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domenica 27 dicembre 2015

Lotta concreta alle mafie: le parole del Comitato Addio Pizzo


Addiopizzo è un movimento aperto, fluido, dinamico, che agisce dal basso e si fa portavoce di una “rivoluzione culturale” contro la mafia. È formato da tutte le donne e gli uomini, i ragazzi e le ragazze, i commercianti e i consumatori che si riconoscono nella frase “Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”.

Addiopizzo è anche un’associazione di volontariato espressamente apartitica e volutamente “monotematica”, il cui campo d’azione specifico, all’interno di un più ampio fronte antimafia, è la promozione di un’economia virtuosa e libera dalla mafia attraverso lo strumento del “consumo critico Addiopizzo”.

L'Associazione per i Diritti umani ha rivolto alcune domande ai membri del Comitato Addio Pizzo.

Risponde, per voi, Pico Di Trapani. Ringraziamo moltissimo il Comitato Addio pizzo.


 


Un comitato, il vostro, costituito da studenti: potete parlarci delle vostre competenze, dei motivi che vi hanno spinto e di come siete organizzati?

Siamo un gruppo di cittadini palermitani di età varia, abbiamo tutti intorno ai venti, trenta, quarant'anni e ci siamo ritrovati nel tempo a costruire un percorso dentro l'associazione convenendo sulla necessità di creare a Palermo, la nostra città, una rete che permettesse in ultima istanza ai commercianti e imprenditori vessati dal racket delle estorsioni mafiose, di denunciare in tutta sicurezza le violenze subite da Cosa nostra. Proveniamo da percorsi personali differenti, ma siamo uniti dall'adesione a principi comuni che si riassumono nella frase “Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”. Tutto nacque casualmente così, nel 2004, dal primo nucleo storico della futura associazione, che decise di condividere quella comunicazione con la città di Palermo affiggendo dappertutto, per le strade del centro storico, centinaia di adesivi che riportavano quel messaggio. Poi nel tempo i volontari sono aumentati e ci siamo potuti strutturare meglio, pianificando azioni che vanno nella stessa direzione e che ad oggi convergono su un'opera di sensibilizzazione nei confronti della cittadinanza e del mondo delle scuole, una comunicazione costante sul tema del racket e di ciò che concerne la lotta alla mafia, l'organizzazione di eventi e la promozione di una lista di consumo critico antiracket - consultabile sul nostro sito internte e tramite App - l'assistenza processuale e psicologica alle vittime del pizzo, etc.

Perchè l'estorsione è la “madre di tutti i crimini”?

Quando sosteniamo questo, riportiamo e quindi condividiamo l'idea espressa nel 1991 da Libero Grassi, che diceva al proposito: “L’estorsione è la madre di tutti i crimini perché è funzionale a stabilire, consolidare ed estendere il governo sul territorio rappresentato da una strada, una piazza o un quartiere. Il pizzo è manifestazione della signoria territoriale di Cosa nostra sulla città di Palermo. Con il pizzo la mafia si fa Stato”. Il pizzo, pur costituendo un'emergenza sociale ed essendo ancora oggi fortemente radicato come prassi criminale, non è per Cosa nostra e non ha mai costituito una fonte di reddito così alta, in rapporto al totale delle sue entrate. Ciononostante, è da sempre praticata dalle organizzazioni mafiose come strumento di affermazione del proprio potere e di riconoscimento della propria superiorità da parte della comunità locale vessata, che invece di unirsi e reagire accetta questa supremazia imposta con la violenza. Sta in questo il vulnus culturale su cui intendiamo agire, invitando gli altri palermitani e siciliani a riconoscere in noi stessi per primi i responsabili di questo potere mafioso nella nostra regione, e a reagire insieme di conseguenza.

Come si svolgono le vostre iniziative antiracket rivolte alle scuole?

Dal 2005 i nostri volontari incontrano studenti di ogni età, nella certezza che la scuola, bene comune prioritario, è laboratorio privilegiato per la lotta alla criminalità mafiosa e alla mentalità che ne sta alla base. Le scuole, luogo di incontro di culture differenti, possono e debbono educare il cittadino in un’ottica cosmopolita, quella di una società interculturale, finalmente libera. Gli incontri con gli studenti si svolgono nelle rispettive scuole o nella sede a noi affidata, un bene confiscato alla mafia, per questo stesso luogo di forte impatto simbolico. A fianco di docenti, studenti, genitori e dirigenti scolastici, che ringraziamo sentitamente, Addiopizzo in questi anni ha non solo inciso nella formazione di questi studenti, ma segnato, secondo noi, un momento unico e significativo nella storia della nostra città con le diverse iniziative e progetti di sensibilizzazione elaborati e attuati ogni anno, a dimostrazione di quanto la scuola possa essere determinante nel formare le coscienze dei giovani.

Quali appoggi e quali ostacoli avete incontrato durante il vostro lavoro?

Gli ostacoli maggiori provengono dal tentativo che portiamo avanti, di provare a scardinare la mentalità di chi è rassegnato all’idea che nulla possa cambiare e per tale approccio assume atteggiamenti di indifferenza, nella migliore delle ipotesi, o di acquiescenza nella peggiore, a fenomeni dai quali oggi ci si può davvero liberare. Ma si tratta di un lavoro per il quale bisogna ancora tanto faticare. Si tratta di sfide e ostacoli prettamente culturali. Non a caso la maggior parte degli operatori economici che hanno denunciato e che si sono avvalsi del nostro ausilio appartengono a generazioni di giovani - trentenni, quarantenni e cinquantenni che hanno forti resistenze culturali rispetto a fenomeni come quello delle estorsioni. Noi vogliamo sostanzialmente restituire normalità alla nostra terra, facendo in modo che chi resiste alle pressioni mafiose e clientelari possa proseguire il proprio lavoro senza ripercussioni sulla propria incolumità e sull’attività economica che esercita. La presenza mafiosa nell’economia siciliana è ancora forte. Il pizzo imposto ai commercianti, oltre a rappresentare la negazione di libertà importanti, come quella di impresa, è anche un pesante macigno che incide sulla possibilità dello sviluppo dell’economia isolana, distorcendone le regole del mercato e della libera concorrenza. Ma, oggi, esistono molti esempi positivi di riscatto che possono permettere di sperare in un futuro diverso, libero dalla criminalità organizzata e dai suoi disastrosi effetti. L'appoggio su cui contiamo proviene da questa rete che da anni, ognuno per la propria parte, stiamo contribuendo a tessere insieme.

mercoledì 16 dicembre 2015

Mio padre in una scatola da scarpe: Giulio Cavalli e il suo "piccolo"/grande eroe





Uscito per Rizzoli l'ultimo lavoro letterario di Giulio Cavalli scrittore e attore, da sempre impegnato sui temi civili e sulla legalità, Mio padre in una scatola da scarpe è un romanzo che parla, forse, anche un po' dell'autore stesso, capace sempre di dire No alla cultura mafiosa, in grado di pagare un prezzo alto per i valori della giustizia e della vita.

"Michele Landa non è un eroe, e neppure un criminale. Tutto ciò che desidera è coltivare il suo orto e godersi la famiglia; vuole guardarsi allo specchio e vederci dentro una persona pulita. Ma a Mondragone serve coraggio anche per vivere tranquilli: chi non cerca guai è costretto a confrontarsi ogni giorno con gli spari e le minacce dei Torre e con l'omertà dei compaesani".

