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mercoledì 2 settembre 2015

Srebrenica, la giustizia negata

 
 
 
 



Srebrenica, Bosnia Erzegovina, 11 luglio 1995: oltre diecimila maschi tra i 12 e i 76 anni vengono catturati, torturati, uccisi e inumati in fosse di massa. Stesso destino hanno alcune giovani donne abusate dalla soldataglia. Le vittime sono bosniaci musulmani, da oltre tre anni assediati dalle forze ultranazionaliste serbo-bosniache agli ordini di Ratko Mladić e dai paramilitari serbi.Quattro lustri dopo, rimane un profondo senso di ingiustizia e di impotenza nei sopravvissuti e un pericoloso messaggio di impunità per i carnefici di allora, in buona parte ancora a piede libero e considerati da alcuni persino degli “eroi”.
Questo libro è un reportage nel buco nero della guerra e del dopoguerra bosniaco e nel vuoto totale di giustizia che ha seguito il genocidio di Srebrenica, una delle pagine più nere della storia europea del Novecento e sicuramente la peggiore dalla fine della seconda guerra mondiale.





Il libro: Srebrenica, la giustizia negata, di Luca Leone e Riccardo Noury.
Prefazione di Moni Ovadia per Infinito Edizioni.




            
L'Associazione per i Diritti Umani ha rivolto alcune domande a Luca Leone e lo ringrazia molto per la disponibilità.





Le parole di Moni Ovadia, nell'introduzione al testo, sono molto dure. Perché l’Occidente ha voluto fallire? Quali sono i motivi per cui L’Ue non è intervenuta adeguatamente?

 

La metterei in quest’altro modo: l’Europa occidentale non ha voluto fallire, semplicemente non ha ritenuto di voler intervenire nel modo auspicato – tardivamente – dall’opinione pubblica. O, se vogliamo vederla dal punto di vista del fallimento: a suo tempo è stato un fallimento programmato e voluto, quindi non vero fallimento, dunque piano perfettamente riuscito. La Comunità europea dell’epoca – divisa in politica estera esattamente quanto l’Unione europea di oggi – ha visto la crisi jugoslava e le guerre balcaniche non come un pericolo e una tragedia umanitaria, ma come una chance economica e strategica. L’intervento, dunque, c’è stato eccome, ma non per impedire le stragi e le devastazioni, bensì per sostenere ciascuno la propria parte di riferimento sul campo di battaglia e ottenere almeno due importanti risultati: la scomparsa di un soggetto di diritto internazionale scomodo e in crisi come la Jugoslavia e l’appropriazione di pezzi di quel Paese attraverso una discutibile politica di sostegno a una delle parti in causa. Alla partita di sono uniti, pressoché subito, anche Stati Uniti, Russia, Turchia e Paesi del mondo arabo sunnita, rendendo il disastro jugoslavo ancora più complicato, pericoloso e incomprensibile. Alla fine, a modo loro, gli europei e gli altri sono intervenuti eccome, e i loro obiettivi li hanno raggiunti. All’opinione pubblica è rimasto l’amaro indelebile in bocca delle tragedie umanitarie e del genocidio di Srebrenica, oltre che pagine mostruose come lo scannatoio di Višegrad, l’azzeramento di Vukovar, Omarska e gli altri campi di prigionia e di sterminio, l’assedio di Sarajevo, il più lungo della storia bellica europea, e un numero di morti e di desaparecidos ancor oggi non definitivo. Le cancellerie e le grandi aziende, invece, sono intervenute eccome e hanno riportato, ciascuna per suo conto, parecchi risultati. Si veda il controllo politico e strategico della Federazione di Bosnia Erzegovina da parte degli Stati Uniti e il controllo egemonico dell’economia da parte della Turchia; si veda, in Republika Srpska di Bosnia – entità basata largamente sullo stupro etnico e sulla pulizia etnica – lo stesso fenomeno, ma nei panni degli attori esterni Russia e Francia.




