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sabato 2 gennaio 2016

Stay human Africa: Cosa è successo in Africa nel 2015?

di Veronica Tedeschi

Liberia e Sierra Leone libere dall’ebola

La terribile epidemia è stata sconfitta dopo aver fatto ben 11.300 vittime. La notizia dell’abbattimento dell’epidemia ha fatto riversare nelle spiagge tutta la popolazione liberiana, che ha festeggiato per giorni. In Sierra Leone, un rapper locale ha inciso la canzone “Bye bye Ebola” che ha fatto ballare il presidente, i poliziotti e persino le suore.


 


Il nuovo presidente della Tanzania

Il 25 ottobre John Pombe Magufuli è stato eletto presidente della Tanzania. Già nei primi giorni di mandato ha iniziato a scrivere riforme per il paese come l’adozione di misure straordinarie per ridurre gli sprechi e massimizzare l’efficacia della spesa pubblica. Ha chiesto ai giovani tanzaniani di ripulire gli spazi pubblici delle loro città, come ha fatto lui stesso tra le strade di Dar Es Salam.

Le elezioni politiche in Nigeria

Nonostante le minacce di Boko Haram, le elezioni in Nigeria si sono svolte regolarmente e, per la prima volta dal 1999 (introduzione della democrazia multipartitica), il governo non ha ottenuto la maggioranza dei voti e dalla urne è uscito vincitore Muhammadu Buhari, ex dittatore convertito ai principi democratici. In Nigeria, per la prima volta, il potere è stato trasferito in modo pacifico nella speranza che questo possa essere un esempio per gli altri paesi africani.

Il terzo mandato di Pierre Nkurunziza

(Leggi anche: "Un presidente che non cede", "Elezioni non credibili" e "Africa: Cosa succede in Burundi?")

In molti paesi africani l’ostinazione dei propri presidenti a ricandidarsi contro la volontà dei propri cittadini e contro le proprie costituzioni, sta diventando la normalità e sta provocando un numero sempre più alto di vittime causate dalle proteste. Il caso più emblematico è sicuramente quello del Burundi con la candidatura al terzo mandato del presidente Nkurunziza ma altri Stati stanno seguendo questo esempio come il Congo con Denis Sassou- Nguesso. Tale pratica sta diventando oggetto di severe critiche in tutto il continente e in tutto il mondo.

Il nuovo presidente del Burkina Faso

(Leggi anche: “Cosa succede in Burkina Faso?”)

Il
Burkina Faso, ha eletto pochi giorni fa come nono Capo dello Stato del Paese africano Roch Marc Christian Kaboré, eletto il 29 novembre al primo turno delle elezioni presidenziali. Il suo insediamento pone fine al regime di transizione seguito alla caduta, in ottobre 2014, dell’ex Capo dello Stato Blaise Compaoré.

L’accordo di pace in Sud Sudan

L’accordo di pace, firmato il 26 agosto, non sembra aver cambiato molto nel paese, ancora scosso da scontri violentissimi e da un’inflazione galoppante. Il conflitto non sembra avere breve durate e molti sud sudanesi hanno lasciato il paese per rifugiarsi in Uganda o nella Repubblica democratica del Congo oientale.

Le nuove relazioni tra Cina e Africa

Lo scorso 4 e 5 dicembre, si è tenuto
il sesto Forum per la cooperazione Cina-Africa (FOCAC), che per la prima volta è stato aggiornato al livello di vertice e dopo quindici anni dalla sua istituzione ha avuto luogo in Africa, esattamente a Johannesburg.

La cooperazione tra i due continenti è in costante crescita e vede oltre tremila imprese cinesi operative nel continente africano; l’incontro a Johannesburg ha rappresentato l’apice dell’azione diplomatica che la Cina ha condotto nei confronti dell’Africa.



L’omosessualità non è più illegale in Mozambico

Il 29 giugno è entrato in vigore il nuovo codice penale del Mozambico, già modificato a dicembre scorso e che, come grande novità, contiene una proibizione della persecuzione giudiziaria contro gli omosessuali. Questa è una fresca boccata d’aria per la popolazione mozambicana che vive in uno degli stati in cui l’intolleranza è da sempre la meno influente rispetto ad altri Stati dell’Africa meridionale.

mercoledì 23 dicembre 2015

Burundi e Nigeria: tra Passato e Presente




Burundi
Mancato impegno dei governi africani nella gestione della crisi in Burundi


L'Associazione per i Popoli Minacciati (APM) esorta i governi africani a impegnarsi maggiormente per una soluzione politica della crisi in Burundi e per la tutela della popolazione civile dalle violazioni dei diritti umani. Non mancano certo gli appelli alla pace e al dialogo delle organizzazioni non governative e dei singoli politici, ma sia l'Unione Africana (UA), sia la Comunità dell'Africa orientale (EAC) sia la Conferenza Internazionale sulla regione dei grandi laghi sembrano muoversi con troppa esitazione, senza molte idee e con poca coerenza. Gli interessi nazionali , la concorrenza tra di loro e la mancante neutralità così come la mancanza di volontà politica e la divergenza di opinioni in questioni basilari intralciano ogni tentativo di trovare una soluzione politica per la crisi in Burundi. I governi africani hanno perso un'occasione per mostrare responsabilità in una situazione di crisi.

Il fallimento dell'EAC è probabilmente l'esempio più eclatante della mancata assunzione di responsabilità dei governi africani. Nel vertice dell'EAC previsto per lo scorso 30 novembre 2015 la presidenza dell'organizzazione sarebbe dovuta toccare al Burundi. Per evitare discussioni interne e non urtare il discusso governo del Burundi scegliendo un altro paese per la presidenza, l'EAC ha semplicemente rimandato il vertice a data da definire. L'atteggiamento con cui si è scelto di mettere la testa nella sabbia piuttosto che affrontare i problemi, certamente non può contribuire in modo costruttivo alla risoluzione della grave crisi che scuote il Burundi.

Anche l'Unione Africana (UA) ha per mesi mantenuto una posizione di attesa. Il presidente ugandese Yoweri Museveni incaricato dall'UA di mediare per un dialogo in Burundi sembra invece essere occupato più con la propria campagna elettorale che con la crisi in Burundi e la sua non sembra essere una posizione neutra. Il dialogo in questo modo non fa progressi. Inoltre nei colloqui finora tenuti sulla crisi in Burundi non si è mai tenuto conto della situazione della popolazione civile. Nonostante l'UA abbia deciso delle sanzioni contro il Burundi e il Consiglio di Sicurezza dell'Unione Africana abbia in ottobre 2015 proposto di prepararsi a un intervento delle truppe di pace africane, tale intervento rischia di creare maggiori tensioni per la mancata neutralità dei paesi vicini del Burundi. Inoltre non è chiaro se la missione di pace africana voglia far impiegare le truppe dell'"African Capacity for Immediate Response to Crises (ACIRC)" o dell'"African Standby Force (ASF)". Non manca certo il sostegno finanziario a entrambe le truppe, ma loro efficienza in situazioni di crisi è più che dubbia.


