Visualizzazione post con etichetta avvocati. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta avvocati. Mostra tutti i post

giovedì 7 gennaio 2016

Nuovo sito

Carissimi lettori,
 
è online il nuovo sito:

 
 
 
Seguiteci, ogni giorno, ci siamo sempre !!!
 
E, se vi va, fate passaparola!
 
Grazie.

domenica 3 gennaio 2016

Due visite al CIE di Ponte Galeria, le tante ragioni per volerlo chiuso




Il 3 dicembre 2015, una delegazione della Campagna LasciateCIEntrare è entrata nel CIE di Ponte Galeria, grazie alla possibilità venutasi a creare con l’ingresso dell’europarlamentare Elly Schlein (S&D) del deputato Stefano Fassina (SI) della Portavoce dell’europarlamentare Barbara Spinelli, Daniela Padoan.
Si è avuta l’opportunità di restare nel centro per quasi l’intera giornata, visitando con meticolosità tanto il settore maschile che quello femminile. Una visita precedente, sempre della Campagna, si era già svolta il 30 novembre scorso.
E pur apprezzando la disponibilità a garantire l’ingresso nel Centro, ci sembra opportuno segnalare alcuni elementi di estrema gravità.
 
  1. Le condizioni del centro (mancanza di riscaldamento e in alcuni settori di acqua calda, wc alla turca rotti, perdite di acqua anche nei locali mensa, sporcizia e cedimenti strutturali, assenza di adeguate forniture igieniche e di vestiario) sono assolutamente inadeguate a garantire la dignità delle persone trattenute. La direzione ha dichiarato di aver lungamente chiesto un intervento mai effettuato che comunque porterebbe a dover temporaneamente diminuire il numero di persone trattenibili nel centro, oggi quasi al limite della capienza (196 persone sui 250 considerati tetto massimo).
  2. L’altissimo numero di ragazze prevalentemente nigeriane, colpite subito dopo l'ingresso in Italia da provvedimento di respingimento cd. differito e decreto di trattenimento e ristrette al CIE dove, finalmente rese edotte della possibilità di richiedere asilo, hanno tutte inoltrato richiesta di protezione internazionale. In questi giorni le donne sono la maggioranza fra i trattenuti (105 rispetto ai 91 uomini). Queste donne, come tutti i richiedenti protezione, se il loro trattenimento è stato convalidato (come avviene quasi sempre) dal tribunale ordinario, restano rinchiuse nel Cie fino al momento della convocazione in Commissione per l’intervista ed alla successiva decisione.
  3. Nei casi in cui il tribunale non convalida il trattenimento, a detta del direttore del cento il 90%, i richiedenti protezione vengono liberati e tradotti in un Centro di Accoglienza Straordinaria, in attesa della decisione della Commissione territoriale. Nei casi in cui il trattenimento venga convalidato o prorogato (tutti quelli nei quali ci siamo imbattuti) la privazione della liberà può durare - a causa delle recenti modifiche introdotte con l'art. 6 del decreto legislativo 142/2015 - fino 12 mesi, in attesa dapprima della decisione della Commissione e poi, qualora la decisione sia negativa, dell'esito del ricorso avverso il diniego.
  4. Di fatto il CIE di Roma risente dell’effetto “hotspot” per cui diviene il luogo dove rinchiudere in attesa di rimpatrio le persone che, appena approdate dopo essere state salvate in mare anche da navi di soccorso “indipendenti” come quelle di Msf, sono state evidentemente registrate, subito dopo la fotosegnalazione, come “Cat 2” (ingresso irregolare) secondo quanto indicato nella “Road Map Italiana” del 28 settembre 2015 a firma del Ministro dell'Interno (che non ha alcun valore di legge né dovrebbe poter incidere sui diritti inviolabili degli stranieri in ragione della riserva di legge posta dall'art. 10 comma 2 costituzione). In sintesi, appena approdati i profughi vengono divisi (presumibilmente in base alla nazionalità, atteso che non viene fornita loro alcuna informativa sulla possibilità di chiedere protezione) tra “irregolari” e “ricollocabili” ovvero potenziali richiedenti asilo.
  5. Agli irregolari viene prontamente notificato un decreto di respingimento con ordine di lasciare il territorio e fare rientro nel proprio paese entro sette giorni via Fiumicino, e a molti di loro viene anche notificato il decreto di trattenimento sulla base del quale vengono condotti (spesso senza soluzione di continuità) nel Cie di Roma.
  6. Solo qui resi, edotti della possibilità di chiedere protezione messi nelle condizioni di manifestare tale volontà, presentano apposita istanza che comporterà, come detto, specifica ed ulteriore convalida del trattenimento che potrà protrarsi nella peggiore delle ipotesi fino ad un anno, diversamente da quanto accade per gli altri trattenuti per i quali i termini massimo di trattenimento scadono al novantesimo giorno.
  7. E' da segnalare a tale proposito che nei decreti viene indicato come presupposto del trattenimento la pretestuosità della domanda di protezione in quanto presentata dopo il decreto di respingimento quando invece di fatto è stato impedito (anche a causa della mancata ed idonea informativa legale) ai profughi appena approdati di chiedere asilo prima del respingimento. Si tratta di una truccata gara contro il tempo: la pubblica amministrazione notifica immediatamente il respingimento ai profughi di modo da poter indicare come pretestuosa al domanda di protezione fatta dopo e quindi di poter avvalorare il trattenimento fino a 12 mesi e l'eventuale rimpatrio.
  8. Questa operazione non solo è illegittima perché contraria alla normativa in materia di protezione e asilo e posta in violazione di diritti fondamentali della persona, ma è inutilmente costosa. Trattenimenti, udienze, gratuiti patrocini, trasferimenti, scorte, rimpatri, procedimenti giudiziari e amministrativi, costano allo stato italiano molti più soldi della semplice accoglienza dei richiedenti asilo.
  9. Anche alla luce dell’incontro con personale della questura, permane forte il dubbio che ad intervenire almeno in un caso di rimpatrio, quello del 17 settembre verso Lagos, con un volo charter che si è fermato per varie tappe europee, siano stati presenti funzionari di FRONTEX. Un elemento su cui è necessario un chiarimento da parte delle autorità interessate.
  10. Un altro elemento problematico è legato alla presenza di funzionari dei consolati che debbono svolgere il proprio mandato di riconoscimento dei trattenuti e di rilascio di documento di viaggio Alcuni paesi non rispondono a tale richiesta, altri identificano i propri connazionali ma non forniscono poi il nulla osta necessario al rimpatrio, altri ancora effettuano identificazioni sommarie che comportano il rischio - già presentatosi con una presunta minorenne nigeriana - di identificazioni (e conseguenti provvedimenti di rimpatrio) di massa e quindi potenzialmente fallaci, poste anche ai danni di persone ad alto indice di vulnerabilità e dunque potenzialmente inespellibili.