I criminali sono considerati ancora, da alcuni, come degli “eroi”: su cosa si basa questa opinione?


Non so, in effetti, se si tratti di un’opinione o di un disvalore predicato così a fondo attraverso slogan efficaci e mandato a memoria dalla parte più rozza e grezza non solo del popolo serbo, ma anche di quello croato e di quello musulmano bosniaco. Non ci sono solo gli “eroi” serbi, assassini di massa le cui facce orripilanti sono acquistabili stampate su tazze e tovaglie nelle fiere popolari, ma ci sono anche quelli delle altre parti. L’ignoranza, la povertà, talvolta la fame, l’abbandono e l’odio sono le leve su cui premono i teorici della divisione, attraverso non solo la televisione e i giornali ma, prepotentemente, attraverso la radio – l’unico mezzo di diffusione di massa che ancora oggi arriva ovunque – internet e persino le scuole e le università. C’è tanto lavoro da fare per far cadere nella polvere questi falsi “dèi” dell’odio, della violenza e della menzogna e per riportare sull’altare di un’umanità laica e tollerante le uniche cose che possono davvero salvare i Balcani: una scuola condivisa e non più dell’apartheid, la ragione e la pietà umana.



Cosa chiedono le donne di Srebrenica? E qual è stata la loro esperienza durante e anche dopo la guerra?

 

Le donne e le madri di Srebrenica chiedono solo ed esclusivamente GIUSTIZIA, tutta maiuscola, così come l’ho scritto. Non vogliono vendetta, non chiedono più alcun tipo di dolore. Vogliono poter recuperare dalle fosse comuni i loro cari, dar loro civile e umana sepoltura e avere finalmente giustizia, ovvero i nomi e i cognomi degli aguzzini loro e dei loro cari e la loro condanna in un tribunale. Sorprenderà il lettore, spero, apprendere questo dato: in Bosnia Erzegovina ci sono circa 16.000 presunti criminali di guerra ancora a piede libero e, per converso, ancora circa 8.000 desaparecidos, metà dei quali si stima siano ex cittadini di Srebrenica ammazzati nel luglio 1995 e sepolti in fosse comuni la cui ubicazione è al momento ancora sconosciuta.

L’esperienza di queste donne è stata di oltre tre anni di assedio, patendo la mancanza di ogni cosa, e poi dell’abbandono da parte della comunità internazionale nelle grinfie dell’esercito serbo-bosniaco e dei paramilitari serbi, che hanno fatto scempio di 10.701 loro cari di età compresa tra i 12 e i 76 anni e non di rado del corpo di parecchie di queste donne, soggette allo stupro etnico come altre decine di migliaia di loro in tutto il Paese. E alla fine, dopo vent’anni, si trovano a dover combattere contro un nuovo cancro, quello dei negazionisti, coloro che vogliono convincere chi non c’era che a Srebrenica non è successo nulla. Una lotta impari, per quelle povere donne… Una lotta in cui vanno aiutate.

 

Le conseguenze degli errori (più o meno voluti) e dell'immobilità politica e militare, hanno avuto ripercussioni sugli altri Paesi?

 

Se si intende la questione kosovara, la pulizia e la contro-pulizia etnica nella Krajina croata, il prossimo disastro che sarà quello macedone, direi proprio di sì.



In che modo si può aiutare la Bosnia-Erzegovina nel percorso di democrazia e di pace?



