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martedì 29 dicembre 2015

Parte la seconda carovana per Gaza

Dopo un anno di preparativi e una partenza sfumata a Luglio, finalmente il progetto iniziato lo scorso anno del “Festival delle culture tra arte e sport” può continuare e rinnovarsi   (da Nenanews.it)




Il 27 dicembre partirà la seconda carovana per Gaza, un programma che avrà molteplici obiettivi: sostenere la resistenza palestinese e la popolazione della Striscia che vive da anni una situazione di assedio perenne e di isolamento internazionale; dare la possibilità ai Gazawi di avere l’occasione di potersi esprimere liberamente e con serenità in contesti differenti rispetto alle condizioni esistenziali che sono costretti a sopportare; essere testimoni di quello che accade sia della fase attuale che del contesto generale; diffondere questa testimonianza per rendere tutti coscienti della realtà dei fatti a fronte di una campagna mediatica che ha dipinto e dipinge Israele come vittima, anziché come paese colonizzatore e oppressore; scambiare competenze nell’ottica di un arricchimento culturale reciproco.
Il progetto è quindi rilevante nell’immediato e nel breve periodo, in quanto coglie la necessità primaria per la popolazione di uscire da una quotidianità caratterizzata dal perenne status di guerra, ma è ancora più fondamentale nel lungo periodo, poiché si tratta di un investimento che si spera continui nel tempo e che sia soprattutto in grado di innestarsi nell’intricata e complessa situazione della resistenza palestinese contro il governo israeliano, che nel corso degli anni si è dimostrato non solo colonizzatore, ma fascista nei modi e xenofobo nell’azione.
L’anno scorso lo scenario era quello del periodo post operazione “Margine Protettivo”, una strategia sanguinaria che aveva messo in ginocchio i Gazawi con una guerra impari che ha portato distruzione ovunque (gli aiuti sono iniziati ad arrivare a settembre di quest’anno), massacri, morti, povertà diffusa, impossibilità di condizioni di vita decenti (taglio dell’energia elettrica; bombardamenti continui lungo il confine e in mare; mancanza di acqua; difficoltà strutturali nelle scuole che hanno impedito per molto tempo lo svolgimento delle lezioni …). Questo si aggiungeva già ad un contesto in cui l’autosufficienza della Striscia versava in condizioni di estrema precarietà: un altissimo tasso di disoccupazione (circa il  Il 43 per cento degli 1,8 milioni dei residenti della Striscia sono disoccupati. Tra i giovani è il 60 per cento a non avere un lavoro), una situazione economica al collasso per l’embargo egiziano e israeliano e per le guerre (le esportazioni dal territorio palestinese sono infatti azzerate e il settore manifatturiero è stato abbattuto del 60 per cento), un tasso di povertà altissimo, circa il 40%.
Secondo la Banca Mondiale, la ripresa economica è fortemente ostacolata dall’impossibilità per merci e persone di muoversi.
Quest’anno la situazione che la carovana si troverà ad affrontare non sembra affatto più rosea.
E’ ancora in corso infatti un periodo di tumulti e ribellioni, soffocati dalla forza repressiva israeliana che sta mietendo vittime ogni giorno.
L’hanno chiamata “Intifada dei coltelli”, ma come abbiamo visto, questa terza fase di rivolte si presenta in modo totalmente differente rispetto alle precedenti.
Anzitutto, dietro agli episodi che si sono verificati non c’è alcuna strategia di gruppi organizzati o partiti.
Questo si è potuto rilevare sia dall’assenza di una rappresentanza politica a cui si rifanno gli scontri (a parte Hamas che per un momento ha cavalcato la questione cercando di determinare quella situazione), sia dal carattere di spontaneità che hanno caratterizzato certi episodi, che dalle persone coinvolte: giovani uomini e donne che hanno agito mossi da un sentimento di disperazione e disillusione totale.
Un sentire che pesa per i tre anni di guerra che ha subito la Striscia (2 guerre in 3 anni) e per il grave regime di apartheid che subisce la popolazione palestinese ogni giorni in Cisgiordania e nei territori occupati.
Protagonista di questa Intifada, quindi, è soprattutto la popolazione giovanile, generazioni che sono cresciute sull’eredità del fallimento degli accordi di Oslo e sulla vana speranza di trovare un modo per uscire da una situazione di emarginazione ed oppressione che non permette la realizzazione dei più banali (per noi) obiettivi di vita.
E’ in questa matassa che si inserisce questo festival: per rispondere ad esigenze umane, sociali, politiche della popolazione e per restituire una realtà alterata e falsificata dai media.
Sostenere l’autodeterminazione dei popoli e dei territori, lottare contro i meccanismi di colonizzazione ed imperialismo che strozzano i palestinesi, condannare a gran voce un vero e proprio sistema di apartheid o informarsi ed informare è dovere morale di tutti.


Chi desidera mandare un aiuto economico, ecco l’Iban del Centro Vittorio Arrigoni a Gaza
IT35C0312703241000000051775
INTESTAZIONE: Giovanni Lisi   Maria Teresa Bartolucci
Causale: per Gaza, Centro Italiano. Attività festival
BIC: BAECIT2B
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domenica 27 dicembre 2015

Lotta concreta alle mafie: le parole del Comitato Addio Pizzo


Addiopizzo è un movimento aperto, fluido, dinamico, che agisce dal basso e si fa portavoce di una “rivoluzione culturale” contro la mafia. È formato da tutte le donne e gli uomini, i ragazzi e le ragazze, i commercianti e i consumatori che si riconoscono nella frase “Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”.

Addiopizzo è anche un’associazione di volontariato espressamente apartitica e volutamente “monotematica”, il cui campo d’azione specifico, all’interno di un più ampio fronte antimafia, è la promozione di un’economia virtuosa e libera dalla mafia attraverso lo strumento del “consumo critico Addiopizzo”.

L'Associazione per i Diritti umani ha rivolto alcune domande ai membri del Comitato Addio Pizzo.

Risponde, per voi, Pico Di Trapani. Ringraziamo moltissimo il Comitato Addio pizzo.


 


Un comitato, il vostro, costituito da studenti: potete parlarci delle vostre competenze, dei motivi che vi hanno spinto e di come siete organizzati?

Siamo un gruppo di cittadini palermitani di età varia, abbiamo tutti intorno ai venti, trenta, quarant'anni e ci siamo ritrovati nel tempo a costruire un percorso dentro l'associazione convenendo sulla necessità di creare a Palermo, la nostra città, una rete che permettesse in ultima istanza ai commercianti e imprenditori vessati dal racket delle estorsioni mafiose, di denunciare in tutta sicurezza le violenze subite da Cosa nostra. Proveniamo da percorsi personali differenti, ma siamo uniti dall'adesione a principi comuni che si riassumono nella frase “Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”. Tutto nacque casualmente così, nel 2004, dal primo nucleo storico della futura associazione, che decise di condividere quella comunicazione con la città di Palermo affiggendo dappertutto, per le strade del centro storico, centinaia di adesivi che riportavano quel messaggio. Poi nel tempo i volontari sono aumentati e ci siamo potuti strutturare meglio, pianificando azioni che vanno nella stessa direzione e che ad oggi convergono su un'opera di sensibilizzazione nei confronti della cittadinanza e del mondo delle scuole, una comunicazione costante sul tema del racket e di ciò che concerne la lotta alla mafia, l'organizzazione di eventi e la promozione di una lista di consumo critico antiracket - consultabile sul nostro sito internte e tramite App - l'assistenza processuale e psicologica alle vittime del pizzo, etc.

Perchè l'estorsione è la “madre di tutti i crimini”?

