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martedì 29 dicembre 2015

Parte la seconda carovana per Gaza

Dopo un anno di preparativi e una partenza sfumata a Luglio, finalmente il progetto iniziato lo scorso anno del “Festival delle culture tra arte e sport” può continuare e rinnovarsi   (da Nenanews.it)




Il 27 dicembre partirà la seconda carovana per Gaza, un programma che avrà molteplici obiettivi: sostenere la resistenza palestinese e la popolazione della Striscia che vive da anni una situazione di assedio perenne e di isolamento internazionale; dare la possibilità ai Gazawi di avere l’occasione di potersi esprimere liberamente e con serenità in contesti differenti rispetto alle condizioni esistenziali che sono costretti a sopportare; essere testimoni di quello che accade sia della fase attuale che del contesto generale; diffondere questa testimonianza per rendere tutti coscienti della realtà dei fatti a fronte di una campagna mediatica che ha dipinto e dipinge Israele come vittima, anziché come paese colonizzatore e oppressore; scambiare competenze nell’ottica di un arricchimento culturale reciproco.
Il progetto è quindi rilevante nell’immediato e nel breve periodo, in quanto coglie la necessità primaria per la popolazione di uscire da una quotidianità caratterizzata dal perenne status di guerra, ma è ancora più fondamentale nel lungo periodo, poiché si tratta di un investimento che si spera continui nel tempo e che sia soprattutto in grado di innestarsi nell’intricata e complessa situazione della resistenza palestinese contro il governo israeliano, che nel corso degli anni si è dimostrato non solo colonizzatore, ma fascista nei modi e xenofobo nell’azione.
L’anno scorso lo scenario era quello del periodo post operazione “Margine Protettivo”, una strategia sanguinaria che aveva messo in ginocchio i Gazawi con una guerra impari che ha portato distruzione ovunque (gli aiuti sono iniziati ad arrivare a settembre di quest’anno), massacri, morti, povertà diffusa, impossibilità di condizioni di vita decenti (taglio dell’energia elettrica; bombardamenti continui lungo il confine e in mare; mancanza di acqua; difficoltà strutturali nelle scuole che hanno impedito per molto tempo lo svolgimento delle lezioni …). Questo si aggiungeva già ad un contesto in cui l’autosufficienza della Striscia versava in condizioni di estrema precarietà: un altissimo tasso di disoccupazione (circa il  Il 43 per cento degli 1,8 milioni dei residenti della Striscia sono disoccupati. Tra i giovani è il 60 per cento a non avere un lavoro), una situazione economica al collasso per l’embargo egiziano e israeliano e per le guerre (le esportazioni dal territorio palestinese sono infatti azzerate e il settore manifatturiero è stato abbattuto del 60 per cento), un tasso di povertà altissimo, circa il 40%.
Secondo la Banca Mondiale, la ripresa economica è fortemente ostacolata dall’impossibilità per merci e persone di muoversi.
Quest’anno la situazione che la carovana si troverà ad affrontare non sembra affatto più rosea.
E’ ancora in corso infatti un periodo di tumulti e ribellioni, soffocati dalla forza repressiva israeliana che sta mietendo vittime ogni giorno.
L’hanno chiamata “Intifada dei coltelli”, ma come abbiamo visto, questa terza fase di rivolte si presenta in modo totalmente differente rispetto alle precedenti.
Anzitutto, dietro agli episodi che si sono verificati non c’è alcuna strategia di gruppi organizzati o partiti.
Questo si è potuto rilevare sia dall’assenza di una rappresentanza politica a cui si rifanno gli scontri (a parte Hamas che per un momento ha cavalcato la questione cercando di determinare quella situazione), sia dal carattere di spontaneità che hanno caratterizzato certi episodi, che dalle persone coinvolte: giovani uomini e donne che hanno agito mossi da un sentimento di disperazione e disillusione totale.
Un sentire che pesa per i tre anni di guerra che ha subito la Striscia (2 guerre in 3 anni) e per il grave regime di apartheid che subisce la popolazione palestinese ogni giorni in Cisgiordania e nei territori occupati.
Protagonista di questa Intifada, quindi, è soprattutto la popolazione giovanile, generazioni che sono cresciute sull’eredità del fallimento degli accordi di Oslo e sulla vana speranza di trovare un modo per uscire da una situazione di emarginazione ed oppressione che non permette la realizzazione dei più banali (per noi) obiettivi di vita.
E’ in questa matassa che si inserisce questo festival: per rispondere ad esigenze umane, sociali, politiche della popolazione e per restituire una realtà alterata e falsificata dai media.
Sostenere l’autodeterminazione dei popoli e dei territori, lottare contro i meccanismi di colonizzazione ed imperialismo che strozzano i palestinesi, condannare a gran voce un vero e proprio sistema di apartheid o informarsi ed informare è dovere morale di tutti.


Chi desidera mandare un aiuto economico, ecco l’Iban del Centro Vittorio Arrigoni a Gaza
IT35C0312703241000000051775
INTESTAZIONE: Giovanni Lisi   Maria Teresa Bartolucci
Causale: per Gaza, Centro Italiano. Attività festival
BIC: BAECIT2B
- See more at: http://nena-news.it/parte-la-seconda-carovana-per-gaza/#sthash.9Esvv3xa.dpuf

sabato 19 dicembre 2015

Sulla legge anti-niqab

L'Associazione per i Diritti umani ringrazia moltissimo Omar Jibril -  dirigente CAIM (Coordinamento Associazioni Islamiche di Milano) e Resp. Servizi Edilizi e valorizzazione del Territorio - per aver scritto per i nostri lettori questo suo contributo a commento della nuova legge regionale sul divieto del niqab in alcuni luoghi pubblici.
Ecco il testo di Omar Jibril:


A chi non è capitato di leggere od ascoltare almeno una volta, tra i banchi di scuola, l’ Articolo 3 della Costituzione Italiana che recita: “Tutti i cittadini hanno hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali….”?

La tendenza dell’uomo ad etichettare, escludere, categorizzare ha avuto influenze nefaste nel corso della storia, spingendo gli uni contro gli altri, determinando guerre e conflitti, schiavitù, orrori e massacri.

Il 10 dicembre del 1948 a Parigi l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò e proclamò la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani: ogni stato di diritto avrebbe assicurato la salvaguardia ed il rispetto dei diritti umani e delle libertà individuali, e avrebbe posto le proprie fondamenta sui principi di uguaglianza, giustizia ed equità.

Gli oltre 70 milioni di morti della Seconda Guerra Mondiale costituivano un tributo terrificante, il Mondo Civile voleva voltare pagina e scrivere un nuovo capitolo di pace ed armonia.

Nel 1960, Cassius Clay Mohamed Ali gettò nel fiume la medaglia d’oro di pugilato vinta alle Olimpiadi di Roma: tornato a casa sua a Louisville, nel Kentuchy, non potè fare colazione in un bar in quanto dedicato ai soli cittadini bianchi.

E se l’apartheid, la politica di segregazione razziale in Sudafrica, è perdurato fino al 1993, molti paesi vivono ancora oggi la medesima condizione.

In Italia la situazione è certamente molto diversa, ma non possiamo dire d’aver compiuto grandi passi avanti per es. sul tema della cittadinanza, che l’Impero Romano garantiva ad ogni cittadino residente entro i confini territoriali dello Stato che, all’epoca, dominava un quarto della popolazione mondiale. Oggi tra dispute parlamentari e proposte di legge, lo ius soli è entrato in vigore solo parzialmente.

Negli ultimi anni abbiamo assistito al proliferare del populismo politico, delle cassandre visionarie, dei profeti della paura. Se negli anni ’60-70 il problema erano i “terun” che emigravano verso il nord Italia rubando il lavoro agli autoctoni, negli anni ’90 hanno lasciato il posto agli immigrati da paesi esteri.

L’accanimento di alcune forze politiche e di alcuni media è oggi concentrato verso una categoria ben precisa: i musulmani.

