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giovedì 17 settembre 2015

Barbara Spinelli e il rimpatrio delle ragazze nigeriane




APPELLO DI BARBARA SPINELLI ED ELLY SCHLEIN: IMMEDIATA SOSPENSIONE DEL RIMPATRIO DI TRENTA RAGAZZE NIGERIANE





Disapproviamo con forza quanto sta avvenendo in queste ore nel Cie di Ponte Galeria a Roma. Trenta giovani donne nigeriane stanno per essere rimpatriate in un Paese che non corrisponde a nessuno dei canoni di sicurezza stabiliti dalle convenzioni internazionali, considerato insicuro anche dal sito della Farnesina, in disaccordo con quello del Viminale. Gli avvocati non sono stati ammessi ai colloqui con le ragazze. Le associazioni che hanno normalmente accesso al Cie non sono state messe nelle condizioni di appurare se le ragazze facciano parte del gruppo delle sessantasei nigeriane vittime di tratta rinchiuse da un mese e mezzo nel centro, per le quali nei giorni scorsi si è mobilitato anche il sindaco Ignazio Marino – tutte con visibili segni di violenza e alcune di ustione. Secondo gli attivisti che presidiano il Cie, le trenta nigeriane sono da poco state caricate su un pullmino diretto all’aeroporto di Fiumicino. Un provvedimento di rimpatrio metterebbe a serio rischio la vita delle ragazze, pienamente da considerare soggetti vulnerabili, tutelate dagli articoli 11 e 12 della Direttiva 2011/36/UE e gli articoli 20 e 21 della Direttiva 2011/95/UE, alle quali non è stata nemmeno data la possibilità di avvalersi delle misure sospensive previste dall’articolo 39 CEDU. Ci uniamo alla Campagna LasciateCIEntrare e alle tante organizzazioni e associazioni mobilitate in loro difesa per denunciare gli accordi con la Nigeria e i voli congiunti di Frontex, e chiedere l’immediata sospensione del provvedimento.
 

martedì 2 luglio 2013

La vita che non Cie: un documentario di Alexandra D'onofrio

Più di mille migranti si trovano, in questo ultimo periodo, nel centro di accoglienza di Lampedusa: una struttura che avrebbe una capienza massima di 300 posti. Dall'isola i migranti vengono smistati nei CIE, Centri di identificazione e di espulsione. Ma cosa succede a queste persone, senza permesso di soggiorno, dentro e fuori dai Cie? Ne abbiamo parlato con Alexandra D'onofrio, regista del documentario intitolato La vita che non Cie, una trilogia di cortometraggi, prodotta da Fortress Europe, in cui si narrano le storie di un ragazzo che cerca di raggiungere la moglie incinta, dalla Tunisia all'Olanda; di un uomo che cerca di aiutare, dall'esterno, i suoi compagni rimasti all'interno del Cie di Torino, dopo esserci stato lui stesso; e di un figlio che non cresce con il padre, espulso in Marocco dopo aver vissuto tanti anni in Italia. Un lavoro cinematografico nato nel Cie di Modena dove, nel febbraio 2011, Gabriele Del Grande ha conosciuto Kabbour, il protagonista dell' ultima vicenda intitolata “Papà non torna più”. Alexandra D'Onofrio ha, poi, seguito Kabbour in Marocco e ha deciso di raccogliere altre storie per riflettere sul tema della giustizia e sulle politiche riguardanti l'immigrazione ma, soprattutto, per raccontare relazioni difficili e sentimenti universali.

Abbiamo intervistato Alexandra D'Onofrio

 La vita che non Cie è il titolo di una trilogia che, attraverso le vicende di un ragazzo, di un uomo e di un bambino, racconta l'odissea dei migranti da punti di vista differenti. Da dove nascono queste storie?