  11. Per quanto riguarda le ragazze nigeriane - la cui età copre generalmente un range che va dai 18 ai 25 anni, anche se molte sembrano minorenni - oltre ad essere quasi sempre vittime di violenze atroci subite in Libia, raccontano frammenti di storie e portano avanti richieste (come quella di acquistare un modesto cellulare per poter utilizzare la scheda SIM di un unico gestore, con numero italiano e contatti già definiti) che sembrano palesi indizi di tratta finalizzata allo sfruttamento per motivi sessuali.
  12. Fra gli uomini, invece, coloro che hanno ricevuto il decreto di respingimento sono decisamente in percentuale inferiore: quasi tutti sono stati colpiti da decreto di trattenimento in seguito a decreto di espulsione. Molti di loro si trovano in Italia da alcuni anni ed erano già titolari di permesso di soggiorno poi venuto a scadere. Continua ad esserci l’afflusso di ex detenuti, non congruamente identificati o privi comunque del nulla osta necessario rilasciato dalle autorità del Paese d'origine per il rimpatrio forzato. Persone che ormai con frequenza vengono tradotte nel CIE, liberate dopo la convalida o la proroga del trattenimento e poi nuovamente fermate e trattenute, a dimostrare di come occorra un cambiamento strutturale della legge.
Gli uomini presenti al momento della visita sono per lo più provenienti da paesi del Maghreb e dall’Africa Sub- Sahariana, meno gli asiatici e gli europei, la loro età media è più alta rispetto alle donne. Abbiamo incontrato fra gli altri gli uomini fermati nel Centro di Accoglienza Baobab il 24 novembre scorso, sono in 11, ognuno con una propria storia particolare. Fra questi un ragazzo della Guinea Bissau, che parla unicamente mandinga e si dichiara ed appare visibilmente minorenne. Nel suo caso l'esame rx del polso si è rivelato una volta di più invasivo e totalmente fallace ai fini dell'accertamento dell'età. L’inattendibilità degli esami radiologici risulta evidente dalla lettura della relazione resa dal Prof. Ernesto Tomei (Radiologo - Professore Associato, Dipartimento di Scienze Radiologiche Università di Roma “La Sapienza” sentito in qualità di massimo esperto in materia anche nella seduta della Bicamerale Infanzia del 25 ottobre 2010) a tenore della quale: L’atlante dell’età ossea di Greulich e Pyle, è il più comunemente usato per la pratica clinica. Il test di Tanner e Whitehouse appare per alcune aspetti più dettagliato ma è meno usato perché considerato più farraginoso. Entrambi si basano sulla radiografia mano/polso (…...) In riferimento alla situazione Italiana ed Europea bisogna considerare che la presenza di immigrati di diversa provenienza rende comunque problematico l’uso di questi atlanti. E’ stato anche proposto di vietarli per legge. Una ricerca su più popolazioni appare complessa e potrà tuttavia essere programmata solo successivamente ad uno studio della popolazione presente in Italia”.
  1. Peraltro già il 9 luglio 2007 era stata emanata una circolare del Ministro dell’Interno, che introduceva nuovi criteri per accertare le generalità in caso di d’età incerta, ed imponeva la presunzione di minore età nel caso di dubbio, proprio per evitare il rischio di adottare erroneamente provvedimenti gravemente lesivi dei diritti dei minori, quali l’espulsione, il respingimento o il trattenimento, anche in considerazione del margine di errore fino a due anni dell'esame tramite misurazione del polso. Il superamento di tale modalità di accertamento dell'età è stato raccomandato da tutte le ong competenti nonché dal Parlamento Europeo (risoluzione 12 settembre 2013)
  2. Erano presenti poi uomini fermati in seguito ad accertamenti anti terrorismo (in moschea o ai danni di uomini “barbuti”) estranei a qualsiasi attività terroristica ma privi di permesso di soggiorno.
  3. Abbiamo avuto conferma che una parte dell’assistenza sanitaria ai trattenuti verrà garantita da ora in poi, attraverso prestazioni dirette della ASL RMD. Il protocollo firmato nello stesso giorno della nostra visita prevede che tale collaborazione riguarderà esclusivamente le visite all’arrivo, finalizzate a alla presa in carico o meno dei singoli nel CIE e le analisi nel corso della detenzione: i detenuti non dovranno più essere portati all’esterno per le analisi in quanto la ASL ha un proprio laboratorio che potrà occuparsi di analizzare i prelievi che saranno svolti internamente dal personale medico del CIE e che saranno poi inviati alla ASL. L’assistenza medica dentro al CIE rimane invece totalmente ed unicamente responsabilità dell’ente gestore con il proprio personale medico-infiermieristico rispetto alla quale molti detenuti han lamentato l’insufficienza e inadeguatezza.
  4. Abbiamo avuto modo di incontrare, tanto nel settore femminile che in quello maschile, numerosi e comprovati casi di vulnerabilità che necessitano di urgentissimo intervento. Stati depressivi o di frustrazione, determinate anche dall'assoluta inadeguatezza dei luoghi a garantire la dignità dei trattenuti, dall'assenza di prospettive future, stanchezza, stato di abbandono e inattività, condizioni tutte in grado di generare fenomeni di autolesionismo e tendenze al suicidio. Più di una delle persone con le quali abbiamo interloquito ci ha manifestato di non poter sopportare un eventuale rimpatrio forzato, per le conseguenze drammatiche e fatali che questo comporterebbe.
  5. Un'attenta analisi merita la questione dell’accesso alla difesa. Molte delle persone incontrate hanno avuto unicamente un avvocato d’ufficio del quale riferiscono di ignorare anche il nome (peraltro in molti dei fogli consegnati ai trattenuti nello spazio bianco in cui dovrebbe essere segnato il nome dell'avvocato designato per la convalida, appare la scritta “ufficio” al posto delle generalità del difensore.) Altro problema serio deriva dal fatto che molte persone, soprattutto le ragazze nigeriane, si sono ritrovate quasi tutte come avvocato assegnato il medesimo difensore, peraltro avvertito quasi contestualmente all'ente gestore dell'invio dei fermati nel Cie
  6. Sempre in base alle testimonianze raccolte, il legale in questione è presente all’atto della convalida (il “gettone” di udienza con il gratuito patrocinio garantisce un introito di 120 euro per ogni singola udienza) ma poi non si impegna con il medesimo zelo nelle fasi successive di eventuali ricorsi avverso il rifiuto di protezione da parte della Commissione, fasi per le quali non risulta esistere alcuna automaticità di accesso al gratuito patrocinio. Comunque la sola presenza delle associazioni di tutela – che operano soprattutto con le donne – e dei legali che ormai gravitano stabilmente intorno al centro risulta insufficiente per garantire quel diritto alla difesa fondamentale per chi al momento è privato della libertà personale ma poi potrebbe anche essere oggetto di rimpatrio forzato.    