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IL DOCUMENTARIO “DEVIL COMES TO KOKO” al MUDEC di Milano






DEVIL COMES TO KOKO”, che si terrà all'Auditorium del Mudec mercoledì 23 dicembre 2015 alle ore 19.00.


Il Mudec - Museo delle Culture - presenta “Devil comes to Koko”, il documentario prodotto da Fabrica - centro di ricerca sulla comunicazione di Benetton Group - nell’ambito del programma di eventi a cura del Forum della Città Mondo.
Il documentario si concentra su due brutali episodi avvenuti in Nigeria, visti attraverso lo sguardo di Alfie Nze, regista teatrale nigeriano trasferitosi in Italia negli anni novanta.
Il film narra della sanguinosa invasione inglese di Benin City del 1897 e dello scandalo dei rifiuti tossici scaricati nel 1987 nel porto della città di Koko.
A partire dai due eventi drammatici, il regista percorre un viaggio alla ricerca di radici, di complessità intime, visioni oniriche e corto circuiti tra comunità locali e politiche internazionali.
La direzione creativa del progetto è di Alfie Nze, regista alla sua prima opera e già vincitore nel 2013 del Premio Mutti Amm, premio dedicato ai registi migranti attivi in Italia, e Cineteca di Bologna.
Prodotto da Fabrica, da sempre luogo di sperimentazione, di confronto, di crescita culturale e attento all'espressione libera di ogni arte.

La proiezione, della durata di circa 50 minuti, sarà ad
ingresso libero fino ad esaurimento posti, con prenotazione attraverso la piattaforma eventbrite al seguente link:


http://www.eventbrite.com/e/devil-comes-to-koko-proiettato-al-mudec-tickets-20033760517


sabato 12 dicembre 2015

Stay human, Africa: il terrorismo in Mali


di Veronica Tedeschi
 

Il 20 novembre, ad una settimana esatta dopo la strage di Parigi, alcuni uomini armati hanno fatto irruzione all’Hotel Radisson blu di Bamako, la capitale del Mali. L’albergo è il più famoso della città e da sempre è frequentato da diplomatici e uomini d’affari occidentali; al momento dell’attacco l’hotel era pieno per il 90% della sua accoglienza totale, con circa 140 clienti e 30 dipendenti.

Dopo un assedio di otto ore, le forze di sicurezza maliane e internazionali sono intervenute per liberare i cento ostaggi; il bilancio è di 22 persone morte, compresi gli assalitori.

La rivendicazione dell’attacco è stata fatta dal gruppo Mourabitoun, affiliato ad Al Quaeda e che si sarebbe recentemente unito all’Isis.

Il presidente Boubacar Keïta, ha condannato “Nella maniera più ferma possibile, questo atto barbaro che non ha niente a che vedere con la religione”. Il presidente francese, Francois Hollande, ha dichiarato: “Dobbiamo dimostrare la nostra solidarietà al Mali, un Paese amico” e ha invitato i francesi a Bamako a raggiungere l'ambasciata e a mettersi al sicuro, e tutti i cittadini francesi nei Paesi a rischio ad adottare precauzioni. 




Il Mali, purtroppo non è nuovo ad attacchi del genere, nonostante non se ne senta parlare in Occidente; in passato gli attacchi degli estremisti islamici erano concentrati nel nord del Paese ma a partire dal 2015 si sono diffusi anche al centro e poi al sud, fino ad arrivare al confine con la Costa d’Avorio e il Burkina Faso.

Nel mese di marzo Bamako è stata ancora una volta la protagonista di un attentato in un ristorante nel quale sono morte cinque persone.

Il 10 giugno scorso, uomini armati hanno attaccato le forze di sicurezza a Misseni, città al confine con la Costa d’Avorio e, infine, ad agosto è stata attaccata la città di Sévaré, nella regione di Mopti, a nordest di Bamako.

Solo nel 2015 gli attentati in Mali sono, quindi, stati quattro ma le violenze nell’ex colonia francese sono cominciate già nel 2013 quando i soldati tuareg sono tornati nel nord del Paese dopo la guerra in Libia, creando un movimento nazionale con lo scopo di combattere il governo di Bamako e conquistare l’indipendenza della regione settentrionale dell’Azawad. Questo conflitto ha portato ad un colpo di Stato e, infine, alla proclamazione dell’indipendenza dell’Azawad nell’aprile del 2012.

Il susseguirsi di violenze ha causato l’intervento delle truppe francesi e africane.

Ad oggi, in Mali, sono quindi presenti truppe francesi, malesi, internazionali e tedesche. Il 25 novembre, infatti, anche la Germania ha annunciato l’invio di 650 soldati a sostegno della missione francese in Mali.
 
 




Nel mirino dell’interesse internazionale è ora presente l’ex colonia francese, ma vedere nell’aumento degli attacchi terroristici in Mali solo un altro pezzo del puzzle del terrorismo islamico sarebbe un errore. L’aumento di gruppi nel Paese è soprattutto il prodotto di condizioni storiche locali e non di un’ideologia imposta dall’esterno. Il terreno è fertile in Mali, come nel resto dell’Africa, per il reclutamento di chi vuole la violenza.

Gli stati africani, già alla prese con la povertà e gli esperimenti di democrazia, non dispongono dell’arsenale e delle competenze in materia di sicurezza per opporre la resistenza necessaria a tentativi di condizionamento.


Dopo l’11 settembre americano e il 13 novembre francese nessuno è al sicuro dal terrorismo?

Forse sì, ma ci sono molti motivi per dubitarne.  La vulnerabilità di un Paese varia in base al livello di sviluppo dello stesso, al suo grado di organizzazione e reattività dei servizi di intelligence.

Per comprende meglio questo concetto, basta pensare alla situazione della Somalia, la quale non riesce a stare a galla di fronte alla minaccia del gruppo jihadista Al Shabab; stiamo parlando di uno stato fallito a causa della lunga guerra civile che l’ha invaso per anni, di uno stato corrotto e non in grado di proteggere la sua popolazione.

