazzo impara a rappresentarsi il mondo.



La lettura di brani di narrativa italiana moderna e contemporanea, con particolare riferimento al romanzo civile, alla narrativa d'inchiesta, al reportage narrativo – le forme che ha assunto la più interessante narrativa italiana – stimolerà la fantasia e permetterò il confronto su diversi generi di narrazione arricchendo l'immaginario civile dei partecipanti e determinando l’affabulazione, l'Intreccio dei fatti e degli eventi che costituiscono la trama di un'opera narrativa facilitandone la produzione.

Partendo dagli stimoli ricevuti i partecipanti svilupperanno racconti e il laboratorio diventerà una officina di narrativa in costruzione. I racconti saranno analizzati e rielaborati insieme, per sperimentare come nella verbalizzazione tutto si trasforma e si tradisce.

Temi: tecnica base della narrazione, metodo delle immagini, memorizzazione e narrazione, raccolta del materiale, costruzione dello stile personale.

Destinatari: studenti, insegnanti, professionisti, operatori culturali, sociali e sociosanitari.

Durata minima sei ore. 4 incontri di due ore ciascuno.

Costi: ( totale per 6 ore : 120 euro)



DATE e ORARI:



venerdì 15 gennaio, 22 gennaio, 29 gennaio e 5 febbraio



alle ore 20.45





La quota partecipativa sarà corrisposta durante il primo incontro.





Il laboratorio parte con una partecipazione minima di 10 persone



Per adesioni scrivere a: peridirittiumani@gmail.com



Vi aspettiamo numerosi! E fate passaparola...grazie!



venerdì 4 settembre 2015

Prigionieri della violenza




Se percepiamo molta violenza, più che nel passato, è perché alla nostra sensibilità, resa acuta dalla storia, si aggiunge l’effetto prodotto dalla risonanza mediatica.


di Donatella Di Cesare (da La lettura – Corriere della Sera)