Quando sosteniamo questo, riportiamo e quindi condividiamo l'idea espressa nel 1991 da Libero Grassi, che diceva al proposito: “L’estorsione è la madre di tutti i crimini perché è funzionale a stabilire, consolidare ed estendere il governo sul territorio rappresentato da una strada, una piazza o un quartiere. Il pizzo è manifestazione della signoria territoriale di Cosa nostra sulla città di Palermo. Con il pizzo la mafia si fa Stato”. Il pizzo, pur costituendo un'emergenza sociale ed essendo ancora oggi fortemente radicato come prassi criminale, non è per Cosa nostra e non ha mai costituito una fonte di reddito così alta, in rapporto al totale delle sue entrate. Ciononostante, è da sempre praticata dalle organizzazioni mafiose come strumento di affermazione del proprio potere e di riconoscimento della propria superiorità da parte della comunità locale vessata, che invece di unirsi e reagire accetta questa supremazia imposta con la violenza. Sta in questo il vulnus culturale su cui intendiamo agire, invitando gli altri palermitani e siciliani a riconoscere in noi stessi per primi i responsabili di questo potere mafioso nella nostra regione, e a reagire insieme di conseguenza.

Come si svolgono le vostre iniziative antiracket rivolte alle scuole?

Dal 2005 i nostri volontari incontrano studenti di ogni età, nella certezza che la scuola, bene comune prioritario, è laboratorio privilegiato per la lotta alla criminalità mafiosa e alla mentalità che ne sta alla base. Le scuole, luogo di incontro di culture differenti, possono e debbono educare il cittadino in un’ottica cosmopolita, quella di una società interculturale, finalmente libera. Gli incontri con gli studenti si svolgono nelle rispettive scuole o nella sede a noi affidata, un bene confiscato alla mafia, per questo stesso luogo di forte impatto simbolico. A fianco di docenti, studenti, genitori e dirigenti scolastici, che ringraziamo sentitamente, Addiopizzo in questi anni ha non solo inciso nella formazione di questi studenti, ma segnato, secondo noi, un momento unico e significativo nella storia della nostra città con le diverse iniziative e progetti di sensibilizzazione elaborati e attuati ogni anno, a dimostrazione di quanto la scuola possa essere determinante nel formare le coscienze dei giovani.

Quali appoggi e quali ostacoli avete incontrato durante il vostro lavoro?

Gli ostacoli maggiori provengono dal tentativo che portiamo avanti, di provare a scardinare la mentalità di chi è rassegnato all’idea che nulla possa cambiare e per tale approccio assume atteggiamenti di indifferenza, nella migliore delle ipotesi, o di acquiescenza nella peggiore, a fenomeni dai quali oggi ci si può davvero liberare. Ma si tratta di un lavoro per il quale bisogna ancora tanto faticare. Si tratta di sfide e ostacoli prettamente culturali. Non a caso la maggior parte degli operatori economici che hanno denunciato e che si sono avvalsi del nostro ausilio appartengono a generazioni di giovani - trentenni, quarantenni e cinquantenni che hanno forti resistenze culturali rispetto a fenomeni come quello delle estorsioni. Noi vogliamo sostanzialmente restituire normalità alla nostra terra, facendo in modo che chi resiste alle pressioni mafiose e clientelari possa proseguire il proprio lavoro senza ripercussioni sulla propria incolumità e sull’attività economica che esercita. La presenza mafiosa nell’economia siciliana è ancora forte. Il pizzo imposto ai commercianti, oltre a rappresentare la negazione di libertà importanti, come quella di impresa, è anche un pesante macigno che incide sulla possibilità dello sviluppo dell’economia isolana, distorcendone le regole del mercato e della libera concorrenza. Ma, oggi, esistono molti esempi positivi di riscatto che possono permettere di sperare in un futuro diverso, libero dalla criminalità organizzata e dai suoi disastrosi effetti. L'appoggio su cui contiamo proviene da questa rete che da anni, ognuno per la propria parte, stiamo contribuendo a tessere insieme.

sabato 26 dicembre 2015

Se in Danimarca tramonta l'Europa



di Adriano Prosperi (da La Republica)




UN pagamento anticipato delle spese di asilo e di assistenza. È una notizia che merita di essere attentamente considerata da tutti i cittadini europei. È un passo ulteriore nell'inedito esperimento di rapporti tra popoli migranti e popoli stanziali in atto ai nostri giorni.
Non del tutto inedito, tuttavia. Esso ci richiama alla mente quella tripartizione di ruoli che secondo lo storico Raul Hilberg si disegnò ai tempi del genocidio nazista e divise i contemporanei dei fatti tra carnefici, vittime, spettatori. Ci si chiede se sia possibile applicare questa tripartizione ai nostri tempi. Quali siano le vittime è evidente: in Europa attendiamo fra poco l'arrivo del milionesimo migrante per chiudere il bilancio del raccolto di questo anno. L'estate scorsa se ne attendevano ottocentomila e sembravano già troppi. Nel conto ci sarebbe da considerare anche quelli morti per via. All'Università di Amsterdam si censiscono i casi di "Death at the borders of Southern Europe". È l'elenco dei caduti di una guerra senza fine. A differenza di quelli delle guerre mondiali europee del ‘900 questi morti sono rappresentanti con una infografica fatta di tanti puntini dai colori diversi: in blu chiaro quelli identificati, in blu scuro quelli senza nome. Soldati ignoti della grande guerra in atto. Ma le vittime non sono solo quelle morte in viaggio. La strada dell'Europa è dura e piena di imprevisti anche per via di terra. I piedi dei bambini e delle donne migranti fanno pensare a quelli della sirenetta di Andersen. La nostra Europa così poco unita sembra divisa solo dalla diversa asprezza delle prove a cui sottopone i dannati della terra. E gli europei, cioè noi, sembrano impegnati in mutevoli giochi di ruolo: oggi carnefici ieri spettatori. Pronti comunque anche a livello politico ufficiale a rigettare responsabilità sul vicino e sempre protetti da chi caccia le cattive notizie nelle pagine interne dei giornali: come quella dei cinque bambini annegati due giorni fa nelle acque turche. Bambini sì, ma migranti. Fossero stati figli di gitanti ne avremmo conosciuto nomi e nazionalità e visto le foto in prima pagina. Chi non ricorda il corpo del piccolo Aylan, quella sua t-shirt rossa e quei pantaloncini blu scuro? La donna che scattò la fotografia disse di essersi sentita pietrificata: e sembra che il premier inglese Cameron dopo averla vista abbia modificato la durezza delle sue posizioni sull'immigrazione. Ma oggi tira un vento diverso. Impallidiscono i colori delle buone intenzioni dell'estate passata . Quelle della Merkel, che permisero a tutti i tedeschi per una volta almeno di sentirsi buoni, per ora hanno incontrato più ostacoli che consensi. Alla prova dei fatti contano le mura, quelle materiali e quelle legali e burocratiche che sono state alzate davanti a ogni frontiera, specialmente ma non solo a quella orientale dell'Europa, dove intanto la Turchia svolge il lavoro sporco ma ben retribuito di cane da guardia. È bastata l'ombra del terrorismo, l'idea che sui barconi arrivino da noi dei fanatici votati al martirio stragistico e la paura ha fatto il resto, gonfiando le vele dei partiti xenofobi, cambiando di colpo il paesaggio politico francese.
Il rapporto tra parole e fatti può essere misurato da quello che è accaduto il 18 dicembre. Era il giorno della Giornata internazionale di solidarietà con i migranti, fissato a ricordo della data in cui l'Assemblea generale delle Nazioni Unite adottò nel 1990 la Convenzione internazionale per la tutela dei diritti dei migranti. Ma proprio in quel giorno, sulla festa delle buone intenzioni è calata dalla Danimarca l'ombra cupa del progetto di legge che abbiamo ricordato. In quel paese di una democrazia e di un welfare idoleggiati non solo dai migranti si avanza la legge che promette di essere la soluzione finale del problema. Il governo, espresso dal partito xenofobo Venstre, ha già fatto parecchio in questo senso.
Ora sta progettando un vero salto di qualità. Chi si presenterà alle frontiere sarà perquisito e si vedrà sequestrare danaro e ogni oggetto di valore. Si lasceranno le fedi nuziali, si dice: e non si arriverà certo a strappare ai migranti i denti d'oro, come i nazisti facevano alle loro vittime. È il danaro che conta: è questa la misura unica del valore nell'età del neoliberismo.
Anche se la violenza sui corpi non è una frontiera insuperabile. Proprio in questi giorni le cosiddette autorità europee hanno rimproverato quelle italiane per le mancate registrazioni delle impronte digitali dei migranti: e hanno imposto di permettere l'uso della forza per la raccolta delle impronte e di "trattenere più a lungo" i migranti che oppongono resistenza.
Dunque, guardiamo alla sostanza, ai duri fatti di un conflitto tra le ragioni della più elementare umanità e l'avanzare strisciante di un ritorno preventivo a misure che sono iscritte nelle pagine peggiori del nostro recente passato. Tocca a tutti noi come spettatori decidere se voltare altrove lo sguardo o resistere attivamente al degrado della realtà - questa sinistra realtà europea dei nostri giorni. I valori che sono in gioco non sono solo i soldi e gli oggetti preziosi dei migranti: sono quelli immateriali che dovrebbero costituire il fondamento di una costruzione europea oggi tutta da ripensare.