Autoctoni o di origine straniera, i musulmani nel Belpaese sono circa 2 milioni, lavorano e contribuiscono al mantenimento dello Stato che da loro riceve più di quanto spende.

A inizio 2015 la Regione Lombardia ha attuato una legge che presenta tratti evidenti di incostituzionalità, la famosa Legge 12 definita “Anti-moschee”, perché mira ad impedire la costruzione di luogo di culto musulmani. La legge è già stata impugnata dal Governo e la sentenza è prevista a metà del 2016.

Confermando la propria vocazione, il Presidente della Regione Lombardia Maroni ha approvato un regolamento che vieta l’ingresso a volto coperto nei luoghi pubblici, facendo riferimento ad una Legge già esistente, la n° 152 del 22 maggio 1975 che dice: “È vietato l’uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo”.

Il 6 maggio del 2009 i deputati Sibai e Contento hanno presentato una proposta di legge con la quale volevano venisse integrato l’art. n° 152: “Al primo comma dell'articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152, e successive modificazioni, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: «È altresì vietato, al fine di cui al primo periodo, l'utilizzo degli indumenti femminili in uso presso le donne di religione islamica denominati burqa e niqab»”.

È chiaro ed evidente che una certa classe politica manifesta un palese accanimento nei confronti della comunità islamica italiana, negando de facto ai cittadini musulmani la possibilità di poter professare la propria religione in maniera dignitosa, e addirittura approvando regolamenti che vogliono colpire quella minoranza.

La “Legge anti-niqab” vuole impedire alle donne musulmane che portano il niqab, il velo che copre il viso lasciando scoperti solo gli occhi, l’accesso ai luoghi pubblici.

Partendo da un semplice calcolo statistico (le donne che indossano il niqab in Lombardia si contano sulle dita di una mano), non è ben chiaro per quale motivo in regione abbiano voluto rimarcare un principio che già fa parte del nostro ordinamento giuridico e che è sempre stato applicato con la regola del buonsenso.

Si vuol far passare l’idea che un certo abbigliamento è pericoloso, e che chi lo indossa può perseguire scopi violenti, sulla base della squallida equazione musulmani = terroristi.

Ogni individuo ha il diritto di vestirsi come ritiene opportuno, nei limiti della decenza, ben vengano i controlli a random (come le postazioni dei carabinieri lungo le grandi vie di esodo), chi non ha nulla da nascondere non avrà problemi a mostrare il proprio documento di riconoscimento, col volto celato o scoperto, ma davvero non abbiamo bisogno di questo clima di sospetto e diffidenza.

Bob Marley due giorni prima di un importante concerto fu ferito in un attentato; ciò non lo scoraggiò ed il 5 dicembre 1976 si esibì davanti ad una folla oceanica. Quando qualcuno gli chiese perchè avesse cantato quella sera lui rispose con quella che divenne una delle sue frasi più celebri: “Perché le persone che cercano di far diventare peggiore questo mondo non si concedono un giorno libero… Come potrei farlo io?!“.

Dio dice nel Corano: “O uomini, vi abbiamo creato da un maschio e da una femmina e abbiamo fatto di voi popoli e tribù, affinchè vi conosceste a vicenda”. E forse, supereremo il pregiudizio.


venerdì 4 dicembre 2015

Nigeria: la lotta al terrorismo causa un elevato numero di morti



L'Associazione per i Popoli Minacciati (APM) ha chiesto al governo nigeriano maggiore trasparenza e protezione per la popolazione civile nella lotta al terrorismo. La lotta alle milizie di Boko Haram nella Nigeria nordorientale avviene nel riserbo più assoluto. Nelle regioni del conflitto non sono ammessi né giornalisti né aiuti umanitari per la popolazione civile rimasta.

Secondo i dati forniti dall'aviazione militare nigeriana, tra settembre e ottobre 2015 l'aviazione militare ha compiuto 1.488 raid aerei contro presunte postazioni di Boko Haram. Secondo l'APM è più che realistico presumere che durante i bombardamenti vi siano state anche vittime civili. Poiché l'esercito nigeriano finora non ha mai comunicato il numero dei morti conseguente alle sue azioni, l'APM presume che il numero dei morti civili causati dal conflitto con Boko Haram sia molto più alto di quanto ufficialmente dichiarato.

Secondo i dati dell'Indice globale sul terrorismo pubblicati ieri 17 novembre dall'Institute for Economics and Peace, nel 2015 la Nigeria ha avuto 6.644 morti per attacchi terroristici. Nel 2014 i morti per terrorismo erano stati 7.512. Solo ieri 17 novembre un attentato di Boko Haram nella città di Yola (stato federale di Adamawa) ha causato altri 32 morti. Per riportare un'immagine realistica del terrore causato da Boko Haram bisogna però tenere conto anche della sanguinosa lotta anti-terrorismo condotta dalle forze istituzionali e dalle milizie alleate. Infatti, in Nigeria la popolazione civile ormai teme la violenza dell'esercito tanto quanto la violenza cieca di Boko Haram.

Circa 2,5 milioni di persone, cristiani quanto musulmani, sono in fuga dal terrore e dal contro-terrore che insanguinano il paese. 2,15 milioni di persone sono profughi interni che sono riusciti a trovare rifugio presso amici e parenti, ma la situazione dei profughi è catastrofica. La corruzione diffusa fa sparire buona parte degli aiuti umanitari promessi ai profughi. L'APM chiede quindi che la comunità internazionale esiga maggiore trasparenza nella gestione degli aiuti umanitari e contemporaneamente che vengano garantiti gli aiuti necessari affinché la popolazione vittima della violenza possa ricostruirsi una vita. Senza reali aiuti umanitari, senza lotta alla corruzione, alla povertà e all'abuso di potere non vi potrà essere una pace stabile e duratura nel paese africano già scosso da disastri ambientali e conseguenze del cambiamento climatico.

Boko Haram si è ufficialmente associato allo Stato Islamico nel marzo 2015 e ha proclamato la "provincia africana occidentale dello Stato islamico".





Vedi anche in gfbv.it: www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150413it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150217it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2014/141201it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2014/140926it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2014/140912it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2014/140716it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2014/140304it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2014/140213it.html | www.gfbv.it/3dossier/africa/nigeria-it.html
in www: www.economicsandpeace.org | it.wikipedia.org/wiki/Delta_del_Niger | http://it.wikipedia.org/wiki/Nigeria

domenica 29 novembre 2015

Ashraf Fayadh, poeta, curatore e artista, condannato a morte da un tribunale dell’Arabia Saudita




Ashraf Fayadh, poeta, curatore e artista, è stato condannato a morte da un tribunale dell’Arabia Saudita, paese dove è nato da genitori palestinesi. 
È accusato di aver promosso l’ateismo con i suoi testi inclusi nell’antologia poetica "Instructions within" (2008), di aver avuto relazioni illecite, di aver mancato di rispetto al profeta Maometto e di aver minacciato la moralità saudita. La sentenza è stata emessa il 17 novembre ed è previsto che Fayadh possa presentare una richiesta d’appello entro trenta giorni.
Fayadh, 35 anni, è rappresentante dell’organizzazione di artisti britannico-saudita Edge of Arabia. Nel 2013 è stato tra i curatori della mostra Rhizoma alla Biennale di Venezia. È stato arrestato nel gennaio del 2014 e nel maggio dello stesso anno è stato condannato a quattro anni di prigione e 800 frustate da un tribunale di Abha, nel sudovest dell’Arabia Saudita.
Dopo che il suo primo ricorso è stato respinto, una nuova corte lo ha condannato a morte.

Mona Kareem, poeta e attivista per i diritti dei migranti che ha lanciato una campagna per la liberazione di Fayadh, ha detto al Guardian che il poeta non può chiedere a un avvocato di difenderlo perché dal giorno del suo arresto non ha più i documenti d’identità. Secondo Kareem, Fayadh sarebbe vittima di discriminazione perché di origine palestinese.
Durante le udienze il poeta ha dichiarato di essere musulmano e ha respinto le accuse.
Libertà per il poeta #AshrafFayadh condannato a morte in Arabia Saudita.
 