Il mondo è pieno di violenza. Subdola, strisciante, imprevedibile, ci attende in agguato a ogni angolo, ci coglie di sorpresa a ogni istante. La violenza è il sottofondo della nostra vita quotidiana, il basso insistente e perturbante, il ritmo stonato e importuno, la cadenza stridente e sconcertante. La violenza è all’ordine del giorno. Non c’è forse parola che abbia un rilievo analogo nel vocabolario dell’attualità. Ma è davvero un fenomeno così esteso? Oppure parliamo di violenza in un senso troppo ampio e impreciso? Certo è che il dilagare della violenza sembra lo spettacolo che si ripete sotto gli occhi di tutti.
Eppure le statistiche dicono che le cose non starebbero così. Nel complesso le cifre dell’atto violento per eccellenza, l’omicidio, sono in calo sia nel nostro Paese, sia in generale in tutti i continenti, anche se, in base a un recente rapporto dell’Onu, restano differenze considerevoli tra Sud e Nord del globo.
Se dovessimo prestar fede alle cifre, potremmo quindi trarre un respiro di sollievo. Il Novecento, inaugurato da grandi speranze e finito nella più buia disperazione, segnato dalla mattanza delle guerre mondiali, dalla brutalità delle dittature, dalle fabbriche dello sterminio, è deflagrato in una esplosione di violenza senza precedenti. Dopo il secolo breve e crudele, ci siamo ripromessi: «Mai più!». Questo «mai più!» impronta il nostro atteggiamento verso ogni forma di violenza, ci rende guardinghi e vigilanti. Ci rende, soprattutto, estremamente sensibili.
Forse mai come oggi la violenza è stata condannata moralmente, stigmatizzata politicamente, sanzionata giuridicamente. Per noi rappresenta la sconfitta dell’etica, l’attentato alla convivenza civile, la ferita alla dignità umana. Ne siamo consapevoli. Non vogliamo dimenticarlo. E non esitiamo perciò a spingere lo sguardo fin dentro quei territori dove — come ci ha insegnato Walter Benjamin — il diritto mostra la sua ambigua vicinanza alla violenza.
Perché ci sembra allora che la violenza aumenti in modo preoccupante? E perché captiamo ovunque indizi gravi e inequivocabili di una recrudescenza che ci tiene con il fiato sospeso? L’oscena esibizione di una testa mozzata, i corpi sulla spiaggia dei turisti inermi, il cadavere di un bambino che galleggia nelle acque del Mediterraneo, il corpo di una donna ferita a morte — quante visioni potremmo ancora richiamare alla memoria? Quante inquietano le nostre notti e allarmano i nostri giorni?
La violenza è lo spettacolo, drammatico e disumanizzante, a cui assistiamo in quella seconda vita che quotidianamente viviamo nei media, travolti dal flusso ininterrotto delle informazioni, sopraffatti dal vortice delle immagini. Ci sentiamo spettatori impotenti, paradossalmente ridotti alla passività, proprio mentre il mondo segue il corso opposto a quello che ci eravamo figurati.
Se percepiamo molta violenza, più che nel passato, è perché alla nostra sensibilità, resa acuta dalla storia, si aggiunge l’effetto prodotto dalla risonanza mediatica. Lo spettacolo della violenza, non di rado esibita con disinvoltura, anche nella spietata incontrollabilità della diretta, è parte integrante della nostra esistenza. Virtuale e reale si confondono e, anzi, il virtuale finisce per avere un effetto più perturbante del reale stesso. Sui rischi di un uso spregiudicato delle foto che, nella loro presunta immediatezza, «nascondono più di quel che svelino», ha avvertito Susan Sontag.
Lo spettacolo della violenza ha il suo contrappeso nella violenza spettacolarizzata. Si fa labile il confine tra i fatti di cronaca e la trama del film dove l’eroico detective rischia la vita per la sicurezza di tutti. Serie tv, fiction, videogiochi mettono in scena un mondo suddiviso fra criminali e custodi dell’ordine, fra assassini e astuti investigatori. Ma ansia, timore, preoccupazione, svaniscono d’incanto nello scontato happy end, in una preannunciata vittoria del bene sul male.
Questa visione del mondo, dove la violenza viene ogni volta sconfitta, diventa un modello fuorviante. Ci aspettiamo che la realtà abbia lo stesso esito della finzione. Dato che non è così, siamo frustrati, quasi risentiti. E anche questo, certo, aumenta il grado di violenza percepita. È il caso allora di chiedersi se si tratta solo di una percezione. Forse quella nostra frequente esclamazione «che violenza!» non è casuale. La violenza è sulla bocca di tutti, perché non ha mai smesso di percorrere sotterraneamente la storia. E ora riemerge tra le crepe, assumendo le forme più diverse, subdole o sfrontate, sottili o prepotenti. Malgrado le statistiche rassicuranti, la riconosciamo subito, anche se non avremmo voluto vederla più. Né avremmo voluto che fosse ancora la protagonista di pagine di storia e di cronaca. Per questo quasi ci vergogniamo. E la nostra cattiva coscienza vorrebbe indurci a negarla.