 

martedì 22 dicembre 2015

Una giornata nell'agenzia di stampa delle donne curde



Kurdistan, a Diyarbakir arrestata una giornalista curda La reporter Beritan Canozer è stata arrestata a Diyarbakir, nel corso di una manifestazione. Fa parte dell'agenzia di stampa JinHa, gestita interamente al femminile



di Martino Seniga (da www.rainews.it)






Turchia, due morti negli scontri a Diyarbakir tra curdi e polizia di Martino Seniga 17 dicembre 2015. E' stata arrestata mentre cercava di svolgere il suo lavoro, raccontare quello che stava accadendo durante la manifestazione per chiedere la fine del coprifuoco nel Sur, la città vecchia di Diyarbakir. Si chiama Beritan Canözer, la giornalista dell'agenzia di stampa JinHa, all’ultimo piano di uno degli edifici più alti di Diyarbakir. Jin in curdo vuol dire donna e qui lavorano solo donne. Le giornaliste sono una decina nella “capitale” e 5 o 6 dislocate in altre città del Kurdstan. Le notizie scritte in curdo, turco e inglese non raccontano solo la lotta quotidiana delle donne e degli uomini curdi in Turchia, Rojava (Siria), Iraq e Iran ma anche le storie di violenza contro le donne che arrivano da tutto il mondo. Qualche volta si trovano anche notizie positive, che raccontano i risultati ottenuti dalle donne nei campi del rispetto dei diritti umani e dell’uguaglianza. Da quando, dopo le elezioni del 6 giugno, è stato interrotto il processo di pace tra il governo turco e i rappresentanti del movimento curdo, la homepage è generalmente riempita dalle notizie dei coprifuoco e degli scontri, che da alcuni mesi caratterizzano la vita quotidiana in molti distretti del Kurdistan turco. L’attenzione delle giornaliste si concentra in particolare sui casi in cui tra le vittime dei conflitti ci sono donne e bambini.




Tra una notizia e l’altra scambio qualche parola con una delle collaboratrici mentre beviamo un caffè curdo nella cucina comune affianco alla redazione. Mi racconta che i proventi del lavoro dell’agenzia vengono ridistribuiti tra tutte le redattrici secondo i loro bisogni. Se una giornalista deve mantenere uno o più bambini o un genitore malato riceve un compenso maggiore di quello che va ad una single che vive con i genitori. Anche le decisioni editoriali vengono prese in modo collegiale, non c’è un direttore anche se una delle giornaliste più anziane è considerata quella con maggiore esperienza. Finisco il caffe curdo, che è sempre lo stesso caffè che i turchi chiamano caffè turco e i greci caffe greco.

giovedì 10 dicembre 2015

10 dicembre: Giornata internazionale dei Diritti Umani






10 DICEMBRE

GIORNATA INTERNAZIONALE DEI

DIRITTI UMANI



Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.

(Art. 1 Dichiarazione Universale dei Diritti Umani)



Perché questa giornata?



La Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo approvata il 10 dicembre 1948 dalle Nazioni Unite proclama solennemente il valore e la dignità della persona umana e sancisce al tempo stesso l’inalienabilità degli universali diritti etico-civili.

La storia dell'ultimo cinquantennio è tuttavia segnata da non poche violazioni di questi principi rimaste impunite.

Quali sono le cause?

Perché molti Stati non rispettano i diritti che stanno alla base di ogni individuo?



 



Quali sono i tuoi diritti umani?





LIBERTA’ UGUAGLIANZA

DIRITTO ALLA VITA DIRITTO AL RICONOSCIMENTO DELLA PERSONALITA’ GIURIDICA

UGUALIANZA DAVANTI ALLA LEGGE LIBERTA’ DI MOVIMENTO

DIRITTO ALLA CITTADINANZA DIRITTO DI PROPRIETA’

DIRITTO ALL’ISTRUZIONE LIBERTA’ DI PENSIERO

LIBERTA’ DI RIUNIONE E ASSOCIAZIONE PACIFICA LIBERTA’ DI OPINIONE E ESPRESSIONE
e ...diritto al lavoro
diritto ad avere un tenore di vita sufficiente a garantire salute e benessere proprio e della sua famiglia

 





CONTATTACI:




mercoledì 9 dicembre 2015

Generazione Rosarno: dalla violenza alla legalità



Continuiamo ad occuparci di lotta alle mafie e vi proponiamo il libro intitolato Generazione Rosarno di Serena Uccello, per Melampo edizioni.




Si può nascere in una famiglia di 'ndrangheta eppure scegliere una strada alternativa e rigettare la violenza? Si può amare un padre in carcere e riuscire lo stesso a prenderne le distanze, immaginando per sé un destino diverso, di libertà e di rispetto vero? Vive e pulsa in questo libro una scuola superiore in cui vengono abbattuti antichi e nuovi pregiudizi e privilegi, dove non esistono figli di boss né figli di collaboratori o di testimoni di giustizia, dove mille ragazzi e ragazze si ritrovano ogni mattina tutti uguali, senza dover sopportare il peso delle storie personali. Dove una leggerezza gentile e sconosciuta è capace di generare nuova cultura. Una scuola che è un autentico fortino piantato in una periferia geografica e sociale, da cui insegna le opportunità e le promesse del mondo. Si chiama Rosarno ma diventa alla fine simbolo di tutto il Sud.






L'Associazione per i Diritti umani ha intervistato per voi l'autrice e la ringrazia.



Il libro è ambientato in Calabria, una terra bellissima e difficile. Quali sono i tratti della cultura tradizionale in cui affondano le radici della mentalità mafiosa?


Questa domanda richiede un’analisi di tipo antropologico che non sono in grado di fare, non ne ho gli strumenti, né la formazione. Posso però dare una chiave di lettura di tipo storico e sociale per spiegare perché la ‘ndrangheta è cresciuta così tanto in questi anni, in una situazione di sostanziale silenzio. In questo senso la spiegazione è l’isolamento della Calabria. Isolamento geografico e culturale, appunto. Prendo in prestito il procuratore Giuseppe Pignatone, già capo della Procura di Reggio Calabria, oggi capo della procura di Roma: “la società calabrese è realmente isolata dal resto del paese. Non esiste la Calabria, ma esistono le Ca­labrie: la provincia di Reggio è totalmente diversa da quella di Cosenza o dall’alto Catanzarese. L’isolamento tra le diverse province e dell’intera regione è innanzitutto fisico. La rete via­ria inadeguata, i cantieri dell’A3, le carenze della rete ferrovia­ria, lo sbarramento fisico dello Stretto amplificano l’isolamento geografico”. All’isolamento geografico c’è poi da aggiungere quello informativo. Negli ultimi anni sui giornali di ’ndran­gheta si è scritto, forse poco o forse in modo discontinuo, titoli e commenti e inchieste. Ma prima? Prima di Duisburg, la strage di Duisburg, quella in cui, nell’agosto del 2007, furono uccise sei persone, o prima di più recenti ope­razioni che hanno portato, soprattutto in Lombardia e nel nord Italia, all’arresto di centinaia di persone? Qualche titolo di tan­to in tanto e poco altro. Di fatto ha ragione il procuratore capo di Roma quando parla di “cono d’ombra” ricordando come “l’agenzia Ansa sia a Catanzaro, la sede Rai a Cosenza” e che “nessuna testata nazionale ha una redazione in Calabria”, men­tre “il quotidiano più diffuso, la Gazzetta del Sud è un giornale di Messina che pubblica pagine sulla Calabria”.