 
PER FIRMARE la PETIZIONE SU CHANGE.ORG:

Il voto sulla radicalizzazione e i rischi della politica della paura

 

Strasburgo, 26 novembre 2015

Ieri il Parlamento europeo riunito in sessione plenaria ha votato la Relazione sulla prevenzione della radicalizzazione, relatrice Rachida Dati (PPE).
In qualità di relatore ombra per il GUE-NGL, Barbara Spinelli ha dato indicazione di voto contrario. «Non è stata una decisione semplice. Dopo mesi di discussione tra la relatrice e i rappresentanti “ombra” degli altri gruppi politici, ho deciso di dare al mio gruppo un'indicazione di voto contrario. Nonostante i negoziati si siano svolti nel rispetto delle reciproche posizioni, e una serie di nostri emendamenti molto importanti sia stata accolta nella Commissione Libertà pubbliche e nell'Assemblea plenaria (sul commercio d’armi, sul legame tra l’estendersi dell’islamofobia e le prolungate guerre anti-terrore dell’Occidente, ecc), il risultato finale ha risentito in maniera a mio parere affrettata degli attentati parigini del 13 novembre: il PPE ha accentuato negli ultimi giorni la natura repressiva del rapporto e ulteriori misure anti-terrorismo sono state adottate, senza che ancora siano valutate la necessaria proporzionalità nonché la necessità legale. La politica della paura, sotto molti aspetti, ha prevalso nella maggioranza dei gruppi, pur creando importanti divisioni nel gruppo socialista, in quello dei Verdi, e perfino nel GUE-NGL». 
«Il GUE-NGL è contrario da tempo all'introduzione della Direttiva PNR, soprattutto se estesa ai voli interni all'Unione, come richiesto nella risoluzione: si tratta di una misura che il Garante europeo per la protezione dei dati e altre importanti autorità hanno definito non necessaria né proporzionata. Allo stesso modo, concordiamo con l'analisi effettuata da European Digital Rights (EDRI) secondo cui gli standard di crittografia non dovrebbero essere arbitrariamente indeboliti, come di fatto lo sono nel rapporto approvato dal Parlamento, perché ciò rischia di avere effetti negativi sulla privacy di persone innocenti». 
«Riteniamo inoltre che la risoluzione criminalizzi le compagnie internet, obbligandole a una sistematica cooperazione con gli Stati e mettendole praticamente sotto la loro tutela. É un messaggio assai pericoloso che per questa via viene trasmesso ai regimi autoritari nel mondo, tanto più che di tale misura si chiede l’applicazione perfino per quanto concerne materiale considerato legale».
«Anche se di per sé non sono affatto contraria ai controlli alle frontiere, ritengo tuttavia – come si affermava in un emendamento presentato dal gruppo S&D sfortunatamente rigettato – che gli Stati Membri “debbano astenersi dal ricorrere a misure di controllo alle frontiere finalizzate alla lotta contro il terrorismo e all'arresto di individui sospettati di terrorismo con lo scopo di esercitare un controllo dell'immigrazione”».
«Al pari dell'European Network Against Racism (ENAR), quel che temo è che una serie di proposte contenute nella relazione possa mettere a repentaglio alcuni diritti fondamentali nell'UE, soprattutto nei confronti dei rifugiati e dei musulmani, esplicitamente confusi gli uni con gli altri».
 «Particolarmente grave mi è parso il rifiuto di un nostro emendamento specifico contro la vendita di armi a paesi della Lega Araba come Arabia Saudita, Egitto e Marocco, e contro la collusione politica con Paesi terzi a guida dittatoriale. Per finire, è stato rigettato uno dei nostri emendamenti che consideravamo fondamentali: il rifiuto della “falsa dicotomia tra sicurezza e libertà”. In ogni democrazia il rifiuto di tale dicotomia dovrebbe essere un concetto ovvio. Non lo è più di questi tempi, dominati più dalla paura e dalla collera che dalla ragione e dalla rule of law».

domenica 22 novembre 2015

Il commento del Naga ai fatti di Parigi

I fatti di Parigi ci lasciano senza parole e siamo consapevoli che non ci sono soluzioni immediate.
Ma allo stesso tempo siamo convinti che sia necessario continuare a credere nel valore dell'accoglienza.
E continuare a dire: Benvenuti.



Guarda il video: clicca qui    








  

sabato 21 novembre 2015

L'urlo contro il regime: gli antifascisti italiani in Tunisia tra le due guerre





L'urlo contro il regime: gli antifascisti italiani in Tunisia tra le due guerre è l'ultimo saggio di Leila el Houssi, docente presso l'Università di Firenze e coordinatrice organizzativa del Master Mediterranean studies presso la Facoltà di Scienze Politiche. In questo suo ultimo lavoro
affronta il tema dell'antifascismo italiano in Tunisia tra le due guerre mondiali e rimette in discussione il luogo comune secondo cui la numerosa collettività italiana presente nel paese nordafricano fosse totalmente schierata col regime fascista. In realtà, contro la dittatura di Mussolini e la sua propaganda sorse una corrente di opposizione i cui protagonisti furono membri dell'élite borghese liberale di appartenenza massonica, militanti del movimento anarchico, esponenti della classe operaia organizzata nei partiti della sinistra socialista e comunista e aderenti a Giustizia e Libertà. Nacque così un dinamico laboratorio politico animato da giovani italo-tunisini che vide nei primi anni Trenta la costituzione della sezione tunisina della Lega italiana dei diritti dell'uomo (LIDU) e, in seguito, l'apporto di personalità politiche come Velio Spano e Giorgio Amendola inviati dal Centro estero del PCI per dare respiro internazionale al movimento antifascista di Tunisia. Le vicende di questo nucleo antifascista sono state ricostruite attraverso l'analisi della stampa, della memorialistica e di una vasta documentazione reperita negli archivi tunisini, italiani e francesi.  
 
 
L'Associazione per i Diritti umani ha intervistato, per voi, Leila el Houssi e la ringrazia molto per queste sue parole.


Lei appartiene a due culture, quella tunisina e quella italiana. Quali sono le differenze e i punti di contatto?

Sono più numerosi i punti di contatto rispetto alle differenze. Sono entrambi Paesi mediterranei, sono vicini geograficamente e la cultura, quindi, è simile. Io non voglio vedere le differenze neanche a livello di popoli, forse sono altri che vogliono coglierle.
 
In che modo la comunità italiana si è integrata in Tunisia nel Passato? E, oggi, qual è il rapporto tra italiani e tunisini?
La comunità italiana si è storicamente inserita nel tessuto sociale tunisino già secoli fa e si tratta di un primo radicamento da parte di una immigrazione regionale (livornesi e siciliani) con delle peculiarità interessanti: i livornesi, ad esempio, erano di origine ebraica-sefardita ed erano una comunità nella comunità, mentre i siciliani – alla fine dell'800, a causa della povertà di un'Italia appena costituita – emigrarono in Nord Africa, in Libia e anche in Tunisia.
Nel corso del 1900 l'integrazione si è verificata anche a livello culturale, non solo territoriale: in molti testi, infatti, si racconta di come alcune comunità di siciliani parlassero una lingua mista di siciliano, arabo e francese.

Bourgiba e Ben Ali: è cambiato qualcosa, in termini di migrazione italiana, sotto questi regimi?

All'indomani dell'indipendenza tunisina, ottenuta nel '56 con Bourgiba, molti italo-tunisini dovettero emgrare verso la Francia. Negli ultimi vent'anni c'è stata un'immigrazione più legata ad aspetti economici: molti italiani, per esempio, hanno investito capitali in aziende tunisine oppure si sono trasferiti nel Paese alla fine della carriera professionale (questo è un fenomeno recente).

Cosa sta cambiando in Tunisia a livello sociale e culturale,a nche a seguito dei due attentati al Museo del Bardo e a Sousse?

