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giovedì 30 luglio 2015

E' arrivata mia figlia: una madre e una figlia per il diritto alla dignità



Val e Jessica: una madre e una figlia nel Brasile di oggi. Val è una donna di mezza età, da tanti anni è al servizio come domestica presso una famiglia, in una villa di San Paolo. Ha cresciuto i figli di Bàrbara e di Carlos e Fabinho, il ragazzo adolescente, la considera la sua “seconda mamma”. Jessica arriva a scompaginare la ritmica e monotona quotidianità di Val, un giorno, all'improvviso: dopo un'infanzia trascorsa con il padre e la nonna, vuole trascorrere a San Paolo un po' di tempo per poter accedere al test di ingresso in università. Val non ha altra alternativa che quella di farla soggiornare nella sua stanza – stretta e soffocante – mentre cerca un alloggio per entrambe. Ma la convivenza tra i componenti della famiglia ricca e le due donne non è facile. Da qui prende l'avvio la trama del film intitolato E' arrivata mia figlia, di Anna Muyleart, vincitore del Premio speciale della Giuria al Sundance Festival e del Premio del pubblico al Festival di Berlino 2015.

I personaggi, ben caratterizzati, formano il puzzle della società brasiliana delle metropoli: Bàrbara, la moglie ambiziosa e consapevole di sé e del proprio ruolo sociale, Carlos il marito depresso, privo di spina dorsale, del tutto steso sulla propria ricchezza ereditata, i due figli poco più che bambini poco maturi e molto viziati. E, tra loro, spicca anzi giganteggia la figura di Val: una donna, una madre per tutti. Affettuosa, rispettosa delle regole, accudente: solido punto di riferimento, ma sempre al proprio posto, mai sopra le righe, quasi un oggetto da arredamento utile, ma non indispensabile (se non per Fabinho e per la sua fragile psicologia).  

Jessica, appartiene a un'altra generazione e cova rancore per quella madre che le ha sempre inviato i soldi per il mantenimento, ma che le è stata lontana. La ragazza non sopporta le imposizioni di una differenza di classe ancora evidente, nonostante i piccoli gesti ipocriti; non accetta le avances di un uomo scontento e annoiato; non tollera la rassegnazione della propria genitrice. E allora si butta in piscina con i figli dei “padroni”, mangia il gelato di Fabinho, chiede sfacciatamente di poter studiare nella stanza degli ospiti, si rivolge apertamente ed esprime le proprie opinioni. Piccoli/grandi gesti di rivolta, che operano una rivoluzione: una rivoluzione raccontata con maestria dalla regista brasiliana. La macchina da presa segue con calma ogni movimento dei personaggi, spesso rimane ferma, entra negli ambienti della villa e al di fuori, proprio per far cogliere agli spettatori quelle piccole sfumature che creano – come i muri e le pareti – le barriere tra ricchi e poveri, tra chi sta in cima e chi sta alla base della gerarchia anche culturale. Ma col tempo, Jessica impara a capire, le scelte obbligate della madre e la madre impara a riconoscere l'importanza della libertà e della dignità grazie alla figlia. E allora entra anche lei nella piscina, ride e telefona alla ragazza per dirglielo. In seguito madre e figlia troveranno una piccola, semplice casa tutta per loro...e Val si sentirà chiamare, finalmente, “mamma”.

lunedì 20 luglio 2015

La lettera della madre di Federico Aldrovandi




L’Associazione “Federico Aldrovandi” nasce come naturale evoluzione del Comitato “Verità per Aldro”, creato nel gennaio del 2006 per chiedere verità e giustizia per Federico Aldrovandi, il diciottenne ferrarese ucciso durante un controllo di polizia il 25 settembre 2005.
In questi anni, dopo una fase iniziale di stallo nelle indagini e numerose omissioni, si è riusciti ad arrivare al processo e nel giugno del 2012 i quattro poliziotti che avevano fermato Federico sono stati condannati definitivamente a 3 anni e 6 mesi di reclusione per eccesso colposo in omicidio colposo.
Ma il “lavoro” non è finito. Abbiamo visto con i nostri occhi come sia difficile vedere applicato un banale principio di giustizia per cui se chi commette un reato indossi o no una divisa dovrebbe essere indifferente ai fini dell’azione giudiziaria.