Ma perché la violenza nelle sue forme attuali ci sconvolge, ci irrita, ci imbarazza? E soprattutto: che cos’è la violenza? Perché è ben riconoscibile, ma si lascia afferrare con difficoltà?
La violenza non è un oggetto né una sostanza; ma non è neppure una qualità. Nessun essere umano è, come tale, violento. Ad essere violenti sono un atto, un gesto, una parola. La violenza alberga nella relazione, esplode nei rapporti tra gli individui, resta nascosta nei legami sociali, intacca perciò la convivenza.
Per Aristotele la violenza è un movimento contro natura. Questa spiegazione ci soddisfa solo in parte. E per noi, che veniamo dopo la modernità, la violenza appare piuttosto relegata in quello stato di natura che la cultura dovrebbe aver elevato e nobilitato per sempre. In breve, per noi la violenza è opposta alla cultura. Quanto più la cultura prevale, tanto più la violenza dovrebbe essere tacitata. Ma la storia ci fa riflettere e la cronaca, nazionale e internazionale, ci smentisce.
Sarebbe comodo identificare la violenza con la barbarie, vederla come una caduta nello stadio primitivo e selvaggio, che l’umanità si è da tempo lasciata alle spalle, o magari relegarla ai confini della ragione, demonizzarla o tacciarla di follia. La violenza accompagna la storia nelle sue fasi alterne e assume forme diverse, perché è guidata dall’immaginazione e dall’inventiva. Soltanto gli esseri umani hanno escogitato la tortura, la pena di morte, i massacri.
Quasi impercettibile, la violenza attuale risponde ai comandi della tecnica; è soft, corre rapida lungo i flussi dei dispositivi elettronici e telematici, per condensarsi in quella sorta di esperanto visivo costituito dalle immagini digitali. La nostra è l’epoca delle immagini violente e della violenza delle immagini.
Eppure si può mettere da parte l’iPad, spegnere la tv. Quelle immagini crudeli e atroci di una strage, di un attentato, di una guerra, sono insieme vicine e lontane. Potremmo allontanarcene, come avviene al termine di un film. Ma ecco la novità di oggi: la violenza passa dalla virtualità alla realtà, il suo spettro ci insegue al di là dello spettacolo. Brutalmente siamo stati strappati al nostro abituale ruolo di spettatori per entrare d’improvviso nella scena concreta dell’aggressione, e per giunta come vittime inermi della violenza.
Siamo disorientati, turbati, increduli, delusi. Scopriamo di essere vulnerabili. E questa estrema, irrimediabile vulnerabilità, aumenta via via che viene meno il miraggio di un ordine del mondo. La violenza ci investe, scalfisce, offende, incrina la nostra vita. È stata Judith Butler, dopo l’11 Settembre, a parlare di «vite precarie». Ed è interessante che negli ultimi anni soprattutto le filosofe — da Butler ad Adriana Cavarero — si siano soffermate su questo tema. La precarietà della nostra vita ci fa avvertire un incremento della violenza. Ne scorgiamo ovunque l’incombere, ne constatiamo il dilagare. Ed è qui che il terrorismo porta la sua sfida. Il video di una decapitazione non è solo la cruda violenza contro l’altro; è anche un messaggio. Il «risentimento fondamentalista» — come lo ha definito Slavoj Žižek — fa del jihadista dell’Isis non un barbaro, bensì un postmoderno. Se brandisce una testa mozzata come un trofeo, se giunge a farsi beffardamente un selfie , a scattarsi un autoritratto celebrativo, è per dirci che il progresso non ha eliminato la violenza, che la razionalizzazione tecnica non è in grado di proteggere davvero nessuna vita.
La violenza temuta ci rende più sensibili a quella subita, in una pericolosa escalation. Tanto più che l’accelerazione del nostro tempo, questa vertigine dell’illimitato, che ci dà straordinari poteri, ci rende insofferenti al limite. Non sopportiamo alcun ostacolo, non tolleriamo alcun impedimento. Reagiamo immediatamente. Come già aveva osservato Hannah Arendt, non ci fermiamo a riflettere sui fini e le ripercussioni del nostro agire. L’altro è solo il nostro limite. Di qui le stragi familiari, gli infanticidi, gli stupri. Per un nonnulla il vicino insospettabile può diventare un assassino, lo studente modello può compiere una strage. La disponibilità delle armi fa sì che la furia estatica dell’io possa facilmente tradursi nell’annientamento dell’altro. Rabbia, rancore, rivalsa, disperazione, esibizionismo, indifferenza, persino noia o assuefazione, innumerevoli sono i motivi della violenza — nessuno può spiegarla.
L’intelligenza tecnica ha aumentato a dismisura i mezzi della distruttività inaugurando nuove forme di aggressione. E, d’altra parte, la violenza meno eclatante, più invisibile, della miseria, della fame, dell’immigrazione, delle catastrofi ecologiche, resta il portato della globalizzazione. Più l’intensità della violenza ci sconvolge, più siamo chiamati a riflettere, a partire dalla vulnerabilità che ci accomuna.