Tornano, nel libro, le parole degli spettacoli teatrali che Cavalli porta in scena: omertà, paura, ribellione, violenza, rispetto, verità”: parole e concetti da approfondire; alcuni da cancellare, altri da insegnare, con l'esempio e la Cultura.



L'Associazione per i Diritti Umani ha rivolto alcune domande a Giulio Cavalli e lo ringrazia per la disponibilità.



E' la storia di un uomo comune, diventato eroe, e della sua famiglia: quanto è importante raccontare storie (a teatro, in letteratura) a sfondo civile?




Io credo che sia importante raccontare storie credibili e scrivo credibili nel senso più ampio del termine ovvero abbiamo bisogno di storie che insegnino l’eroismo che sta nei tanti piccoli gesti quotidiani che sono famigliari a molti. Questo romanzo non vuole celebrare Michele Landa, che altro non è che un uomo vicino alla pensione con la cura della propria famiglia, ma prova a fare intendere quanti “profughi stanziali” si ritrovano a combattere in ambienti non facili. Ognuno secondo le proprie capacità, le proprie possibilità e le proprie attitudini. Credo che ultimamente abbiamo commesso l’errore di cercare l’iperbole mentre sotto gli occhi, tutti i giorni, abbiamo quotidiani esempi di resistenza


Qual è l'Italia che lei racconta?


L'Italia dove la prevaricazione è sistematica, il bullismo è considerato un dovere per condire la credibilità dei potenti e dove un continuo logorio della democrazia ha portato a farci credere che alcuni nostri diritti siano dei privilegi. Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un graduale disfacimento del pieno significato dell’essere buoni, tanto che oggi è considerato un difetto, una debolezza. In realtà spesso essere buoni significa avere la forza di stare ostinatamente controcorrente e Michele, con i suoi figli, è la personificazione di questo sforzo strenuo e continuo.



Ci parla del progetto legato al suo libro?



Andando in giro per scuole e librerie abbiamo scoperto che il romanzo risulta molto utile anche per discutere di bullismo e prepotenza. In realtà il progetto con le scuole è tutto merito di Ivano Zoppi e la sua ONLUS Pepita che hanno avuto il merito di trasformare il libro in un’occasione per chiedere di alzare la voce contro i soprusi. Un libro, appena uscito in libreria, smette di essere del suo autore e anche questa iniziativa l’ho vissuta con l’emozione di uno spettatore privilegiato. Sono molto contento che finalmente si riesca a dare una declinazione quotidiana ad un fenomeno (quello mafioso) che troppo spesso ha bisogno di eroi per poter essere raccontato.


Spesso le persone oneste vengono lasciate sole dalle istituzioni e, per questo, molte di loro hanno perso la vita, seguendo l'etica e la legge...Oggi in che direzione si sta muovendo lo Stato italiano in termini di lotta alle mafie?


Si da sempre molto poco. L’Italia è il Paese più evoluto sul fronte antimafia perché è anche il laboratorio più estremo delle mafie ma sono convinto che al netto della retorica ancora oggi si faccia troppo poco e troppo spesso male. Pensiamo, solo per citare un esempio, ai testimoni di giustizia che non sono altro che normali, semplici cittadini a cui “è capitata l’occasione di essere giusti”. dovrebbero essere trattati dallo Stato con tutta la cautela e la gratitudine per chi decide di alzare la testa e invece sono pressoché quotidiane le notizie di difficoltà ambientali, economiche e di sicurezza di chi ha deciso di denunciare. La strada è lunga e in più il movimento antimafia sembra vivere anche un pericoloso periodo di appannamento.


Come possiamo educare i giovani alla cultura della legalità?


Primo: facendo in modo che essere corretti e rispettare la legge sia conveniente. E questo è un dovere della politica. Poi abbiamo bisogno di riportare il senso di legalità al senso di solidarietà, cittadinanza attiva, responsabilità e giustizia. Qui non si tratta solo di insegnare le leggi ma riuscire a far cogliere il senso alto che sta dietro alle basi della democrazia. E finché non riusciremo a raccontare la legge come un’opportunità piuttosto che un limite credo che faremo molta fatica a trovare un vocabolario che funzioni.






mercoledì 9 dicembre 2015

Generazione Rosarno: dalla violenza alla legalità



Continuiamo ad occuparci di lotta alle mafie e vi proponiamo il libro intitolato Generazione Rosarno di Serena Uccello, per Melampo edizioni.




Si può nascere in una famiglia di 'ndrangheta eppure scegliere una strada alternativa e rigettare la violenza? Si può amare un padre in carcere e riuscire lo stesso a prenderne le distanze, immaginando per sé un destino diverso, di libertà e di rispetto vero? Vive e pulsa in questo libro una scuola superiore in cui vengono abbattuti antichi e nuovi pregiudizi e privilegi, dove non esistono figli di boss né figli di collaboratori o di testimoni di giustizia, dove mille ragazzi e ragazze si ritrovano ogni mattina tutti uguali, senza dover sopportare il peso delle storie personali. Dove una leggerezza gentile e sconosciuta è capace di generare nuova cultura. Una scuola che è un autentico fortino piantato in una periferia geografica e sociale, da cui insegna le opportunità e le promesse del mondo. Si chiama Rosarno ma diventa alla fine simbolo di tutto il Sud.






L'Associazione per i Diritti umani ha intervistato per voi l'autrice e la ringrazia.



Il libro è ambientato in Calabria, una terra bellissima e difficile. Quali sono i tratti della cultura tradizionale in cui affondano le radici della mentalità mafiosa?


Questa domanda richiede un’analisi di tipo antropologico che non sono in grado di fare, non ne ho gli strumenti, né la formazione. Posso però dare una chiave di lettura di tipo storico e sociale per spiegare perché la ‘ndrangheta è cresciuta così tanto in questi anni, in una situazione di sostanziale silenzio. In questo senso la spiegazione è l’isolamento della Calabria. Isolamento geografico e culturale, appunto. Prendo in prestito il procuratore Giuseppe Pignatone, già capo della Procura di Reggio Calabria, oggi capo della procura di Roma: “la società calabrese è realmente isolata dal resto del paese. Non esiste la Calabria, ma esistono le Ca­labrie: la provincia di Reggio è totalmente diversa da quella di Cosenza o dall’alto Catanzarese. L’isolamento tra le diverse province e dell’intera regione è innanzitutto fisico. La rete via­ria inadeguata, i cantieri dell’A3, le carenze della rete ferrovia­ria, lo sbarramento fisico dello Stretto amplificano l’isolamento geografico”. All’isolamento geografico c’è poi da aggiungere quello informativo. Negli ultimi anni sui giornali di ’ndran­gheta si è scritto, forse poco o forse in modo discontinuo, titoli e commenti e inchieste. Ma prima? Prima di Duisburg, la strage di Duisburg, quella in cui, nell’agosto del 2007, furono uccise sei persone, o prima di più recenti ope­razioni che hanno portato, soprattutto in Lombardia e nel nord Italia, all’arresto di centinaia di persone? Qualche titolo di tan­to in tanto e poco altro. Di fatto ha ragione il procuratore capo di Roma quando parla di “cono d’ombra” ricordando come “l’agenzia Ansa sia a Catanzaro, la sede Rai a Cosenza” e che “nessuna testata nazionale ha una redazione in Calabria”, men­tre “il quotidiano più diffuso, la Gazzetta del Sud è un giornale di Messina che pubblica pagine sulla Calabria”.