Per tutto questo crediamo che passaggi fondamentali siano l’approvazione di una legge sulla tortura e la democratizzazione delle forze dell’ordine.
Perché, come recitava lo striscione che apriva il corteo nazionale che organizzammo nel 2006, ad un anno dall’uccisione di Federico…


Verità grido il tuo nome.
Per quello che non doveva succedere.
Per quello che non è ancora successo.
Perché non accada mai più.



Di seguito, pubblihciamo la lettera della mamma di Federico, pubblicata sul sito della loro associazione.



Perché rimetto le querele contro Paolo Forlani, Franco Maccari e Carlo Giovanardi

Ho perso Federico che aveva 18 anni la notte del 25 settembre di dieci anni fa per l’azione scellerata di quattro poliziotti che vestivano una divisa dello stato, e forti di quella divisa hanno infierito su mio figlio fino a farlo morire. Non avrebbero mai più dovuto indossarla.
I giudici hanno riconosciuto l’estrema violenza, l’assurda esigenza di “vincere” Federico, e una mancanza di valutazione – da parte di quei quattro agenti – al di fuori da ogni criterio di senso comune, logico, giuridico e umanitario.
Non dovevano più indossare quella divisa: nessuno può indossare una divisa dello stato se pensa che sia giusto o lecito uccidere.  O se pensa che magari non si dovrebbe, ma ogni tanto può succedere, e allora fa lo stesso, il tutto verrà ben coperto. Con la speranza che il sospetto di una morte insensata, inutile e violenta scivoli via fra la rassicurante verità di carte col timbro dello Stato, di fronte alle quali tutti si dovrebbero rassegnare. E poi con quella stessa divisa si continuerà a chiedere il rispetto di quello stesso Stato: che però sarà inevitabilmente più debole e colpevole. Come un padre ubriaco che ha picchiato e ucciso i suoi figli.
Il delitto è stato accertato, le sentenze per omicidio emesse. Invece le divise restano sulle spalle dei condannati fino alla pensione. Fine del discorso.
L’orrore e gli errori, con la morte e dopo la morte di Federico. La mancanza di provvedimenti non guarda al futuro, non protegge i diritti e la vita: non tutela nemmeno l’onestà delle forze dell’ordine.
Alla fine del percorso giudiziario che ha condannato gli agenti tutto ciò ora mi è ben chiaro: ed è il messaggio che voglio continuare a consegnare alla politica e all’amministrazione del mio Paese.
Dopo la morte di Federico, abbiamo dovuto difendere la sua vita vissuta e la sua dignità assurdamente minacciate. Era pazzesco, sembrava il processo contro Federico.
Ho chiesto risposte alla giustizia e la giustizia ha riconosciuto che Federico non doveva morire così.
Il processo è stato per me, mio marito Lino e mio figlio Stefano una fatica atroce, ma era necessario prendervi parte e lottare ad ogni udienza: ci ha sostenuti l’amore per Federico.
Su quel processo e da quel processo in tanti hanno espresso un’opinione. E’ stato un modo per crescere.
Alcuni hanno colto l’occasione per offendere me, Federico e la nostra famiglia. Qualcuno l’ha fatto per quella che ritengo gratuita sciatteria e volgarità, altri per disegni politici volti a negare o a sminuire la responsabilità per la morte di Federico.
Avevo chiesto alla giustizia di tutelarci ancora. In quel momento era l’unica strada, e non me ne pento.
Sono passati due anni dai fatti per cui ho sporto querela. Ci sono state le reazioni pubbliche e anche quelle politiche. Però poi non è cambiato niente.
Ho riflettuto a lungo e ho maturato la decisione di dismettere questa richiesta alle Procure e ai Tribunali: non perché non mi ritenga offesa da chi ha stoltamente proclamato la falsità delle foto di mio figlio sul lettino di obitorio, di chi ha definito mio figlio un “cucciolo di maiale”, o da chi mi ha insultata, diffamata e definita faccia da culo falsa e avvoltoio.
Non dimenticherò mai le offese che mi ha rivolto Paolo Forlani dopo la sentenza della Cassazione: è stati lui, sconosciuto e violento, ad appropriarsi degli ultimi istanti di vita di mio figlio. Le sue offese pubbliche, arroganti e spavalde le ho vissute come lo sputo sprezzante sul corpo di mio figlio. E lo stesso sapore ha ogni applauso dedicato a quei quattro poliziotti. Applausi compiaciuti, applausi alla morte, applausi di morte. Per me non sono nulla di diverso.
Rappresentano un modo di pensare molto diverso dal mio.
Non sarà una sentenza di condanna per diffamazione a fare la differenza nel loro atteggiamento.