La situazione in Mali non può essere paragonata a quella somala ma entrambi questi stati hanno alla base molta debolezza e necessità di aiuti esterni tanto da rendere i rispettivi governi vulnerabili a violenze e attacchi esterni.


 

venerdì 4 dicembre 2015

Nigeria: la lotta al terrorismo causa un elevato numero di morti



L'Associazione per i Popoli Minacciati (APM) ha chiesto al governo nigeriano maggiore trasparenza e protezione per la popolazione civile nella lotta al terrorismo. La lotta alle milizie di Boko Haram nella Nigeria nordorientale avviene nel riserbo più assoluto. Nelle regioni del conflitto non sono ammessi né giornalisti né aiuti umanitari per la popolazione civile rimasta.

Secondo i dati forniti dall'aviazione militare nigeriana, tra settembre e ottobre 2015 l'aviazione militare ha compiuto 1.488 raid aerei contro presunte postazioni di Boko Haram. Secondo l'APM è più che realistico presumere che durante i bombardamenti vi siano state anche vittime civili. Poiché l'esercito nigeriano finora non ha mai comunicato il numero dei morti conseguente alle sue azioni, l'APM presume che il numero dei morti civili causati dal conflitto con Boko Haram sia molto più alto di quanto ufficialmente dichiarato.

Secondo i dati dell'Indice globale sul terrorismo pubblicati ieri 17 novembre dall'Institute for Economics and Peace, nel 2015 la Nigeria ha avuto 6.644 morti per attacchi terroristici. Nel 2014 i morti per terrorismo erano stati 7.512. Solo ieri 17 novembre un attentato di Boko Haram nella città di Yola (stato federale di Adamawa) ha causato altri 32 morti. Per riportare un'immagine realistica del terrore causato da Boko Haram bisogna però tenere conto anche della sanguinosa lotta anti-terrorismo condotta dalle forze istituzionali e dalle milizie alleate. Infatti, in Nigeria la popolazione civile ormai teme la violenza dell'esercito tanto quanto la violenza cieca di Boko Haram.

Circa 2,5 milioni di persone, cristiani quanto musulmani, sono in fuga dal terrore e dal contro-terrore che insanguinano il paese. 2,15 milioni di persone sono profughi interni che sono riusciti a trovare rifugio presso amici e parenti, ma la situazione dei profughi è catastrofica. La corruzione diffusa fa sparire buona parte degli aiuti umanitari promessi ai profughi. L'APM chiede quindi che la comunità internazionale esiga maggiore trasparenza nella gestione degli aiuti umanitari e contemporaneamente che vengano garantiti gli aiuti necessari affinché la popolazione vittima della violenza possa ricostruirsi una vita. Senza reali aiuti umanitari, senza lotta alla corruzione, alla povertà e all'abuso di potere non vi potrà essere una pace stabile e duratura nel paese africano già scosso da disastri ambientali e conseguenze del cambiamento climatico.

Boko Haram si è ufficialmente associato allo Stato Islamico nel marzo 2015 e ha proclamato la "provincia africana occidentale dello Stato islamico".





Vedi anche in gfbv.it: www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150413it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150217it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2014/141201it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2014/140926it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2014/140912it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2014/140716it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2014/140304it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2014/140213it.html | www.gfbv.it/3dossier/africa/nigeria-it.html
in www: www.economicsandpeace.org | it.wikipedia.org/wiki/Delta_del_Niger | http://it.wikipedia.org/wiki/Nigeria

mercoledì 2 dicembre 2015

Il posto giusto: NO al razzismo






Cari amici, vi invitiamo a partecipare numerosi a questa bellissima iniziativa:

Il 1 dicembre 1955 su un autobus dell'Alabama una donna ha cambiato la storia dei diritti civili. A 60 anni dal no al razzismo di Rosa Parks, il Comune di Milano la ricorda con un tram storico che partirà il 3 dicembre
dalle 17,15 alle 21,00 - ogni 30 minuti -  dalle fermate di via Cantù e Porta Genova. 

L'iniziativa è organizzata in collaborazione con ATM e con l’Associazione Città Mondo e grazie all'Associazione Il razzismo é una brutta storia e l'Associazione Mondadori: un percorso artistico su un tram storico in giro per la città. 


Un attore condurrà il pubblico in un percorso di riscoperta del tema della lotta per i diritti civili, e durante questo viaggio, gli spettatori avranno la possibilità di rivivere la forza del rifiuto di Rosa Parks, che verrà rimesso in scena dagli attori presenti sul tram. 
L’episodio sarà trasposto teatralmente ai giorni nostri: sono passati sessant’anni dalla denuncia di Rosa, ma certe violenze fanno ancora parte della vita di tutti i giorni. Un percussionista scandirà il ritmo della performance evocando con i tamburi atmosfere tribali africane e una cantante soul farà da cornice con le sue note alla lettura di alcuni passi del nuovo romanzo di Harper Lee.

Gli interpreti in scena sono Michel Koffi Fadonougbo, Betty Gilmore, Stephane Ngono e Andrea Panigatti; Riccardo Mallus firma la regia.

Radio Popolare, media partner dell’evento, condurrà una diretta dal tram offrendo momenti di approfondimento con il pubblico e garantendo la diffusione radiofonica della manifestazione.

La partecipazione è gratuita previa prenotazione obbligatoria – indicando nome, orario prescelto e numero di partecipanti (max 4) – alla mail:  rosaparks.milano@gmail.com

sabato 28 novembre 2015

Stay human - Africa: Cosa succede in Burundi?


di Veronica Tedeschi


Trovare notizie chiare su quello che sta succedendo in Burundi in questi ultimi mesi è abbastanza difficile, la guerra che sta vivendo questa popolazione sta passando in secondo piano, almeno nel giornalismo italiano.

Questo non significa che sia una guerra “meno importante” o con “meno morti”: da aprile 2015, quando sono scoppiate le violenze tra il governo e gli oppositori per la candidatura ad un terzo mandato del Presidente Pierre Nkurunziza, sono morte circa duecento persone.

Duecento persone che rappresentano un popolo che non ha nessuna intenzione di mollare, che non vuole sottostare al comando di un Presidente completamente disinteressato al benessere della sua popolazione, colpita per il 66% da denutrizione e caratterizzata da un tasso di povertà altissimo.