Quindi non saprei esattamente dire in quali tratti della cultura tradizione affondi la mentalità mafiosa, posso però dire che la mentalità mafiosa si nutre dell’isolamento e dell’assenza di cura da parte dello Stato e in questo isolamento cresce.



Da dove può o deve ripartire la cultura della legalità?


Il mio libro è sostanzialmente ambientato in una scuola. Un scuola sotto molti aspetti speciale perché è riuscita a compiere la sfida della inclusione. A far convivere cioè i figli di vittime, con i figli dei boss, con figli dei collaboratori. A far loro condividere tempo, spazio e sogni. Ecco la cultura della legalità deve, secondo me, essere meno slogan, meno pratica convegnistica, e più pedagogia del Bene. Come dice la ricercatrice Ombretta Ingrascì la pedagogia bianca che si oppone a quella nera della violenza.


Come si svolge la lotta alle mafie a Rosarno (e in altri luoghi)?


La lotta alle mafie è stata a lungo repressione. E l’aspetto repressivo è e deve restare centrale. In questi anni sono stati raggiunti risultati importantissimi. Tuttavia i risultati si sono cominciati a vedere anche su lungo periodo quando accanto alla repressione c’è la formazione. In questo caso uso le parole della scrittrice Evelina Santangelo che ho intervistato per il libro: “Non è un caso, credo, che in Sicilia il momento di maggiore forza della lotta alla mafia sia stato quando si è creata una saldatura tra il braccio operativo di chi deve condurre l’attività investigativa e repressiva e il mon­do della formazione. Perché è evidente che la lotta alla mafia è lotta alla sottocultura mafiosa. E questa lotta si può condurre solo se c’è collaborazione tra tutte le forze in campo”.



Quanto sono importanti le donne nel tramandare il valore della vita ?


Le donne sono fondamentali. Così come sono loro a tramandare il codice della violenza dai padri ai figli, sono loro che sempre in nome dei figli possono rompere la catena del sangue. E in questi ultimi anni in Calabria ma non solo abbiamo avuto diversi esempi. Penso a Lea Garofalo, ma anche a Maria Concetta Cacciola, che purtroppo hanno pagato con la vita la loro scelta di rottura. Ma penso anche a Giusy Pesce che invece è riuscita a salvare se stessa e i suoi figli scegliendo la strada della collaborazione.

Questo sono le sue parole che spiegano più di mille analisi.

Se io non cambio strada e non li porto con me, quando uscirò il bambino potrebbe già essere in un carcere mino­rile, e comunque gli metteranno al più presto una pistola in mano; le due bimbe invece dovranno sposare due uomi­ni di ’ndrangheta e saranno costrette a seguirli. Io voglio provare a costruire un futuro diverso per loro... Io potrei anche cavarmela con qualche anno di carcere ma nessuno libererebbe i miei figli da un destino già segnato. Quando il mio bambino, una volta, ha detto che da grande avrebbe voluto fare il carabiniere, suo zio l’ha preso a botte, poi gli ha promesso che una pistola gliel’avrebbe regalata lui... Un giorno che io gli chiesi a mio figlio ‘Che cosa vuoi fare quando sei veramente grande?’ E lui mi rispose ‘Il carabi­niere’, loro lo aggredirono: ‘Che stai dicendo, scemo, stor­to!’, tipo loro hanno questo carattere, parlavano così, con i bambini hanno una delicatezza particolare”.



Qual è l'operato dei giudici e delle istituzioni per salvare i giovani che appartengono a famiglie malavitose?


Anche in questo caso voglio rispondere raccontando un aneddoto che riporto nel libro. Un pomeriggio un piccolo gruppo di studenti del liceo Raffaele Piria di Rosarno sta partecipando a un seminario tenuto da Michele Prestipino allora procuratore aggiunto a Reggio Calabria, oggi a Roma. I ragazzi stanno lavorando su un libro, un romanzo La vita obliqua di Enzo Siciliano. E quel giorno in particolare stanno discutendo della vendetta, esattamente di qual è la differenza tra chiedere giustizia invece di vendetta. A un certo punto Prestipino si rivolge ad un ragazzo in prima fila e dice: “Vieni Carmelo, tu che pensi?”. Carmelo si avvicina e Prestipino lo tira a sé allungandogli un braccio sulle spalle. Il movimento di entrambi è spontaneo. E mi colpisce molto. Mi colpisce perché Carmelo è Carmelo Bellocco. Anche i Bellocco sono una famiglia sminuzzata tra morti, latitanti ed ergastolani. Alcuni di questi arresti portano pure la firma di Prestipino, così la na­turalezza con cui il primo ha accolto il secondo e il secondo si è fatto accogliere mi appare inedita e mi appare straordinaria. Ho così compreso che solo l’accoglienza può far passare il messaggio che non esiste una predestinazione al Male ma che ognuno può riscattare se stesso. L’accoglienza e anche il sostegno.





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sabato 5 dicembre 2015

Una mostra dei detenuti di San Vittore presso il Tribunale di Milano

Si intitola "Sogni di segni, segni di sogni" l'esposizione che si è aperta oggi al Palazzo di Giustizia di Milano per mettere in mostra le opere realizzate da circa una cinquantina di persone che stanno scontando una condanna nel carcere milanese di San Vittore e all'Icam, l'istituto di custodia attenuata per le madri detenute. Obiettivo del progetto, promosso dalla sezione milanese dell'Associazione Nazionale Magistrati, è quello di consentire ai detenuti di vivere la propria quotidianità carceraria realizzando la propria personalità attraverso la pittura e esprimere così il proprio stato d'animo nella difficile fase di espiazione della pena.
La mostra di pittura resterà aperta fino al prossimo 17 dicembre nell'androne del terzo piano della cittadella giudiziaria milanese per poi essere trasferita alla Casa dei Diritti del Comune di Milano. "E' interesse dello Stato - ha osservato il presidente della Corte d'Appello del capoluogo lombardo, Giovanni Canzio, durante la cerimonia di inaugurazione - realizzare questo percorso di legalità. Iniziative come queste sono la strada migliore per ridurre il rischio di recidiva".




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domenica 29 novembre 2015


L'ASSOCIAZIONE PER I DIRITTI UMANI







Associazione per i Diritti Umani




PRESENTA

Combattere le mafie, combattere per il diritto alla legalità e alla vita.



Presentazione del romanzo: “ Sola con te in un futuro aprile”

di Michela Gargiulo





giovedì 3 DICEMBRE, ore 19

presso



CENTRO ASTERIA

Piazza Carrara 17.1 (Ang. Via G. da Cermenate 2 – MM ROMOLO) MILANO





L’Associazione per i Diritti Umani organizza l'incontro:



Presentazione del romanzo “ Sola con te in un futuro aprile”, alla presenza dell'autrice e giornalista Michela Gargiulo e di Veronica Tedeschi, avvocato.