Rifiuto di mantenere questo livello basato su bugie e provocazioni per ferirmi ancora e costringermi a rapportarmi con loro. Io ci sto male, per loro – credo di capire – è un mestiere.
Forlani e i suoi colleghi li lascio con le loro offese e i loro applausi, magari ad interrogare ogni tanto quella loro vecchia divisa, quando sarà messa in un cassetto dopo la pensione, sull’onore e la dignità che essa avrebbe preteso.
Un onore che avrebbero minimamente potuto rivendicare se da uomini, cittadini, pubblici ufficiali e servitori dello Stato, coloro che hanno ucciso mio figlio e coloro che li hanno sostenuti avessero raccontato la verità su cosa era successo quella notte, e non invece le menzogne accertate dietro alle quali si sono nascosti prima, durante e dopo il processo, cercando di negare anche l’esistenza di quella mezzora in cui erano stati a contatto con Federico prima dei suoi ultimi respiri.
Da Forlani e dai suoi colleghi avrei voluto in quest’ultimo processo solo la semplice verità, tutta.
Chi ha ucciso Federico sa perfettamente quale strazio sta dando ad una madre, un padre e un fratello privandoli della piena verità dopo avergli strappato il loro figlio e fratello. Nessun onore di indossare la divisa dello stato, nessun onore.
E nessun onore neanche a chi da dieci anni cerca nella morte di mio figlio l’occasione per dire che in fondo andava bene così: i poliziotti non possono aver sbagliato, in fondo deve essere stata colpa di Federico se è morto in quel modo a 18 anni.
Costruite pure su questo le vostre carriere e la vostra visibilità. Dite pure, da oggi in poi, che il mio silenzio è la vostra vittoria. Muscoli, volantini, telecamere, libri, convegni e applausi. Per dire che non c’è stato nessun problema il 25 settembre 2005. E per convincere voi stessi e il vostro pubblico che il problema l’hanno creato solo Federico Aldrovandi e sua madre Patrizia Moretti.
Vi esorto soltanto, da bravi cattolici quali vi dichiarate, a ricordare il quinto comandamento: non uccidere.
Non spenderò più minuti della mia vita per queste persone e per i loro pensieri. Mi voglio sottrarre a questo stillicidio: una fatica soltanto mia che nulla aggiungerebbe utilmente e concretamente a nessuno se non alla loro ansia di visibilità. Trovo stancante anche pronunciare i loro nomi. Inutile commentare le loro dichiarazioni pubbliche.
A dieci anni dalla morte di Federico per il mio ruolo di madre, ma anche per le mie aspirazioni e per la mia attuale visione del mondo, penso che il dedicare anche solo alcuni minuti a persone che disprezzo sia un’imperdonabile perdita di tempo. Non voglio più doverli vedere né ascoltare o parlare di loro.
Perciò ritirerò le querele ancora in corso.
Non lo faccio perché mi è venuta meno la fiducia nella giustizia, ma dieci anni sono troppi, ed è il momento di dire basta.
Non è il perdono, d’altra parte nessuno mi ha mai chiesto scusa, ma prendere atto che per me andare avanti nelle azioni giudiziarie rappresenta soltanto un doloroso e inutile accanimento.
Ritiro le querele perché sono convinta che una sentenza di condanna non potrebbe cambiare persone che  – da quanto capisco – costruiscono la loro carriera sull’aggressività e sul rancore.
Non ci potrà mai essere un dialogo costruttivo, perciò addio.
Questo non significa che verrà meno il mio impegno di cittadina per contribuire a rendere questo paese un po’ più civile, e questo impegno mi vedrà come sempre a fianco dell’associazione degli amici di Federico per l’introduzione del reato di tortura e ogni altra forma di trasparenza e giustizia.
C’è molta strada da fare: confronti, discussioni, leggi giuste. Bisogna affrontare il problema degli abusi in divisa in modo costruttivo.
Le parole e le espressioni contro Federico, contro me e la nostra famiglia le lascio alla valutazione in coscienza di chi ha avuto il coraggio di dirle. E soprattutto alla valutazione di chi se le ricorda. Io ne conservo solo il disprezzo.
Per me l’onore è un’altra cosa.
L’onore appartiene a chi ha cercato di capire, a chi ha ascoltato la coscienza e a chi ha fatto professionalmente il proprio dovere, a chi ha messo il cuore e l’arte oltre quel muro di gomma costruito attorno all’omicidio di Federico, a tutti coloro che gli dedicano un pensiero, un rimpianto, gli mandano un bacio.
Sono queste le persone che ringrazierò sempre, è grazie a loro che Federico è stato restituito al suo onore di figlio, fratello, amico, ragazzo che voleva vivere, e tornare a casa.
 