martedì 29 dicembre 2015

Parte la seconda carovana per Gaza

Dopo un anno di preparativi e una partenza sfumata a Luglio, finalmente il progetto iniziato lo scorso anno del “Festival delle culture tra arte e sport” può continuare e rinnovarsi   (da Nenanews.it)




Il 27 dicembre partirà la seconda carovana per Gaza, un programma che avrà molteplici obiettivi: sostenere la resistenza palestinese e la popolazione della Striscia che vive da anni una situazione di assedio perenne e di isolamento internazionale; dare la possibilità ai Gazawi di avere l’occasione di potersi esprimere liberamente e con serenità in contesti differenti rispetto alle condizioni esistenziali che sono costretti a sopportare; essere testimoni di quello che accade sia della fase attuale che del contesto generale; diffondere questa testimonianza per rendere tutti coscienti della realtà dei fatti a fronte di una campagna mediatica che ha dipinto e dipinge Israele come vittima, anziché come paese colonizzatore e oppressore; scambiare competenze nell’ottica di un arricchimento culturale reciproco.
Il progetto è quindi rilevante nell’immediato e nel breve periodo, in quanto coglie la necessità primaria per la popolazione di uscire da una quotidianità caratterizzata dal perenne status di guerra, ma è ancora più fondamentale nel lungo periodo, poiché si tratta di un investimento che si spera continui nel tempo e che sia soprattutto in grado di innestarsi nell’intricata e complessa situazione della resistenza palestinese contro il governo israeliano, che nel corso degli anni si è dimostrato non solo colonizzatore, ma fascista nei modi e xenofobo nell’azione.
L’anno scorso lo scenario era quello del periodo post operazione “Margine Protettivo”, una strategia sanguinaria che aveva messo in ginocchio i Gazawi con una guerra impari che ha portato distruzione ovunque (gli aiuti sono iniziati ad arrivare a settembre di quest’anno), massacri, morti, povertà diffusa, impossibilità di condizioni di vita decenti (taglio dell’energia elettrica; bombardamenti continui lungo il confine e in mare; mancanza di acqua; difficoltà strutturali nelle scuole che hanno impedito per molto tempo lo svolgimento delle lezioni …). Questo si aggiungeva già ad un contesto in cui l’autosufficienza della Striscia versava in condizioni di estrema precarietà: un altissimo tasso di disoccupazione (circa il  Il 43 per cento degli 1,8 milioni dei residenti della Striscia sono disoccupati. Tra i giovani è il 60 per cento a non avere un lavoro), una situazione economica al collasso per l’embargo egiziano e israeliano e per le guerre (le esportazioni dal territorio palestinese sono infatti azzerate e il settore manifatturiero è stato abbattuto del 60 per cento), un tasso di povertà altissimo, circa il 40%.
Secondo la Banca Mondiale, la ripresa economica è fortemente ostacolata dall’impossibilità per merci e persone di muoversi.
Quest’anno la situazione che la carovana si troverà ad affrontare non sembra affatto più rosea.
E’ ancora in corso infatti un periodo di tumulti e ribellioni, soffocati dalla forza repressiva israeliana che sta mietendo vittime ogni giorno.
L’hanno chiamata “Intifada dei coltelli”, ma come abbiamo visto, questa terza fase di rivolte si presenta in modo totalmente differente rispetto alle precedenti.
Anzitutto, dietro agli episodi che si sono verificati non c’è alcuna strategia di gruppi organizzati o partiti.
Questo si è potuto rilevare sia dall’assenza di una rappresentanza politica a cui si rifanno gli scontri (a parte Hamas che per un momento ha cavalcato la questione cercando di determinare quella situazione), sia dal carattere di spontaneità che hanno caratterizzato certi episodi, che dalle persone coinvolte: giovani uomini e donne che hanno agito mossi da un sentimento di disperazione e disillusione totale.
Un sentire che pesa per i tre anni di guerra che ha subito la Striscia (2 guerre in 3 anni) e per il grave regime di apartheid che subisce la popolazione palestinese ogni giorni in Cisgiordania e nei territori occupati.
Protagonista di questa Intifada, quindi, è soprattutto la popolazione giovanile, generazioni che sono cresciute sull’eredità del fallimento degli accordi di Oslo e sulla vana speranza di trovare un modo per uscire da una situazione di emarginazione ed oppressione che non permette la realizzazione dei più banali (per noi) obiettivi di vita.
E’ in questa matassa che si inserisce questo festival: per rispondere ad esigenze umane, sociali, politiche della popolazione e per restituire una realtà alterata e falsificata dai media.
Sostenere l’autodeterminazione dei popoli e dei territori, lottare contro i meccanismi di colonizzazione ed imperialismo che strozzano i palestinesi, condannare a gran voce un vero e proprio sistema di apartheid o informarsi ed informare è dovere morale di tutti.


Chi desidera mandare un aiuto economico, ecco l’Iban del Centro Vittorio Arrigoni a Gaza
IT35C0312703241000000051775
INTESTAZIONE: Giovanni Lisi   Maria Teresa Bartolucci
Causale: per Gaza, Centro Italiano. Attività festival
BIC: BAECIT2B
- See more at: http://nena-news.it/parte-la-seconda-carovana-per-gaza/#sthash.9Esvv3xa.dpuf

venerdì 25 dicembre 2015

Quel pranzo di Natale nel carcere di Opera



Nella Casa di reclusione di Opera, lo scorso 23 dicembre, si è tenuto un pranzo molto speciale: uno chef stellato ha cucinato varie prelibatezze per i detenuti e i loro familiari.

Anche se apprezziamo il gesto professionale e umano dello chef e delle altre persone famose coinvolte nell'iniziativa intitola "L'ALTrA cucina... per un pranzo d'amore",
 
non vogliamo citarle perchè a noi interessa altro: interessa sottolineare i motivi che stanno alla base di questa scelta illuminata, da parte del Direttore dell'istituto di pena, e le conseguenze positive. La giornata è poi proseguita con un concero di Edoardo Bennato, preso il teatro dell'istituto. Tornando al motivo della bella iniziativa: immaginiamo che sia stato quello di offrire ai reclusi un momento diverso dalla quotidianità, uno spazio per riabbracciare i cari, stare in compagnia e riflettere, tutti insieme, sul senso vero e profondo della nascita di Gesù: un uomo che ha incarnato i peccati degli altri uomini, che ha pagato per tutti, ma che poi è tornato alla vita. Le conseguenze: la gioia di tutte le persone, libere e non, che si sono ritrovate insieme a condividere il pane, simbolo di pace. Ma non è tutto: a servire il pranzo sono state le vittime di alcuni reati commessi dai detenuti. Una decisione meritevole, un esempio grande di capacità di perdono. Si deve andare avanti, cercando di mettersi nei panni dell'Altro, anche quando l'errore è stato enorme. Ci vuole tempo, tanto tempo per capire, perdonare. Ci vuole tempo, tanto tempo anche per riscattarsi.

Il dono più bello? La presenza dei bambini che, con il loro chiasso, le loro domande, il loro entusiasmo hanno ridato la voglia di continuare a stare dentro e ad aspettare fuori, con la fiducia nel sapere che non è poi tutto sprecato.


L'iniziativa è stata replicata in altre quattro carceri per le detenute e i detenuti e i loro familiari.

lunedì 21 dicembre 2015

VI congreso "Nessuno tocchi Caino": il carcere è una pena di morte mascherata




Il sesto congresso di 'Nessuno tocchi Caino' svoltosi nel carcere di Opera, a Milano, si è concluso con l'approvazione di una mozione che impegna gli organi dirigenti a far propri e a rilanciare gli obiettivi sul miglioramento delle condizioni carcerarie di papa Francesco, che lo scorso anno ha definito l'ergastolo come una "pena di morte mascherata". Apertosi ieri con un messaggio del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il congresso 'Spes contra spem' ha visto la partecipazione di circa 400 persone. Tra loro c'erano oltre 200 detenuti, molti dei quali condannati all'ergastolo, alcuni arrivati a Opera da Padova e da Voghera per raccontare le loro storie.
La mozione, nel dettaglio, impegna anche "a promuovere ricorsi in sede internazionale, in particolare al Comitato dei diritti umani delle Nazioni Unite, alla Corte europea dei diritti dell'uomo e, in Italia, alla Corte Costituzionale, volti al superamento dei trattamenti crudeli e anacronistici come il regime di cui all'art. 41 bis. e il sistema dell'ergastolo ostativo che, per modalità specifiche e durata eccessiva di applicazione, provocano, come ampiamente dimostrato dalla letteratura scientifica - oltre che da numerosi casi concreti - danni irreversibili sulla salute fisica e mentale del detenuto, tale da configurare la fattispecie di punizioni umane e degradanti".
Infine, la mozione invita il Congresso a elaborare un primo rapporto di 'Nessuno tocchi Caino' sull'ergastolo nel mondo a partire dall'Europa. Tra i prossimi progetti anche quello di realizzare un docu-film, a cura di Ambrogio Crespi, dal titolo, 'Spes contra spem-Liberi tutti'.

La diretta del congresso del 2013, per voi:

 
 

domenica 20 dicembre 2015

Regalo di Natale? Regalate cultura e diritti !

Volete fare o farvi un regalo di Natale ( o da mettere nella calza della befana)? Ecco per voi il nostro libro che raccoglie tutte le interviste realizzate in due anni di attività!


 
 
MOSAIKON – Voci e immagini per i Diritti Umani


L'Associazione per i Diritti Umani è felice di comunicare l'uscita di “MOSAIKON – Voci e immagini per i Diritti Umani”, di Arcipelago edizioni, un libro in cui sono raccolte le interviste realizzate per il sito www.peridirittiumani.com, durante i nostri primi due anni di attività.
L'intento è quello di proporre un testo - cartaceo e fruibile - ricco di notizie e approfondimenti che permette di muoversi nella geopolitica, all'interno dei nuovi assetti sociali e religiosi, tra le vite quotidiane di uomini, donne e bambini per rimanere aggiornati sulla Storia contemporanea e sui temi di attualità. Crediamo, per questo, che il testo possa essere utilizzato anche a scopi didattici, come punto di partenza per ulteriori approfondimenti.