Il 2 aprile del 1985 Margherita ha soltanto dieci anni. La sua casa di Pizzolungo, a Trapani, al mattino è invasa dalla confusione allegra di Salvatore e Giuseppe, i suoi fratelli, gemelli di sei anni. Non vogliono saperne di vestirsi e Margherita non vuole fare tardi a scuola. Chiede un passaggio a una vicina. I gemelli usciranno con l’utilitaria della mamma Barbara. Nello stesso istante due macchine della scorta vanno a prendere un magistrato. Si chiama Carlo Palermo e viene da Trento, dove ha indagato su un traffico di morfina proveniente dalla Turchia. Un fiume di droga che serve a finanziare altri traffici, armi soprattutto, e che produce altri soldi, che si intrecciano col giro delle tangenti della politica. Quando Palermo arriva a sfiorare Craxi la sua indagine arriva al capolinea. Da Trento, il giudice si fa trasferire a Trapani, dove la morfina turca viene raffinata in eroina. Per continuare a indagare su mafia, massoneria e politica. Sul lungomare di Pizzolungo le auto della scorta sfrecciano, non possono rallentare e quella utilitaria con una donna e due bambini seduti dietro va troppo piano. La sorpassano. Parcheggiata sul ciglio della strada c’è una golf con venti chili di tritolo nel bagagliaio. Qualcuno preme il tasto di un telecomando. È l’inferno. Carlo Palermo viene sbalzato fuori, è sotto choc ma si salva. Di Barbara Asta e dei piccoli Giuseppe e Salvatore restano solo frammenti.

Il voto sulla radicalizzazione e i rischi della politica della paura

 

Strasburgo, 26 novembre 2015

Ieri il Parlamento europeo riunito in sessione plenaria ha votato la Relazione sulla prevenzione della radicalizzazione, relatrice Rachida Dati (PPE).
In qualità di relatore ombra per il GUE-NGL, Barbara Spinelli ha dato indicazione di voto contrario. «Non è stata una decisione semplice. Dopo mesi di discussione tra la relatrice e i rappresentanti “ombra” degli altri gruppi politici, ho deciso di dare al mio gruppo un'indicazione di voto contrario. Nonostante i negoziati si siano svolti nel rispetto delle reciproche posizioni, e una serie di nostri emendamenti molto importanti sia stata accolta nella Commissione Libertà pubbliche e nell'Assemblea plenaria (sul commercio d’armi, sul legame tra l’estendersi dell’islamofobia e le prolungate guerre anti-terrore dell’Occidente, ecc), il risultato finale ha risentito in maniera a mio parere affrettata degli attentati parigini del 13 novembre: il PPE ha accentuato negli ultimi giorni la natura repressiva del rapporto e ulteriori misure anti-terrorismo sono state adottate, senza che ancora siano valutate la necessaria proporzionalità nonché la necessità legale. La politica della paura, sotto molti aspetti, ha prevalso nella maggioranza dei gruppi, pur creando importanti divisioni nel gruppo socialista, in quello dei Verdi, e perfino nel GUE-NGL». 
«Il GUE-NGL è contrario da tempo all'introduzione della Direttiva PNR, soprattutto se estesa ai voli interni all'Unione, come richiesto nella risoluzione: si tratta di una misura che il Garante europeo per la protezione dei dati e altre importanti autorità hanno definito non necessaria né proporzionata. Allo stesso modo, concordiamo con l'analisi effettuata da European Digital Rights (EDRI) secondo cui gli standard di crittografia non dovrebbero essere arbitrariamente indeboliti, come di fatto lo sono nel rapporto approvato dal Parlamento, perché ciò rischia di avere effetti negativi sulla privacy di persone innocenti». 
«Riteniamo inoltre che la risoluzione criminalizzi le compagnie internet, obbligandole a una sistematica cooperazione con gli Stati e mettendole praticamente sotto la loro tutela. É un messaggio assai pericoloso che per questa via viene trasmesso ai regimi autoritari nel mondo, tanto più che di tale misura si chiede l’applicazione perfino per quanto concerne materiale considerato legale».
«Anche se di per sé non sono affatto contraria ai controlli alle frontiere, ritengo tuttavia – come si affermava in un emendamento presentato dal gruppo S&D sfortunatamente rigettato – che gli Stati Membri “debbano astenersi dal ricorrere a misure di controllo alle frontiere finalizzate alla lotta contro il terrorismo e all'arresto di individui sospettati di terrorismo con lo scopo di esercitare un controllo dell'immigrazione”».
«Al pari dell'European Network Against Racism (ENAR), quel che temo è che una serie di proposte contenute nella relazione possa mettere a repentaglio alcuni diritti fondamentali nell'UE, soprattutto nei confronti dei rifugiati e dei musulmani, esplicitamente confusi gli uni con gli altri».
 «Particolarmente grave mi è parso il rifiuto di un nostro emendamento specifico contro la vendita di armi a paesi della Lega Araba come Arabia Saudita, Egitto e Marocco, e contro la collusione politica con Paesi terzi a guida dittatoriale. Per finire, è stato rigettato uno dei nostri emendamenti che consideravamo fondamentali: il rifiuto della “falsa dicotomia tra sicurezza e libertà”. In ogni democrazia il rifiuto di tale dicotomia dovrebbe essere un concetto ovvio. Non lo è più di questi tempi, dominati più dalla paura e dalla collera che dalla ragione e dalla rule of law».

mercoledì 18 novembre 2015

La sacralità di Lea Garofalo secondo Marco Tullio Giordana







 



Questa sera, alle 21.20, su RAI 1 il film di Marco Tullio Giordana sulla vita di Lea Garofalo.



di Maurizio Porro (da La 27maOra)
 
 
Altri 100 passi di Marco Tullio Giordana in direzione del cinema civile. Se nel film di 15 anni fa con Lo Cascio si ricordava Peppino Impastato in lotta contro la mafia in cui militava il padre, Lea , che apre l’11 novembre il RomaFiction Fest coordinato da Piera Detassis, è la storia di una vittima della ‘ndrangheta in cui milita tutta la famiglia. Dice il regista: «Lei aveva fatto vedere I cento passi alla figlia, dicendo che avrebbe fatto la stessa fine: quel film è stato un punto di riferimento. Questo ricorda uno dei fatti di cronaca più spaventosi, un omicidio tribale e orrendo che viene da un mondo remoto».
Ancora anime nere: la Calabria in trasferta al Nord e una donna che non vuole accettare il malaffare atavico e cerca di resistere con la figlia Denise, sotto scorta. Quando il programma di protezione viene revocato, Lea scompare, il 24 novembre 2009. Spetta a Denise infiltratasi nella cosca familiare per denunciare i veri colpevoli, fratello e padre, smascherati da un pentito, finché il corpo viene trovato: ergastolo per tutti, anche per la 24enne Denise che vive da sorvegliata speciale.
Una vera tragedia greca. «Gli elementi ci sono tutti — dice Giordana —. Il film è in ordine cronologico: la adolescenza calabrese di Lea, inseguendo un romanzo di formazione, girando a Milano, ricostruendo aule del tribunale e telecamere di sorveglianza. Solo alla fine ho inserito veri documenti del funerale con la città intera mobilitata. L’eloquenza di quelle facce ed espressioni non si poteva replicare, volevo fosse chiaro che avevamo raccontato una storia vera».
Tornando alla tv, dove piantò un paletto d’autore con La meglio gioventù , Giordana la vede come un supporto importante: «Proposta l’idea, ho girato come un fulmine in 6 settimane». Lea (produzione Rai e Angelo Barbagallo con l’Associazione Produttori Tv e la Fondazione Cinema per Roma, col sostegno di Regione Lazio, Camera di commercio) passerà su Rai1 il 18 novembre. «Non è solo un film-tv di rara forza, ma è anche un‘opera di grande valore civile, anzi di denuncia. Un impegno che per noi è prioritario», sottolinea il direttore Rai Fiction Tinny Andreatta.
Tensioni sul set? «No — riprende Giordana — ho avuto appoggi basilari, come quello di don Ciotti, interpretato da Diego Ribon. Lui e l’avvocato Vincenza Rando hanno spiegato che la denuncia contro l’omertà, la rottura con le famiglie, è il passo che mette in crisi i meccanismi automatici di obbedienza, le leggi non scritte della ‘ndrangheta».
E qui è la madre Lea a ribellarsi: «Quando le donne rompono la linea di continuità si apre la frattura, la crisi vera. Don Ciotti rivela che, dopo Lea, è stato avvicinato da molte donne terrorizzate, il fenomeno è in crescita, è l’unico modo per rompere il blocco, la fortezza impenetrabile». Per Lea un cast di volti nuovi di cui Giordana è entusiasta, partendo dalle due eroine, Vanessa Scalera (Lea) e Linda Caridi (Denise).
Ma fra quei cento passi e questi c’è continuità: «È sempre l’universo familiare, clan a delinquere fondato sul sacro vincolo di sangue. Lea si ribella e cambia vita perché pensa ai figli, cioè al futuro. Gli uomini hanno perso credibilità, le donne sono concrete, a loro spetta educazione e trasmissione di valori. L’elemento rivoluzionario è femminile».
La prova? È nel testo che Giordana prepara dell’irlandese Colm Tòibìn, Il testamento di Maria con Michela Cescon, dal 17 novembre allo Stabile di Torino. «Le due figure archetipe di madri, una laica, l’altra sacra, la Madonna, due ribelli che protestano contro il ruolo attribuito, vogliono esser se stesse».
Anche Lea ha una sua religione in fondo? «In lei c’è sacralità. Ex agnostico e incredulo, oggi ho la massima curiosità e invidia per chi ha la fede. Penso che Lea credesse: quel sentimento di maternità l’avvicina alla religione. Perciò metto il film a disposizione della società civile. Ma di politica non ne voglio più nemmeno sentir parlare».