domenica 28 giugno 2015

Non solo cibo: l'Arte contemporanea degli artisti romeni a Expo2015




Inaugurazione: 1 luglio 2015, ore 16 00 presso il Padiglione della Romania

     testi a cura di di Tatiana Martyanova - critico d'arte




Per me i colori sono degli esseri viventi, degli individui molto evoluti che si integrano con noi e con tutto il mondo. I colori sono i veri abitanti dello spazio. Yves Klein


Siamo nel Padiglione Romania all’Expo 2015 a Milano, all'interno di un tipico villaggio romeno “nascosto” e “ritrovato” nella capitale italiana dell’arte contemporanea. 

In questo apparente antagonismo ci troviamo di fronte a opere d’arte, in un percorso tra passione, energia e contemplazione, tutte create ad hoc per l’evento unico di Expo 2015.

A rappresentare gli Artisti romeni in mostra per Expo 2015 ci sono Cristina Lefter, Calina Lefter, Lavinia Rotocol, Nelu Pascu, Tudor Andrei Odangiu e Leonard Regazzo, artisti che da anni vivono nel Belpaese trasmettendo la loro cultura nei versi delle proprie “poesie visive”. 

Nel continuo divenire artistico, tre donne e tre uomini rintracciano la propria identità culturale, spesso tramite la commemorazione dei più grandi personaggi del paese d’origine. Così diversi negli stili e nelle tecniche, dalla pittura olio su tela, agli smalti e acrilici in tecnica mista, alla fotografia, gli artisti raccontano le loro verità del visibile. Il colore è l’unico elemento indispensabile a metterli tutti in comunicazione.

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Cristina Lefter, classe 1976, presenta in mostra una nuova visione della propria arte. Con la sua caratteristica tecnica dripping fa gocciolare gli smalti su tela creando così dei mondi misteriosi. A rispecchiare la sua personalità artistica forte e passionale sono i colori sgargianti che plasmano un’evoluzione figurativa dalla tradizione all’astratto action painting di Jackson Pollock, creando così una magia. Il quadro presentato all’Expo 2015 infatti nasconde un enigmatico volto e invita lo spettatore a scoprirlo, velato nelle linee astratte: vi è Maria Tănase, la “Edith Piaf” romena. La cantante dipinta così appare all’Esposizione Mondiale per la seconda volta dopo quella di Parigi 1937 dove rappresentò la Romania.

I colori dei pensieri, invece, costruiscono i quadri di Calina Lefter, classe 1978. Con la tecnica mista su tela l’artista cerca di oltrepassare i confini della realtà creando attraverso i paesaggi romeni, un ricordo, un pensiero, un momento. In occasione dell’Expo 2015 l’artista fa un omaggio al poeta storico romeno Mihai Eminescu, con dei colori teneri ma d’intensità unica, che ci inoltrano nel profondo della poesia pura.

Il lavoro di Lavinia Rotocol (1967) è una ricerca sulla natura di emozione, che l'artista definisce “eternità effimera”. Attraverso i colori di struttura leggera e la pennellata decisa Rotocol fa emergere l’energia, la verità da qualsiasi momento della vita: come se fossero dei frammenti del cinema catturati in un attimo fuggente. Entrando nell’atmosfera delle emozioni, si crea così l' “Energia”.

Tudor Andrei Odangiu, nato nel 1976, è un decoratore e restauratore di opere d’arte, affreschi e mobili. Questo influenza molto il suo stile: lavora spesso con il passato e quindi tutta la sua opera artistica ha un forte legame con la tradizione. Come afferma lui stesso, il particolare interesse verso la pittura fiamminga lo aiuta a portare la luce all’interno del quadro. Sono i colori luminosi a trasmettere il carattere e la passione dell’artista, racchiusi nel tema della lotta, della forza e della passione. Non a caso a lottare sull’arena dei colori sono sovente i tori, ciclicamente protagonisti nella storia delle arti visive, qui studiati con scrupolosa attenzione artistica.