Non credendo alle fandonie negazioniste, informandosi e andando a visitare quel Paese, che rischia a breve di spaccarsi in due, esposto com’è agli estremismi incrociati, quelli islamici e cattolici in Federazione, quelli russo e serbo in Republika Srpska. E non ricordandoci della Bosnia solo ogni dieci anni, ma proviamo a capire una lezione importantissima, almeno per noi italiani: conoscere la Bosnia ci permette di conoscere e comprendere meglio dinamiche identiche presenti nel nostro Paese e di trovare i giusti antidoti, prima che arrivino a “bussare” coi tank e i kalashnikov alle nostre porte di casa gli Mladić, i Karadžić, i Lukić, i Boban, i Tuđman, gli Izetbegović italiani e tutta questa varia umanità che purtroppo popola persino il nostro parlamento e il parlamento europeo.

mercoledì 30 ottobre 2013

Una campagna contro i pregiudizi



Parte lunedì 11 novembre alle 11.30 con la conferenza dal titolo “Conflitti, mass media e diritti” che si terrà in Corso Vittorio Emanuele II 349)e, alle 20.30 con lo spettacolo “Senza Confini - Ebrei e Zingari” di Moni Ovadia presso il Teatro Vittoria, Piazza di Santa Maria Liberatrice 10, Roma, Ingresso libero a sottoscrizione, una campgna per combattere gli setereotipi negativi e i pregiudizi sui rom, anche a seguito dei fatti di cronaca di cui abbiamo parlato negli articoli precedenti. 
 
Offrire una fotografia reale della popolazione Rom in Italia e in Europa, dando spazio alla cultura romanì e ai giovani Rom impegnati nel miglioramento delle condizioni di vita delle proprie comunità, e’ l’obiettivo della campagna ROMAIDENTITY- IL MIO NOME E’ ROM promossa dalla ong Ricerca e Cooperazione insieme a Associazione Stampa Romana, Associazione Rom Sinti @ Politica, Università La Sapienza e altre associazioni e istituzioni di Italia, Romania e Spagna.

Alla conferenza pubblica “Conflitti, mass media e diritti” parteciperà l'attore Moni Ovadia, insieme a Paolo Butturini (Stampa Romana), Nazzareno Guarnieri (Associazione Rom Sinti @ Politica) e Natascia Palmieri (Ricerca e Cooperazione). Segurà lo spettacolo teatrale e, all'iniziativa, interverranno inoltre: Pietro Vulpiani (Unar – Ufficio Antidiscriminazioni Razziali) e Serena Tosi Combini (Fondazione Michelucci, Università di Verona) autrice del volume “La zingara rapitrice”.

sabato 2 marzo 2013

Un film e uno spettacolo teatrale per non dimenticare i BALCANI



Da poco uscito nelle sale cinematografiche italiane (recuperabile nelle rassegne, su Internet e in dvd) , Buon anno Sarajevo Djeca-Children of Sarajevo, questo il titolo originale - è l'opera seconda della regista bosniaca Aida Begić che, per questo film, ha ricevuto una menzione speciale nella sezione “Un certain regard” all'ultimo festival di Cannes.
Un'opera molto diversa dalla precedente, Neve in italiano, ambientata nella periferia -cupa e fredda - della città in cui vivono due fratelli, Rahima, 23 anni e Nedim, 14. Il ricordo della madre uccisa da un cecchino durante la guerra è ancora molto vivo negli occhi e nell'anima dei due ragazzi: ma, mentre Rahima ha trovato conforto (forse) nella religione islamica e nell'indossare il velo a protezione delle sue ferite, il fratello minore subisce la discriminazione per essere orfano in una società che non è ancora riuscita a trovare se stessa.
Un giorno Nedim danneggia l'I-phone di un compagno di scuola che è anche il figlio di un ministro e la scuola ingiunge a Rahima di rifondere il danno. Non riuscendo a trovare i soldi necessari, la ragazza danneggia l'auto del ministro in un parcheggio e da qui in poi i due protagonisti conosceranno, sempre più da vicino, la protervia e la corruzione dei ricchi e dei forti.
Rahima, da sempre coraggiosa nel far valere i propri diritti e nel proteggere il fratello, scoprirà anche alcuni lati della vita di Nedim che non conosceva e questo porta lo spettatore a intravedere nella quotidianità, nelle scelte e nei comportamenti di molti le tracce di una guerra che, a distanza di vent'anni, non è ancora finita; i segni di una mentalità criminale e di un malcostume che si è, ormai, infiltrato negli individui ...Ma il film lascia un piccolo spazio alla speranza di un miglioramento.