venerdì 6 novembre 2015

Il festival dei beni confiscate alle mafie






Da venerdì 6 a domenica 8 novembre torna a Milano il Festival dei Beni sequestrati e confiscati alle mafie: incontri e convegni, presentazione di libri, anteprime di film e spettacoli teatrali e la possibilità di visitare case e negozi, un tempo usati dalla criminalità organizzata, oggi restituiti alla cittadinanza e divenuti luogo di attività di carattere sociale.

Il
festival aprirà venerdì 6 alle ore 10 a Casa Chiaravalle, il bene più grande mai confiscato a Milano, con un incontro dedicato agli studenti delle scuole milanesi e proseguirà anche sabato con le visite ad alcuni beni aperti al pubblico
per l’occasione:

- casa Chiaravalle in via Sant’Arialdo 69;
- appartamento via Monti 41;
- negozio via Leoncavallo 12;
- negozio via Momigliano 3;
- appartamento via Ceriani 14;
- appartamento via Curtatone 12;
- negozio in via Leoncavallo 12;
- appartamento in viale Jenner 31.

Sempre venerdì 6,
alle ore 19 nella Sala Consiliare di Palazzo Marino si svolgerà l’incontro cui parteciperanno il Presidente onorario di Libera, Luigi Ciotti, e il regista cinematografico, Marco Tullio Giordana
che, in anteprima a Milano, presenterà il suo nuovo film “Lea”, dedicato a Lea Garofalo, vittima della mafia.

Per il programma completo delle iniziative
clicca qui

sabato 24 ottobre 2015

I dannati della metropoli. Etnografie dei migranti ai confini della legalità: la città oscura che non ha voce


Esistono da sempre due città, una legale e l'altra illegale, i cui confini si spostano a seconda delle epoche storiche e delle necessità economiche contingenti. Spesso gli abitanti di queste due città si sfiorano, interagiscono, confliggono. Sulle loro contaminazioni si costruisce il tessuto sociale. Quasi sempre gli abitanti della città oscura non hanno voce sui media ufficiali: sono un numero, una statistica o un titolo di giornale. I dannati della metropoli. Etnografie dei migranti ai confini della legalità, edito da Le Milieu, nasce dalla necessità di far parlare i protagonisti del disagio e della devianza che vivono e attraversano le nostre metropoli. Andrea Staid si è messo in ascolto delle voci della città oscura, senza pregiudizi.



L'associazione per i Diritti Umani ha rivolto alcune domande ad Andrea Staid e lo ringrazia molto per la sua disponibilità.


 
 
 
 

Il suo testo parte dall'assunto che esistano due città: una legale e un'altra illegale. Da chi è popolata quella illegale e quali sono i problemi delle persone che la abitano ?



Negli ultimi anni mi sono interessato sempre di più agli abitanti che vivono ai margini delle nostre metropoli e quindi mi sono soffermato sul mondo dell’illegalità. E' importante indagare in quella giustapposizione di due mondi, o città, che coesistono ma si ignorano o meglio si guardano, nonostante la prossimità, da una distanza insuperabile - la città che si autoproclama legittima e quella più o meno invisibile dell'illegittimità, dell'immigrazione, della micro-criminalità, della prostituzione, della tossicodipendenza. Due città ovviamente, in una posizione profondamente diversa e asimmetrica ma che se ci pensiamo bene sono due facce della stessa medaglia, perché la città illegale non fa altro che rispondere a una domanda creata da quella città autoproclamatasi legittima e legale. Piccoli esempi per capirci meglio chi vende droga appartiene alla città illegale, ma chi la compra? Chi lavora in nero sfruttato fa parte della città illegale, ma chi gli ordina di lavorare? Ma soprattutto chi compra e consuma i prodotti da lui lavorati? Chi si prostituisce vive nella città illegale, ma chi va con le prostitute? La città illegittima è titolare di un offerta di servizi la cui clientela è costituita in gran parte da membri della società legittima.

I problemi invece all’interno della città illegale sono tanti, ovviamente sto parlando della microcriminalità, le regole nella criminalità organizzata sono molto differenti, io non le ho studite e quindi preferisco non parlarne. Nel mondo microcriminale, o anche solamente dell’illegalità creata dalle norme dello stato, come i migranti che non riescono ad avere il permesso di soggiorno, i problemi sono quotidiani, ma possiamo riassumerli tutti nella loro grande impossibilità di accedere ai diritti che sono garantiti agli abitanti della città legale, per esempio il diritto all’abitare, ai servizi sociali, insomma viene negata la possibilità di vivere una vita dignitosa.

 

Ci può anticipare il tema centrale del libro, ovvero il caso di Viale Bligny, a Milano?


Nel mio libro il palazzo di Viale Bligny 42 viene trattato come un caso specifico, precisamente nel quinto capitolo ho cercato di creare una ricostruzione etnografica di un palazzo sicuramente particolare di Milano quello che dalla stampa viene chiamato ingiustamente il fortino della droga, un palazzo della vecchia Milano, situato a pochi isolati dal centro cittadino, nella via che porta alla famosa Porta Romana e a pochi passi dall'università della giovane elites italiana, la Bocconi. In questo capitolo ho analizzato la quotidianità di una realtà meticcia nel cuore di Milano, ho cercato di farlo senza pregiudizi e attraverso il contatto diretto con chi vive e attraversa quel luogo. In questo palazzo ho trascorso un anno per conoscere e intervistare gli abitanti provenienti da tutto il mondo, stiamo parlando di uno stabile formato da 220 appartamenti per più di 700 abitanti. Un micro paese, una comunità che oggi è formata da migranti, anziani inquilini arrivati dal sud Italia, altri italiani che vogliono vivere spendendo poco in una zona centrale di Milano e ancora da studenti e artisti. Un palazzo dove sicuramente ci sono dei problemi ma dove un’associazione di condomini ha deciso di costruire dal basso percorsi di interazione tra culture diverse e soprattutto gli abitanti dell’edificio mondo hanno cominciato a risolvere i problemi della quotidianità occupandosene in prima persona.