Nelu Pascu, nato nel 1963, è un artista affermato in Romania, lavora nell’ambito dell’astratto concettuale. Spesso però si dedica anche al figurativo dipingendo soprattutto delle città, a volte facendole vedere come le mappe dei percorsi quasi planimetrici, come se fossero viste e vissute dall’alto. La scelta cromatica e quella materica nelle sue opere è sempre dettata da un bisogno interiore, ribadisce Nelu Pascu, non è mai la mente a comandare la sua pennellata. La sua arte non è razionale bensì proveniente dall’animo del pittore con un forte legame con le proprie radici che senza dubbio influenzano tutto il lavoro dell’artista, sia a livello della tecnica sia nei temi elaborati. Il colore nasce dalla luce. Sappiamo che scrivere con la luce è la prerogativa della fotografia, traendo il significato dall’etimologia stessa della parola.

Leonard Regazzo, 1970, dipinge con la luce – lavora con la fotografia, riflettendo sulla realizzazione d’immagini fotografiche senza utilizzo della machina stessa. L’artista elabora quindi la tradizione dei fotogrammi di Moholy-Nagy come anche dei rayogrammi di Man Ray. Il lavoro di Regazzo potrebbe essere definito come creazione enigmatica delle nuove materie (l’artista scansiona le bolle di sapone lanciando una lunga ripresa ad alta risoluzione): fortemente astratte queste figure sullo sfondo nero, portano lo spettatore nell’immenso infinito. Tutti gli artisti romeni in mostra vivono in Italia, sono giovani e ambiziosi nell’acquisizione del ruolo di messaggeri tra i loro due paesi, rapportandosi armoniosamente ai valori del proprio patrimonio culturale. La scoperta del proprio universo artistico nel profondo dell’anima di ognuno di loro racchiude un contributo alla propria cultura, una ragione di vita



lunedì 18 maggio 2015

Nonostante voi. Storie di donne Coraggio



Mercoledi 20 Maggio 2015 ai Frigoriferi Milanesi, via Piranesi 10.



NONOSTANTE VOI. Storie di Donne Coraggio



reportage teatrale di e con Livia Grossi



musiche originali eseguite dal vivo Andrea Labanca



regia Gigi Gherzi









Livia Grossi, giornalista del Corriere della Sera è in scena con il suo nuovo reading teatrale.



Il valore della donna come individuo al di là dei tradizionali ruoli sociali di madre, moglie e figlia. Il diritto di esistere e il prezzo che si paga.



Un viaggio tra parole e musica che s’interroga sull’identità individuale e pubblica, sull’informazione e la sua reale condivisione. In scena riflessioni e testimonianze di donne italiane e straniere, e un ironico monologo sui requisiti necessari per ottenere la Carta d’identità di Donna. Storie di resistenza al femminile raccolte sul campo da Livia Grossi, qui proposte, per la prima volta, in un unico reportage teatrale. Un reading in continuo aggiornamento.







Tra le donne intervistate






Pushka (Albania), vergine giurata. Una donna di 66 anni che da oltre 40 anni ha deciso di diventare un “uomo” per difendere diritti e dignità. Un cambio d’identità sociale non biologico, la donna si veste, si comporta e pensa come un vero uomo e come tale viene considerata dalla comunità maschile.



Maria (Sud America) rifugiata politica. Una storia vera, anonima per rispetto. Una donna arrestata con l'accusa di terrorismo, liberata in seguito alla sua riconosciuta innocenza dopo 8 anni di carcere. Una testimonianza che dichiara la vittoria di una donna che non ha mai perso il coraggio e la fiducia in se stessa e nella Giustizia. Una storia di abuso di potere che supera confini geografici e temporali: c'è un inserto importante sulla Milano del 1978, l'anno del sequestro Moro.



Marietu 'Ndaye (Senegal), una delle portavoce contro la mutilazione genitale femminile. Un’Antigone africana di 46 anni che dopo che dopo aver visto morire le sue figlie per infibulazione ha deciso di ribellarsi alla “tradizione” che impone a tutte le bambine di 6-7 anni di venire amputate e cucite fino alla prima notte di matrimonio. Marietu, una donna analfabeta che con l'aiuto di un Ong locale e l'Unicef italiana, è riuscita a creare in 10 anni di lavoro di capanna in capanna, un enorme movimento di donne che ha fatto cambiare le leggi del Parlamento di Dakar.