Lunedì mattina abbiamo assistito quasi 60 feriti arrivati al pronto soccorso in un breve lasso di tempo” spiega Richard Veerman, responsabile dei progetti Medici Senza Frontiere in Burundi. “Abbiamo aperto una seconda sala operatoria ed eseguito cinque interventi chirurgici d’emergenza nelle ore immediatamente successive. Ci impegniamo a portare cure mediche di qualità alle persone, senza distinzioni di razza, religione o orientamento politico”.



Per la prima volta la guerra in Burundi non riguarda solo le differenze etniche ma è legata soprattutto ad una lotta di potere. Nel maggio scorso ci fu un colpo di Stato, fallito, che vide i responsabili arrestati poco dopo. Nonostante questo, le manifestazioni e le morti sono continuate, tra il 3 e il 4 ottobre sono morte 15 persone negli scontri a Bukumbura tra la polizia e alcuni giovani che si opponevano al terzo mandato di Nkurunziza. Il 13 ottobre, almeno 7 persone sono morte per colpi di granata e arma da fuoco e ancora, altre 3 persone hanno perso la vita lo scorso 27 ottobre, giorno in cui il Presidente ottenne un terzo mandato. La violenza è ormai norma nel paese, dilaniato da una crisi politica di livelli eccezionali che ha costretto 200mila burundesi a lasciare il paese.

In quest’ottica si può leggere la creazione di una nuova polizia antisommossa, istituita il mese scorso e chiamata ad intervenire in caso di rivolte; secondo alcune fonti di stampa, sarebbe composta da 300 uomini, tra tiratori scelti e ufficiali al comando. La polizia da sola non regge più il peso di queste manifestazioni che, ormai, continuano da ben 8 mesi e che non cesseranno facilmente.

Il 7 novembre è scaduto l’ultimatum di cinque giorni dato dal Presidente ai suoi oppositori per consegnare le armi spontaneamente in cambio di un’amnistia. Questo invito di Nkurunziza non è stato accolto, infatti, nella notte tra il 7 e l’8 novembre altre 9 persone sono state uccise in un bar a Bukumbura.

Il 9 novembre è iniziata l’operazione di disarmo avviata dalla polizia in quartieri controllati dall’opposizione, il giorno stesso durante tali eventi sono morte altre 2 persone.

La situazione in Burundi peggiora progressivamente senza che la comunità internazionale riesca (o voglia) fermare la spirale di violenza che sta travolgendo questo paese.

Ricordiamo, inoltre, che nei prossimi mesi anche le popolazioni di Rwanda e Repubblica Democratica del Congo saranno chiamate alle urne, nella speranza che le conseguenze della guerra in Burundi non invadano anche gli altri Stati africani.




Il Burundi è un paese fragile e il modo in cui questa crisi verrà risolta avrà sicuramente ripercussioni sia sulla popolazione che sulle conquiste politiche future. Il tutto potrebbe concludersi con soluzioni militari molto pericolose, non solo per il Burundi ma per tutta la regione.



giovedì 26 novembre 2015

Michele Karaboue commenta i fatti di Parigi e in altri Paesi del mondo



L'Associazione per i Diritti umani ha raccolto, per voi,anche il commento del Prof. Karaboue, docente presso la Seconda Università di Napoli e lo ringrazia molto per la sua disponibilità.

 

Gli attentati di Parigi sono atti molto tristi, che lasciano sgomento, ma che non possono essere ricondotti ad una volontà religiosa, nel senso che è opportuno distinguere l'atto di terrorismo dalla religione islamica. E' oggettivamente complesso comprendere questa dinamiche che hvanno condannate ed è compito nostro cercare di spiegare e di analizzare i fatti per quello che sono: qui parliamo di un atto criminale che ha coinvolto un Paese amico come la Francia ed è un atto da condannare con forza.



C'è un fenomeno mediatico di manipolazione e di interessi specifici. Ci siamo accorti della questione francese, ma da sempre tanti Paesi (Kenya, Congo, Siria, Yemen ad esempio) hanno subìto le stesse manifestazioni anche con un numero di vittime superiori, però non hanno la stessa visibilità mediatica in quanto la situazione di questi Paesi viene vista con minore attenzione e con minore sensibilità. La stessa attenzione data legittimamente ai francesi deve essere concessa anche alle altre stragi che il mondo piange perchè è attraverso questa sensibilizzazione globale che si potrebbe scuotere le coscienze e far comprendere a tutti quanto sia universale la drammaticità dei fatti che stanno accadendo.


L'Isis si sconfigge con la presa di consapevolezza dal punto di vista culturale: si parla di Stato islamico che, invece, non esiste ma esiste una realtà - radicata in alcuni territori - che punta a costituire una territorialità politicamente riconosciuta. L'Isis, quindi, va combattuta con un sussulto culturale, isolando e condannando fortemente - a partire dai musulmani - queste attività che nulla hanno a che fare con l'azione religiosa. Non sentendosi legittimata e senza propaganda, l'Isis potrà definire le proprie azioni all'interno di una circoscritta attività che potrebbe anche risolversi nel nulla.


giovedì 19 novembre 2015

Far luce sul rimpatrio di venti giovani donne nigeriane potenziali vittime di tratta




Barbara Spinelli (GUE/NGL) ha presentato un’interrogazione scritta alla Commissione europea per chiedere che venga fatta luce sul rimpatrio di venti giovani donne nigeriane, potenziali vittime di tratta di esseri umani, in violazione della sospensione di rimpatrio rilasciata a loro nome dal Tribunale di Roma (Prima Sezione).

L’interrogazione è stata firmata, tra gli altri, da Claude Moraes, presidente della Commissione Libertà civili, giustizia e affari interni del Parlamento europeo, e dagli eurodeputati Elly Schlein, Ignazio Corrao, Laura Ferrara, Fabio Massimo Castaldo, Marina Albiol Guzman, Malin Björk, Marie-Christine Vergiat e Cornelia Ernst.


Il testo dell’interrogazione:


“Lo scorso 17 settembre circa venti donne nigeriane, potenziali vittime di tratta di esseri umani, sono state rimpatriate in Nigeria dall’aeroporto romano di Fiumicino. Man mano che giungeva copia delle notifiche di sospensione – emesse dal Tribunale nel mentre si svolgevano le procedure di rimpatrio e prontamente inviate alla Questura dagli avvocati e della Clinica Legale dell’Università di Roma 3 – attivisti radunati all’aeroporto chiedevano alla Polizia di Frontiera che le persone interessate venissero fatte scendere dall’aereo. Tuttavia una sola donna nigeriana cui era stata concessa dal Tribunale la sospensione dell'esecutività del rimpatrio è stata fatta sbarcare. Almeno altre due destinatarie di un ordine analogo – notificato alle 13.43 dagli avvocati alla Questura di Roma, dunque ben prima che l’aereo lasciasse il territorio italiano, alle 15.30 circa – sono state rimpatriate, contravvenendo alla pronuncia del Tribunale.