Quindi non saprei esattamente dire in quali tratti della cultura tradizione affondi la mentalità mafiosa, posso però dire che la mentalità mafiosa si nutre dell’isolamento e dell’assenza di cura da parte dello Stato e in questo isolamento cresce.



Da dove può o deve ripartire la cultura della legalità?


Il mio libro è sostanzialmente ambientato in una scuola. Un scuola sotto molti aspetti speciale perché è riuscita a compiere la sfida della inclusione. A far convivere cioè i figli di vittime, con i figli dei boss, con figli dei collaboratori. A far loro condividere tempo, spazio e sogni. Ecco la cultura della legalità deve, secondo me, essere meno slogan, meno pratica convegnistica, e più pedagogia del Bene. Come dice la ricercatrice Ombretta Ingrascì la pedagogia bianca che si oppone a quella nera della violenza.


Come si svolge la lotta alle mafie a Rosarno (e in altri luoghi)?


La lotta alle mafie è stata a lungo repressione. E l’aspetto repressivo è e deve restare centrale. In questi anni sono stati raggiunti risultati importantissimi. Tuttavia i risultati si sono cominciati a vedere anche su lungo periodo quando accanto alla repressione c’è la formazione. In questo caso uso le parole della scrittrice Evelina Santangelo che ho intervistato per il libro: “Non è un caso, credo, che in Sicilia il momento di maggiore forza della lotta alla mafia sia stato quando si è creata una saldatura tra il braccio operativo di chi deve condurre l’attività investigativa e repressiva e il mon­do della formazione. Perché è evidente che la lotta alla mafia è lotta alla sottocultura mafiosa. E questa lotta si può condurre solo se c’è collaborazione tra tutte le forze in campo”.



Quanto sono importanti le donne nel tramandare il valore della vita ?


Le donne sono fondamentali. Così come sono loro a tramandare il codice della violenza dai padri ai figli, sono loro che sempre in nome dei figli possono rompere la catena del sangue. E in questi ultimi anni in Calabria ma non solo abbiamo avuto diversi esempi. Penso a Lea Garofalo, ma anche a Maria Concetta Cacciola, che purtroppo hanno pagato con la vita la loro scelta di rottura. Ma penso anche a Giusy Pesce che invece è riuscita a salvare se stessa e i suoi figli scegliendo la strada della collaborazione.

Questo sono le sue parole che spiegano più di mille analisi.

Se io non cambio strada e non li porto con me, quando uscirò il bambino potrebbe già essere in un carcere mino­rile, e comunque gli metteranno al più presto una pistola in mano; le due bimbe invece dovranno sposare due uomi­ni di ’ndrangheta e saranno costrette a seguirli. Io voglio provare a costruire un futuro diverso per loro... Io potrei anche cavarmela con qualche anno di carcere ma nessuno libererebbe i miei figli da un destino già segnato. Quando il mio bambino, una volta, ha detto che da grande avrebbe voluto fare il carabiniere, suo zio l’ha preso a botte, poi gli ha promesso che una pistola gliel’avrebbe regalata lui... Un giorno che io gli chiesi a mio figlio ‘Che cosa vuoi fare quando sei veramente grande?’ E lui mi rispose ‘Il carabi­niere’, loro lo aggredirono: ‘Che stai dicendo, scemo, stor­to!’, tipo loro hanno questo carattere, parlavano così, con i bambini hanno una delicatezza particolare”.



Qual è l'operato dei giudici e delle istituzioni per salvare i giovani che appartengono a famiglie malavitose?


Anche in questo caso voglio rispondere raccontando un aneddoto che riporto nel libro. Un pomeriggio un piccolo gruppo di studenti del liceo Raffaele Piria di Rosarno sta partecipando a un seminario tenuto da Michele Prestipino allora procuratore aggiunto a Reggio Calabria, oggi a Roma. I ragazzi stanno lavorando su un libro, un romanzo La vita obliqua di Enzo Siciliano. E quel giorno in particolare stanno discutendo della vendetta, esattamente di qual è la differenza tra chiedere giustizia invece di vendetta. A un certo punto Prestipino si rivolge ad un ragazzo in prima fila e dice: “Vieni Carmelo, tu che pensi?”. Carmelo si avvicina e Prestipino lo tira a sé allungandogli un braccio sulle spalle. Il movimento di entrambi è spontaneo. E mi colpisce molto. Mi colpisce perché Carmelo è Carmelo Bellocco. Anche i Bellocco sono una famiglia sminuzzata tra morti, latitanti ed ergastolani. Alcuni di questi arresti portano pure la firma di Prestipino, così la na­turalezza con cui il primo ha accolto il secondo e il secondo si è fatto accogliere mi appare inedita e mi appare straordinaria. Ho così compreso che solo l’accoglienza può far passare il messaggio che non esiste una predestinazione al Male ma che ognuno può riscattare se stesso. L’accoglienza e anche il sostegno.





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venerdì 4 dicembre 2015

Nigeria: la lotta al terrorismo causa un elevato numero di morti



L'Associazione per i Popoli Minacciati (APM) ha chiesto al governo nigeriano maggiore trasparenza e protezione per la popolazione civile nella lotta al terrorismo. La lotta alle milizie di Boko Haram nella Nigeria nordorientale avviene nel riserbo più assoluto. Nelle regioni del conflitto non sono ammessi né giornalisti né aiuti umanitari per la popolazione civile rimasta.

Secondo i dati forniti dall'aviazione militare nigeriana, tra settembre e ottobre 2015 l'aviazione militare ha compiuto 1.488 raid aerei contro presunte postazioni di Boko Haram. Secondo l'APM è più che realistico presumere che durante i bombardamenti vi siano state anche vittime civili. Poiché l'esercito nigeriano finora non ha mai comunicato il numero dei morti conseguente alle sue azioni, l'APM presume che il numero dei morti civili causati dal conflitto con Boko Haram sia molto più alto di quanto ufficialmente dichiarato.

Secondo i dati dell'Indice globale sul terrorismo pubblicati ieri 17 novembre dall'Institute for Economics and Peace, nel 2015 la Nigeria ha avuto 6.644 morti per attacchi terroristici. Nel 2014 i morti per terrorismo erano stati 7.512. Solo ieri 17 novembre un attentato di Boko Haram nella città di Yola (stato federale di Adamawa) ha causato altri 32 morti. Per riportare un'immagine realistica del terrore causato da Boko Haram bisogna però tenere conto anche della sanguinosa lotta anti-terrorismo condotta dalle forze istituzionali e dalle milizie alleate. Infatti, in Nigeria la popolazione civile ormai teme la violenza dell'esercito tanto quanto la violenza cieca di Boko Haram.

Circa 2,5 milioni di persone, cristiani quanto musulmani, sono in fuga dal terrore e dal contro-terrore che insanguinano il paese. 2,15 milioni di persone sono profughi interni che sono riusciti a trovare rifugio presso amici e parenti, ma la situazione dei profughi è catastrofica. La corruzione diffusa fa sparire buona parte degli aiuti umanitari promessi ai profughi. L'APM chiede quindi che la comunità internazionale esiga maggiore trasparenza nella gestione degli aiuti umanitari e contemporaneamente che vengano garantiti gli aiuti necessari affinché la popolazione vittima della violenza possa ricostruirsi una vita. Senza reali aiuti umanitari, senza lotta alla corruzione, alla povertà e all'abuso di potere non vi potrà essere una pace stabile e duratura nel paese africano già scosso da disastri ambientali e conseguenze del cambiamento climatico.