Livia Grossi è una giornalista free lance che da oltre 15 anni si occupa di teatro e cultura per le pagine milanesi del Corriere della Sera. L’amore per i viaggi l’ha portata a realizzare alcuni reportage. Da qualche tempo i servizi realizzati in Africa, Albania e Sud America sono diventati “reading teatrali” o meglio “reportage teatrali”: una forma di giornalismo detto in scena, come se il palco fosse una pagina di un magazine, con contributi fotografici, interviste in video, musica dal vivo, e la giornalista che “dice il pezzo” guardando negli occhi il lettore.



Mercoledi 20 Maggio 2015. Frigoriferi Milanesi (Spazio Binario), via Piranesi 10. Ore 21, 8 euro. Tel. 02. 73.981. Prenotazioni: Info@frigoriferimilanesi.it

martedì 12 maggio 2015

MOSAIKON - Voci e immagini per i diritti umani

 





Cari lettori e cari amici, 

l'Associazione per i Diritti Umani è felice di comunicarvi l'uscita di "MOSAIKON - Voci e immagini per i diritti umani" (Arcipelago edizioni), un libro in cui sono state raccolte tutte le interviste realizzate per il sito www.peridirittiumani.com durante i nostri primi due anni di attività.
L'intento è quello di proporre un testo - cartaceo e fruibile - ricco di notizie e approfondimenti. L'idea nasce, infatti, dagli atlanti di una volta grazie ai quali si poteva viaggiare...stando fermi: "MOSAIKON" permette ai lettori di muoversi nella geopolitica, all'interno dei nuovi assetti sociali e religiosi, tra le vite quotidiane di uomini - donne - bambini e di rimanere aggiornati sulla Storia contemporanea, sulla politica estera e sui grandi temi dell'attualità.
Crediamo che il testo possa essere utilizzato anche come strumento didattico, come punto di partenza per ulteriori ricerche, e per la ricchezza sitografica, bibliografica e per i rimandi dei contenuti.
Cogliamo l'occasione per ringraziare tutti coloro che ci hanno accordato le interviste, aiutandoci a dare voce a chi non ce l'ha; Basir Ahang per la sua importante prefazione; gli amici e Luciano che hanno creduto in questa avventura e in questo progetto editoriale.


Per l'acquisto della copia potete scrivere una mail all'indirizzo: peridirittiumani@gmail.com con il vostro nome/cognome/indirizzo compreso di CAP e ve la invieremo subito per posta.
Potete effettuare il pagamento di € 13,50 (€ 12,50 libro + € 1 di spese di spedizione) con PAYPALL, BONIFICO o CARTA DI CREDITO. Sarebbe anche un bel modo per sostenerci ! Grazie!

 
IBAN IT33O0335901600100000074882

lunedì 11 maggio 2015

Il nostro sangue è buono solo per le guerre”: i Falasha denunciano il razzismo






di Monica Macchi


La scorsa domenica a Tel Aviv c’è stata una imponente manifestazione (10.000 persone secondo la stampa israeliana, 3000 secondo la polizia) per protestare contro i maltrattamenti inflitti dalla polizia a un soldato di origine etiope: il bilancio è stato di una cinquantina di poliziotti feriti e una trentina di manifestanti arrestati…e importanti strascichi politici. Infatti il Presidente Reuven Rivlin ha ammesso che “i manifestanti hanno rivelato una ferita aperta nel cuore della società israeliana” e ha dovuto riconoscere “gli errori del governo nel modo in cui tratta gli israeliani neri” e le numerose difficoltà di integrazione dei falasha, una delle dieci tribù perdute del regno di Israele (la cui “ebraicità” è stata riconosciuta solo nel 1975). Non solo: pochi giorni dopo l’Università Tafnit Holon ha sospeso un insegnante che, durante un dibattito con gli studenti ha detto: “Gli etiopi si dimenticano da dove vengono: meglio se se ne tornano in Etiopia. Stanno diventando insolenti: pochi anni fa non avrebbero osato neppure aprir bocca! Non capiscono che sono diversi da noi e lo devono accettare”.