Patrizia Moretti


martedì 26 maggio 2015

Ritratto di famiglia con bambina grassa: un inno alle donne, di ieri e di oggi


Pubblicato da Mondadori, Ritratto di famiglia con bambina grassa, della scrittrice e giornalista Margherita Giacobino, è subito diventato un successo. Maria, la madre amatissima, astro nel cielo dell'infanzia, e il padre Gilin, l'uomo di vento; Michin, la caustica e brillante prozia zitella, mai conosciuta ma vicina come una gemella d'anima; e poi Polonia, la zia ostetrica dolce e gaudente... Ma soprattutto c'è magna Ninin, la zia con cui Margherita è cresciuta, brusca e brontolona, sempre presente e insostituibile, «l'origine e l'archetipo. Ninin l'instancabile, Mulier Fabricans». Sì, perché Margherita Giacobino, classe 1952, è cresciuta in una famiglia di donne, e sente più che mai vive le proprie radici silenziose e forti. Nel ripercorrere le ramificazioni della propria famiglia, attraversa oltre un secolo di storia italiana: dalle campagne del Canavese alla fine dell'Ottocento alla Germania in cui il padre viene fatto prigioniero durante la Seconda guerra, dal boom economico fino a oggi. Seguendo le tracce della propria infanzia con l'attenzione e la cura di un archeologo, interroga i suoi familiari, li racconta, ridà loro vita con afflato lirico e acume antropologico, con una scrittura magistrale, con nostalgia e ironia. Con infinito affetto. Perché solo tramite chi ci ha preceduto possiamo arrivare a conoscerci davvero.



L'Associazione per i Diritti Umani ha intervistato per voi Margherita Giacobino. La ringraziamo molto per queste sue parole.





Nel suo ultimo lavoro racconta la storia della sua famiglia tutta al femminile: c'è complicità, oggi, tra le donne?


Nel mio ultimo libro, Ritratto di famiglia con bambina grassa, parlo di una famiglia, la mia, in cui le donne erano molto unite, lavoravano insieme e si aiutavano. Non una famiglia idilliaca, ma una in cui ci si voleva bene e ci si dava riconoscimento a vicenda. Questo è stato molto importante per me, mi ha permesso di fare delle scelte libere nella vita, sentendomi sostenuta dai miei, soprattutto da mia madre.