Boko Haram si è ufficialmente associato allo Stato Islamico nel marzo 2015 e ha proclamato la "provincia africana occidentale dello Stato islamico".





Vedi anche in gfbv.it: www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150413it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150217it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2014/141201it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2014/140926it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2014/140912it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2014/140716it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2014/140304it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2014/140213it.html | www.gfbv.it/3dossier/africa/nigeria-it.html
in www: www.economicsandpeace.org | it.wikipedia.org/wiki/Delta_del_Niger | http://it.wikipedia.org/wiki/Nigeria

giovedì 3 dicembre 2015

La necessità di cambiare



di Emilio Molinari

L'ISIS ha dichiarato guerra all'occidente, rispondiamo senza pietà al canto della marsigliese. Non ho tentennamenti nella condanna al terrorismo e al cordoglio delle vittime, ma l'unanime grido: sono in gioco la nostra civiltà, i nostri valori, il nostro stile di vita, la nostra felicità e la nostra gioia...mi inquieta. Perché?

Perché sono convinto che siamo nel bel mezzo di una “Terza Guerra Mondiale a pezzi” di cui il terrorismo in nome di Dio è solo uno dei tanti pezzi. Che l'orrore parigino è solo una delle tante “rotture” con le quali il Pianeta ci segnala che non ci regge più...E non regge proprio il nostro stile di vita, la nostra felicità, la nostra gioia e...l'arroganza della nostra cultura.

Perché siamo in guerra con la natura, la quale proprio a Parigi, alla Cop 21 sul clima, ci presenta un conto salatissimo, tragico e ultimativo. E non sarà chiudendo la bocca agli ambientalisti in nome della sicurezza che risolveremo i problemi.

Siamo in guerra con gli emigranti che assediano le nostre frontiere.

Siamo in guerra con i beni comuni: l'acqua, la terra, l'aria, il fuoco.

Le guerre portano il segno dell'accaparramento dei combustibili fossili che scarseggiano. sono infinite e hanno provocato un milione di morti nella sola Iraq: dolore, torture e indicibili umiliazioni, inflitte a intere popolazioni dall'occidente, senza “dissociazione” alcuna da parte nostra.

Ci scusiamo dopo, per gli errori commessi, mai per gli orrori e il dolore generati.

I mutamenti climatici provocano morte e dolore incalcolabili.

47 bambini ogni giorno muoiono affogati in Bangladesh, solo perché il paese va sott'acqua. E non per colpa dei poveri della terra, ma perché ogni ora il nostro mondo spara in atmosfera centinaia di milioni di tonnellate di CO2 all'anno. Siamo in guerra per l'acqua e con l'acqua e pensiamo di privatizzarla. I nostri governi e le nostre multinazionali negano l'accesso all'acqua potabile a un miliardo di persone e 5000 bambini muoiono ogni giorno per questa ragione.

Siamo, con il land grabbing, in guerra con i contadini per accaparrare le terre e cacciare uomini e donne che ci vivono da secoli.

La guerra agli emigranti è sotto i nostri occhi con muri, fili spinati, barche affondate e con il modo con il quale li trattiamo in occidente: sfruttati, umiliati, insultati, schiavizzati.

E siamo in guerra con i poveri delle favelas e con i poveri delle nostre stesse periferie cittadine

Ma non ci passa per la testa che al fondo c'è proprio il nostro stile di vita occidentale intoccabile e che sbandieriamo come una chimera a tutto il resto del mondo. Parliamo dei nostri valori mentre priviamo i nostri stessi cittadini europei dei diritti sociali fondamentali su cui si fondano le nostre costituzioni. Anzi, cancelliamo dalle costituzioni questi diritti e li sostituiamo con il pareggio di bilancio.

Circondati da povertà, da ingiustizia, da catastrofi ambientali, consideriamo le cose inutili indispensabili, e i nostri desideri diritti universali.

Vengono al pettine tutte le contraddizioni del “nostro sviluppo” e il mondo, come una locomotiva, corre inarrestabile verso la catastrofe, guidata da un impalpabile conduttore: il mercato, che guida la Casa comune senza “misericordia alcuna” ad una velocità infinitamente superiore alle nostre capacità di pensare.

Di pensare al dolore e all'odio che seminiamo in tutto il mondo e pensare a come rielaborare questo nostro dolore spettacolarizzato, per sentire quello ignorato, che provochiamo negli altri.

Il dolore universale è l'elemento da far emergere dai tragici fatti di Parigi.

Da decenni l'occidente genera indifferenti e conformisti. Incoscienti del grande dolore che il futuro prossimo ci riserva.

So che dire queste cose oggi con i morti di Parigi negli occhi, viene letto come tradire o giustificare l'orrore; è sottrarsi “all'arruolamento” nell'esercito occidentale.

In questo contesto, so di sottrarmi alle domande sul che fare per fermare l'ISIS, ma sento che la priorità è quella di generare un grande movimento per cambiare le coscienze e il nostro stile di vita. Sento che il Papa è l'unica autorità mondiale a parlare del “grido che sale dall'umanità e dalla Terra”. Che è inascoltato.

Attaccato da destra e ignorato da una sinistra diffidente e in tutt'altre faccende affaccendata.

Attaccato da un laicismo ideologico che rischia di diventare una nuova forma di cecità che, mentre il mondo va a rotoli, sembra appassionarsi solo per i temi delle coppie gay o per l'eutanasia.

Mi è difficile come laico e di sinistra farmi capire su questo terreno. Difficilissimo dire alla sinistra e ai laici di buona volontà, che oggi il Papa e l'Enciclica Laudato Si, sono forse l'unica chance che abbiamo. Che non è un tradimento delle nostre convinzioni “arruolarci” nelle file di un movimento che ha questo “manifesto per il XXI” come richiamo.

Non piacerà se sento di dover lanciare un appello al mio mondo, laico e di sinistra.

E cioè che di fronte ai tamburi di guerra, all'imbarbarimento di quelli senza pietà e all'indifferenza dominante, occorre cogliere nel Giubileo della “misericordia” qualcosa anche di nostro, e nelle migliaia di iniziative e di mobilitazioni che determinerà, non un “fastidio”, ma una occasione unica, anche nostra, di esserci, di partecipare e di mobilitazione. Un anno quello del Giubileo, in cui è doveroso costruire un ponte con i credenti, per dare vita assieme a un indispensabile grande movimento di resistenza alla Terza guerra mondiale, per la Pace con l'umanità e la natura e....per l'Egalitè e la Fraternitè sparite dai nostri “valori” laici e occidentali.



martedì 1 dicembre 2015

America latina: i diritti negati



Chi cerca, trova.


di Mayra Landaverde



Da alcuni mesi la Rete Milano Senza Frontiere organizza un presidio in piazza Scala, in centro. Da maggio e fino al 18 dicembre, Giornata Internazionale del Migrante. Arriviamo, allestiamo la piazza con delle foto e delle maschere, con dei cartelli. Poi ognuno di noi prende una foto di uno dei tantissimi ragazzi dispersi nel Mediterraneo e giriamo in circolo. Vi ricorda qualcosa? 



Negli anni della dittatura in Argentina un gruppo di mamme ha deciso di fare la stessa cosa.



Allora era vietato qualsiasi tipo di manifestazione e le persone non potevano sostare davanti alla Plaza de Mayo, per cui la polizia ha chiesto loro di “girare”. Dal 30 aprile 1977 lo fanno, con le foto dei loro figli e nipoti desaparecidos. Vogliono sapere dove sono.



Cosi come le madres, esiste anche un’associazione di nonne: Asociacion Civil Abuelas de Plaza de Mayo e s’incaricano di cercare i bambini che sono stati sequestrati durante la dittatura e restituirli alle loro vere famiglie.



Dal 1977 al 2015 hanno recuperato 118 nipoti.



Sono state candidate al Nobel per la pace in diverse occasioni. Nel 2011 hanno ricevuto il premio Felix Houphouet-Boigny dall’UNESCO per il loro grande lavoro.