Chiediamo alla Commissione di far luce su questi recenti episodi e valutare se ciò costituisca una violazione dell'articolo 19 (2) della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, degli articoli 9 e 13 §2 della direttiva 2008/115/CE sui rimpatri e degli articoli 20 e 21 della direttiva “qualifiche” 2011/95/UE.

Barbara spinelli, Matt Carthy, Neoklis Sylikiotis, Malin Björk, Kostandinka Kuneva, Eleonora Forenza, Patrick Le Hyaric, Luke 'Ming' Flanagan, Younous Omarjee, Marie-Christine Vergiat, Josep-Maria Terricabras, Jean Lambert, Beatriz Becerra, Sophie in 't Veld, Juan Fernando Lopez Aguilar, Claude Moraes, Jude Kirton-Darling, Julie Ward, Ana Gomes, Nessa Childers, Elly Schlein, Alessia Maria Mosca, Laura Ferrara, Fabio Massimo Castaldo, Maria Arena, Angelika Mlinar, Mary Honeyball, Ignazio Corrao, Cornelia Ernst, José Inácio Faria, Marina Albiol Guzman

Al link seguente, la lettera di denuncia che Barbara Spinelli ha inviato all’agenzia europea Frontex, al Ministero dell’Interno e, per conoscenza, al Mediatore europeo Emily O’Reilly e al sottocomitato ONU contro la tortura:



https://drive.google.com/file/d/0B5OywtprZA1veXNaOEZRQ3d4Q0U/view?usp=sharing






sabato 31 ottobre 2015

Terrore albino


di Veronica Tedeschi
 
 
 
 
 
 
 
 

 
 

Tre uomini con indosso il balaclava entrarono nella mia casa e mi attaccarono con un macete. Ho cercato di reagire ma fui sopraffatto. Mi misero una stoffa intorno al capo e un’altra in bocca per non farmi urlare. Scapparono via con un pezzo di carne preso dalla mia testa.”

Queste sono le parole pronunciate da Mohammed Said, ragazzo albino di 35 anni che vive in Tanzania, nella città di Mkuranga. L’evento in questione è avvenuto lo scorso 21 ottobre.

L’incubo vissuto da Mohammed è il tormento di un tanzaniano su venti.


L’albinismo è una malattia ereditaria consistente nella depigmentazione parziale o totale della pelle che comporta conseguenze alla vista e alla pelle stessa.


In alcuni paesi africani (Guinea, Tanzania, Costa D'Avorio, Burundi) l’incidenza di questa malattia è molto alta nella popolazione e gli albini in questione diventano oggetto di discriminazione e violenza.

L’ignoranza velata della popolazione africana ha portato alla creazione di credenze e superstizioni intorno alle persone albine che sono diventate oggetto di racket e scambi di denaro; le atrocità subite dalla persone affette da albinismo sono enormi. Attaccati in casa o per le strade, vengono mutilati e talvolta uccisi, perché il loro sangue e le parti del corpo sono usati per creare amuleti e talismani capaci, secondo alcuni, di portare fortuna negli affari e negli affetti.

A sostegno e difesa di queste persone Peter Ash ha fondato in Tanzania una Ong a supporto degli albini, con lo scopo di educare le persone locali organizzando corsi e incontri per avvicinare i diffidenti alla malattia. Under the same sun offre protezione e supporto e intercede con governi e istituzioni per la difesa delle persone affette da albinismo. 
 
 


Il problema principale di queste discriminazioni sta nel fatto che i veri protagonisti di questo racket sono gli stessi politici che dovrebbero ostacolarlo e questo è dimostrato dal fatto che le violenze aumentano nei cicli elettorali : "I governi - riferisce Ash - inizialmente hanno fatto finta di niente, poi, dopo sei anni di battaglie, hanno strappato qualche promessa rimasta ancora inattuata. In Guinea, Tanzania, Costa D'Avorio, Burundi e Suriname la percentuale degli attacchi aumenta in concomitanza alle elezioni politiche, tanto che in questo periodo le persone affette d'albinismo restano segregate in casa più del solito per evitare gli attacchi degli stregoni. Un altro problema è che questa credenza è davvero molto radicata. In alcuni villaggi, per esempio, si crede che gli albini non muoiano, ma spariscano, si dissolvano nel nulla.”

In questi ultimi anni, però, sono stati fatti due passi avanti molto importanti: è stata annunciata la giornata mondiale degli albini il 13 giugno, giorno in cui nello scorso 2013 è stata adottata all’unanimità la prima risoluzione che includeva sanzioni severe per gli stregoni e chiedeva ai paesi membri dell’Onu di proteggere i diritti umani degli albini. Anche Papa Francesco ha mostrato la sua vicinanza a questo problema abbracciando, per la prima volta nella storia della chiesa, un bambino affetto da albinismo.

“I have a dream that one day people with albinism will take their rightful place throughout every level of society, and that the days of discrimination against persons with albinism will be a faint memory - EVERYWHERE!” - Peter Ash, Founder & CEO Under the same sun.

 
 

giovedì 29 ottobre 2015

Le moschee segrete in Grecia - Hidden mosques in Greece

di Cinzia D'Ambrosi



Seguendo l'Imam della comunita' sudanese, sono arrivata davanti a due luoghi chiusi dalle autorita' greche. Mentre tentavo di leggere il foglio della polizia attaccato alla porta, una donna inizia a gridare contro di noi. Mi viene detto che non e' inusuale.
Hassan, un rifugiato dal Sudan dice: 'Le autorita' hanno chiuso la moschea. Ci hanno detto delle scuse. Ci hanno detto che i vicini hanno fatto denuncia per via della nostra musica. Non abbiamo mai suonato musica.'
Habiba, originaria del Marocco, dice: 'Talvolta entro in un negozio ed il proprietario mi grida di lasciare il negozio immediatamente perche' non servono donne con il foulard.'
Ci sono circa un milioni di musulmani in Grecia. Approssimativamente 600,000 musulmani vivono in Atene. Come tanti altri che risiedono in Europa, hanno difficolta' a praticare la loro religione. Vorrebbero praticare la loro fede in un posto ufficiale di culto, pero' non e' ammesso costruire una moschea in Atene ed in Grecia. Le comunita' musulmane sono costrette a pregare in posti segreti ed informali come, ad esempio, i garages.
 