Dal 2011 la Tunisia è cambiata molto: il Paese sta ancora percorrendo una transizione democratica perchè si tratta di un processo molto lungo e non facile: il processo è sottoposto a vari tentativi di destabilizzazione, pensiamo anche agli attentati politici del 2013, quando due esponenti sindacalisti sono stati assassinati. Ma è anche vero che la società civile sta lavorando per non essere vittima di queste destabilizzazioni; questo popolo ha vissuto anni e anni di dittatura, repressione e paura e non credo che voglia ritornare a vivere in quella situazione. Ormai la paura è stata spazzata via.

Come commenta l'assegnazione del Nobel per la Pace al quartetto tunisino?

Sono davvero molto felice. Credo che sia un riconoscimento importante perchè questo premio dà al popolo tunisino quella visibilità che merita perchè, per primo, ha rivoluzionato il proprio assetto politico in maniera tranquilla; e poi perchè è anche un riconoscimento, da parte della comunità internazionale, agli sforzi e ai sacrifici fatti per diventare anche un modello per l'intera area nord-africana e preservare tutto quello che è stato ottenuto fino ad ora.






venerdì 20 novembre 2015

PARIGI: CHAOUKI-MANCONI, PIENO SOSTEGNO A MANIFESTAZIONE MUSULMANI A ROMA.

Pieno apprezzamento e sostegno alla manifestazione nazionale promossa dalle comunità islamiche italiane che hanno deciso di scendere in piazza in solidarietà con le vittime di Parigi e contro il terrorismo di Daesh sabato 21 alle ore 15. La manifestazione nazionale, che si terrà a Roma, vedrà un largo coinvolgimento delle musulmane e musulmani d’Italia, riuniti per ribadire il loro “Not In My Name”. Sarà importante che tutti i cittadini italiani insieme alle associazioni religiose e laiche siano in piazza insieme ai musulmani italiani per ribadire la nostra piena solidarietà alle vittime del terrorismo di Daesh e per affermare i valori condivisi della nostra società. Le musulmane e i musulmani d’Italia in questo difficile momento storico sono dunque nostri preziosi alleati in questa sfida al terrore, una sfida che vinceremo tutti uniti e animati dai comuni valori del rispetto della sacralità della vita e dalla netta condanna di qualsiasi forma di radicalismo. Lo affermano Khalid Chaouki, deputato Pd e coordinatore dell'Intergruppo parlamentare immigrazione e Luigi Manconi, senatore e Presidente della Commissione per i diritti umani.

domenica 15 novembre 2015

Amedeo Ricucci commenta il terrorismo a Parigi (e non solo)

Ci è pervenuto anche il commento del giornalista Amedeo Ricucci che ringraziamo.
Ringraziamo di cuore i giornalisti e gli esperti che ci stanno inviando il loro contributo, aiutandoci a capire.
 
 
La strage di Parigi rappresenta un salto di qualità nella strategia del terrore perseguita con accanimento dai fondamentalisti islamici di DAESH, il sedicente Califfato Islamico creato da Abu Bakr al Baghdadi. Finora, a portare la morte in Occidente era stati dei lupi solitari, che agivano individualmente o in piccoli gruppi. Due giorni fa, invece, a Parigi, è entrato in azione il branco. Un branco famelico e delirante, per il quale quest'attacco è stato solo "l'inizio della tempesta". Di fronte a questa sfida - e nonostante il bilancio assai pesante della mattanza di Parigi - la Francia e con essa l'Europa non possono permettersi di reagire con la logica dell'occhio per occhio, dente per dente, perseguendo cioè la vendetta. Faremmo il gioco dell'ISIS, che vuole lo scontro di civiltà e che da questo scontro trarrebbe un'innegabile legittimazione. Allo stesso tempo, l'Europa non permettersi di derogare al suo sistema di valori: il restringimento delle libertà individuali e dei diritti civili in risposta alla minaccia terroristica - come già avvenuto negli USA dopo l'11 settembre - sarebbe un drammatico autogol, in grado di consegnare nelle mani dell'ISIS quelle fasce delle comunità musulmane che qui da noi sono ai margini della società, non integrate o sofferenti. Quello che dobbiamo fare è prosciugare il lago all'interno del quale nuotano i terroristi e si alimenta il fascino della guerra santa, del jihad. Se lo alimentiamo, invece, peggio ancora se lo trasformiamo in un mare - criminalizzando i musulmani - si rischia di grosso.

Lo scontro di civiltà: i dolori della pace

Cari amici,
continuiamo a proporvi un'altra riflessione sullo scontro di civiltà attraverso il video di un incontro organizzato dall'Associazione per i Diritti umani.
Vi ringraziamo sempre per l'interesse che ci state dimostrando e vi ricordiamo che i nostri video sono disponibili sul canale Youtube dell'associazione stessa.






mercoledì 2 settembre 2015

Srebrenica, la giustizia negata

 
 
 
 



Srebrenica, Bosnia Erzegovina, 11 luglio 1995: oltre diecimila maschi tra i 12 e i 76 anni vengono catturati, torturati, uccisi e inumati in fosse di massa. Stesso destino hanno alcune giovani donne abusate dalla soldataglia. Le vittime sono bosniaci musulmani, da oltre tre anni assediati dalle forze ultranazionaliste serbo-bosniache agli ordini di Ratko Mladić e dai paramilitari serbi.Quattro lustri dopo, rimane un profondo senso di ingiustizia e di impotenza nei sopravvissuti e un pericoloso messaggio di impunità per i carnefici di allora, in buona parte ancora a piede libero e considerati da alcuni persino degli “eroi”.
Questo libro è un reportage nel buco nero della guerra e del dopoguerra bosniaco e nel vuoto totale di giustizia che ha seguito il genocidio di Srebrenica, una delle pagine più nere della storia europea del Novecento e sicuramente la peggiore dalla fine della seconda guerra mondiale.





Il libro: Srebrenica, la giustizia negata, di Luca Leone e Riccardo Noury.
Prefazione di Moni Ovadia per Infinito Edizioni.




            
L'Associazione per i Diritti Umani ha rivolto alcune domande a Luca Leone e lo ringrazia molto per la disponibilità.





Le parole di Moni Ovadia, nell'introduzione al testo, sono molto dure. Perché l’Occidente ha voluto fallire? Quali sono i motivi per cui L’Ue non è intervenuta adeguatamente?

 

La metterei in quest’altro modo: l’Europa occidentale non ha voluto fallire, semplicemente non ha ritenuto di voler intervenire nel modo auspicato – tardivamente – dall’opinione pubblica. O, se vogliamo vederla dal punto di vista del fallimento: a suo tempo è stato un fallimento programmato e voluto, quindi non vero fallimento, dunque piano perfettamente riuscito. La Comunità europea dell’epoca – divisa in politica estera esattamente quanto l’Unione europea di oggi – ha visto la crisi jugoslava e le guerre balcaniche non come un pericolo e una tragedia umanitaria, ma come una chance economica e strategica. L’intervento, dunque, c’è stato eccome, ma non per impedire le stragi e le devastazioni, bensì per sostenere ciascuno la propria parte di riferimento sul campo di battaglia e ottenere almeno due importanti risultati: la scomparsa di un soggetto di diritto internazionale scomodo e in crisi come la Jugoslavia e l’appropriazione di pezzi di quel Paese attraverso una discutibile politica di sostegno a una delle parti in causa. Alla partita di sono uniti, pressoché subito, anche Stati Uniti, Russia, Turchia e Paesi del mondo arabo sunnita, rendendo il disastro jugoslavo ancora più complicato, pericoloso e incomprensibile. Alla fine, a modo loro, gli europei e gli altri sono intervenuti eccome, e i loro obiettivi li hanno raggiunti. All’opinione pubblica è rimasto l’amaro indelebile in bocca delle tragedie umanitarie e del genocidio di Srebrenica, oltre che pagine mostruose come lo scannatoio di Višegrad, l’azzeramento di Vukovar, Omarska e gli altri campi di prigionia e di sterminio, l’assedio di Sarajevo, il più lungo della storia bellica europea, e un numero di morti e di desaparecidos ancor oggi non definitivo. Le cancellerie e le grandi aziende, invece, sono intervenute eccome e hanno riportato, ciascuna per suo conto, parecchi risultati. Si veda il controllo politico e strategico della Federazione di Bosnia Erzegovina da parte degli Stati Uniti e il controllo egemonico dell’economia da parte della Turchia; si veda, in Republika Srpska di Bosnia – entità basata largamente sullo stupro etnico e sulla pulizia etnica – lo stesso fenomeno, ma nei panni degli attori esterni Russia e Francia.