Ma non solo Cinema. Anche il Teatro vuole essere strumento di Memoria e di analisi. In tour, in Italia, lo spettacolo Balkan Burger – E' la storia di Razna che visse più volte, di Stefano Massini, un monologo affidato alla voce e all'interpretazione di Luisa Cattaneo, con il commento musicale dal vivo di Enrico Fink, sul palco con l'attrice.
Una molteplicità di voci che si intrecciano e di lingue (a partire dal titolo). Sì, perchè Razna è, in realtà, Roze figlia di un rabbino che imparerà litanie ortodosse, frequenterà un Pope, reciterà preghiere cattoliche e si confronterà con un imam.
Contaminazioni di generi – si ride e si piange durante lo spettacolo – e contaminazioni di religioni e di alfabeti al ritmo di una ballata kletzmer per un personaggio simbolico che cambia e che cerca la propria identità, in una Ex Jugoslavia ancora in cerca di equilibrio.

Balkan Burger è un magnifico pezzo di narrazione. E' una storia di morti e resurrezioni che si reitano nella vita di una singolare bambina segnata da un destino di paradossale santità, malgrado sé, il tutto raccontato con uno stile narrativo magistrale, tenuto su un registro ironico che mi sembra abbeverarsi allo humor della migliore letteratura yiddish e russa. ...Balkan Burger può essere letto come una parabola che denuncia la cieca ottusità del fanatismo travestito da religione...”

(Moni Ovadia, introduzione a Balkan Burge in “Quattro storie” di Stefano Massini, ed. Titvillus)

 

domenica 24 febbraio 2013

Madre dignità di Moni Ovadia

E' da poco uscito in libreria il nuovo libro di Moni Ovadia, dal titolo Madre dignità, edito da Einaudi, Stile libero.
Moni Ovadia, artista, cantante e interprete, attore, regista e capocomico, nato da una famiglia ebraico-sefardita in Bulgaria (ma che parla un milanese impeccabile, come lui stesso ama ripetere), declina il valore della dignità in ogni sua sfumatura e, dice, che appartiene a tutti, anche al peggior delinquente, il quale deve essere privato della libertà, ma non della propria dignità.
Madre dignità parla degli ultimi della Terra, dei poveri, dei diseredati, di tutti coloro i quali sono fuori dal mercato e dai diritti, ma che hanno un unico bene prezioso: quel valore che il rispetto per se stessi. La dignità, secondo Ovadia, è al fondamento dei diritti delle persone, altrimenti sarebbero (e sono) in balìa della schiavitù, della sopraffazione e del nichilismo.
Passando dall'analisi dei testi sacri, dei conflitti etnici, delle parole dei poeti fino ad arrivare alle storie quotidiane, l'autore dimostra come la dignità sia un valore universale che prescinde dalle origini, dall'etnie, dalle condizioni culturali e sociali perchè le domande che tutta l'umanità deve porsi sono semplicemente tre: Io dov'ero? Io cosa ho fatto? Qual è la mia responsabilità? Così la dignità (forse) è ancora salva.

La dignità umana è inviolabile ed è un valore che non ha prezzo. Non può esistere dignità sociale o collettiva senza dignità individuale della persona, così come non può esistere dignità della persona senza dignità sociale. La cosiddetta rivoluzione liberale, nel grembo delle sue derive mercantili, ha generato il più efficace e terrificante dei totalitarismi, e cioè il totalitarismo del denaro e del profitto, responsabile dei due più vasti e perduranti crimini della storia: il colonialismo e l'imperialismo. La micidiale deriva ideologica del sedicente liberismo ha fatto carne di porco della dignità della persona, nel suo aspetto individuale come in quello sociale, e i suoi sacerdoti si ingegnano cinicamente a persistere, giorno dopo giorno, in quest'opera nefasta”, dalla quarta di copertina.