La parola complicità secondo me non è quella che meglio esprime ciò che mi piacerebbe ci fosse tra donne, cioè la capacità di riconoscersi e sostenersi a vicenda - ma anche di criticarsi, di discutere quando è il caso. Riconoscere alle altre una forza, dei risultati, dei successi, e anche degli errori - essere in grado di parlarne insieme e di insegnarsi qualcosa a vicenda, scambiarsi affetto e buonumore quando si può - (non sempre) - questo sarebbe bello. Attualmente accade solo in parte, credo purtroppo in minima parte. Molte donne sono, ora come in passato, intente a proteggere e salvaguardare un qualche uomo, e a considerarsi insufficienti e incapaci di costituire per se stesse e per le altre delle interlocutrici degne di ascolto. Un grande spreco.



La storia personale è intrecciata alla grande Storia: quali sono le tappe principali del percorso che ha tracciato nel libro, soprattutto in termini di diritti negati o acquisiti?




Nella storia della mia famiglia (che comincia molto prima che io nascessi, a fine Ottocento) ci sono dei momenti di conquista di libertà e diritti, come quando la mia prozia, che all’epoca è una bambina di 12 anni, scende in città dalla montagna per andare a lavorare in fabbrica, sottraendosi così all’autorità e al controllo della famiglia paterna, e aprendo la strada all’emancipazione delle sorelle e della madre. Per me è stato soprattutto importante segnalare come le scelte di dignità e di indipendenza personale fossero collegate al lavoro, e alla possibilità di disporre del proprio denaro, cosa che non era affatto scontata per le donne. Anche il non sposarsi poteva essere, e per le mie zie è stata, una scelta di libertà, in un’epoca in cui il matrimonio era ancora un’istituzione fortemente patriarcale. E poi un’altra tappa importante è stata, per mia madre, la separazione legale in una situazione in cui i debiti di suo marito mettevano in pericolo la sua attività, il suo futuro e il mio. Anni dopo, mia madre ha fatto propaganda tra le sue conoscenze per la legge sul divorzio, e più tardi (scandalizzando molte persone del paese) per quella sull’aborto.



Si può affermare che con questo romanzo, come nelle altre sue opere, vengano affrontati i temi dell'amore (anche omosessuale) e dell'identità?



L’amore è un tema fondamentale in questo libro, anzi è l’energia da cui nasce. L’amore non è soltanto passione e scelta sessuale - mi premeva parlare di amore senza aggettivi, l’amore per la madre, per la donna amata, per i vecchi che mi hanno voluto bene da piccola… Come Audre Lorde, ritrovo nelle mie antenate la forza delle donne che si amano e lavorano insieme, siano essere sorelle o amanti.

Parto dalla mia famiglia materna per rivedere quello che è perduto per sempre nella dimensione del presente, ma che è vivo dentro di me, parte di me: luoghi, paesaggi, miti, passioni e paure, modi di dire, ciò che dà senso alla vita e anima il linguaggio. Questo libro è anche una discesa all’interno di un ‘io’ per vedere quel che c’è di ‘altri’ in me, per riconoscermi figlia di, nipote di, erede di tanti, con le loro abitudini e stranezze, le loro sofferenze e il loro modo di prendere in giro la vita. Un piccolo viaggio all’interno di quel mistero che è ogni essere umano, simile a tanti, diverso da tutti; e anche una ricerca archeologica sui frammenti della memoria, e i disegni che se ne possono ricomporre.



Pare di capire che non le interessi molto il “politically correct”...



Se per politically correct si intende la convinzione di pari diritti per tutti, e la volontà di non svilire nessuno con pregiudizi e stereotipi, mi sembra un ottimo punto di partenza a cui forse un giorno arriveremo, se ci comportiamo bene. Ma se invece si tratta dell’enunciazione di nobili principi o di minute rivendicazioni che serve a mettere chi la fa dalla parte della ragione e gli altri dalla parte del torto, la trovo una cosa che, al suo meglio, può essere fonte d’ispirazione per la satira.



Perchè la scelta di usare anche il dialetto?