I criminali sono considerati ancora, da alcuni, come degli “eroi”: su cosa si basa questa opinione?


Non so, in effetti, se si tratti di un’opinione o di un disvalore predicato così a fondo attraverso slogan efficaci e mandato a memoria dalla parte più rozza e grezza non solo del popolo serbo, ma anche di quello croato e di quello musulmano bosniaco. Non ci sono solo gli “eroi” serbi, assassini di massa le cui facce orripilanti sono acquistabili stampate su tazze e tovaglie nelle fiere popolari, ma ci sono anche quelli delle altre parti. L’ignoranza, la povertà, talvolta la fame, l’abbandono e l’odio sono le leve su cui premono i teorici della divisione, attraverso non solo la televisione e i giornali ma, prepotentemente, attraverso la radio – l’unico mezzo di diffusione di massa che ancora oggi arriva ovunque – internet e persino le scuole e le università. C’è tanto lavoro da fare per far cadere nella polvere questi falsi “dèi” dell’odio, della violenza e della menzogna e per riportare sull’altare di un’umanità laica e tollerante le uniche cose che possono davvero salvare i Balcani: una scuola condivisa e non più dell’apartheid, la ragione e la pietà umana.



Cosa chiedono le donne di Srebrenica? E qual è stata la loro esperienza durante e anche dopo la guerra?

 

Le donne e le madri di Srebrenica chiedono solo ed esclusivamente GIUSTIZIA, tutta maiuscola, così come l’ho scritto. Non vogliono vendetta, non chiedono più alcun tipo di dolore. Vogliono poter recuperare dalle fosse comuni i loro cari, dar loro civile e umana sepoltura e avere finalmente giustizia, ovvero i nomi e i cognomi degli aguzzini loro e dei loro cari e la loro condanna in un tribunale. Sorprenderà il lettore, spero, apprendere questo dato: in Bosnia Erzegovina ci sono circa 16.000 presunti criminali di guerra ancora a piede libero e, per converso, ancora circa 8.000 desaparecidos, metà dei quali si stima siano ex cittadini di Srebrenica ammazzati nel luglio 1995 e sepolti in fosse comuni la cui ubicazione è al momento ancora sconosciuta.

L’esperienza di queste donne è stata di oltre tre anni di assedio, patendo la mancanza di ogni cosa, e poi dell’abbandono da parte della comunità internazionale nelle grinfie dell’esercito serbo-bosniaco e dei paramilitari serbi, che hanno fatto scempio di 10.701 loro cari di età compresa tra i 12 e i 76 anni e non di rado del corpo di parecchie di queste donne, soggette allo stupro etnico come altre decine di migliaia di loro in tutto il Paese. E alla fine, dopo vent’anni, si trovano a dover combattere contro un nuovo cancro, quello dei negazionisti, coloro che vogliono convincere chi non c’era che a Srebrenica non è successo nulla. Una lotta impari, per quelle povere donne… Una lotta in cui vanno aiutate.

 

Le conseguenze degli errori (più o meno voluti) e dell'immobilità politica e militare, hanno avuto ripercussioni sugli altri Paesi?

 

Se si intende la questione kosovara, la pulizia e la contro-pulizia etnica nella Krajina croata, il prossimo disastro che sarà quello macedone, direi proprio di sì.



In che modo si può aiutare la Bosnia-Erzegovina nel percorso di democrazia e di pace?



Non credendo alle fandonie negazioniste, informandosi e andando a visitare quel Paese, che rischia a breve di spaccarsi in due, esposto com’è agli estremismi incrociati, quelli islamici e cattolici in Federazione, quelli russo e serbo in Republika Srpska. E non ricordandoci della Bosnia solo ogni dieci anni, ma proviamo a capire una lezione importantissima, almeno per noi italiani: conoscere la Bosnia ci permette di conoscere e comprendere meglio dinamiche identiche presenti nel nostro Paese e di trovare i giusti antidoti, prima che arrivino a “bussare” coi tank e i kalashnikov alle nostre porte di casa gli Mladić, i Karadžić, i Lukić, i Boban, i Tuđman, gli Izetbegović italiani e tutta questa varia umanità che purtroppo popola persino il nostro parlamento e il parlamento europeo.

domenica 19 luglio 2015

Il caso di Sahar Gul, la ragazzina afghana che non voleva prostituirsi





L'immagine parla chiaro e, in questo caso, ci scusiamo per i particolari che vanno, però, resi noti: occhi gonfi, collo tumefatto, unghie strappate...Queste solo alcune delle violenze subite da Sahar Gul, una ragazza di 15 anni data in sposa ad un soldato con la complicità della famiglia.

Il corpo della bambina è talmente provato che è arrivata nell'ospedale di Kabul su una sedia a rotelle. Sette mesi fa il matrimonio forzato, ma non bastava. L'uomo le propone di prostituirsi, ma lei rifiuta. Lui la massacra di botte. Sahar riesce a fuggire e scappa dai vicini di casa ai quali dice: “Se siete dei musulmani dovete dire alle autorità quello che mi sta succedendo: vogliono farmi prostituire”, ma nessuno ha il coraggio di aiutarla.

Come purtroppo spesso accade, la Polizia crede alla promessa del marito di non usare più la violenza e restituisce la ragazza ai suoi carnefici. Sahar viene rinchiusa, di nuovo, in seminterrato, affamata, abusata per altri tre mesi fino a quando un parente venuto in visista da lontano scopre l'accaduto e fa scoppiare lo scandalo. Sì, perchè si tenta sempre di insabbiare, di non far arrivare queste notizie alla stampa.

Invece la fotografia di Sahar Gul sta facendo il giro del mondo e Sahar è diventata, suo malgrado, un altro simbolo di donna violata e di tutte quelle altre donne e bambine che vanno salvate.

Nonostante una nuova legge che punisce la violenza domestica, in Afghanistan la realtà dimostra il contrario: “Ma qualcosa si sta muovendo”, ha dichiarato all'Associated Press Fawzia Kofi, deputata e capo della Commissione parlamentare sulle questioni delle donne “Penso che ora ci sia un maggiore senso di consapevolezza dei diritti delle donne. La gente sembra voler cambiare e parla di questi temi” ha aggiunto. Intanto, grazie anche alla condanna mondiale di ciò che è accaduto a Sahar, il presidente afghano, Hamid Karzai, si è deciso ad aprire un'inchiesta: il marito torturatore è ricercato e la sua famiglia è stata arrestata.

Resta la piccola Sahar che dovrà essere seguita anche psicologicamente...come tutte le giovani come lei, ferite nel corpo e nell'anima.

venerdì 17 luglio 2015

L'Isis decapita anche le donne



Per la prima volta dall'autoproclamazione del Califfato, l'Isis ha decapitato due donne.

La notizia risale alla fine del mese scorso ed è stata riportata da alcuni portali on-line e dall'Osservatorio per i Diritti Umani di Londra.

Le due donne (e i loro coniugi) provenivano dalla provincia di Deir Ezzor e da al Maydin in Siria del Nord e il fatto ancora più sconcertante è che siano state condannate a morte con l'accusa di “STREGONERIA e atti di magia a uso medico”, secondo le dichiarazioni degli jihadisti.