Per l'acquisto della vostra copia:

potete effettuare il pagamento di euro 12,50 tramite Paypall (in alto a destra sul sito) con carta di credito o bonifico.

Poi inviate una mail all'indirizzo peridirittiumani@gmail.com con i dati e l'indirizzo esatto compreso di CAP e provvederemo a inviarvela subito per posta.
 
 

Migrazioni: dall'attualità alla graphic novel

Presso il museo Mudec di Milano, l'Associazione per i Diritti umani ha approfondito il tema delle migrazioni con gli interventi di Edda Pando (attivista e membro di Todo Cambia), Veronica Tedeschi (giurista) e Monica Macchi che ha illustrato il contenuto della graphic novel intitolata "Se ti chiami Mohamed".
Informazioni utili da fonti attendibili, approfondimento sui termini corretti da usare, definizioni giuridiche in tema di migrazioni e molto altro...nel video dell'incontro che, speriamo, possa essere utile anche a scopo didattico.


Tutti i video degli incontri pubblici organizzati da noi, sono disponibili sul canale Youtube dell'Associazione per i Diritti Umani e sul canale di Alessandra Montesanto.


Ecco a voi il video!



venerdì 18 dicembre 2015

Umanità in transito verso il nulla

 di Sarantis Thanopulos   (da Il Manifesto)
 
Il dramma del migrante non sta nel suo essere in «mezzo al guado»: non più nella terra che lascia, non ancora nella terra che vuole raggiungere. Sta nel fatto che nelle migrazioni, anche quelle dall’esito più felice, si deve sempre attraversare una terra di nessuno, in cui non si profila altro all’orizzonte che cielo e deserto o acqua. In questa terra più si mette alle spalle ciò che si è lasciato, più appare lontana, irraggiungibile la meta del proprio cammino.
C’è nella migrazione una dimensione ineliminabile che rappresenta il «negativo» del viaggio di Ulisse. L’Itaca che ti dà l’avventura del viaggio (Kavafis), la meta di ritorno che più l’avvicini più si allontana –allargando definitivamente l’orizzonte della tua esperienza– non fa parte dell’esilio quando esso appare definitivo, un andarsene per sempre, una volta tolti gli ormeggi. Il viandante perde la condizione prima del viaggio –il punto di partenza come meta di un ritorno da rimandare il più a lungo possibile– e cerca di ritrovarla da un’altra parte. Andando avanti nello spazio, viaggia a ritroso nel tempo. L’opposto di Ulisse, che, tornando indietro nello spazio, viaggia avanti nel tempo.
La migrazione dei nostri tempi è evento particolarmente traumatico, sradicamento totale che può portare a un ritiro catastrofico del proprio desiderio dal mondo.
Il «cittadino del mondo» non dimora qui, neppure l’esploratore alla ricerca di terre nuove (per necessità o spirito di avventura). La scena è abitata da naufraghi che la deriva può portare a una spiaggia accogliente o a sbattere sugli scogli.
Le spiagge e le scogliere nella nostra civiltà iper-tecnologica e sovraffollata sono fatte di materia umana.
Sulle sponde dell’Occidente siamo noi in carne e ossa a tendere la mano ai senza terra o a restare a braccia conserte facendo cadere l’acrobata di turno nel vuoto. Sennonché, noi privilegiati, con la presunzione di potere scegliere tra accoglienza, ostilità e indifferenza, siamo ugualmente naufraghi, perduti e senza approdo visibile nel luogo in cui viviamo. Orfani dell’altro, di colui che vive dall’altra parte del confine (della strada, dello steccato) o in un altrove oltre la sottile linea di un orizzonte lontano, diffidiamo di noi stessi e abbiamo bisogno di «infiltrati» con cui prendersela, per non impazzire.
Si nasce per sradicamento e se l’esperienza, di per sé lacerante, della separazione dal sentimento di appartenenza, non esita in rovina, è perché l’altro si costituisce come sponda necessaria per la scoperta del mondo e il radicamento in esso. Questo radicamento non è quello di un albero: è fondato, al tempo stesso, sul senso di appartenenza a un posto e sul viaggio. Se tutto va bene, alloggiamo nel mondo in modo eccentrico, isterico: ben radicati e in transito, cittadini e apolidi.
Il sentimento di appartenenza è da sempre frainteso come patto tribale difensivo, che divide il familiare dall’estraneo. In realtà il legame con le proprie origini è sentimento di auto-appartenenza, presenza in sé che presente l’alterità. Le nostre radici sono la vita nel suo spontaneo fluire, l’essere tutt’uno con le cose vive del mondo che sono parte di noi, sentono e respirano con noi. L’appartenenza a se stessi uniti alla materia prima della vita, è alla base del sentire comune. Questo sentire non è chiuso in un posto: l’affinità è presentimento di ciò che è diverso.
Dove l’appartenenza perde il suo legame con l’alterità — il principio della differenza che plasma la materia umana– si perde il senso stesso del viaggio. L’umanità è in transito verso il nulla, mentre l’indifferenza danza con la paranoia.

giovedì 17 dicembre 2015

Detenzione dei richiedenti asilo e uso della forza per il prelievo delle impronte: “Se questo è il prezzo di Schengen, no grazie!”

 
 
Strasburgo, 16 dicembre 2015
 
Nel corso della seduta Plenaria del Parlamento europeo a Strasburgo si è svolto il dibattito su “Detenzione dei richiedenti asilo e uso della forza nei loro confronti”, preceduto dalle dichiarazioni del Consiglio e della Commissione.
 
La deputata Barbara Spinelli (Gue-Ngl) ha preso la parola alla presenza di Dimitris Avramopoulos, Commissario per la migrazione, gli affari interni e la cittadinanza, e Nicolas Schmit, ministro del Lavoro lussemburghese, in rappresentanza della Presidenza del Consiglio.
 
«Leggo nel comunicato della Commissione sugli hotspot italiani che Roma deve “dare una cornice legale all'uso della forza” per il prelievo di impronte e le detenzioni prolungate. Sarà difficile, dicono i giuristi, a meno di violare due articoli della Costituzione: il 13 e il 24. Mi chiedo anche come l'Unione intenda far fronte a detenzioni e violenze verso i rifugiati che si estendono: in Ungheria, Bulgaria, Polonia, Francia, Spagna.
 
«In Italia le espulsioni forzate sono attuate anche quando i giudici sospendono i rimpatri. Il governo danese confisca da domenica scorsa i gioielli dei rifugiati – anelli nuziali esclusi – per pagarne i costi.
 
«È grave che tali misure siano presentate come urgenti e obbligatorie “per salvare Schengen”. Che il Presidente del Consiglio Europeo Tusk raccomandi 18 mesi di reclusione dei richiedenti asilo, sempre “per salvare Schengen”. Che non siano invece considerati obbligatori il non-refoulement, l'habeas corpus, la ricerca di alternative alla detenzione sistematica, la non coercizione su persone vulnerabili o minori.
 
«Non ci si può limitare a imporre solo misure repressive mentre la Carta, i trattati, il pacchetto asilo del 2013 prevedono diritti e clausole discrezionali ben più vincolanti.
 
«Se questo è il prezzo di Schengen: No grazie! – come cittadina europea rinuncio volentieri a Schengen, senza esitare».
 