A former garage underneath a building serves as an illegal mosque in Neos Kosmos, which it has been called Al Salam Mosque. Copyright: Cinzia D'Ambrosi.    
Questo luogo, che un tempo serviva come garage, e' stato trasformato in una moschea informale e 'segreta' (non apertamente annunciata) riferita come moschea Al Salam. Copyright: Cinzia D'Ambrosi


Alongside the Imam of the Sudanese community in Athens, I walked to two sites, basements garages, been shut by the Greek authorities. Even lingering outside the door of one of these sites, a woman started to shout at us. I was later told that this is not unusual.
Hassan, a refugee from the Sudanese community says: 'The authorities have closed the mosque. We have been given excuses. They told us that the neighbours complained of our music. We don't play music.'
Habiba, originally from Morocco, says 'Sometimes I am shouted at and told to leave the premises of a shop because I wear a head scarf''.
Anisur, from Bangladesh : 'Officials don' t make it easy for us. We are treated differently.'
There are around one million Muslims in Greece and approximately 600,000 Muslims who live in Athens. Like many who live in other European countries, face difficulties in practising their religion. They would like to express their faith through prayer in an appropriate place of worship, however there is no official mosque in Athens or Greece. Up until now, the Muslim communities are forced to pray in hidden informal spaces such as disused garages and basement spaces.





lunedì 19 ottobre 2015

Barbara Spinelli denuncia l’operazione di rimpatrio di venti donne nigeriane potenziali vittime di tratta




Barbara Spinelli, eurodeputato al Parlamento Europeo GUE/NGL denuncia l’operazione di rimpatrio di venti donne nigeriane potenziali vittime di tratta effettuata il 17 settembre a Roma.


Bruxelles, 15 ottobre 2015

 

Dopo il rimpatrio forzato di circa venti donne nigeriane vittime di tratta, avvenuto il 17 settembre a Roma, BarbaraSpinelli ha inviato una lettera di denuncia al Viminale, all’agenzia europea Frontex e, per conoscenza, all’Ombudsman e al sottocomitato Onu contro la tortura.

 

Le donne soggette a procedura di rimpatrio facevano parte di un gruppo di sessantanove nigeriane soccorse in mare, sbarcate a Lampedusa e Pozzallo e condotte nel Centro di Identificazione ed Espulsione di Ponte Galeria (Roma) il 23 luglio scorso. Tutte avevano dichiarato di aver subito violenza dall’organizzazione Boko Haram, o di essere state comprate da trafficanti per poi essere vendute sul mercato europeo della prostituzione. Tutte avevano subito ricatti psicologici e molte portavano il segno di cicatrici, ustioni e torture inflitte dai loro aguzzini per essersi ribellate.

La maggior parte aveva fatto richiesta di protezione umanitaria e ricevuto un diniego da parte della Commissione territoriale, contro il quale gli avvocati avevano presentato ricorso.


Il rimpatrio del 17 settembre è stato programmato nonostante fossero in corso le pratiche per la sospensione del diniego e – cosa ancor più grave – è stato eseguito malgrado il contemporaneo pronunciamento del Tribunale di Roma, prontamente comunicato alla Questura dagli avvocati della Clinica Legale dell’Università di Roma 3. Nonostante la pressione esercitata dagli attivisti nell'aeroporto di Fiumicino, una sola donna nigeriana cui era stata concessa dal Tribunale la sospensione dell'esecutività del rimpatrio è stata fatta sbarcare. Almeno altre due destinatarie di un ordine analogo – notificato alle 13.43 dagli avvocati alla Questura di Roma, dunque ben prima che l’aereo lasciasse il territorio italiano, alle 15.30 circa – sono state rimpatriate, contravvenendo alla pronuncia del Tribunale.

Nello stesso giorno, sono stati emessi altri dodici provvedimenti di sospensione.

 
Barbara Spinelli ha chiesto di conoscere le modalità, la pianificazione e i responsabili dell'esecuzione dei provvedimenti di allontanamento forzato, i relativi costi e il personale impiegato nell’operazione, il numero esatto delle persone rimpatriate e le motivazioni per ogni singolo caso, con specifico riferimento all’effettiva salvaguardia del diritto alla difesa e alle ragioni per cui non si è ritenuto di attendere l’esito delle richieste di sospensione del rimpatrio.

Nella lettera si chiede se l’aereo decollato da Roma per Lagos fosse un volo charter coordinato da Frontex con altri Stati membri, se una squadra dell’Agenzia si trovasse effettivamente nel centro da dove è partita l’operazione, come riportato da testimoni, e, in questo caso, con quali compiti e mandato.

 
L'eurodeputato chiede infine come Frontex intenda garantire la trasparenza nelle procedure – in particolare l’accesso agli organi della giurisdizione nazionale per salvaguardare il diritto a un ricorso effettivo (sancito dall’art. 13 della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo e dall’art. 13 del Regolamento frontiere Schengen e come prescritto nel Return Handbook della Commissione europea) – in caso di respingimento alla frontiera.

 
Nella lettera si sottolinea il ruolo di garanzia e controllo che deve essere svolto dalle associazioni della società civile, che sempre più vengono invece tenute all’oscuro delle operazioni di rimpatrio, malgrado i ripetuti richiami da parte dell’Ombudsman e gli impegni dichiarati dall’agenzia Frontex.



A questo link,  la lettera

sabato 17 ottobre 2015

Accesso ai servizi sanitari in Africa

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 



di Veronica Tedeschi




La cartina qui in alto rappresenta l’accesso ai servizi sanitari in tutta l’Africa.


Inutile precisare che la situazione è critica per la maggior parte dei territori africani, soprattutto considerando il confronto con i Paesi europei in cui la percentuale del grafico è del 100% e questo indica che l'accesso è ottimale, o quasi.


Come si può notare, gli Stati che si trovano in condizioni più gravi interessano l’Africa subsahariana: le motivazioni sono molteplici, ma sicuramente le guerre civili che dilaniano questi Paesi non permettono la crescita istituzionale e sanitaria.



I pochi ospedali esistenti sono situati solo nelle grandi città, dove c’è sovraffollamento ed inoltre si presentano come agglomerati molto estesi e privi di qualsiasi struttura.

I medici sono circa 0,8 per mille abitanti e tutte le spese sono a carico dei malati, spesso bambini, donne in gravidanza e anziani.

Anche i farmaci hanno un costo alto e, nella maggior parte dei casi, sono di qualità scadente; altro problema è che molti farmaci provengono dall’Occidente e quindi non sono adatti per le malattie tropicali (uno studio del 1999, infatti, evidenzia che solo 13 dei 1233 farmaci in commercio in Africa sono creati per curare malattie tropicali).