Francesca Maria Corrao, docente di Studi Mediterranei all'università Luiss “Guido Carli” di Roma ha così commentato l'accaduto: “Siamo di fronte all'ennesima dimostrazione di ignoranza da parte dei miliziani dello Stato Islamico. Non esiste nella storia dell'Islam, a differenza di quella cristiana, la caccia alle streghe. Non è mai esistito il reato di stregoneria. I terroristi, molti dei quali hanno studiato o vissuto in Occidente e hanno una scarsa conoscenza religiosa e giuridica, sanno però che in noi questo termine rievoca anni di paura e persecuzioni. Aumentando la carica emotiva con la decapitazione, lo usano così in maniera strumentale per terrorizzarci”. La Prof.ssa Bruna Graziosi, sempre della Luiss e docente di Istituzioni e Storia dei Paesi islamici aggiunge: “ Molte azioni di Isis sono spesso non giustificate dalla religione o dalla giurisprudenza islamica, ma la decapitazione delle donne viene evitata anche da molti altri gruppi radicali. Ricordo, ad esempio, il caso di una principessa saudita accusata di adulterio: mentre l'amante venne decapitato, la donna fu lapidata. Anche in casi estremi come questo, il taglio della testa della donna è stato evitato”.

Un altro episodio, questo, che conferma l'escalation di violenza e di atrocità messo in atto dai membri dell'Isis per aumentare il livello di allerta in Occidente, per seminare la sensazione di insicurezza e per instillare, sempre più, la paura. Ma non dobbiamo cedere a questo meccanismo, non dobbiamo riprodurre la rappresentazione del Male; bisogna rispondere con lucidità e, prima di tutto, capire fino in fondo cosa sta accadendo.


venerdì 10 luglio 2015

Medioriente e Occidente: un equilibrio possibile?


Cari amici,

l'Associazione per i Diritti Umani pubblica, oggi, il video dell'incontro che ha organizzato – nell'ambito della manifestazione “D(i)RITTI al CENTRO!” - con la giornalista Laura Silvia Battaglia.

Medioriente e Occidente: un equilibrio possibile?

Tanti gli argomenti trattati: le basi del terrorismo dell'Isis, la situazione in Iraq e Yemen, il ruolo dell'Iran, la religione strumentalizzata, la condizione e il ruolo delle donne, la stampa nazionale e internazionale.

Ringraziamo ancora molto Laura Silvia Battaglia per la sua presenza e generosità.





sabato 4 luglio 2015

Isis, il nemico perfetto: una conversazione con Amedeo Ricucci




Anche alla luce degli ultimi attentati in Francia, Tunisia, Kuwait e Somalia l'Associazione per i Diritti Umani vi propone l'intervista che ha realizzato al giornalista Amedeo Ricucci, partendo dal suo reportage dal titolo: Isis, il nemico perfetto, con interviste a Olivier Roy, David Cockburn, Renzo Guolo, Fabio Mini, Marco Minniti, Theo Padnos, Hamza Piccardo, Luca Bauccio, Daniele Raineri e tanti altri. In esclusiva, inoltre, l’intervista a due “pentiti” dell’ISIS ed un reportage sull’“autostrada del jihad”, che dall’aeroporto di Istanbul porta ad Akcahkale, la porta turca di ingresso al neo-Califfato.





Ringraziamo molto Amedeo Ricucci.





Da Isis a Is: il nome è cambiato e questo cosa significa?



E' stato un cambiamento che si è costruito nel tempo, anche nel silenzio dell'Occidente, quando lo Stato islamico di Iraq e del Levante (cioè la grande Siria) si è costituito nel 2013: lo ricordo bene perchè, in quel momento, ero sequestrato in Siria da un gruppo armato che aveva dichiarato la propria affiliazione all'Isis quel giorno.

L'Isis, per un anno, si è confuso in mezzo agli altri gruppi che si sono ribellati al regime di Assad e poi ha svelato la sua vera natura, ovvero quella di voler creare uno Stato islamico ispirato a una visione particolarmente conservatrice dell'Islam, in Iraq e in Siria. Il passo successivo in questa direzione è stata la dichiarazione di costituzione del Califfato islamico (che è la prima forma di organizzazione statale che l'Islam combattente si è data): il Califfato è stato dichiarato a giugno, dopo che le milizie dell'Isis di al Baghdadi hanno attaccato la provincia frontaliera tra Iraq e Siria - la provincia dell'Anbar - e a giugno sono riusciti a conquistare Mosul, che è la seconda città dell'Iraq. E non dimentichiamo, infine, che il Califfato per sua natura ha un progetto espansionistico.


Quali sono gli argomenti principali che non vengono trattati nella maniera corretta dalla stampa italiana e internazionale?


Nel documentario pongo l'accento sul fatto che l'Isis è il frutto dei nostri errori politici e militari.

Se non ci fosse stata la guerra in Afghanistan prima e dopo la guerra in Iraq - con tutti i danni collaterali e cioè con l'idea da parte dei musulmani integralisti che noi siamo truppe di infedeli che hanno calpestato la terra sacra - probabilmente non ci sarebbe stata questa recrudescenza dell'Islam radicale. Il Califfato è l'ultima delle aberrazioni dell'Islam radicale e, per Islam radicale, intendo l'Islam che si dà una strutturazione politica e che intende diventare un attore fra gli attori internazionali.

La seconda cosa che si dice nel documentario è che l'Isis (o Stato islamico) è anche lo specchio delle nostre psicosi: l'uso dell'arma del terrore fatto dal Califfato ha scatenato le paure dell'Occidente. Questa paura è stata molto amplificata dai mass-media, è stata confusa con un'altra paura che è quella degli immigrati che potrebbero invaderci e il risultato sono state situazioni ridicole come, ad esempio, il fatto che a Porto Recanati, lo scorso febbraio, siano state allertate le forze dell'ordine perchè c'era una bandiera dell'Isis in uno stabile per poi scoprire che si trattava di uno straccio nero...L'Isis rappresenta un pericolo, ma va affrontato con intelligenza e lucidità.

Un altro elemento importante a cui ho dedicato molto tempo nel film, è l'uso perverso che l'Isis fa della comunicazione e gli errori che i media, europei e occidentali, fanno nel diventarne il megafono.

A partire dall'agosto del 2014, l'Isis ha cominciato ad usare l'arma del terrore in modo sempre più perverso: decapitazioni di giornalisti, decapitazioni di massa in Iraq, in Siria e tutte quelle esecuzioni sono state sceneggiate ad arte, secondo un copione ben preciso. Tute arancioni, passamontagna, coltelli e messaggi. I media occidentali hanno ripreso questi video e li hanno trasmessi senza capire che, così facendo, li avrebbero moltiplicati. In questo modo l'Isis è riuscita a intrufolarsi nelle nostre coscienze perchè noi l'abbiamo rappresentata più volte come un'entità invincibile, terribilmente capace di cose atroci e dotata di un potere di vita e di morte su tutti noi. Invece dobbiamo smontare questo mito.



Il nemico perfetto” è un titolo provocatorio...



Sì, è provocatorio nel senso che è un nemico che di fatto ci fa comodo. E' un nemico che mette a fuoco una serie di nostri difetti. Sul piano delle forze militari, il pericolo dell'Isis è un pericolo “irrisorio” perchè stiamo parlando di 40/50mila miliziani che, se i Paesi occidentali mettessero insieme gli eserciti, potrebbero essere sconfitti facilmente. Ma non lo si fa perchè, quella dell'Isis, è una guerra asimmetrica, di guerriglia ed è complicato bombardare i posti dove si è arroccata perchè ci sono i civili. Ma il problema di fondo è un altro: non è chiudendo la partita con l'Isis che risolveremo il problema del radicalismo islamico.

Nel documentario c'è un'intervista al politologo francese, Olivier Roy (che si occupa da trent'anni di Islam radicale) il quale dà dell'Isis una versione particolare: secondo Roy, il jihad (la guerra santa) corrisponde al mito della rivoluzione degli anni '60-'70 in Italia e in Francia. Buona parte della gioventù italiana credeva nel mito della rivoluzione e, in nome di quel mito, alcuni di loro hanno impugnato anche le armi e da questo sono nate le Brigate Rosse. Il radicalismo islamico non ha nulla a che vedere con l'Islam tradizionale, ma è una scelta militante; è gente che spesso si è convertita all'Islam (il 25% sono foreign fighters), sono cittadini europei e occidentali che, nel giro di tre o quattro mesi, vanno a combattere. Non è una scelta religiosa, è una scelta che matura in rete e che, come detto, ha altre basi.