Il Parlamento europeo premia Raif Badawi, l’Unione europea tace sui diritti umani in Arabia Saudita

di Riccardo Nouri  (da Corriere della sera.it)



Raif Badawi, il blogger saudita condannato a 10 anni di carcere e a 1000 frustate per i contenuti dei suoi post, ha aggiunto ieri il suo nome al prestigioso elenco dei vincitori del premio Sakharov del Parlamento europeo per la libertà di pensiero. Il premio è stato ritirato dalla moglie, Ensaf Haidar.
Il premio, da un lato, riconosce l’importanza della figura e dell’azione di Badawi; dall’altro, costituisce una dura critica alla repressione che l’Arabia Saudita sta attuando nei confronti di blogger, attivisti e difensori dei diritti umani, anche attraverso il ricorso a pene crudeli e inumane.
Ma soprattutto la decisione del Parlamento segna un profondo contrasto col silenzio assordante della diplomazia dell’Unione europea che, ad oggi, non solo non ha reagito alle violazioni dei diritti umani in Arabia Saudita ma non ha neanche chiesto il rilascio incondizionato e immediato di Raif Badawi. Allo stesso modo, molti stati dell’Unione europea sono rimasti muti di fronte alla clamorose violazioni del diritto internazionale dei diritti umani, che chiamano in causa l’Arabia Saudita tanto all’interno del paese quanto in Yemen, dove le forze armate di Riad guidano una coalizione che dal 27 marzo bombarda senza pietà il paese.
L’assenza di iniziativa da parte dell’Unione europea coincide con un profondo aumento del ricorso alla pena di morte in Arabia Saudita, con almeno 151 esecuzioni quest’anno,  più di quelle del 2014. Inoltre, da tre anni a questa parte, il governo saudita sta sistematicamente annullando ogni forma di attivismo sui diritti umani, anche grazie alla legislazione “antiterrorismo” entrata in vigore nel febbraio 2014.
L’avvocato di Raif Badawi, Waleed Abu al-Khair, è stato il primo difensore dei diritti umani condannato (a 15 anni di carcere!) ai sensi della nuova legge.
È evidente che nelle relazioni dell’Unione europea con l’Arabia Saudita, così come con gli altri paesi del Golfo, siano in gioco molti interessi di natura diversa, come l’energia, la fornitura di armi, le relazioni commerciali e la cooperazione contro il terrorismo.
L’Unione europea e molti dei suoi stati membri citano la necessità di cooperare con l’Arabia Saudita contro il terrorismo come scusa per non prendere posizione sui diritti umani. Ma in realtà sono proprio le controverse norme antiterrorismo in vigore in quel paese ad aver causato l’imprigionamento di molti difensori dei diritti umani. Cooperando con l’Arabia Saudita e al contempo ignorando ed evitando di condannare pubblicamente le violazioni dei diritti umani, l’Unione europea sta dando alle autorità di Riad il segnale di via libera ad andare avanti.
Ieri, Amnesty International ha chiesto all’Alta rappresentante e vicepresidente dell’Unione europea, Federica Mogherini, di convocare una discussione urgente del Consiglio affari esteri (che riunisce i 28 ministri degli Esteri dell’Unione europea) che intraprenda azioni concrete per ottenere il rilascio di Raif Badawi, del suo avvocato Walid Abu al-Khair e di tutti gli altri difensori dei diritti umani attualmente in carcere per aver esercitato pacificamente i loro diritti e aver difeso i diritti di altre persone. Da questa discussione potrebbe svilupparsi una strategia per fare miglior uso delle relazioni tra Unione europea e Arabia Saudita, allo scopo di proteggere i diritti umani universali.

martedì 15 dicembre 2015

Il carnevale dei truffati: il caso di Giuseppe Pinelli si riapre



In occasione dell'anniversario della strage di Piazza Fontana e dell'omicidio di Giuseppe Pinelli, l'Associazione per i Diritti umani vi segnala il seguente spettacolo, in scena presso il Teatro della Cooperativa di Milano, fino al 20 dicembre.
 
 
 
 
 
 
 
di Piero Colaprico | con Renato Sarti e Bebo Storti e in video Paolo Rossi
regia Renato Sarti
Dopo il grande successo della scorsa stagione torna il testo scritto da Piero Colaprico, Il carnevale dei truffati, regia Renato Sarti.
Un dio ironico e anticonvenzionale (Paolo Rossi, in video) decide di rispedire il commissario Luigi Calabresi e l’anarchico Giuseppe Pinelli (Bebo Storti e Renato Sarti) sulla terra, ai giorni nostri, a Milano. Il risultato? Un confronto surreale e grottesco su "chi eravamo" e su come sia stato possibile cadere così in basso.


Biglietti a 10 euro...

venerdì 11 dicembre 2015

Il vuoto al di qua delle barriere: il razzismo...nel calcio e le parole di un allenatore



di Max Mauro (*) (da La bottega del Barbieri)







Un giocatore dilettante di calcio viene squalificato per dieci giornate per insulti razzisti rivolti a un avversario di origine africana. Capita in Friuli, campionato di prima categoria della provincia di Udine. Così riferisce il quotidiano locale, «Il messaggero veneto». Gli insulti razzisti sono consuetudine domenicale per i calciatori dilettanti di colore, ma il più delle volte non vengono sentiti dall’arbitro e pertanto non finiscono nel referto. Talvolta – raramente – l’autore dell’insulto è così sboccato e sfacciato che l’arbitro non può ignorarlo. Scatta così la squalifica di dieci giornate, introdotta dalla Figc nel 2013 per dare un segnale “forte” di impegno contro il razzismo nel calcio a tutti i livelli, come sollecitato dalla Uefa. In realtà, questa norma è stata applicata in pochissime occasioni.

Nel corso degli ultimi due anni la squalifica per insulti razzisti ha colpito giocatori di diverse categorie dilettantistiche, e perfino un ex giocatore di serie A, Emiliano Bonazzoli, esibitosi in insulti razzisti verso un arbitro di origine immigrata durante una partita di Serie D. A di là del numero di tesserati squalificati, il problema è diffuso, capillare. Il sistema calcio italiano è impregnato di una cultura razzista storicizzata e di pregiudizi verso tutto quello che non è “bianco, italiano, maschio, apparentemente eterosessuale”. Così si spiegano le uscite apertamente razziste del presidente della Figc, Carlo Tavecchio, di quelle altrettanto razziste di Arrigo Sacchi (“troppi neri nelle squadre giovanili”), di Stefano Eranio (“i neri non san difendere”), di Aurelio De Laurentis (“meno male che erano olandesi, mica nigeriani”), di Paolo Berlusconi (“il negretto Balotelli”), di Maurizio Zamparini (“lo zingaro Mutu”), di Marcello Lippi (“nel calcio italiano non esiste razzismo”) giusto per citarne alcuni entrati nelle cronache negli ultimi anni. E che dire delle dichiarazioni dell’ex presidente della Lega Nazionale dilettanti contro il calcio femminile (“quattro lesbiche”) e quelle omofobe dell’allenatore dell’Arezzo (“in campo non voglio checche”).

In questo triste contesto, la storia di Udine diventa significativa soprattutto per le dichiarazioni rilasciate al giornale locale dall’allenatore del giocatore squalificato. Per la cronaca, lo stesso giocatore aveva da poco completato una squalifica di quattro mesi, poi ridotta a due, per aver aggredito l’arbitro durante una partita ufficiale. Nonostante ciò, l’allenatore si perita di difenderlo rivoltando la questione, operando una capriola dialettica inspiegabile con gli strumenti della ragione. Lo fa facendo passare il giocatore razzista e tutti “noi bianchi” (nelle sue parole) come vittime. «Siamo arrivati al punto in cui a essere penalizzati siamo noi bianchi. I giocatori di altra razza possono insultarci passandola sempre liscia, mentre chi offende loro viene punito. Ma forse non è nemmeno il caso di arrabbiarci o meravigliarci, visto che stiamo mettendo in discussione perfino il presepio nelle scuole».

E’ difficile immaginare un’argomentazione così limpidamente, profondamente razzista e allo stesso tempo diretta, comprensibile ai più e destinata a trovare purtroppo consensi. E’ un piccolo saggio di ignoranza storica che andrebbe inserito nei libri di scuola per aiutarci a capire cosa non va in una società che non (ri)conosce il razzismo. Non dimentichiamo che pochi mesi fa il Parlamento italiano ha assolto, con voto trasversale, il senatore della Lega Nord ed ex-ministro Roberto Calderoli che aveva paragonato l’ex ministra Cecile Kyenge a una scimmia. Per i parlamentari di “opposte” fazioni politiche il suo non è un insulto che incita all’odio razziale e non merita di essere giudicato da un tribunale. Conta meno di una querela per diffamazione.