Anche noi vogliamo sapere dove sono le migliaia di desaparecidos del Mediterraneo. Lo vogliono sapere le madri tunisine e algerine che ci hanno affidato le foto dei loro cari.
 
 
 




E continueremo a cercarli insieme ai loro parenti.



Dall’altra parte del mondo in Latinoamerica ci sono altre madri che cercano i loro figli dispersi nel loro transito per il Messico. Tutti col sogno di arrivare negli Stati Uniti per avere una vita migliore e un futuro da offrire alle proprie famiglie. Purtroppo sono pochissimi quelli che arrivano alla frontiera nord. Prima devono attraversare tutto il Messico.  



A piedi o sopra il tetto dei treni. Scappando dalla polizia migratoria, dai militari e dai narcotrafficanti. E’ una delle rotte più pericolose che esistano.



Per le donne particolarmente.



Più del 70% delle donne migranti vengono violentate una o più volte durante il viaggio.



Ogni anno entrano clandestinamente in Messico 45,000 donne centroamericane.



La violenza sessuale è considerata “normale” , parte del viaggio, moneta di scambio. Lo si sa, i trafficanti chiedono soldi ma anche sesso in cambio di far passare le frontiere.

Per questo motivo tante donne prima di iniziare il viaggio prendono l’iniezione anti-Messico che non è altro che un anticoncezionale di lunga durata. Il Depo Provera è un contraccettivo ormonale in forma liquida che si somministra tramite iniezione ogni 12 settimane. Ma l’iniezione non le salva sicuramente dalla violenza e dai traumi che può subire una donna vittima dei trafficanti o degli stessi funzionari pubblici come gli agenti della polizia o i militari. Tante altre sono sequestrate e vendute per meno di 300 dollari per finire nella prostituzione. La CNDH ( Comision Nacional de Derechos Humanos) registrò, fra il 2009 e il 2011,più di 20 mila sequestri.Il Movimento Migrante Mesoamericano organizza da 11 anni la Caravana de Madres Centroamericanas de migrantes desaparecidos en su tránsito por México.
Lunedì 30 Novembre parte l’undicesima Carovana Migrante da Tenosique cittadina del sud messicano. Percorreranno più di 4 mila km cercando città per città i loro, i nostri desaparecidos.Dal 2004 la Carovana ha trovato 200 di questi figli. E’ questa la forza che spinge tutte queste madri: la speranza di ritrovare le figlie, i figli. Vivi. Siano madri argentine, tunisine o centroamericane. Tutte li cercano e noi dovremmo cercarli insieme a loro. Smettiamo di essere spettatori silenti.
 
 
Sono loro le madri è vero, ma siamo tutti figli di questo mondo.


lunedì 30 novembre 2015

29 novembre: Giornata Internazionale di solidarietà con il popolo palestinese

di Monica Macchi


Il 29 novembre 1947 con la risoluzione 181, l’Assemblea Generale dell’Onu ha approvato il Piano di partizione della Palestina con cui si stabiliva la creazione di due Stati, uno ebraico e uno arabo, con Gerusalemme sotto regime internazionale speciale….una delle tante risoluzioni mai implementate.





 
Situato a est di Qalqilia, Kufr Qaddum è un villaggio palestinese di circa 4000 abitanti con una superficie di 24.000 donum: in base agli Accordi di Oslo è stato suddiviso in “area B” (circa 8.384 dunum dove l’Autorità Nazionale Palestinese ha il controllo sulle questioni civili, e Israele continua ad avere la responsabilità della sicurezza) e “area C” dove Israele ha il pieno controllo sia sulla sicurezza che sulla gestione amministrativa sia di questa area che degli insediamenti illegali che la circondano (Kedumim, Kedumim Zefon, Jit Mitzpe Yisha, e Giv'at HaMerkaziz che costituiscono la colonia di Ariel Kedumim abitata da circa 3000 coloni).

Attorno al villaggio c’è il muro di Separazione (che Israele chiama “Barriera di Sicurezza) che isola 7.175 dunum (38,2% della superficie totale) e impedisce ai contadini di accedere alle loro terre (il 70% degli abitanti lavorano anzi lavorerebbero nell’agricoltura!) e ci sono molte bypass road (strade costruite dagli israeliani per collegare gli insediamenti in Cisgiordania a Israele). De iure secondo gli accordi di Oslo, i palestinesi avevano il permesso di utilizzare queste strade ma dopo lo scoppio della Seconda Intifada, Israele ne ha chiuso l’accesso ai palestinesi per “ragioni di sicurezza” ossia per proteggere insediamenti e coloni. Questo ha creato moltissimi problemi sia per l’economia (l’agricoltura è in ginocchio) sia per la libertà di movimento per i lavoratori, gli studenti e anche i malati, costretti ad andare all’ ospedale di Darweesh Nazzal a una trentina di chilometri o negli ospedali di Nablus a una ventina… su percorsi alternativi e di fortuna su stradine non asfaltate continuamente interrotte da check-point anche improvvisati.

Così il 1 luglio 2011 è iniziata una resistenza popolare, sotto forma di una marcia pacifica dopo la preghiera del Venerdì per rivendicare il diritto e la libertà di movimento chiedendo la riapertura delle strade che collegano direttamente Kufr Qaddum agli altri villaggi palestinesi. Da allora ogni venerdì tutto il villaggio, compresi attivisti stranieri e pacifisti israeliani marciano non solo perchè le strade sono rimaste chiuse ma anche per denunciare il taglio di acqua ed elettricità che Israele usa come forma di punizione collettiva per fiaccare la resistenza.

 

Ed ecco con le parole di Murad Shtaiwi coordinatore dei movimenti popolari di resistenza non violenta, la situazione di Kufr Qaddum:


 




domenica 29 novembre 2015


L'ASSOCIAZIONE PER I DIRITTI UMANI







Associazione per i Diritti Umani




PRESENTA

Combattere le mafie, combattere per il diritto alla legalità e alla vita.



Presentazione del romanzo: “ Sola con te in un futuro aprile”

di Michela Gargiulo





giovedì 3 DICEMBRE, ore 19

presso



CENTRO ASTERIA

Piazza Carrara 17.1 (Ang. Via G. da Cermenate 2 – MM ROMOLO) MILANO





L’Associazione per i Diritti Umani organizza l'incontro:



Presentazione del romanzo “ Sola con te in un futuro aprile”, alla presenza dell'autrice e giornalista Michela Gargiulo e di Veronica Tedeschi, avvocato.

Il 2 aprile del 1985 Margherita ha soltanto dieci anni. La sua casa di Pizzolungo, a Trapani, al mattino è invasa dalla confusione allegra di Salvatore e Giuseppe, i suoi fratelli, gemelli di sei anni. Non vogliono saperne di vestirsi e Margherita non vuole fare tardi a scuola. Chiede un passaggio a una vicina. I gemelli usciranno con l’utilitaria della mamma Barbara. Nello stesso istante due macchine della scorta vanno a prendere un magistrato. Si chiama Carlo Palermo e viene da Trento, dove ha indagato su un traffico di morfina proveniente dalla Turchia. Un fiume di droga che serve a finanziare altri traffici, armi soprattutto, e che produce altri soldi, che si intrecciano col giro delle tangenti della politica. Quando Palermo arriva a sfiorare Craxi la sua indagine arriva al capolinea. Da Trento, il giudice si fa trasferire a Trapani, dove la morfina turca viene raffinata in eroina. Per continuare a indagare su mafia, massoneria e politica. Sul lungomare di Pizzolungo le auto della scorta sfrecciano, non possono rallentare e quella utilitaria con una donna e due bambini seduti dietro va troppo piano. La sorpassano. Parcheggiata sul ciglio della strada c’è una golf con venti chili di tritolo nel bagagliaio. Qualcuno preme il tasto di un telecomando. È l’inferno. Carlo Palermo viene sbalzato fuori, è sotto choc ma si salva. Di Barbara Asta e dei piccoli Giuseppe e Salvatore restano solo frammenti.