Per vedere il documentario: http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-a5448a35-e393-4a2c-8d8f-a28a5e3c0621.html

martedì 30 giugno 2015

I muri di Tunisi: quando anche le pietre parlano di cambiamento





Pubblicato grazie ad un'operazione riuscita di crowfunding, I muri di Tunisi. Segni di rivolta (per Exòrma Edizioni con la prefazione di Laura Guazzone) rappresenta una lettura originale del complesso periodo di “transizione” della Tunisia tra la rivoluzione del 2011 e le elezioni del 2014.
L’autrice, Luce Lacquaniti, traduce e commenta le scritte e le immagini nelle piazze e nelle strade della città di Tunisi i cui contenuti sono gli stessi che vengono discussi nelle case, a scuola, nell’assemblea costituente, sui giornali, nei negozi e nei caffè.



L'Associazione per i Diritti Umani ha intervistato Luce Lacquaniti e la ringrazia molto per la sua disponibilità.




Perché la scelta di parlare della Tunisia di oggi attraverso le scritte e le immagini sui muri?



La scelta deriva in parte dalla mia formazione e in parte dalla straordinarietà del materiale stesso in questione. Mi spiego. Sono laureata in Lingue e civiltà orientali e sto per prendere una seconda laurea in Interpretariato e traduzione. Quindi, di base, sono un'arabista, con un percorso di studi soprattutto linguistico. Però sono anche appassionata di fumetto, illustrazione e arti visive in generale (sono diplomata alla Scuola romana dei fumetti) e, da diversi anni, ho il pallino di leggere e fotografare le scritte sui muri di qualsiasi città, a partire dalla mia, Roma. Infine, mi interessa la politica in quanto cittadina del mondo, e mi interessa la politica del mondo arabo in quanto l'ho studiato e ci ho vissuto.

In Tunisia, in particolare, ho vissuto stabilmente nel 2012-2013 per approfondire lo studio dell'arabo. Ma ci ero già stata nel 2010, prima della rivoluzione (che è avvenuta tra dicembre 2010 e gennaio 2011), e ci sono tornata un'infinità di volte dal 2013 a oggi. È stato un periodo di particolare fermento, che si è esplicato anche sui muri – prima della rivoluzione, essenzialmente bianchi. Il nuovo mezzo d'espressione, quindi, ha attirato la mia attenzione sotto più punti di vista: linguistico, artistico, politico. In particolare, una volta tornata in Italia, riesaminando il materiale fotografato a Tunisi, mi sono resa conto di come vi si rintracciassero tutte le tappe della travagliata vita politica tunisina di questi ultimi anni. Eventi, fazioni, problemi sollevati, contraddizioni. Sono convinta che il periodo 2011-2014 in Tunisia interessi il mondo intero, perché si tratta della cosiddetta “transizione” dopo una rivoluzione che ha scatenato trasformazioni in un'intera area del mondo e perché, allo stesso tempo, vi sono istanze, rappresentate in quei segni, che sono universali. Per di più, quella che avevo tra le mani era una documentazione dal basso, anti-istituzionale e anti-mediatica, cosa che la rendeva, a mio parere, ancora più preziosa. Specie in un periodo in cui sul mondo arabo-islamico si chiacchiera tanto, senza preoccuparsi di ascoltare la voce dei diretti interessati. Tantomeno nella loro lingua. È così che ho pensato di corredare le foto di traduzioni e commenti e di raccogliere tutto in un libro.  
 





Ci può illustrare i temi principali che vengono espressi da quei muri? E cosa indicano le scritte a proposito delle aspettative della società civile?



Il libro si struttura proprio secondo i diversi temi discussi sui muri. Il primo capitolo, ad esempio, affronta il concetto di rivoluzione e la sua evoluzione nel discorso pubblico dei tunisini: dall'esultanza, agli scontri ideologici, alla disillusione, alla chiamata a una nuova rivoluzione. Una foto del 2012 che cattura scritte di diverse mani, ad esempio, è particolarmente emblematica: a qualcuno che esclama “Viva la Tunisia libera e democratica”, qualcun altro risponde “I rivoluzionari dicono: non potete prenderci in giro”, mentre un terzo chiosa “Non c'è altro dio all'infuori di Dio e Maometto è il suo profeta”. In una sola immagine troviamo l'entusiasta, lo scettico-antagonista e l'islamista, che inizia ad affermare la propria presenza sulla scena politica. Altri capitoli passano in rassegna i principali slogan del periodo e le dichiarazioni di affiliazione politica. Un capitolo è dedicato alla questione femminile e un altro all'islamismo, con i suoi fautori e i suoi oppositori – e qui va ricordato che la maggior parte del periodo di transizione del paese ha visto la guida del partito islamista moderato Ennahdha. Altri capitoli ancora trattano i rapporti tra la Tunisia e il resto del mondo arabo (e non arabo), e i diversi volti della repressione: dall'odiata polizia, alla censura, al cyberattivismo, al ruolo degli ultras nelle rivolte, alla legge-paravento che criminalizza il consumo di marijuana per colpire i dissidenti. Infine, i capitoli finali presentano alcuni collettivi di writer che hanno segnato i muri di Tunisi, ciascuno dandosi uno scopo e uno statuto ben preciso. C'è perfino chi ha scritto un manifesto artistico, come il gruppo Ahl al-Kahf. La nascita di questi movimenti mi sembrava qualcosa da indagare in maniera specifica.  


Da tutto questo emerge, nel complesso, una grande vitalità culturale e la voglia di dire la propria, da parte di tutte le componenti della società civile, nessuna esclusa. I tunisini chiedono a gran voce la fine dell'odiosa repressione – si va dalla scritta che denuncia il tale episodio di violenza durante una manifestazione, a quella che chiede la verità sugli omicidi politici di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi del 2013; denunciano la mancanza di trasparenza delle istituzioni – e qui si apre il discorso sulla scrittura della nuova costituzione, nonché sulla cosiddetta “giustizia di transizione”, legata ai processi dei martiri e feriti della rivoluzione e tema ricorrente del gruppo di writer Molotov; infine, i tunisini chiedono anche e soprattutto giustizia sociale, lavoro e lotta alla povertà: il gruppo che si firma Zwewla (“i poveri, i miserabili”), ha fatto di quest'ultimo punto la sua bandiera. Il quadro che ne esce è quello di una rivoluzione incompiuta, ben sintetizzato dal tormentone degli stessi Zwewla “Il povero è arrivato alla fonte ma non ha potuto bere”. Un quadro che, in parte, si discosta dal mito a cui ci hanno abituato, quello per cui la Tunisia sarebbe “l'unico paese in cui la primavera araba è riuscita”.



Quali sono i segni e le parole ricorrenti e quali sono quelle che l'hanno colpita di più?



Tra le parole più frequenti c'è sicuramente “il popolo”: “il popolo vuole questo, il popolo vuole quest'altro”. Il famoso slogan “Il popolo vuole...”, poi rimbalzato negli altri paesi arabi, richiama un verso del poeta nazionale tunisino Aboul Qacem Echebbi. Ma la cosa magnifica è che, sui muri di Tunisi, chiunque può scrivere “Il popolo vuole” seguito da qualsiasi cosa e il suo contrario. Sintomo di sano confronto: l'importante è che il popolo continui a volere qualcosa, e soprattutto che lo dica.