Perché è la mia lingua madre. Prima della televisione, nessuno era nato ‘in Italia’, eravamo tutti nati in una qualche città, paese, campagna dell’Italia. E parlavamo tutti diverso. Oggi si parla tanto di salvaguardare la diversità, proprio perché la diversità sta per sparire, in fatto di linguaggi come di tante specie di piante e animali. Ho voluto rivolgere un pensiero d’affetto alla lingua che ha dato forma ai miei primi pensieri.


domenica 10 maggio 2015

L'esecuzione di Farzad Kamangar



In memoria dell'esecuzione di Farzad Kamangar (di cui abbiamo già parlato a proposito del romanzo “Lullaby”) vi proponiamo questo intervento che ci ha mandato l'associazione Novel Rights, con cui collaboriamo e che vogliamo ringraziare.


Dear Friends and supporters,


Today we mark the 5th anniversary of Farzad Kamangar's execution.





"How did Farzad move so many people? Was it something in his voice, spreading across the internet and making him one of the most influential Iranian figures of 2010? Did he hypnotize us with his poems? His letters?

Farzad Kamangar couldn’t stop his torturers from breaking his chin and teeth, but he was able to maintain the life within him through imagination and literature. “I won’t let them kill me inside,” was his goal—and he reached it."




Ava Homa
Ava Homa/ Author; Lullaby

I will eventually get out of here. The butterfly that flew away in the night told me my fortune,” Farzad Kamangar wrote in prison, shortly before the Iranian government made the decision to place a noose around his neck.

It was on May 10, 2010—Mother’s Day—that Farzad’s mother heard through the media that her son, who had been told he would be released, was killed.

He had such a tender soul. He loved his students to pieces. Spring was his favorite season. He was born in spring,” his mother says in a video posted on YouTube. But tears stop her from continuing—from telling us that he was executed in his favorite season.

This man who loved spring and his students was charged with moharebeh (enmity with God and the state) and terrorism. It is true. Teaching young children their banned mother tongue terrorizes the Iranian oppressor.

special sale

Farzad Kamangar was tremendously popular, cherished by Kurds and non-Kurds, young and old, men and women. The love others had for him was, ironically, what convinced the authorities to execute him despite his obvious innocence. Popularity terrorizes dictators, who are nourished by hostility and antipathy in their nation.

How did Farzad move so many people? Was it something in his voice, spreading across the internet and making him one of the most influential Iranian figures of 2010? Did he hypnotize us with his poems? His letters?

Farzad Kamangar couldn’t stop his torturers from breaking his chin and teeth, but he was able to maintain the life within him through imagination and literature. “I won’t let them kill me inside,” was his goal—and he reached it.

In one of his letters—hich are still available on the internet—he describes being transported to Sanandaj Prison, Kurdistan. He paints a vivid picture of Kurdistan in the autumn for us through his view—not only from the window of the plane, but also through the window of his imagination. He writes little about his anguish, but instead about his moments of falling in love while listening to the music of legendary singer Abbas Kamandy and of hiking the Awyar Mountain. He is distracted from these memories only when the bitterness of the blood he accidentally swallows threatens to suffocate him.

The prison guard who anxiously checks that Farzad has survived a severe beating doesn’t know, cannot know, that Farzad, in his mind, is dancing at his wedding, waving his chopi—his handkerchief—in the air and shouting, “Cheers! Cheers to all the prisoners’ mothers who are awaiting reunion with their children. Cheers to all the men and women who lost their lives for their ideals.”

That is what has made Farzad Kamangar a legend. He is one of the few people on the planet—like Nelson Mandela, like Leila Zana—who was not broken under torture.

Lullaby / Ava Homa
Farzad Kamangar / Illustration: Tamar Levi

Farzad Kamangar was a teacher devoted to improving the life of village children. He was all too familiar with suffering, both directly in his own life and indirectly through others’ experiences. Farzad knew the pain of Kurds, the pain of ethnocide and linguicide. He was familiar with the widespread poverty in Kurdistan resulting from politicization of the region, with the abuse and violence suffered by women because of the government’s gender policies. For Farzad, the hurt wasn’t just the physical torture he endured—it was the pain of his nation.

His voice, his imagination, his words, his ability to touch the agony of others made Farzad Kamangar an icon representing all political prisoners who have been executed at the hands of the Iranian government. He was and still is a strong inspiration. He continues to live in the heart of all those who admire him. His voice continues to be heard not only through his own writing, but also in the poems and stories he inspired.