Il suo è uno sguardo antropologico: quali sono le sue conclusioni sulle città contemporanee? Quali le esigenze dei cittadini? E gli errori da parte delle istituzioni (soprattutto in termini di accoglienza e immigrazione)?


E’ difficile con uno sguardo antropologico trovare delle conclusioni sullo stato delle città contemporanee perché sono sempre più un coacervo di culture in movimento. Quello che vedo forse peccando di estremo ottimismo è che la realtà, anche quella marginale trova soluzioni molto interessanti per migliorarsi e andare avanti, soluzioni che ovviamente non fanno notizia sui mass media che continuano imperterriti a narrarci un presente di crisi, scontri culturali e impossibilità. Basti pensare a questa narrazione sull’invasione dei migranti, è un falso, sono tante le donne, gli uomini e i bambini in arrivo, ma sono numeri che un paese come l’Europa potrebbe accogliere senza problemi, quello che servirebbe sarebbe una gestione del “comune” assai differente. Le risorse ci sono, il problema è che vengono gestite in modo sbagliato e che il primo pensiero di molti è lucrare sui i migranti, credo che Mafia capitale sia un’indagine che ci può insegnare molto.


Non ho chiaro fino a che punto l’antropologia possa estendere il suo linguaggio specifico per rappresentare adeguatamente i concetti che gli osservati hanno sviluppato e che hanno espresso. Probabilmente l’antropologia può riflettere la visione del mondo delle persone che studia ma non riesco ad averne l'assoluta certezza. Come scrive Clifford Geertz già al momento dell'esposizione dei fatti veri e propri noi stiamo dando spiegazioni; e, quel che è peggio, spiegazioni di spiegazioni. Per questo ha un senso affermare che la ricerca antropologica deve procedere secondo un progetto teorico e conoscitivo, il quale deve a sua volta essere identificabile attraverso un’impalcatura epistemologica fatta di teorie, concetti, nozioni, ipotesi e dati, e di un vocabolario sulla base dei quali sia possibile confrontare e porre in relazione esperienze e intenzionalità etnografiche ed esistenziali differenti. L’antropologia deve essere considerata un sapere attraverso cui sia possibile percepire una visione del mondo che consenta di comprendere tutti i possibili mondi culturali, di conoscere appunto, senza per forza riconoscersi.


Come si è svolta la ricerca che ha portato alla stesura di questo libro?


 
La mia ricerca è iniziata nel 2007 e ancora oggi non si è conclusa. Il metodo è quello della ricerca sul campo, un’osservazione partecipante, un metodo etnografico che negli anni sto cercando di affinare per trovare un equilibrio sempre più forte tra intervistato e intervistatore. Quello che cerco di fare quando faccio ricerca è immedesimarmi il più possibile cono la vita delle persone che voglio comprendere, analizzare, studiare, lo faccio passando periodi lunghi sul campo approfondendo i rapporti con le persone che voglio intervistare e conoscere. Sto molto attento all’uso di registratori e macchine fotografiche, capisco che mettono in soggezione e non faccio solo domande, mi racconto e vivo la quotidianità con i protagonisti delle miei ricerche. E’ importante però sottolineare che l'antropologo pur impregnandosi con i modi di fare dell'ambiente in cui si trova non si trasforma mai in un membro della comunità che studia, pensarsi un agente neutro o considerarsi sullo stesso piano dell'intervistato sarebbe un errore grave per il ricercatore, deve sempre comprendere che è impossibile astrarsi da quella che è la sua posizione diametralmente differente da chi vive quello che viene raccontato.

Nella mia ricerca nel mondo dell’illegalità ho scelto di rivelare subito la mia identità di osservatore, non mi sono finto cliente o giornalista, da subito era noto agli osservati quello che stavo facendo, per questo credo che la mia osservazione partecipante sia diventata nei mesi trascorsi una specie di action research che ha indotto riflessioni, dibattiti, discussioni e ha quasi costretto i soggetti osservati a prendere coscienza delle proprie dinamiche relazionali.


mercoledì 21 ottobre 2015

#Nonmelaspaccigiusta: la campagna sulle droghe non è finita


Cari tutti,

oggi vi mettiamo al corrente della campagna #Nonmelaspaccigiusta organizzata da Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili (CILD) e da altre associazioni, come Antigone,sul tema delle droghe.

A seguito del comunicato, pubblichiamo una dichiarazione di Patrizio Gonnella - Presidente dell'Associazione Antigone - che ha rilasciato all'Associazione per i Diritti umani. Lo ringraziamo molto.

 
 
 

Nel mese di aprile 2016 le Nazioni Unite dedicheranno una sessione speciale dell’assemblea generale al tema delle droghe (Ungass). È l’occasione per mettere definitivamente in soffitta la war on drugs.


Il nostro messaggio alle istituzioni


Le droghe sono un fenomeno complesso che riguarda milioni di persone solo in Italia.
È necessaria una risposta di tipo multi-disciplinare: sociale, culturale, medica.


Non si può delegare tutto alla giustizia criminale e all’incarcerazione di massa.

L’Italia è stata in prima linea nella guerra alle droghe con una legislazione ideologica, punitiva, repressiva. La legge Fini-Giovanardi, in parte abrogata dalla Corte Costituzionale, va del tutto superata. Essa si fondava sulla logica della proibizione assoluta, della repressione, della carcerazione diffusa.

Ci vuole un cambio di paradigma puntando su altre parole chiave, ovvero prevenzione, riduzione del danno, decriminalizzazione, depenalizzazione e legalizzazione.

Il Governo italiano non ha ancora fatto sapere quale sarà la sua posizione in attesa di Ungass 2016 e quando convocherà la conferenza nazionale sulle droghe.

Noi chiediamo al Presidente del Consiglio dei Ministri di dare un segnale di cambiamento nella direzione del superamento della war on drugs e di spingere l’intera Unione Europea in questa direzione.

Gli chiediamo anche di annunciare la data della conferenza nazionale sulle droghe, indispensabile per un dibattito pubblico su un tema tanto cruciale.