A colpire a prima vista è l'uso ricorrente di sofisticati giochi di parole, ironia tagliente, metafore, citazioni poetiche e veri e propri punti di riferimento estetici e filosofici, a volte esplicitati, a volte no. Spesso scritte e disegni sono tutt'altro che improvvisati e stupiscono per ricerca stilistica e concettuale. Tra le frasi che mi hanno più colpito ce n'è una, scritta evidentemente da un cittadino elettore e rivolta ai parlamentari scalatori di poltrone: “Noi non siamo ponti da attraversare”. Indimenticabile anche la domanda “Ci avete visti?” posta, attraverso un fumetto, da una sagoma di manifestante in rivolta con la benda sull'occhio, proprio sulla sede del sindacato. Si riferisce al giorno in cui la polizia sparò sulle teste dei manifestanti inermi della città di Siliana con munizioni da caccia, togliendo la vista per sempre a decine di persone. Ma, in una metafora che ribalta il concetto di cecità, qui i veri ciechi, messi sotto accusa, sono i vertici dello Stato. E poi uno stencil del gruppo Ahl al-Kahf riferito all'attuale, ottantottenne, presidente della Repubblica tunisino, Béji Caïd Essebsi, seppure realizzato profeticamente nel 2011: “Non posso sognare con mio nonno”.



Cosa è cambiato nel Paese tra il 2011 e il 2014?



Come viene anche riflesso sui muri, la Tunisia nel 2011 e nel 2012 è stata un'esplosione di voci, un luogo di dibattiti tra fazioni opposte, spesso trasformatisi in accesi scontri, una fucina di associazioni, progetti autogestiti, gruppi artistici, iniziative culturali. Un inno alla libertà d'espressione che sarebbe stato impensabile prima della rivoluzione, quando vigevano il partito unico e il controllo statale su qualsiasi spazio d'azione, fisico o virtuale. Da fine 2012 – inizio 2013 ho visto farsi strada la frustrazione e la disillusione. Il 2013 è stato l'anno della crisi, l'anno che ha visto, tra le altre cose, l'ascesa del terrorismo islamico, due omicidi politici con le conseguenti crisi di governo, e la crescente stanchezza dei tunisini nei confronti di un governo sempre più incapace di far fronte ai problemi socioeconomici del paese – che, nel frattempo, aveva contratto un debito miliardario col FMI. Il 2014 è proseguito su una scia di depressione generale e progressiva stagnazione del dibattito pubblico. Alla paura del fanatismo religioso e dei gruppi armati a esso connessi si è affiancata la paura che lo stato rispondesse con la logica della sicurezza o addirittura con una nuova svolta autoritaria. Le elezioni del dicembre 2014 sono state boicottate dai giovani, e hanno visto confrontarsi gli islamisti di Ennahdha con il “nuovo” partito Nidaa Tounes, che raggruppa anche membri dell'ex-regime, e che è attualmente al governo. Il fermento culturale degli inizi è andato scemando. Perfino i muri stanno tornando bianchi. Come se non bastasse, l'attentato del Bardo del marzo 2015 ha inferto un duro colpo all'economia tunisina, che tentava timidamente di riprendersi, contando sul ritorno della stabilità politica. I problemi che avevano scatenato la rivoluzione, ovvero la povertà, la disparità di trattamento delle regioni interne della Tunisia (ricche di risorse ma escluse dagli investimenti dello Stato, e non a caso teatro della rivoluzione), la disoccupazione e la corruzione generalizzata, non sono stati superati, anzi si sono, se possibile, aggravati, complice la crisi finanziaria globale. In compenso, si è acquisito un grado di libertà d'espressione mai visto prima (pur con tutte le riserve del caso). La mia speranza è che di questo periodo di apertura e di fermento possano fare tesoro i tunisini, per portare avanti un cambiamento all'interno della società dal basso, a lungo termine, e forse al di fuori delle istituzioni.

sabato 20 giugno 2015

Fermiamo la tortura: il supplizio di Raif Badawi





di Alessia Lucconi






Il rumore dello schiocco, il colpo che lacera la carne, il dolore che invade il cervello, moltiplicato per 50 volte e poi ancora per 20: 1000 frustate: questo il supplizio a cui Raif Badawi è stato condannato per aver espresso le sue opinioni in un Paese dove questo è un reato, l’Arabia Saudita.


Raif è un blogger di trent’anni che ha creato il sito Saudi Arabian Liberals,
https://sites.google.com/site/freesaudiliberals/ dove ha criticato la polizia religiosa, ha criticato i funzionari che avevano sostenuto il divieto di includere le donne nel Consiglio della Shura e ha proposto un dibattito sull’urgenza del secolarismo. Per questo è stato accusato di vari reati tra cui “insulti all'Islam, crimini informatici e disobbedienza al padre”, arrestato nel 2012 e condannato il 7 maggio 2014 a una multa di 1.000.000 di rial sauditi (circa 196.000 euro), 10 anni di prigione e 1000 frustate. La moglie, con i figli, si è rifugiata in Canada e da lì cerca di portare avanti la difesa del marito.

Il 9 gennaio 2015 Raif ha subito le prime 50 frustate.


Amnesty International si è attivata per promuovere numerose iniziative di protesta ed ha raccolto oltre 20.000 firme per chiederne la liberazione; anche a seguito delle proteste internazionali, la condanna alla fustigazione viene temporaneamente sospesa per ragioni mediche. A fine maggio gli viene vietato, per 10 anni dopo la condanna, di lasciare il Paese e di svolgere qualsiasi attività nel campo dei media.


E’ dell’8 giugno 2015 la notizia che la Corte suprema dell’Arabia Saudita ha riconfermato la condanna al pagamento della multa di 1.000.000 di rial sauditi, 10 anni di prigione e 1000 frustate.


Gli scritti di Raif saranno pubblicati nel libro «1000 Lashes: Because I Say What I Think» ("Mille frustate: Perché io dico ciò che penso”).


La posizione dell’Arabia Saudita in questo momento è molto delicata perché se da un lato deve fare attenzione alla sua immagine nei Paesi che protestano per questa sentenza, dall’altro non può ignorare la forte influenza interna dei salafiti musulmani ultra-conservatori che invocano il rispetto della legge coranica e la libertà di esercitarla.

Negli articoli 5 e 19 della Dichiarazione universale dei diritti umani viene detto:

“Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a maltrattamento o a punizioni crudeli, inumane o degradanti.”

E ancora

“Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione; questo diritto include la libertà di sostenere opinioni senza condizionamenti e di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo ai confini.”





Stop Torture



The snap, the blow tearing the flesh, the pain invading the brain, multiplied by 50 times and then again by 20: 1000 lashes.

This is the punishment of Raif Badawi, sentenced for having expressed his opinions in a Country where this is a crime, Saudi Arabia.


Raif is a thirty years old blogger that has created the website Saudi Arabian Liberals, https://sites.google.com/site/freesaudiliberals/, where he criticized the religious police, criticized officials who had supported the ban on including women in the Shura Council and proposed a debate on secularism (the adoption of a secular policy).

For this reason he was charged with various offenses (including insults to Islam, computer crime and disobedience to his father), he was arrested in 2012 and sentenced on 7 May 2014 to pay a fine of one million Saudi riyals (about 196,000 euros), 10 years in prison and 1,000 lashes.

His wife, with their children, tooks refuge in Canada and from there she tries to defend her husband.

The January 9, 2015, Raif has undergone the first 50 lashes.
Amnesty International has promoted numerous protest actions and has collected more than 20,000 signatures to ask for his release;

Also as a result of international protests, the sentence of lashing was temporarily suspended on medical grounds.

In late May, he has been banned for 10 years after conviction, to leave the country and to carry on any kind of activity in the media field.
On 8 June 2015, the Supreme Court of Saudi Arabia confirmed his sentence of paying a fine of one million Saudi riyals, 10 years in prison and 1,000 lashes.
Raif's writings will be published in the book "1000 Lashes: Because I Say What I Think".

The position of Saudi Arabia now is very delicate because while it must pay attention to its image in the countries that are protesting for this judgment, on the other hand it can not ignore the strong influence of the internal ultra-conservative Salafi Muslims who invoke the respect for the Islamic law and the freedom to exercise it.


In Articles 5 and 19 of the Universal Declaration of Human Rights is respectively said:

"No one shall be subjected to torture or ill-treatment or cruel, inhuman or degrading treatment."
And yet

"Everyone has the right to freedom of opinion and expression; this right includes freedom to hold opinions without interference and to seek, receive and impart informations and ideas through any media and regardless of frontiers. "