Novel Rights has published a short story inspired by Farzad Kamangar’s letters from prison: “Lullaby” offers a glimpse of his powerful reality.










mercoledì 13 novembre 2013

Aung San Suu Kyi e il premio in ritardo





Era il 1990: la leader dell'opposizione birmana, Aung San Suu Kyi, si trovava agli arresti domiciliari a causa della dittatura militare, ma continuava la sua lotta per i diritti umani e per la democrazia. Una detenzione che è durata quindici anni.
Nel '90 le viene assegnato il premio Sakharov per la Libertà di Pensiero e, l'anno dopo, il Nobel per la Pace.
Nel 2013, a 68 anni e con un fiore giallo tra i capelli, l'attivista ha potuto finalmente ricevere il primo riconoscimento direttamente dalle mani del presidente dell'Europarlmento, Martin Schultz.
Tanta commozione e un lungo applauso hanno accompagnato questo giorno importante che ha segnato l'inizio di un percorso in Europa. Il viaggio di Aung San Suu Kyi si pone l'obiettivo di chiedere una nuova Costituzione per il Myanmar perchè quella attuale attribuisce il 25% dei seggi nelle assemblee ai militari e rappresenta un ostacolo per la candidatura della stessa attivista alle prossime elezioni presidenziali, nel 2015.
Appoggiata dal suo partito, la National League for Democracy, San Suu Kyi chiede “il diritto ad esistere in base alla propria coscienza”. La leader democratica ha, infatti, puntualizzato: “ La nostra gente sta solamente iniziando ad imparare che la libertà di pensiero è possibile. Ma vogliamo che diventi una certezza la necessità di preservare il diritto a un credo libero e a una vita in pieno accordo con la propria coscienza”.
Importanti anche le sue parole riguardo alla principio di libertà e, in particolare, ancora sulla libertà di pensiero: “ La libertà di pensiero inizia con il diritto di fare domande. A molti dei nostri cittadini, tra i tanti che sono stati arrestati con cadenza quotidiana, abbiamo dovuto insegnare a chiedere a coloro che andavano a metterli in manette: Perchè?...La libertà di pensiero è essenziale per il progresso umano, se interrompiamo la libertà di pensiero interromperemo anche il progresso del nostro mondo...Perchè è una delle parole più importanti in ogni lingua. E' importante che lavoriamo sulle imperfezioni delle nostre società, che lavoriamo sulle leggi che ci colpiscono come esseri umani, sulle leggi che erodono le fondamenta della dignità umana. E questo perchè la nostra ricerca della democrazia non è terminata”.
A proposito di leggi che ostacolano la candidatura alla presidenza democratica del Paese: la Costituzione attuale vieta ad un birmano sposato ad uno straniero di occupare la Presidenza dello Stato: il marito di Aung San Suu Kyi, oggi scomparso, era di nazionalità britannica, come lo sono i figli. Anche per loro continuerà la battaglia, come donna, come moglie, come madre e come cittadina.

lunedì 5 agosto 2013

Un'interessante novità letteraria: Nessun requiem per mia madre



Claudiléia Lemes Dias - nata a Rio Brilhante, nel cuore del Brasile - dopo essersi laureata in Legge si trasferisce in Italia dove consegue il Master in Mediazione Familiare e in Tutela Internazionale dei Diritti Umani e oggi è al suo esordio letterario con il romanzo intitolato “Nessun requiem per mia madre”, per Fazi Editore.
Marta è arrivata in Italia dal Brasile. Non è una ragazza in fuga, non ha un passato da dimenticare. Marta ha soltanto un futuro da costruire: qui studia, si innamora e si sposa. È felice della propria vita. Ma allora perché è l’unica grande assente al funerale di sua suocera, Genuflessa De Benedictis? La madre di suo marito Franco, salutata ora con commozione dall’intero quartiere Parioli in cui viveva, è stata in realtà la più terribile e distruttiva delle suocere. Possessiva e pronta a tutto pur di non lasciare il figlio prediletto nelle grinfie dell’“approfittatrice straniera”.