 Abbiamo girato questo film tra marzo e aprile 2011 e ci siamo posti l'obiettivo di andare a cercare dei ritratti, delle storie che potessero raccontare ciò che non si viene a sapere dai canali ufficiali, dai media. Il problema è stato che, nel 2011, c'era il veto di entrare nei Cie per giornalisti e documentaristi (adesso, invece, c'è questa possibilità) e, quindi, abbiamo tessuto le storie di persone che ci hanno raccontato i Cie da fuori. Nel primo caso si racconta la storia d'amore di un ragazzo che è evaso: il fotografo Alessio Genovese - che ha seguito la vicenda fin dall'inizio e del quale ho usato le immagini lavorando in Audiodoc - aveva incontrato la moglie di Nizar e aveva cominciato a fotografare lei mentre andava a trovarlo al Cie. Dopo un mese c'è stata una rivolta, i reclusi sono evasi e il Cie è stato chiuso. Si tratta del Cie di Chinisia, fuori Trapani: Gabriele mi ha proposto di scrivere il soggetto e poi io ho seguito Nizar in Olanda dov'era andato per raggiunegre la sua compagna in attesa di un figlio... Attraverso questi corti abbiamo, infatti, voluto raccontare sentimenti universali: l'amore, la genitorialità, la solitudine.
Nel secondo corto si parla del Cie di Torino attraverso la storia di una persona rilasciata dopo circa cinque mesi di reclusione. Al tempo abitavamo a Torino e l'unica realtà che restava in contatto con i detenuti era una radio, Radio Black Out, che metteva in onda le interviste alle persone dentro il Cie. Abdelrahim, una volta uscito, si era impegnato a fare “da tramite” e a portare dentro alcune cose che potessero servire ai reclusi, come cibi o vestiti, ad esempio; il film, infatti, inizia con lui che va al mercato a comprare reggiseni per le ragazze della sezione femminile. Abbiamo cercato di capire quanto la vita di Abdelrahim fosse cambiata dopo l'esperienza di detenuto nel Cie e abbiamo anche cercato di capire il motivo della sua scelta di mantenere questa relazione con i compagni.
 La terza storia parla di una deportazione, di un rimpatrio. E' la storia di Kabbour che ha vissuto in Italia per 11 anni, ha fatto le medie e le superiori qui per poi lavorare nei mercati, ma si trova costretto a tornare in Marocco perchè vendeva CD contraffatti. E' un reato per il quale è stato considerato “socialmente pericoloso” e per cui ha perso il permesso di soggiorno ed è stato rispedito indietro. Nel frattempo, Kabbour si è formato una famiglia con una compagna, cittadina polacca, con cui ha avuto un bambino, Tareq che, l'anno in cui il padre è stato rimpatriato, aveva cinque anni.

 In base alle testimonianze che avete raccolto, com'è la vita all'interno dei centri? O si deve parlare di sopravvivenza?

Una cosa interessante del primo corto è che siamo riusciti ad utilizzare materiale realizzato dai protagonisti stessi, che hanno filmato con i telefonini. Le immagini riprendono la traversata, i primissimi giorni con i festeggiamenti per essere riusciti ad arrivare, con cerchi di canti e danze, ma poi i cellulari hanno ripreso anche la situazione all'interno dei Cie, con le rivolte o con le persone che stanno lì senza fare niente, ingabbiate, a guardare il cielo. Per i reclusi la cosa straziante è non capire perchè: non hanno commesso reato, hanno solo fatto la traversata senza avere la carta giusta oppure si trovano senza permesso di soggiorno perchè l'hanno perso strada facendo o perchè il loro contratto di lavoro non è stato rinnovato. Non avere il permesso è un reato amministrativo che equivale a passare con il semaforo rosso, eppure queste persone sono detenute. Oltretutto, il periodo di reclusione è salito da sei a diciotto mesi.

Nei titoli di coda si sottolinea che il 60% delle persone trattenute non viene né identificato né rimpatriato. Dopo un anno e mezzo di Cie, cosa succede?

Una volta fuori, queste persone rischiano semplicemente di non essere ancora identificate e di essere riportate dentro. Mentre giravo la storia a Torino ci è stato spiegato che - siccome i detenuti non riescono a dare un senso a quello che succede, non sanno quando verranno rilasciati o se verranno riportati a casa - non riescono a dorire di notte e , quindi, chiedono i calmanti. I calmanti, però, vengono dati molto facilmente perchè servono anche a mantenere la calma all'interno del Cie; vengono usati per sedare la rabbia. Quando facevo le interviste per telefono, capivo che dall'altra parte c'era una persona che non riusciva a parlare perchè intontita dai farmaci.