A parte tutto questo, la dichiarazione dell’allenatore di Udine merita una riflessione e una risposta. Non può essere ignorata, perché è molto più grave degli insulti rivolti dal suo giocatore a un avversario di colore e perché fa capire che il problema è più profondo di quello che appare.

Come per altri aspetti, il calcio funziona da amplificatore di sentimenti che scorrono sottopelle nella società e ne rappresentano i tratti meglio di molti testi sociologici o di editoriali giornalistici. In termini rozzi l’allenatore ci dice: il razzismo esiste, ma i razzisti sono “loro”. Per loro si intende tutto quello che è “altro” dall’idea di “italiano” trasmessaci dalla scuola, dalla televisione, dalla politica, dalla società. E’ altro chi ha un colore della pelle un po’ più scuro, èaltro lo straniero in generale, l’immigrato, l’extracomunitario. E’ ovvio che il nero è più “altro” di altri perché quella che è semplicemente una caratteristica somatica assomma nel discorso razzista tutte le altre categorie. E’ l’altro per definizione. James Baldwin, in un illuminante saggio attorno a un suo viaggio in Svizzera negli anni cinquanta del novecento, sottolinea come il nero (the black man) cerca, utilizzando tutte le risorse a sua disposizione, di far sì che il bianco (the white man) smetta di considerarlo un’esotica rarità e lo riconosca come un essere umano. D’altra parte, ricorda Baldwin, è stato l’uomo bianco occidentale a trascinare violentemente il nero dentro la sua storia riducendolo in schiavitù e privandolo irrimediabilmente del suo passato. Baldwin aveva negli occhi la sua stessa storia famigliare, essendo figlio di un figlio di schiavi della Louisiana.

Dunque, le parole dell’allenatore. Come è possibile un simile ragionamento? Da dove nasce un tale vuoto culturale e umano? Perché i grandi veicoli di cultura popolare non fanno uno sforzo per spiegare la società ai suoi cittadini?

Tutte domande che reclamano risposta. Io credo che al di là delle squalifiche quello che può realmente portare un cambiamento, nello sport e nella società, è il dialogo. Il dialogo e l’educazione, intendendo per questo l’intervento formativo delle istituzioni, ma non solo. In questo caso specifico, mi chiedo perché la federazione invece di comminare una squalifica di dieci giornate non ne dia una di cinque ma obbligando lo squalificato a un breve percorso formativo sull’ABC del razzismo. Che so, un incontro di tre ore nella sede della federazione con una persona esperta di interculturalismo e sport. Magari una persona di colore. O l’obbligo ad arbitrare una partita fra bambini di varie origini etniche. Se non si presenta all’incontro la squalifica viene raddoppiata. E’ un’idea, un suggerimento. Ovviamente, nel caso di Udine il percorso formativo sarebbe ancora più necessario per l’allenatore, visto che ricopre la doppia funzione di persona pubblica (rilascia dichiarazioni ai mass media) e di educatore, visto che gestisce un gruppo di giovani uomini, molti ancora ragazzi. La formazione non solo sportiva è il nodo nevralgico del sistema sportivo. L’ignoranza combinata all’arroganza, cioè l’arroganza data dall’ignoranza, trova numerosissimi esponenti nel calcio, a tutti i livelli.

Il problema riguarda non solo gli appassionati di calcio, chi lo pratica e lo gestisce: non è purtroppo nuovo. Quante volte abbiamo dovuto sentire affermare che “sì, insomma, se mi dicono che son grasso mica posso accusarli di razzismo, e cosa vogliono questi, un insulto è un insulto, non c’è differenza tra dare del ciccione a uno o dirgli sporco negro”. Un insulto è un insulto, non c’è differenza. Questo è l’assunto di molte persone, anche laureate, anche impegnate nel sociale. Non è verbo che attecchisce solo nelle menti di moltitudini annebbiate da giornate passate con la televisione accesa e l’occhio alle ultime offerte per un nuovo telefono cellulare. E’ un’idea che ha a che fare con la mancanza di istruzione basica e di informazione.

Un insulto razzista non è un insulto come un altro. Qualsiasi insulto è un gesto violento, che vuole offendere e urtare chi lo riceve. Ma un insulto personale è diretto alla persona o al massimo ai suoi familiari. L’insulto che fa riferimento a un’origine, alla provenienza e soprattutto l’offesa che usa le caratteristiche somatiche – come il colore della pelle – per definire qualcuno (in termini espressamente spregiativi) ha un carico di violenza diverso. Soprattutto ha una storia che non può essere ignorata. E’ un insulto che riguarda moltitudini. Riguarda persone che possono sentirsi comprensibilmente toccate da questo attacco anche senza riceverlo direttamente. Questa è solo una approssimazione dell’insulto razzista. Un tentativo di mirare a un uditorio dall’udito malfunzionante o parzialmente disconnesso come quello rappresentato dall’allenatore sopracitato. L’insulto razzista è solo una componente, la più immediatamente visibile, del razzismo che pervade la società. Per questo non può essere ignorato.

L’insulto razzista va compreso nel quadro di una società, quella italiana, che ha disconosciuto la sua criminogena storia coloniale e le leggi razziali del fascismo (quanto spazio hanno questi temi nei manuali di storia in uso nelle scuole?) e che ha chiamato immigrati perché ne aveva e ne ha bisogno, ma non ha permesso loro e ai loro figli di diventare altro che mano d’opera sottopagata e quando i lavori umili non sono più disponibili o diventano estremamente volatili, lascia loro come destino, spesso, solamente l’emarginazione.

E’ facile dar la colpa a Salvini, alla sua esposizione mediatica, all’arsenale di surreali parabole che infila una dietro l’altra per manipolare la realtà e fare degli immigrati, degli stranieri, il capro espiatorio di tutti problemi. E’ vero, non si può negare la pericolosità di simili discorsi. Allo stesso tempo non va sottovalutata l’importanza della televisione nel dare insistentemente voce a messaggi allucinati e renderli “popolari”. Ma questa è solo una parte della storia. Le parole uscite dal senno dell’allenatore di Udine segnalano un salto di qualità nel razzismo popolare perché identificano una forma di “vittimismo” inedita, almeno in Italia.

Il contesto generale di instabilità economica e sociale (che non è problema esclusivo dell’Italia, va detto, ma trova qui particolare enfasi), i flussi di rifugiati (che fuggono il più delle volte da guerre avviate dall’Occidente), l’idea di un Islam necessariamente ostile reiterata a destra e a manca, contribuiscono a creare un tappeto emotivo di insicurezze dove chi è predisposto ad accettare discorsi razzisti ne diventa latore entusiasta e sordo alla ragione. E riesce perfino a inventarsi vittima. Vittima di cosa? E’ questo che è difficile da comprendere. Serve uno sforzo condiviso per arrivare alle sorgenti di ignoranza. Per esempio, gli stessi che si scandalizzano perché un preside di una scuola multietnica mette in discussione l’opportunità di canti natalizi di una sola religione sono i primi a iscrivere i propri figli in scuole con basse presenze di immigrati. Il pregiudizio è loro, non di chi cerca forme di dialogo che fanno parte della storia di tutte le società, da che mondo è mondo.

Uno sforzo andrebbe anche diretto a comprendere che lo sport, oggi più che mai, va inteso come fenomeno culturale che ha implicazioni nel modo in cui vediamo e capiamo il mondo. Il calcio non può essere lasciato a chi non capisce e non è interessato a fare della società un posto migliore per tutti. Parafrasando quanto scrisse C. R. L. James nel suo straordinario studio sul cricket e il post-colonialismo nei Caraibi potremmo chiederci: cosa capisce di calcio chi solo di calcio sa?