 
 
A tutto questo si aggiunge che il 52% del continente africano non dispone di acqua potabile e il 90% delle malattie viene trasmesso proprio attraverso l'acqua.

Chi ci rimette, naturalmente, è la popolazione civile che, nella maggior parte dei casi, è costretta a scappare e a migrare illegalmente nei territori limitrofi.

 







sabato 3 ottobre 2015

Cosa succede in Burkina Faso?



di Veronica Tedeschi




Il Burkina Faso, sbocciato da popolazioni migrate dal Ghana settentrionale, nel 1896 venne conquistato dai francesi con la presa della capitale Ouagadougou divenendo un protettorato francese. Gli abitanti del nuovo stato coloniale francese, durante la Prima guerra mondiale, combatterono nei battaglioni della città europea. Il 23 luglio 1956 la Francia iniziò a riorganizzare le proprie colonie d'oltremare cominciando ad assegnare loro un maggiore grado di autonomia con l'attuazione della cosiddetta Loi Cadre. Questo processo terminò l'11 dicembre 1958 quando l'Alto Volta divenne una repubblica autonoma all'interno del territorio coloniale francese. Solo nel 1960, dopo ulteriori vicende, il Burkina Faso conquistò l’indipendenza dalla Francia.

Indipendenza?


Nel 2014 si svolsero nella capitale una serie di manifestazioni contro la proposta del Presidente Campaorè di modificare la Costituzione per potersi riproporre per un nuovo mandato; le proteste si conclusero con le dimissioni forzate del leader Campaorè dopo 27 anni di governo. Dopo la fuga del capo di stato, in Burkina Faso venne creato un governo di transizione che sarebbe dovuto durare fino al prossimo 11 ottobre, giorno in cui erano previste le elezioni.

La situazione non si stabilizzò, fino ad arrivare al recente 16 settembre 2015, quando il reggimento di sicurezza presidenziale (Rsp), guidato dal generale Gilbert Dienderè, fece irruzione al Consiglio dei Ministri arrestando l’attuale presidente Kafando e il primo ministro Zida; il giorno dopo fu annunciato lo scioglimento del governo.

L’esercito non stette a guardare e pochi giorni dopo entrò nella capitale Ouagadougou dando un ultimatum al leader del colpo di stato; anche la popolazione si organizzò per la resistenza e scese in piazza per protestare ed opporsi al rovesciamento del potere da parte dei principali sostenitori dell’ordine del regime dell’ex presidente Blaise Compaorè, in esilio dal 2014.

La Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale (Ecowas), che svolge funzioni di cooperazione per la sicurezza dell’Africa occidentale, per evitare il peggio, pochi giorni fa ha inviato dei delegati per chiedere alla giunta di restituire il potere ai civili.

Gli altri paesi africani stanno sostenendo le proteste dei burkinabè e le popolazioni stanno scendendo in piazza contro il potere uniforme e contro i colpi di stato. Le maggiori istituzioni africane sembrano appoggiare questa posizione, esprimendo condanne e infliggendo sanzioni di vario genere nei confronti dei golpisti. L’Ua, riferisce Mull Katande – rappresentante ugandese di turno alla presidenza del Consiglio di pace e sicurezza - “ha deciso di sospendere con effetto immediato il Burkina Faso da tutte le attività”, costringendo, inoltre, i responsabili del colpo di stato a non uscire dal paese. La stessa Ecowas ha presentato una bozza di accordo per superare la crisi che ad oggi non è ancora stata firmata da nessuna delle parti coinvolte.


Le istituzioni africane stanno facendo il possibile per superare la crisi in Burkina Faso.

La popolazione di questo Stato non conosce pace da almeno due anni a questa parte ma è determinata a non cedere e continuerà a lottare per la pace. Non a caso, il Burkina Faso viene anche chiamato terra degli uomini integri nella lingua parlata dall’etnia mossi (che rappresenta il 40% della popolazione).

Un’altra pagina della storia degli uomini integri è stata scritta; il prossimo capoverso potrebbe iniziare con una svolta, con la parola Pace.

Gilbert Dienderè e l’Rsp usciranno rafforzati da questa vicenda?

La loro carriera finirà?

Le proteste della popolazione si placheranno?

Questo Stato vedrà mai la pace dopo anni di proteste, colpi di stato e presidenti “attaccati alla poltrona”?

Attendiamo il prossimo capitolo.
 
 


sabato 19 settembre 2015

La repressione dei crimini internazionali in Africa: il caso Habré




di Veronica Tedeschi




Ho passato quattro anni in prigione, nelle peggiori condizioni. Per sette mesi sono rimasto curvo al suolo. Mi si sono staccate le gengive, non riuscivo neanche a mangiare riso cotto. Ciò che mi ha segnato in questi quattro anni è che sono stato obbligato insieme a dei miei compagni a seppellire chi moriva per malattie causate da questo trattamento inumano (…). Il mio sogno è di vedere Hissène Habrè dietro le sbarre. Quel giorno danzerò”

- Abaifouta, vittima ciadiana della macchina repressiva di Habré. -




Quello che abbiamo vissuto è inimmaginabile. Ci volevano uccidere se non eseguivamo i loro ordini, ci impedivano di curarci, di fare sapere alle nostre famiglie dove fossimo. E io che ora sono davanti a voi, sappiate che quando mi hanno arrestato venivo dall’ospedale, il 2 ottobre 1998, non ho rivisto più l’ospedale fino al dicembre 2010.

In qualsiasi posto del mondo i prigionieri sono curati, ma noi non potevamo. Ci davano da mangiare cose che se le date al vostro cane le rifiuta, volevano aiutarci a morire con il cibo che ci davano”

- Dichiarazione rilasciata da Souleymane Guengueng durante la conferenza stampa fatta in occasione dell’apertura delle Camere Africane Straordinarie. Guengueng è membro dell’Associazione delle vittime dei crimini di guerra del regime di Hissène Habrè e del comitato di pilotaggio per il processo e lui stesso una delle vittime scampate alla morte del dittatore. -



Il 7 settembre è ripreso a Dakar, in Senegal, il processo contro l’ex presidente del Ciad, Hissène Habré, accusato di crimini di guerra, tortura e crimini contro l’umanità. Il processo si era riaperto il 20 luglio, ma era stato sospeso per 45 giorni per consentire agli avvocati di aggiornarsi sul procedimento. La situazione è critica, Habrè rifiuta di parlare con i suoi avvocati e non si è presentato al processo, al quale è stato condotto con la forza.