Nel terzo corto, attraverso la storia di Kabbour e Tareq, padre e figlio, si affronta il tema del “principio del bilanciamento”, riconosciuto dalla Corte europea di Giustizia: di cosa si tratta?

 Il principio del bilanciamento dice che spetta al giudice dare la priorità all'interesse del minore oppure a quello dello Stato. Se il soggetto è stato considerato un “pericolo sociale” ma ha un figlio, è lo Stato che decide a chi o a cosa dare la priorità, ma non esiste una normativa precisa riguardo a queste situazioni. Kabbour è uno di quelli che sono riusciti a vincere la causa e da circa due mesi è ritornato in Italia.




venerdì 15 febbraio 2013

Intervista a Gaia Vianello, sceneggiatrice del documentario "Aicha è tornata"

Aicha è tornata , documentario diretto da Juan Martin Baigorria e Lisa Tormena, propone le testimonianze di alcuni migranti marocchini che, dall'Europa, vengono rimpatriati o per loro volontà e senza accompagnamento oppure con un percorso assistito in quanto espulsi; si parla, dunque, di "migrazione di ritorno". I registi hanno raccolto le parole (ma anche i silenzi, le lacrime, i sorrisi) soprattutto di donne, giovani e meno giovani, molte delle quali nate in Francia e in Italia che, per vari motivi, sono tornate in Marocco.
Gaia Vianello ricorda che il film è autoprodotto e si inserisce nell'ambito di un progetto di reinserimento socio-economico degli immigrati di ritorno. Uno dei tanti problemi da affrontare è stata la quasi totale assenza da parte delle donne alle attività proposte, nonostante la migrazione femminile dal Marocco sia quasi pari a quella maschile. Si è posta, quindi, l'esigenza di indagare a fondo il fenomeno per conoscere meglio queste donne.


Cosa si intende con l'espressione "fenomeno migratorio di ritorno"?

Le migrazioni di ritorno sono uno degli aspetti del percorso migratorio e possono essere di diverso tipo: transitorie o permanenti, volontarie o forzate. La distinzione fondamentale è dunque quella tra ritorni e rimpatri, ovvero tra l’intenzionalità dei primi rispetto all’involontarietà e coercizione dei secondi.
Dal punto di vista del migrante che vive questa esperienza, il ritorno in patria può essere percepito e vissuto come reinserimento e in certi casi miglioramento della propria condizione nel paese d’origine, oppure come perdita del proprio status precedente la migrazione.
Rispetto alla comunità d’origine, l’esperienza del ritorno può vedere nel migrante la figura dell’eroe, ovvero colui che avendo avuto successo all’estero veda riconosciuto dalla famiglia e comunità il proprio rientro come avanzamento economico, sociale e culturale. Ma il ritorno può anche rappresentare un fallimento del progetto migratorio, nel caso in cui le difficoltà socio-economiche incontrate all’estero non abbiano permesso la realizzazione del successo sperato.
Nel caso di “Aicha è Tornata” vengono trattate le migrazioni di ritorno femminili in una specifica area del Marocco, quella di Tadla Azilal e Chaouia Ouardigha, che rappresenta il maggiore bacino migratorio dal Marocco verso il sud dell’Europa, in cui la spinta migratoria è data prevalentemente da motivi economici e di miglioramento della qualità della vita. La maggioranza dei rientri in quest’area non sono volontari nel senso stretto del termine, ma nella maggior parte dei casi dovuti o ad espulsione o a motivi indipendenti dalla volontà dei migranti di ritorno, che possono andare dalle difficoltà economiche, alla difficoltà d’integrazione o a problemi familiari.

Quali sono le attuali politiche europee rivolte alle persone che hanno deciso o sono state costrette a rimpatriare? E cosa si potrebbe migliorare ?