Il voto sulla radicalizzazione e i rischi della politica della paura

 

Strasburgo, 26 novembre 2015

Ieri il Parlamento europeo riunito in sessione plenaria ha votato la Relazione sulla prevenzione della radicalizzazione, relatrice Rachida Dati (PPE).
In qualità di relatore ombra per il GUE-NGL, Barbara Spinelli ha dato indicazione di voto contrario. «Non è stata una decisione semplice. Dopo mesi di discussione tra la relatrice e i rappresentanti “ombra” degli altri gruppi politici, ho deciso di dare al mio gruppo un'indicazione di voto contrario. Nonostante i negoziati si siano svolti nel rispetto delle reciproche posizioni, e una serie di nostri emendamenti molto importanti sia stata accolta nella Commissione Libertà pubbliche e nell'Assemblea plenaria (sul commercio d’armi, sul legame tra l’estendersi dell’islamofobia e le prolungate guerre anti-terrore dell’Occidente, ecc), il risultato finale ha risentito in maniera a mio parere affrettata degli attentati parigini del 13 novembre: il PPE ha accentuato negli ultimi giorni la natura repressiva del rapporto e ulteriori misure anti-terrorismo sono state adottate, senza che ancora siano valutate la necessaria proporzionalità nonché la necessità legale. La politica della paura, sotto molti aspetti, ha prevalso nella maggioranza dei gruppi, pur creando importanti divisioni nel gruppo socialista, in quello dei Verdi, e perfino nel GUE-NGL». 
«Il GUE-NGL è contrario da tempo all'introduzione della Direttiva PNR, soprattutto se estesa ai voli interni all'Unione, come richiesto nella risoluzione: si tratta di una misura che il Garante europeo per la protezione dei dati e altre importanti autorità hanno definito non necessaria né proporzionata. Allo stesso modo, concordiamo con l'analisi effettuata da European Digital Rights (EDRI) secondo cui gli standard di crittografia non dovrebbero essere arbitrariamente indeboliti, come di fatto lo sono nel rapporto approvato dal Parlamento, perché ciò rischia di avere effetti negativi sulla privacy di persone innocenti». 
«Riteniamo inoltre che la risoluzione criminalizzi le compagnie internet, obbligandole a una sistematica cooperazione con gli Stati e mettendole praticamente sotto la loro tutela. É un messaggio assai pericoloso che per questa via viene trasmesso ai regimi autoritari nel mondo, tanto più che di tale misura si chiede l’applicazione perfino per quanto concerne materiale considerato legale».
«Anche se di per sé non sono affatto contraria ai controlli alle frontiere, ritengo tuttavia – come si affermava in un emendamento presentato dal gruppo S&D sfortunatamente rigettato – che gli Stati Membri “debbano astenersi dal ricorrere a misure di controllo alle frontiere finalizzate alla lotta contro il terrorismo e all'arresto di individui sospettati di terrorismo con lo scopo di esercitare un controllo dell'immigrazione”».
«Al pari dell'European Network Against Racism (ENAR), quel che temo è che una serie di proposte contenute nella relazione possa mettere a repentaglio alcuni diritti fondamentali nell'UE, soprattutto nei confronti dei rifugiati e dei musulmani, esplicitamente confusi gli uni con gli altri».
 «Particolarmente grave mi è parso il rifiuto di un nostro emendamento specifico contro la vendita di armi a paesi della Lega Araba come Arabia Saudita, Egitto e Marocco, e contro la collusione politica con Paesi terzi a guida dittatoriale. Per finire, è stato rigettato uno dei nostri emendamenti che consideravamo fondamentali: il rifiuto della “falsa dicotomia tra sicurezza e libertà”. In ogni democrazia il rifiuto di tale dicotomia dovrebbe essere un concetto ovvio. Non lo è più di questi tempi, dominati più dalla paura e dalla collera che dalla ragione e dalla rule of law».

sabato 28 novembre 2015

Stay human - Africa: Cosa succede in Burundi?


di Veronica Tedeschi


Trovare notizie chiare su quello che sta succedendo in Burundi in questi ultimi mesi è abbastanza difficile, la guerra che sta vivendo questa popolazione sta passando in secondo piano, almeno nel giornalismo italiano.

Questo non significa che sia una guerra “meno importante” o con “meno morti”: da aprile 2015, quando sono scoppiate le violenze tra il governo e gli oppositori per la candidatura ad un terzo mandato del Presidente Pierre Nkurunziza, sono morte circa duecento persone.

Duecento persone che rappresentano un popolo che non ha nessuna intenzione di mollare, che non vuole sottostare al comando di un Presidente completamente disinteressato al benessere della sua popolazione, colpita per il 66% da denutrizione e caratterizzata da un tasso di povertà altissimo.



Lunedì mattina abbiamo assistito quasi 60 feriti arrivati al pronto soccorso in un breve lasso di tempo” spiega Richard Veerman, responsabile dei progetti Medici Senza Frontiere in Burundi. “Abbiamo aperto una seconda sala operatoria ed eseguito cinque interventi chirurgici d’emergenza nelle ore immediatamente successive. Ci impegniamo a portare cure mediche di qualità alle persone, senza distinzioni di razza, religione o orientamento politico”.



Per la prima volta la guerra in Burundi non riguarda solo le differenze etniche ma è legata soprattutto ad una lotta di potere. Nel maggio scorso ci fu un colpo di Stato, fallito, che vide i responsabili arrestati poco dopo. Nonostante questo, le manifestazioni e le morti sono continuate, tra il 3 e il 4 ottobre sono morte 15 persone negli scontri a Bukumbura tra la polizia e alcuni giovani che si opponevano al terzo mandato di Nkurunziza. Il 13 ottobre, almeno 7 persone sono morte per colpi di granata e arma da fuoco e ancora, altre 3 persone hanno perso la vita lo scorso 27 ottobre, giorno in cui il Presidente ottenne un terzo mandato. La violenza è ormai norma nel paese, dilaniato da una crisi politica di livelli eccezionali che ha costretto 200mila burundesi a lasciare il paese.

In quest’ottica si può leggere la creazione di una nuova polizia antisommossa, istituita il mese scorso e chiamata ad intervenire in caso di rivolte; secondo alcune fonti di stampa, sarebbe composta da 300 uomini, tra tiratori scelti e ufficiali al comando. La polizia da sola non regge più il peso di queste manifestazioni che, ormai, continuano da ben 8 mesi e che non cesseranno facilmente.

Il 7 novembre è scaduto l’ultimatum di cinque giorni dato dal Presidente ai suoi oppositori per consegnare le armi spontaneamente in cambio di un’amnistia. Questo invito di Nkurunziza non è stato accolto, infatti, nella notte tra il 7 e l’8 novembre altre 9 persone sono state uccise in un bar a Bukumbura.

Il 9 novembre è iniziata l’operazione di disarmo avviata dalla polizia in quartieri controllati dall’opposizione, il giorno stesso durante tali eventi sono morte altre 2 persone.

La situazione in Burundi peggiora progressivamente senza che la comunità internazionale riesca (o voglia) fermare la spirale di violenza che sta travolgendo questo paese.

Ricordiamo, inoltre, che nei prossimi mesi anche le popolazioni di Rwanda e Repubblica Democratica del Congo saranno chiamate alle urne, nella speranza che le conseguenze della guerra in Burundi non invadano anche gli altri Stati africani.




Il Burundi è un paese fragile e il modo in cui questa crisi verrà risolta avrà sicuramente ripercussioni sia sulla popolazione che sulle conquiste politiche future. Il tutto potrebbe concludersi con soluzioni militari molto pericolose, non solo per il Burundi ma per tutta la regione.



giovedì 26 novembre 2015

Michele Karaboue commenta i fatti di Parigi e in altri Paesi del mondo



L'Associazione per i Diritti umani ha raccolto, per voi,anche il commento del Prof. Karaboue, docente presso la Seconda Università di Napoli e lo ringrazia molto per la sua disponibilità.