Dopo le tre diverse Aliah (ritorno nella terra promessa d’Israele in uno Stato che nega il diritto al ritorno dei Palestinesi…) dell’Operazione Mosè del 1985 (organizzato sotto la supervisione del Mossad), dell’Operazione Salomone del 1991 e dell’Operazione Ali di Rondini del 2010, Israele ha formalmente messo fine a questa politica il 28 agosto 2013 con un comunicato ufficiale del delegato dell'Agenzia Ebraica in Etiopia, Asher Sejum con l’impegno di riorientare le risorse finanziarie per migliorare le condizioni di vita dei Falasha già presenti in Israele e di esaminare caso per caso “ricongiungimenti familiari e questioni umanitarie specifiche”. Si calcola che attualmente ci siano circa 130.000 ebrei di origine etiope che, nonostante beneficino de iure della piena cittadinanza israeliana soffrono di bassi livelli di istruzione, alti livelli di disoccupazione (quasi il 60% delle famiglie dipendono dall'assistenza sociale e vivono al di sotto della soglia di povertà), proporzione di detenuti superiore alla media. Inoltre negli anni 2000, per ottenere il diritto di emigrare in Israele, le donne hanno dovuto sottoporsi a iniezioni di Depo-Provera, un contraccettivo che provoca sterilità “temporanea” con obbligo di ripetere il trattamento in Israele e così il tasso di natalità nella comunità Falasha è sceso del 50% negli ultimi dieci anni ...



Giusto due settimane fa è uscito in inglese “How The World Turned White” (pubblicato in ebraico l’anno scorso vincendo il premio Ramat Gan come miglior opera prima) di Dalia Betolin-Sherman che racconta il viaggio della sua famiglia sotto il regno di Haile Selassie da Ambover, (un villaggio ebraico nel nord dell'Etiopia) verso il Sudan e da lì in Israele.



 
 
 

lunedì 4 maggio 2015

MOSAIKON - Voci e immagini per i diritti umani

 





Cari lettori e cari amici,
l'Associazione per i Diritti Umani è felice di comunicarvi l'uscita di "MOSAIKON - Voci e immagini per i diritti umani" (Arcipelago edizioni), un libro in cui sono state raccolte tutte le interviste realizzate per il sito www.peridirittiumani.com durante i nostri primi due anni di attività.
L'intento è quello di proporre un testo - cartaceo e fruibile - ricco di notizie e approfondimenti. L'idea nasce, infatti, dagli atlanti di una volta grazie ai quali si poteva viaggiare...stando fermi: "MOSAIKON" permette ai lettori di muoversi nella geopolitica, all'interno dei nuovi assetti sociali e religiosi, tra le vite quotidiane di uomini - donne - bambini e di rimanere aggiornati sulla Storia contemporanea, sulla politica estera e sui grandi temi dell'attualità.
Crediamo che il testo possa essere utilizzato anche come strumento didattico, come punto di partenza per ulteriori ricerche, e per la ricchezza sitografica, bibliografica e per i rimandi dei contenuti.
Cogliamo l'occasione per ringraziare tutti coloro che ci hanno accordato le interviste, aiutandoci a dare voce a chi non ce l'ha; Basir Ahang per la sua importante prefazione; gli amici e Luciano che hanno creduto in questa avventura e in questo progetto editoriale.


Per l'acquisto della copia potete scrivere una mail all'indirizzo: peridirittiumani@gmail.com con il vostro nome/cognome/indirizzo compreso di CAP e ve la invieremo subito per posta.
Potete effettuare il pagamento (di euro 12,50) con PAYPALL, BONIFICO o CARTA DI CREDITO. Sarebbe anche un bel modo per sostenerci ! Grazie!