Nell’agenda della gestione politica dei flussi migratori il tema dei ritorni rappresenta spesso una questione centrale, obbiettivo per molti governi, in particolare per quello che riguarda il ritorno dei migranti illegali.
L’Italia e l’Unione Europea hanno avviato un programma per i rimpatri assistiti, implementato dall’OIM e da diverse ONG, che permette ai migranti che desiderano o sono costretti a tornare in patria di avere un’assistenza per l’organizzazione del ritorno, per il reinserimento socioeconomico una volta rientrati, oltre ad un incentivo economico per coprire le spese di viaggio.
Il Programma d’Azione sul ritorno sostiene sia i ritorni volontari che forzati di cittadini di Paesi terzi, coprendo tutte le fasi della percorso: quella antecedente la partenza, il ritorno stesso, il ricevimento e la reintegrazione del Paese di destinazione.
Sulla base della mia esperienza lavorativa personale, questi programmi hanno una loro utilità per i servizi di assistenza che offrono, ad esempio il sostegno legale o psicologico nel paese d’origine, rimangono tuttavia deboli nell’affrontare la causa principale per cui i migranti hanno deciso di lasciare la loro patria, ovvero il lavoro. Trattandosi di programmi a breve termine non riescono ad avere un impatto efficace sul reinserimento lavorativo dei migranti e questo rischia di innescare un circolo vizioso che porta il migrante rientrato a voler partire nuovamente.
Da questo punto di vista sarebbe necessario pensare a programmi sul medio e lungo periodo, che possano prendere in considerazione tutte le diverse tappe del percorso migratorio, con un particolare accento sulla prevenzione e sensibilizzazione, oltre alla creazione di possibilità alternative nei paesi d’origine, che possano sostituirsi alla necessità di cercare altrove condizioni migliori di vita.

Tra le storie che hai riportato nel documentario, qual è quella che ti ha colpito di più?

Le donne protagoniste del documentario sono tutte persone che ho conosciuto attraverso il mio lavoro di cooperante in progetti di reinserimento socio economico dei migranti di ritorno e con le quali sono riuscita ad instaurare, nel corso dei due anni trascorsi a Khouribga e Beni Mellal, un rapporto di fiducia reciproca.
Le loro storie sono per diversi aspetti tutte molto toccanti. Ne riporto tuttavia una in particolare, che non abbiamo potuto inserire nel documentario perché non abbiamo avuto il consenso della famiglia della giovane donna.
All’inizio della mia ricerca sulle migrazioni di ritorno femminili una delle prime donne ad essermi stata presentata è una ragazza di sedici anni, Amal.
Amal parla un perfetto italiano con accento romagnolo, è andata in Italia con i genitori a soli due anni, a Faenza, dov’è cresciuta, ha frequentato le elementari, quindi le medie per poi iscriversi al liceo.
Quando compie quindici anni il padre decide di riportare la famiglia in Marocco, perché sente che le sue figlie stanno perdendo la cultura d’origine. Amal e la sorella riescono a convincere i genitori a lasciarle lì, almeno per poter finire il liceo. Tuttavia dopo pochi mesi le due ragazze si rendono conto che da sole è troppo dura, non riescono a studiare e mantenersi e sono dunque costrette a far ritorno a Beni Mellal.
Amal parla e scrive perfettamente in italiano, ma l’arabo lo parla male e soprattutto non sa né leggerlo né scriverlo, così non viene ammessa al liceo. Finisce dunque a lavorare nel piccolo negozio di alimentari dei suoi genitori, continuando a sognare di poter tornare dai suoi amici a Faenza.
Dopo la prima intervista ho perso di vista Amal e sono tornata a trovarla solo dopo due anni, con l’idea di proporle di essere una delle protagoniste del documentario una collega dell’ong marocchina con cui lavoravamo mi ha però sconsigliato di contattare la famiglia e andarla a trovare per evitare problemi con il padre, raccontandomi che l’anno precedente i genitori le avevano combinato un matrimonio con un uomo di quarant’anni che abita nelle campagna vicino a Beni Mellal, dove Amal adesso si è trasferita.