INTERVENTO DI PATRIZIO GONNELLA
 
Era il 17 luglio 1971, quando l’allora presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon, dichiarò quella che è conosciuta globalmente come la “war on drugs”. Davanti al congresso Nixon disse che il consumo di droga aveva assunto la dimensione di una emergenza nazionale e chiese a Capitol Hill uno stanziamento iniziale di 84 milioni di dollari per assumere misure di emergenza. Dopo 40 anni e miliardi di dollari spesi per combatterla nelle strade nei tribunali e con incarcerazioni di massa, la guerra alla droga è persa. Molti stati se ne sono accorti e iniziano a cambiare le proprio politiche. Anche le Nazioni Unite lo hanno capito e per la primavera del 2016 hanno convocato una sessione speciale dell’Assemblea Generale su questo tema. Sarà l’occasione per un cambiamento profondo a livello globale e sarà un’occasione senza precedenti anche per l’Italia per far sentire una nuova voce e avere peso in queste scelte. Per favorire questo cambiamento è però necessaria un’opinione informata. Cosa hanno comportato le politiche proibizioniste e repressive in Italia? Quanti sanno che dal 2006 al 2014 circa 250.000 persone sono entrate in carcere, per una spesa per lo Stato di oltre 1 miliardo di euro l’anno, senza contare i soldi spesi per forze dell’ordine e tribunali. E quanti sanno che se la cannabis fosse legale l’Italia guadagnerebbe tra i 7 e i 13 miliardi di euro ogni biennio grazie alla tassazione. Quanti conoscono i reali effetti delle droghe (cannabis-cocaina-anfetamine-ecc.) e quanti il confronto tra cannabis e alcool, due sostanze psicoattive, una illegale e l’altra no? E ancora, in quanti sanno quali sono le sanzioni previste per l’uso personale, se l’uso di gruppo è ammesso o punito, cosa accade se si viene fermati mentre si è alla guida dopo aver utilizzato sostanze? Con #NonMeLaSpacciGiusta la Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili (CILD) punta proprio a questo: ad informare per favorire un dibattito non ideologico, aperto ai dati e alla voci di tutti. Il progetto si avvale della competenza di ONG, medici, avvocati, giornalisti scientifici e propone un sito con numerosi materiali per fornire una base di conoscenza che informi il dibattito politico e mediatico. Le droghe non sono da trattare tutte allo stesso modo: in maniera disinformata, ideologica e approssimativa. Le droghe sono una diversa dall’altra. È necessario informare correttamente circa i rischi dell’uso e dell’abuso. Il tema riguarda la salute psico-fisica delle persone, i loro stili di vita, la libertà di scelta, l’educazione. Considerarla solo di rilevanza giudiziaria significa fare un favore immenso alle mafie e a chi è capace di guadagnare ingenti somme di denaro dal mercato nero. I nostri ragazzi vanno educati, sostenuti, protetti, informati. Non serve perseguitarli e incarcerarli. Il cambiamento inizia da un’opinione informata. Contro chi non ce la spaccia giusta.

sabato 17 ottobre 2015

Accesso ai servizi sanitari in Africa

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 



di Veronica Tedeschi




La cartina qui in alto rappresenta l’accesso ai servizi sanitari in tutta l’Africa.


Inutile precisare che la situazione è critica per la maggior parte dei territori africani, soprattutto considerando il confronto con i Paesi europei in cui la percentuale del grafico è del 100% e questo indica che l'accesso è ottimale, o quasi.


Come si può notare, gli Stati che si trovano in condizioni più gravi interessano l’Africa subsahariana: le motivazioni sono molteplici, ma sicuramente le guerre civili che dilaniano questi Paesi non permettono la crescita istituzionale e sanitaria.



I pochi ospedali esistenti sono situati solo nelle grandi città, dove c’è sovraffollamento ed inoltre si presentano come agglomerati molto estesi e privi di qualsiasi struttura.

I medici sono circa 0,8 per mille abitanti e tutte le spese sono a carico dei malati, spesso bambini, donne in gravidanza e anziani.

Anche i farmaci hanno un costo alto e, nella maggior parte dei casi, sono di qualità scadente; altro problema è che molti farmaci provengono dall’Occidente e quindi non sono adatti per le malattie tropicali (uno studio del 1999, infatti, evidenzia che solo 13 dei 1233 farmaci in commercio in Africa sono creati per curare malattie tropicali).

 
 
A tutto questo si aggiunge che il 52% del continente africano non dispone di acqua potabile e il 90% delle malattie viene trasmesso proprio attraverso l'acqua.

Chi ci rimette, naturalmente, è la popolazione civile che, nella maggior parte dei casi, è costretta a scappare e a migrare illegalmente nei territori limitrofi.

 







giovedì 8 ottobre 2015

La pena di morte è disumana




In occasione delle ultime esecuzioni negli Stati Uniti (la prima donna in 70 anni è stata condannata alla sedia elettrica in Georgia e la pena eseguita nei giorni scorsi), ripubblichiamo un intervento del Pontefice - sui temi delle carceri e della pena di morte - ma ancora molto attuale.


(dal sito de L'Osservatorio Romano)

Francesco: abolire pena di morte, no a carcere disumano

Udienza di Papa Francesco nella Sala dei Papi - L'Osservatore Romano
23/10/2014

Cristiani e uomini di buona volontà “sono chiamati oggi o a lottare non solo per l’abolizione della pena di morte”, in “tutte le sue forme”, ma per il miglioramento delle “condizioni carcerarie”. È uno dei passaggi centrali del discorso tenuto da Papa Francesco in Vaticano a un gruppo di giuristi dell’Associazione penale internazionale. La voce del Papa si è levata anche contro il fenomeno della tratta delle persone e della corruzione. Ogni applicazione della pena, ha affermato, deve essere fatta con gradualità, sempre ispirata dal rispetto della dignità umana. Il servizio di Alessandro De Carolis:

L’ergastolo è una “pena di morte coperta”, per questo l’ho fatta cancellare dal Codice Penale Vaticano. L’affermazione a braccio di Papa Francesco si incastona in una intensa, particolareggiata disamina di come gli Stati tendano oggi a far rispettare la giustizia e a comminare le pene. Il Papa parla con la consueta schiettezza e non risparmia critiche a tempi come i nostri in cui, afferma, politica e media incitano spesso “alla violenza e alla vendetta pubblica e privata”, sempre alla ricerca di un capro espiatorio. Il passaggio sulla pena di morte è molto sentito. Papa Francesco ricorda che “San Giovanni Paolo II ha condannato la pena di morte”, come pure il Catechismo, non solo punta il dito contro il ricorso alla pena capitale, ma smaschera in un certo senso anche quello alle “cosiddette esecuzioni extragiudiziali o extralegali”, che lui chiama “omicidi deliberati”, commessi da pubblici ufficiali dietro il paravento dello Stato:

“Tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà sono dunque chiamati oggi o a lottare non solo per l’abolizione della pena di morte, legale o illegale che sia, e in tutte le sue forme, ma anche al fine di migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della dignità umana delle persone private della libertà. E questo, anche, io lo collego con l’ergastolo. In Vaticano, poco tempo fa, nel Codice penale del Vaticano, non c’è più, l’ergastolo. L’ergastolo è una pena di morte coperta”.

Lo sguardo e la pietà di Papa Francesco sono evidenti in tutta la sua esplorazione sia delle forme di criminalità che attentano alla dignità umana, sia del sistema punitivo legale che talvolta – dice senza giri di parole – nella sua applicazione legale non è, perché quella dignità non rispetta. “Negli ultimi decenni – rileva all’inizio il Papa – si è diffusa la convinzione che attraverso la pena pubblica si possano risolvere i più disparati problemi sociali, come se per le più diverse malattie ci venisse raccomandata la medesima medicina”. Questo ha fatto sì che il sistema penale abbia varcato i suoi confini – quelli sanzionatori - per estendersi sul “terreno delle libertà e dei diritti delle persone”, ma senza un’efficacia realmente riscontrabile:

“C’è il rischio di non conservare neppure la proporzionalità delle pene, che storicamente riflette la scala di valori tutelati dallo Stato. Si è affievolita la concezione del diritto penale come ultima ratio, come ultimo ricorso alla sanzione, limitato ai fatti più gravi contro gli interessi individuali e collettivi più degni di protezione. Si è anche affievolito il dibattito sulla sostituzione del carcere con altre sanzioni penali alternative”.
 