Abbiamo intervistato l'autrice


Nel suo romanzo fa un ritratto feroce della famiglia italiana - borghese e cattolica - a contatto con lo straniero: possiamo chiederle se è una storia di fantasia o, in parte, autobiografica?

Le suocere e le nuore hanno spesso tratti comuni un po’ in tutto il mondo. Sono arrivata in Italia per approfondire gli studi con un Master in Mediazione Familiare, che pensavo, sarebbe stato il campo del mio futuro lavorativo. Molti degli avvenimenti provengono da testimonianze ascoltate in quegli anni di studio. Certamente l’atmosfera ricreata nel libro proviene dalle storie più estreme e patologiche che hanno modificato e segnato, fino a devastare, matrimoni basati su affinità che sembravano solide. Il mio tentativo è stato quello di immedesimarmi, sia nella madre che nel figlio, ed essere voce narrante di una asfissiante simbiosi in cui la madre non ammette che venga sottratto “il suo bastone della vecchiaia”. Non penso però sia solo una storia italiana dello stereotipato “mammone” o ultimamente politicizzato “bamboccione”. Le dinamiche dell’accettazione dello straniero sono quasi in secondo piano rispetto al rifiuto di una separazione fisica, che agli occhi della madre è vista come un tradimento. Poco importa che Marta, la nuora, sia straniera o autoctona. È la possibilità di aprirsi al mondo e di abbandonare le vecchie morbose abitudini a spaventare Genuflessa.

Cosa rappresenta Genuflessa De Benedictis, la “madre”, la “suocera”, al di là del suo ruolo familiare? E il suo è vero amore nei confronti dei figli o c'è dell'altro?

Genuflessa De Benedictis è madre e nella sua personale religione è Dio. Non ha solo procreato, ma creato i propri figli, uomini che vengono descritti nel romanzo come una sua propaggine inalienabile, cellule omozigote...Essendo ermeticamente chiusa in sé stessa, solo di sé (e quindi dei figli), Genuflessa crede di potersi fidare. Direi che non è amore ma spietato narcisismo.

Quali sono gli stereotipi da demolire quando si parla di brasiliani, sudamericani e di immigrati in genere?

Ridurre con le parole un popolo è il modo più semplice per odiarlo o per provarne simpatia. Se parlo dei romeni si pensa immediatamente alle badanti o ai pirati della strada, se dico peruviano o filippino la mente si sposta su bravi domestici, al brasiliano invece si associa alla trans della Cassia o della Cristoforo Colombo, al calcio e alle mulatte che camminano sulle spiagge bianche di Ipanema. Quanto di più fuorviante ci può essere, se con sei termini ho sintetizzato circa 350 milioni di persone? Gli stereotipi sono molti e cambiano spesso sulla base della volontà politica di strumentalizzare determinate situazioni o momenti storici.

L'Italia è un Paese razzista?

L’Italia ha una storia complessa. Non va capita ma psicanalizzata come un’affascinante donna profondamente insicura e impaurita che ha bisogno di eterne conferme sulla propria identità. Un Paese andrebbe misurato non attraverso lo spread o i rating delle banche, ma attraverso l’umanità e cultura che ha sviluppato nei secoli di storia. Da questo punto di vista definire l’Italia un Paese razzista sarebbe storicamente sbagliato, si pensi solamente alla globalità dell’impero Romano con il suo straordinario Diritto, ma anche alla storia più recente come la Carta dei Diritti dell’Uomo (Carta di Roma). Atteggiamenti incivili di pochi non possono condizionare un quadro generale che si presenta positivo e in costante evoluzione, anche se non voglio tuttavia minimizzare una certa inquietudine recente verso atteggiamenti sessisti e di fanatismo religioso.

Ci può rivelare il significato del titolo del romanzo?

È l’incapacità di perdonare le debolezze di chi ci ha generato. È l’eterno risentimento che si ha quando i genitori affidano nei figli il proprio riscatto.


Claudiléia Lemes Dias