 

Gli attentati di Parigi sono atti molto tristi, che lasciano sgomento, ma che non possono essere ricondotti ad una volontà religiosa, nel senso che è opportuno distinguere l'atto di terrorismo dalla religione islamica. E' oggettivamente complesso comprendere questa dinamiche che hvanno condannate ed è compito nostro cercare di spiegare e di analizzare i fatti per quello che sono: qui parliamo di un atto criminale che ha coinvolto un Paese amico come la Francia ed è un atto da condannare con forza.



C'è un fenomeno mediatico di manipolazione e di interessi specifici. Ci siamo accorti della questione francese, ma da sempre tanti Paesi (Kenya, Congo, Siria, Yemen ad esempio) hanno subìto le stesse manifestazioni anche con un numero di vittime superiori, però non hanno la stessa visibilità mediatica in quanto la situazione di questi Paesi viene vista con minore attenzione e con minore sensibilità. La stessa attenzione data legittimamente ai francesi deve essere concessa anche alle altre stragi che il mondo piange perchè è attraverso questa sensibilizzazione globale che si potrebbe scuotere le coscienze e far comprendere a tutti quanto sia universale la drammaticità dei fatti che stanno accadendo.


L'Isis si sconfigge con la presa di consapevolezza dal punto di vista culturale: si parla di Stato islamico che, invece, non esiste ma esiste una realtà - radicata in alcuni territori - che punta a costituire una territorialità politicamente riconosciuta. L'Isis, quindi, va combattuta con un sussulto culturale, isolando e condannando fortemente - a partire dai musulmani - queste attività che nulla hanno a che fare con l'azione religiosa. Non sentendosi legittimata e senza propaganda, l'Isis potrà definire le proprie azioni all'interno di una circoscritta attività che potrebbe anche risolversi nel nulla.


lunedì 16 novembre 2015

Parigi sotto attacco: la colpa è dell’Islam (?)


di Shady Hamadi  (da Il fatto quotidiano)



“E’ l’Islam il problema. La violenza che vediamo è il naturale frutto di una religione violenta” è questa l’idea che si diffonde a macchia d’olio in queste ore. Era la stessa idea che dilagava nelle ore, e nei giorni, dopo la strage di Charlie Hebdo. Tutte le responsabilità sono affidate a questa fede che sarebbe in antitesi con tutte le cose belle (democrazia, libertà e illuminismo – una parola molto ricorrente) dell’Occidente. La nuova strage a Parigi, dove hanno perso la vita 127 persone, sarebbe l’ennesima conferma dell’idea all’inizio. Allora si può cominciare a dare la responsabilità di quello che succede a oltre un miliardo di persone.

Le forze reazionarie in Europa, i paladini dell’identitarismo, non aspettavano altro per cominciare il loro proselitismo politico: la raccolta del consenso. «Più sicurezza contro il nemico esterno, l’Islam» gridano in questi istanti gli imprenditori della paura in tutta Europa. E come potrebbero avere torto? Perfino persone che sono sempre state disposte al dialogo si arrendono di fronte a quella che pare l’evidenza: l’Islam è una religione dell’odio. Ripongono il dialogo nell’armadio dei ricordi e da moderati passano al gruppo di chi vuole la chiusura delle frontiere. “Questi musulmani”, ci diranno fra un po, “sono tutti pericolosi. Il fondamentalista islamico è il nostro vicino di casa. Obblighiamoli a indossare un segno di riconoscimento. Magari una mezza luna”. Qualcuno potrebbe proporre di ritirare la cittadinanza a chi è nato e cresciuto nei nostri paesi da genitori musulmani perchè potenzialmente pericoloso. Sarebbe sbagliata una scelta del genere? No, se viene generalizzato il problema e la colpa diventa di tutti indistintamente. Alla fine sono “Bastardi islamici” come titola Libero. Di fronte alla facilità di cadere nel bacino, sempre più capiente, dei partiti xenofobi europei l’unica cura pare quella difficile dell’analisi di quello che è il Medioriente oggi e la rilettura della nostra Storia, quella europea. Scopriremmo molte cose interessanti e, fra le tante, che, in alcuni periodi storici, quando è stata generalizzata la colpa a una etnia o gruppo religioso si sono aperti gli anni bui che sono terminati con i massacri di questi capri espiatori.

Buttare le colpe sull’Islam, questa entità vuota, sconosciuta a troppi, è un gioco estremamente semplice che si alimenta grazie all’ignoranza e che ci impedisce di ragionare su quali sono i motivi che creano il fondamentalismi. Dico fondamentalismi perché Boko Haram è differente da Isis; l’Isis è differente da Al Qaida. I contesti sociali, linguistici, storici dove sono nati questi fenomeni non hanno nulla in comune fra di loro se non l’estrema povertà causata dallo sfruttamento di risorse e lo strapotere di élite politiche e economiche che creano dislivelli di ricchezza enormi.

Al fondamentalismo islamico c’è chi, come le formazioni di estrema destra, invoca il ritorno allo status quo precedente al 2010, alle primavere arabe. “Bisogna far tornare i vecchi regimi perché davano stabilità!”, dichiarano, “perché Saddam, Asad, Gheddafi ecc…sono il male minore”. Ai musulmani servirebbero dei tutori, dei massacratori. Poco importa se chi li aiuta a instaurarsi al potere si definisce democratico. La morale qui non vale. Non vediamo invece che la maggior parte dei giovani arabi che entrano nelle formazioni fondamentaliste hanno 30 anni e sono cresciuti educati e formati proprio sotto questi governi considerati “mali minori e laici”. Con questo intendo che dobbiamo domandarci “cosa spinge alcuni giovani nati e cresciuti sotto i regimi – buoni, come li considera qualcuno – a propendere verso il fanatismo?”. La risposta è la costante mancanza di libertà, l’asfissia sociale, la consapevolezza di non poter cambiare le cose e l’accettazione – da parte di alcuni di loro- della morte come eventualità quotidiana.

Quest’ultimo punto è stato per me evidente due giorni fa. Camminavo nel centro di Beirut con un mio amico e da qualche ora c’era stato l’attentato che aveva causato quasi 50 morti. Intorno a noi la gente riempiva i bar e la vita procedeva tranquilla. Questo amico mi ha chiesto che cosa pensassi: “non ti sembra strano che tutto proceda come se nulla fosse”? “E’ la temporaneità”, gli ho risposto, «”la concezione che nulla sia duraturo. E’ tutto fragile. Domani può arrivare un aereo di chissà quale Stato, sganciare una bomba e andarsene. Tutti sanno che non ci sarà nessuna reazione. La vita si è plasmata qui, e in altri luoghi del mondo arabo, intorno alla costante insicurezza”. Non è una concezione vittimistica della vita ma direi l’accettazione dell’eventualità della morte. Così, noi in Europa, non capiamo che le vittime di Beirut sono vicine, insieme a quelle in Siria, in Palestina, Israele, Iraq e Yemen a quelle di Parigi.
Ma solo le ultime raggiungono lo status di vittime perchè ci identifichiamo con loro mentre le altre sono numeri. Quando proveremo empatia verso tutti; quando la smetteremo di chiedere a ogni musulmano vicino di casa di sentirsi in colpa e condannare gli attentati; quando proveremo tutti insieme, musulmani, cristiani, ebrei – tutti noi – la solidarietà a prescindere dalla nazionalità, allora il fondamentalismo avrà fine. Questo sforzo deve arrivare da tutte le parti. Preme però sottolineare che il punto essenziale, oggi, è capire che la Siria e la guerra(incompresa) che si combatte lì, ha ripercussioni dirette nelle nostre società. Solo la risoluzione di quella catastrofe, che miete centinaia di morti al giorno, può dare un contributo fondamentale alla stabilità dell’area. Ma la scelta per risolverlo non deve essere fra un regime e il fondamentalismo: dobbiamo scegliere il popolo, la gente.
Solo il dialogo ci salva dai tempi bui, ma questa strada è sempre la più difficile.