Papa Francesco definisce ad esempio il ricorso alla carcerazione preventiva una “forma contemporanea di pena illecita occulta”, celata dietro “una patina di legalità”, nel momento in cui procura a un detenuto non condannato un’“anticipo di pena” in forma abusiva. Da ciò – osserva – deriva sia il rischio di moltiplicare la quantità dei “reclusi senza giudizio”, cioè “condannati senza che si rispettino le regole del processo” – e in alcuni Paesi sono il 50% del totale – sia, a cascata, il dramma della vivibilità delle carceri:

“Le deplorevoli condizioni detentive che si verificano in diverse parti del pianeta, costituiscono spesso un autentico tratto inumano e degradante, molte volte prodotto delle deficienze del sistema penale, altre volte della carenza di infrastrutture e di pianificazione, mentre in non pochi casi non sono altro che il risultato dell’esercizio arbitrario e spietato del potere sulle persone private della libertà”.
 
Ma Papa Francesco va oltre quando, parlando di “misure e pene crudeli, inumane e degradanti”, paragona a una “forma di tortura” la detenzione praticata nelle carceri di massima sicurezza. L’isolamento di questi luoghi, ricorda, causa sofferenze  “psichiche e fisiche” che finiscono per incrementare “sensibilmente la tendenza al suicidio”. Ormai, è la desolante constatazione del Papa, le torture non sono somministrate solamente come mezzo per ottenere “la confessione o la delazione”…

“…ma costituiscono un autentico plus di dolore che si aggiunge ai mali propri della detenzione. In questo modo, si tortura non solo in centri clandestini di detenzione o in moderni campi di concentramento, ma anche in carceri, istituti per minori, ospedali psichiatrici, commissariati e altri centri e istituzioni di detenzione e pena”.

E dalla durezza del carcere, insiste il Papa, devono essere risparmiati anzitutto i bambini, ma anche – se non del tutto almeno in modo limitato –anziani, ammalati, donne incinte, disabili, compresi “madri e padri che – sottolinea – siano gli unici responsabili di minori o di disabili”. Papa Francesco si sofferma con alcune considerazioni su un fenomeno da lui sempre combattuto. La tratta delle persone, sostiene, è figlia di quella “povertà assoluta” che intrappola “un miliardo di persone” e ne vede almeno 45 milioni costrette alla fuga a causa dei conflitti in corso. Quindi, osserva con durezza:
 
“Dal momento che non è possibile commettere un delitto tanto complesso come la tratta delle persone senza la complicità, con azione od omissione, degli Stati, è evidente che, quando gli sforzi per prevenire e combattere questo fenomeno non sono sufficienti, siamo di nuovo davanti ad un crimine contro l’umanità. Più ancora, se accade che chi è preposto a proteggere le persone e garantire la loro libertà, invece si rende complice di coloro che praticano il commercio di esseri umani, allora, in tali casi, gli Stati sono responsabili davanti ai loro cittadini e di fronte alla comunità internazionale”.
 
Il capitolo sulla corruzione è ampio e analizzato con grande scrupolo. Il corrotto, secondo Papa Francesco, è una persona che attraverso le “scorciatoie dell’opportunismo”, arriva a credersi “un vincitore” che insulta e se può perseguita chi lo contraddice con totale “sfacciataggine”. “La corruzione – afferma il Papa – è un male più grande del peccato” che “più che perdonato”, “deve essere curato”:

"La sanzione penale è selettiva. È come una rete che cattura solo i pesci piccoli, mentre lascia i grandi liberi nel mare. Le forme di corruzione che bisogna perseguire con [la] maggior severità sono quelle che causano gravi danni sociali, sia in materia economica e sociale – come per esempio gravi frodi contro la pubblica amministrazione o l’esercizio sleale dell’amministrazione – come in qualsiasi sorta di ostacolo frapposto al funzionamento della giustizia con l’intenzione di procurare l’impunità per le proprie malefatte o [per] quelle di terzi”.

Al tirare delle somme, Papa Francesco esorta i penalisti ad usare il criterio della “cautela” nell’applicazione della pena”. Questo, asserisce, “dev’essere il principio che regge i sistemi penali”:

“Il rispetto della dignità umana non solo deve operare come limite all’arbitrarietà e agli eccessi degli agenti dello Stato, ma come criterio di orientamento per il perseguimento e la repressione di quelle condotte che rappresentano i più gravi attacchi alla dignità e integrità della persona umana”.






mercoledì 7 ottobre 2015

Dichiarazioni delle Europarlamentari Barbara Spinelli e Eleonora Forenza contro lo sgombero del campo rom a Pisa




Apprendiamo con preoccupazione le notizie relative all’imminente sgombero del campo rom della Bigattiera, nel Comune di Pisa. Il Sindaco della città ha firmato in queste ore l’ordinanza DD-08 / 12 del 25/09/2015, Codice identificativo 1190162, con la quale ordina «l’allontanamento di tutte le persone presenti e/o dimoranti abusivamente nell’area entro tre giorni». L’ordinanza non dispone alcuna alternativa per gli abitanti del campo – tra i quali vi sono numerose famiglie con bambini anche molto piccoli – e in pratica si limita a buttare in mezzo a una strada centinaia di persone.
Si tratta dell’esito ultimo di una politica del Comune di Pisa volta a ridurre le presenze rom nel territorio, come dichiarato esplicitamente dall’amministrazione nel Dicembre 2014. Più volte la Giunta municipale ha parlato di un “carico eccessivo” di persone rom, la cui presenza andava diminuita con drastiche politiche di contenimento numerico: evidentemente un intero gruppo etnico, in quanto tale, rappresenta agli occhi del Comune un “problema”.

Come parlamentari europee, vorremmo ricordare che queste politiche sono in evidente contrasto con tutte le normative dell’Unione. Già nel 2011, infatti, la Commissione – con la propria Comunicazione n. 173, recepita anche dal Governo italiano – aveva richiamato gli Stati Membri a promuovere politiche di inclusione nei confronti delle popolazioni rom e sinte, superando la pratica illegale degli sgomberi forzati.

Ricordiamo inoltre che gli sgomberi forzati sono vietati dalle Nazioni Unite (risoluzione n. 1993/77) e dalla Carta Sociale Europea: gli strumenti di diritto internazionale obbligano le autorità a fornire un congruo preavviso, a predisporre soprattutto soluzioni abitative per tutte le persone e le famiglie coinvolte, e in generale a garantire un’ampia partecipazione degli interessati ai programmi di superamento dei campi: queste regole valgono anche per gli insediamenti cosiddetti “abusivi”, e a prescindere dallo status giuridico delle persone (dalla regolarità del loro soggiorno).

Il Comune di Pisa sta agendo in aperta violazione di tali norme: cosa che appare tanto più grave in quanto il Consiglio comunale stesso, due anni fa, aveva indicato una strada diversa per superare l’insediamento della Bigattiera, e per garantire alle famiglie un alloggio dignitoso.

Oggi invece l’amministrazione sceglie di violare le normative europee e internazionali, adducendo come motivazione problemi igienico-sanitari che sono stati creati dalla stessa azione amministrativa. In tal modo il Sindaco di Pisa si assume una responsabilità gravida di conseguenze. Come parlamentari europee, ci rivolgeremo alla Commissione per chiedere che siano presi immediati provvedimenti ed eventuali sanzioni, affinché siano rispettati e garantiti i diritti umani e civili delle persone che abitano alla Bigattiera.