(*) Max Mauro è autore de «La mia casa è dove sono felice» (2005). Nel 2016 manderà alle stampe uno studio sul calcio e i giovani di origine immigrata realizzato in collaborazione con il Cies, Centro internazionale di studi dello sport.



LA VIGNETTA – sulle “gaffes” di Carlo Tavecchio – E’ DI MAURO BIANI.

giovedì 10 dicembre 2015

10 dicembre: Giornata internazionale dei Diritti Umani






10 DICEMBRE

GIORNATA INTERNAZIONALE DEI

DIRITTI UMANI



Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.

(Art. 1 Dichiarazione Universale dei Diritti Umani)



Perché questa giornata?



La Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo approvata il 10 dicembre 1948 dalle Nazioni Unite proclama solennemente il valore e la dignità della persona umana e sancisce al tempo stesso l’inalienabilità degli universali diritti etico-civili.

La storia dell'ultimo cinquantennio è tuttavia segnata da non poche violazioni di questi principi rimaste impunite.

Quali sono le cause?

Perché molti Stati non rispettano i diritti che stanno alla base di ogni individuo?



 



Quali sono i tuoi diritti umani?





LIBERTA’ UGUAGLIANZA

DIRITTO ALLA VITA DIRITTO AL RICONOSCIMENTO DELLA PERSONALITA’ GIURIDICA

UGUALIANZA DAVANTI ALLA LEGGE LIBERTA’ DI MOVIMENTO

DIRITTO ALLA CITTADINANZA DIRITTO DI PROPRIETA’

DIRITTO ALL’ISTRUZIONE LIBERTA’ DI PENSIERO

LIBERTA’ DI RIUNIONE E ASSOCIAZIONE PACIFICA LIBERTA’ DI OPINIONE E ESPRESSIONE
e ...diritto al lavoro
diritto ad avere un tenore di vita sufficiente a garantire salute e benessere proprio e della sua famiglia

 





CONTATTACI:




mercoledì 9 dicembre 2015

Barbara Spinelli presenta un’interrogazione sull'hot spot di Lampedusa con 22 eurodeputati di diversi gruppi politici

Bruxelles, 9 dicembre 2015 L'eurodeputata Barbara Spinelli (Gue-Ngl) ha presentato un'interrogazione alla Commissione contestando le pratiche che le autorità Italiane stanno svolgendo nell'hot spot di Lampedusa, centro ufficialmente gestito dall'Unione Europea. "Da settembre le autorità Italiane hanno adottato nuove pratiche illegali in violazione dei diritti dei migranti e dei richiedenti asilo presso l'hot spot di Lampedusa", ha dichiarato. "Arrivati nell'hot spot, i migranti sono frettolosamente intervistati e ricevono un formulario incompleto senza informazioni sul diritto all'asilo. Pertanto, molti migranti ricevono provvedimenti di respingimento senza avere avuto l'opportunità di chiedere asilo ai sensi delle direttive 2011/95/UE detta "Direttiva Qualifiche" e 2013/32/UE detta "Direttiva Procedure". Una volta ricevuti i provvedimenti di respingimento, i migranti sono cacciati dai centri con un documento che li obbliga a lasciare il paese entro sette giorni dall'aeroporto di Roma - Fiumicino”. "La direttiva 2013/32/UE stabilisce, qualora migranti detenuti in centri di trattenimento desiderino presentare una domanda di protezione internazionale, che tutte le informazioni sulla possibilità di farlo sia loro garantita (Articolo 8). Peraltro", ha continuato l'eurodeputata "il §27 della stessa direttiva stabilisce che i cittadini di paesi terzi e gli apolidi che hanno espresso l’intenzione di chiedere protezione internazionale siano considerati richiedenti protezione internazionale: in quanto tali, devono poter godere dei diritti di cui alle direttive 2013/32/UE e 2013/33/UE”. L'interrogazione si conclude considerando che tali pratiche dimostrano gravi mancanze riguardo la tutela dei diritti umani dei migranti e richiedenti asilo. In particolare, non avendo tenuto conto delle circostanze specifiche di ciascun caso nel rilascio di provvedimenti di respingimento, contravvengono all'articolo 19 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea e alla giurisprudenza consolidata della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo. L'eurodeputata, insieme a 22 colleghi di diversi gruppi politici (Socialisti, Liberali, Verdi, Sinistra unitaria europea) chiede alla Commissione di indagare sulla compatibilità di tali pratiche di gestione degli hot spot con il diritto dell'Unione Europea.

lunedì 7 dicembre 2015

L’Ufficio della Schiavitù Sessuale



di Eve Ensler (da La Repubblica)