La vicenda giudiziaria di Habré si era conclusa nel 2012, anno in cui fu creata una giurisdizione penale ad hoc, in seno alle corti senegalesi, incaricata di perseguire i responsabili delle gravi violazioni dei diritti umani avvenute nel Ciad nel periodo compreso tra il 7 giugno 1982 e il 1 dicembre 1990 (arco di tempo che comprende la dittatura di Habré). Il dittatore è sospettato di essere responsabile della morte di migliaia di persone, il numero esatto è sconosciuto. Nel novembre 1990 circa 300 detenuti politici sono stati giustiziati e questo è solo un esempio tra i tanti di dissidenti giustiziati durante la sua dittatura. Venne accusato di crimini contro l’umanità e tortura ma l’azione penale presentata contro di lui incontrò molte difficoltà, dal difetto di giurisdizione proclamato dalle autorità senegalesi alla possibile violazione del principio di non retroattività.

Questo processo rappresenta un segno di svolta vista la creazione, per la prima volta nel continente africano, di una giurisdizione penale ad hoc volta a giudicare i crimini commessi da Habré nel periodo della sua dittatura. È stato sotto la nuova presidenza di Macky Sall che la situazione in Senegal si è finalmente sbloccata: dopo aver stretto un accordo con l’Unione Africana, il 19 dicembre 2012 il governo senegalese ha votato una legge per istituire le quattro Camere Africane Straordinarie richiesta dall’istituzione africana “con lo scopo di perseguire e giudicare i principali responsabili dei crimini e delle gravi violazioni di diritto internazionale commesse sul territorio ciadiano durante il periodo dal 7 luglio 1982 al 1 dicembre 1990”. Il Senegal doveva agire anche in nome delle Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 1984 che aveva ratificato e che lo obbligava, quando una persona era accusata di atti di tortura ed era sotto la sua giurisdizione, a giudicarlo o estradarlo. Qualcuno vide male la creazione di Camere ad hoc ma queste furono create per rispondere alla giurisdizione internazionale, così come il Tribunale speciale per il Ruanda rispondeva agli standard delle Nazioni Unite.

E’ la prima volta che l’Unione Africana costituisce un tribunale ad hoc internazionale. Siamo i primi a rivendicare un processo giusto ed equo e ne va anche della credibilità dell’Africa” commenta Assane Dioma Ndiaye, avvocato senegalese delle vittime di Habrè. Tali camere si prestano, quindi, ad essere qualificate come “mixed tribunal” o “hybrid tribunal”; in altri termini, questo nuovo organo giurisdizionale presenta taluni aspetti che permettono di assimilarlo ad un tribunale statale ed altri che, invece, ne consentono l’inquadramento tra i tribunali internazionali.



Per quanto riguarda il coinvolgimento del Senegal nella repressione di crimini commessi in Ciad, ciò che sorprende non è la circostanza che a procedere alla repressione sia uno Stato diverso da quello nel quale i crimini sono stati perpetrati, poiché in tal senso deporrebbe il principio della giurisdizione universale affermatosi proprio con riguardo alla repressione dei crimini internazionali. La cosa che fa pensare è che per la prima volta si assiste all’istituzione di un tribunale penale misto per perseguire finalità diverse da quelle che hanno giustificato in precedenza l’istituzione di simili organi giurisdizionali.

Infatti, le precedenti esperienze mostravano l’esigenza di far fronte alle inefficienze se non al collasso degli apparati giudiziari nazionali dello Stato nel cui territorio i crimini erano stati perpetrati, alla quale si affianca l’obiettivo più generale di contribuire ad un processo di riconciliazione nazionale dopo periodi di guerra civile.

Diversamente, la scelta del Senegal di procedere alla punizione dei responsabili dei crimini commessi in Ciad è legata alla volontà di tale Stato di rispettare quanto disposto dalla Corte di Giustizia dell’ECOWAS e di adempiere all’obbligo di giudicare sancito nella Convenzione delle Nazioni Unite conto la tortura e ribadito nella citata sentenza della Corte Internazionale di Giustizia nel caso Belgio c. Senegal.

La riapertura del processo contro l’ex dittatore del Ciad, ci fa sperare in una giustizia possibile. Il Senegal ha dimostrato di voler condannare i responsabili della commissione di crimini internazionali tanto gravi e la punizione di Habré porterà ad una soddisfazione morale più che economica ai sopravvissuti e ai parenti delle vittime cadute sotto la dittatura di Hissène Habré.
 
 
 


giovedì 17 settembre 2015

Barbara Spinelli e il rimpatrio delle ragazze nigeriane




APPELLO DI BARBARA SPINELLI ED ELLY SCHLEIN: IMMEDIATA SOSPENSIONE DEL RIMPATRIO DI TRENTA RAGAZZE NIGERIANE





Disapproviamo con forza quanto sta avvenendo in queste ore nel Cie di Ponte Galeria a Roma. Trenta giovani donne nigeriane stanno per essere rimpatriate in un Paese che non corrisponde a nessuno dei canoni di sicurezza stabiliti dalle convenzioni internazionali, considerato insicuro anche dal sito della Farnesina, in disaccordo con quello del Viminale. Gli avvocati non sono stati ammessi ai colloqui con le ragazze. Le associazioni che hanno normalmente accesso al Cie non sono state messe nelle condizioni di appurare se le ragazze facciano parte del gruppo delle sessantasei nigeriane vittime di tratta rinchiuse da un mese e mezzo nel centro, per le quali nei giorni scorsi si è mobilitato anche il sindaco Ignazio Marino – tutte con visibili segni di violenza e alcune di ustione. Secondo gli attivisti che presidiano il Cie, le trenta nigeriane sono da poco state caricate su un pullmino diretto all’aeroporto di Fiumicino. Un provvedimento di rimpatrio metterebbe a serio rischio la vita delle ragazze, pienamente da considerare soggetti vulnerabili, tutelate dagli articoli 11 e 12 della Direttiva 2011/36/UE e gli articoli 20 e 21 della Direttiva 2011/95/UE, alle quali non è stata nemmeno data la possibilità di avvalersi delle misure sospensive previste dall’articolo 39 CEDU. Ci uniamo alla Campagna LasciateCIEntrare e alle tante organizzazioni e associazioni mobilitate in loro difesa per denunciare gli accordi con la Nigeria e i voli congiunti di Frontex, e chiedere l’immediata sospensione del provvedimento.