A Yanar e alle mie sorelle in Iraq e in Siria



Penso al listino del mercato delle schiave sessuali dell’ISIS in cui donne e bambine sono prezzate come il bestiame.
L’ISIS ha dovuto calmierare i prezzi per timore di un calo del mercato: 40 dollari per le donne tra i 40 e i 50 anni, 69 dollari per le trenta-quarantenni, 86 per le venti-trentenni fino a 172 per le bimbe da 1 a 9 anni. Le ultracinquantenni non compaiono neppure in lista, considerate prive di valore di mercato. Vengono gettate via come i cartoni di latte scaduti. Ma non ci si limita ad abbandonarle in qualche fetida discarica.
Prima probabilmente vengono torturate, decapitate, stuprate, poi gettate su un cumulo di cadaveri in putrefazione.
Penso al corpicino in vendita di una bambina di un anno, a un soldato trentenne corpulento, affamato di guerra e di sesso che la compra, la incarta e se la porta a casa, come un televisore nuovo. Cosa proverà o penserà scartando quella carne bambina e stuprandola con un pene delle dimensioni del suo corpicino? Penso che nel 2015 sono qui a leggere un manuale online sul modo corretto di praticare la schiavitù sessuale, con tanto di istruzioni e regole puntigliose su come trattare la propria schiava, pubblicato da un’istituzione molto ben organizzata(l’Ufficio della schiavitù sessuale) di un governo canaglia, incaricata senza alcun imbarazzo di regolamentare gli stupri, le percosse, l’acquisto e la riduzione in schiavitù delle donne. 
Cito qualche esempio tratto dal manuale: "E’ permesso percuotere la schiava come [forma di ] darb ta'deeb [percosse disciplinari], [ma ] è vietato [ricorrere alle ] darb al-takseer [letteralmente percosse massacranti], [darb] al-tashaffi [percosse allo scopo di ottenere gratificazione], oppure [darb] al-ta'dheeb [percosse come tortura]. Inoltre è proibito colpire al volto. "
Mi chiedo come facciano i burocrati dell’ISIS a distinguere i pugni, i calci e lo strangolamento inflitti a scopi disciplinari dagli atti mirati alla gratificazione sessuale. Ogniqualvolta una schiava verrà picchiata interverrà una squadra a verificare se c’è erezione?
E come faranno a stabilire cosa esattamente l’ha provocata? Certi uomini si eccitano soltanto nel momento in cui affermano il proprio potere.
E se verrà stabilito che il soldato picchia, strangola e prende a calci la sua schiava per puro piacere, in che modo sarà punito?
Lo costringeranno a restituire la schiava perdendo il deposito, a pagare una multa salata, o semplicemente dovrà pregare di più?
Penso alla facilità con cui si considera l’ISIS una mostruosa aberrazione quando in realtà è l’esito di una lunga serie ininterrotta di crimini e disordini. Le atrocità sessuali inflitte dall’ISIS si differenziano solo nella forma e nella prassi da quelle perpetrate da molti altri signori della guerra in altri conflitti. Sconvolgente e nuovo è lo sfoggio sfrontato e impudente che si fa questi crimini pubblicizzati su internet, lo sdoganamento commerciale di queste atrocità, le app in cui il sesso è usato come mezzo di reclutamento. Le azioni e la rapida proliferazione dell’ISIS non nascono dal nulla, sono frutto di un’escalation legittimata da secoli di impunità della violenza sessuale dilagante .
Mi vengono in mente le Comfort women, le prime schiave sessuali dell’era moderna, giovani donne asiatiche rapite nel fiore degli anni dall’esercito imperiale giapponese durante la seconda guerra mondiale e detenute nelle ‘stazioni di conforto’, per soddisfare le esigenze sessuali dei sodati al servizio del loro paese.
Le donne subivano anche 70 stupri al giorno. Quando, esauste, non riuscivano più a muoversi, venivano incatenate al letto e stuprate ancora come sacchi molli. A queste donne la vergogna ha tappato la bocca per quarantacinque anni e per altri venticinque hanno marciato e atteso, vigili, sotto la pioggia, chiedendo giustizia. 
Sono rimaste in poche ormai e non più tardi di un mese fa il primo ministro giapponese Shinzo Abe ha perso l’ennesima occasione di fare ammenda. Penso all’inerzia, al silenzio, alla paralisi che ha bloccato e impedito le indagini e l’incriminazione nei casi di abuso sessuale ai danni delle donne musulmane, croate e serbe stuprate nei campi dell’ex Yugoslavia, delle donne e delle bambine afroamericane stuprate nelle piantagioni del Sud, delle donne e delle bambine ebree stuprate nei campi di concentramento tedeschi, delle donne e delle bambine native americane stuprate nelle riserve degli Stati Uniti. Ascolto le urla delle anime in pena delle donne e delle bambine violate in Bangladesh, Sri Lanka, Haiti, Guatemala, Filippine, Sudan, Cecenia, Nigeria, Colombia, Nepal e la lista si allunga.
Penso agli ultimi otto anni che ho trascorso nella Repubblica Democratica del Congo dove un’analoga conflagrazione di capitalismo rapace, secoli di colonialismo, guerra e violenza senza fine ha lasciato migliaia di donne e bambine prive di organi, salute mentale, famiglia o futuro.
E penso che lo stupro ormai sia un’azione reiterata. 
Penso che scrivo queste cose da vent’anni.
Ho provato a farlo con i numeri e con distacco, con passione e suppliche, con disperazione esistenziale e anche adesso, scrivendo, mi chiedo se abbiamo creato un linguaggio adatto a questo secolo che sia più potente del pianto. 
Penso che le istituzioni patriarcali non hanno saputo intervenire in maniera efficace e che le strutture come L’ONU amplificano il problema nel momento in cui le forze di pacekeeping che dovrebbero proteggere le donne e le bambine si macchiano a loro volta di stupri. 
Penso all’operazione Shock and Awe (colpisci e terrorizza)e a come ha contribuito a scatenare questa, che potremmo definire Stupra e decapita.
Quando noi cittadini, a milioni, in tutto il mondo, manifestavamo contro la guerra inutile e immorale in Iraq restando inascoltati , eravamo perfettamente consapevoli del dolore, dell’umiliazione e dell’oscurità che avrebbero generato quei letali 3000 missili Tomahawk americani. 
Penso al fondamentalismo religioso a Dio padre, a quante donne sono state stuprate in suo nome , a quante massacrate e assassinate.
Penso al concetto di stupro come preghiera e alla teologia dello stupro, alla religione dello stupro.
Penso che è una delle maggiori religioni mondiali, in crescita con centinaia di conversioni al giorno, dato che un miliardo di donne nella sua vita subirà percosse o uno stupro (dati ONU). Penso alla velocità folle a cui si moltiplicano nuovi e grotteschi metodi per mercificare e profanare i corpi delle donne in un sistema in cui ciò che più è vivo, sia esso la terra o le donne, deve essere ridotto a oggetto e annichilito per aumentare i consumi, la crescita e l’amnesia. Penso alle migliaia di giovani occidentali, uomini e donne, tra i 15 e i 20 anni, che si sono arruolati nell’ISIS.
In cerca di cosa, in fuga da cosa? Povertà, alienazione, islamofobia, desiderio di avere un senso e un obiettivo? Penso a quello che mi ha detto mia sorella, attivista, in una conversazione su Skype da Baghdad questa settimana: “L’Isis è un virus e l’unica cosa da fare con i virus è sterminarli.” Mi chiedo come si stermina una mentalità, come si bombarda un paradigma, come si fanno saltare la misoginia, il capitalismo, l’imperialismo e il fondamentalismo religioso. Penso, o forse non riesco a pensare, prigioniera come sono della confusione mentale imperante in questo secolo. Sono consapevole da un lato che l’unico modo per andare avanti è riscrivere da zero la storia attuale, procedere a un esame collettivo approfondito e ponderato delle cause che stanno alla base delle varie violenze in tutte le loro componenti economiche, psicologiche, razziali, patriarcali, che richiedono tempo e contemporaneamente so che, in questo preciso istante, tremila donne yazide subiscono percosse, stupri e torture. 
Penso alle donne, alle migliaia di donne che in tutto il mondo hanno operato senza pausa per anni e anni, esaurendo ogni fibra del loro essere per denunciare lo stupro, per porre fine a questa patologia di violenza e odio nei nostri confronti , e la razionalità , la pazienza, l’empatia, la mole della ricerca, le cifre che mostriamo, le sopravvissute che curiamo, le storie che ascoltiamo, le figlie che seppelliamo, il cancro di cui ci ammaliamo non contano, la guerra contro di noi infuria ogni giorno più metodica, più sfacciata, brutale, psicotica.
Penso che L’ISIS come l’aumento del livello dei mari, lo scioglimento dei ghiacciai, le temperature assassine sia forse il segnale che per le donne si approssima lo scontro finale. E’ giunta l’ora in cui secoli eterni di rabbia femminile si fondano in un’ impetuosa forza vulcanica, scatenando la furia globale della vagina delle divinità femminili Kali, Oya, Pele, Mama Wati, Hera, Durga, Inanna e Ixchel, lasciando che sia la nostra ira a guidarci. Penso alla cantante folk yazida Xate Zhangali che dopo aver visto le teste delle sue sorelle penzolare dai pali nella piazza del suo villaggio ha chiesto al governo curdo di armare e addestrare le donne e alle Sun Girls, la milizia femminile da lei creata, che combatte l’ISIS sulle montagne del Sinjar. E in questo momento, dopo anni di attivismo contro la violenza, sogno che migliaia di casse di ak47, cadano dal cielo sui villaggi, i centri, le fattorie e le terre delle donne, questi guerrieri con il seno che insorgono combattendo per la vita. Sono arrivata così a pensare all’amore, a come il fallimento di questo secolo sia un fallimento dell’amore.
Cosa siamo chiamati a fare, di che cosa siamo fatti tutti noi che siamo in vita su questo pianeta oggi.
Che tipo di amore serve, quanto deve essere profondo, intenso e bruciante. Non un amore ingenuo sentimentale neoliberale, ma un amore ossessivamente altruista.
Un amore che sconfigga i sistemi basati sullo sfruttamento di molti a vantaggio di pochi.
Un amore che trasformi il nostro disgusto passivo di fronte ai crimini contro le donne e l’umanità in una resistenza collettiva inarrestabile.
Un amore che veneri il mistero e dissolva la gerarchia.
Un amore che trovi valore nella connessione e non nella competizione tra noi.
Un amore che ci faccia aprire le braccia ai profughi in fuga invece di costruire muri per tenerli fuori, bersagliarli con i lacrimogeni o rimuovere i loro colpi enfiati dalle nostre spiagge.
Un amore che bruci di fiamma viva tanto da pervadere il nostro torpore, squagliare i nostri muri, accendere la nostra immaginazione e motivarci a uscire infine, liberi, da questa storia di morte.
Un amore che ci dia la scossa, spingendoci a dare la nostra vita per la vita, se necessario.
Chi saranno i coraggiosi, furibondi, visionari autori del nostro manuale di amore rivoluzionario?





Se vi è piaciuto il post, condividetelo!
If you like it, share it!