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sabato 2 gennaio 2016

Stay human Africa: Cosa è successo in Africa nel 2015?

di Veronica Tedeschi

Liberia e Sierra Leone libere dall’ebola

La terribile epidemia è stata sconfitta dopo aver fatto ben 11.300 vittime. La notizia dell’abbattimento dell’epidemia ha fatto riversare nelle spiagge tutta la popolazione liberiana, che ha festeggiato per giorni. In Sierra Leone, un rapper locale ha inciso la canzone “Bye bye Ebola” che ha fatto ballare il presidente, i poliziotti e persino le suore.


 


Il nuovo presidente della Tanzania

Il 25 ottobre John Pombe Magufuli è stato eletto presidente della Tanzania. Già nei primi giorni di mandato ha iniziato a scrivere riforme per il paese come l’adozione di misure straordinarie per ridurre gli sprechi e massimizzare l’efficacia della spesa pubblica. Ha chiesto ai giovani tanzaniani di ripulire gli spazi pubblici delle loro città, come ha fatto lui stesso tra le strade di Dar Es Salam.

Le elezioni politiche in Nigeria

Nonostante le minacce di Boko Haram, le elezioni in Nigeria si sono svolte regolarmente e, per la prima volta dal 1999 (introduzione della democrazia multipartitica), il governo non ha ottenuto la maggioranza dei voti e dalla urne è uscito vincitore Muhammadu Buhari, ex dittatore convertito ai principi democratici. In Nigeria, per la prima volta, il potere è stato trasferito in modo pacifico nella speranza che questo possa essere un esempio per gli altri paesi africani.

Il terzo mandato di Pierre Nkurunziza

(Leggi anche: "Un presidente che non cede", "Elezioni non credibili" e "Africa: Cosa succede in Burundi?")

In molti paesi africani l’ostinazione dei propri presidenti a ricandidarsi contro la volontà dei propri cittadini e contro le proprie costituzioni, sta diventando la normalità e sta provocando un numero sempre più alto di vittime causate dalle proteste. Il caso più emblematico è sicuramente quello del Burundi con la candidatura al terzo mandato del presidente Nkurunziza ma altri Stati stanno seguendo questo esempio come il Congo con Denis Sassou- Nguesso. Tale pratica sta diventando oggetto di severe critiche in tutto il continente e in tutto il mondo.

Il nuovo presidente del Burkina Faso

(Leggi anche: “Cosa succede in Burkina Faso?”)

Il
Burkina Faso, ha eletto pochi giorni fa come nono Capo dello Stato del Paese africano Roch Marc Christian Kaboré, eletto il 29 novembre al primo turno delle elezioni presidenziali. Il suo insediamento pone fine al regime di transizione seguito alla caduta, in ottobre 2014, dell’ex Capo dello Stato Blaise Compaoré.

L’accordo di pace in Sud Sudan

L’accordo di pace, firmato il 26 agosto, non sembra aver cambiato molto nel paese, ancora scosso da scontri violentissimi e da un’inflazione galoppante. Il conflitto non sembra avere breve durate e molti sud sudanesi hanno lasciato il paese per rifugiarsi in Uganda o nella Repubblica democratica del Congo oientale.

Le nuove relazioni tra Cina e Africa

Lo scorso 4 e 5 dicembre, si è tenuto
il sesto Forum per la cooperazione Cina-Africa (FOCAC), che per la prima volta è stato aggiornato al livello di vertice e dopo quindici anni dalla sua istituzione ha avuto luogo in Africa, esattamente a Johannesburg.

La cooperazione tra i due continenti è in costante crescita e vede oltre tremila imprese cinesi operative nel continente africano; l’incontro a Johannesburg ha rappresentato l’apice dell’azione diplomatica che la Cina ha condotto nei confronti dell’Africa.



L’omosessualità non è più illegale in Mozambico

Il 29 giugno è entrato in vigore il nuovo codice penale del Mozambico, già modificato a dicembre scorso e che, come grande novità, contiene una proibizione della persecuzione giudiziaria contro gli omosessuali. Questa è una fresca boccata d’aria per la popolazione mozambicana che vive in uno degli stati in cui l’intolleranza è da sempre la meno influente rispetto ad altri Stati dell’Africa meridionale.

domenica 27 dicembre 2015

Lotta concreta alle mafie: le parole del Comitato Addio Pizzo


Addiopizzo è un movimento aperto, fluido, dinamico, che agisce dal basso e si fa portavoce di una “rivoluzione culturale” contro la mafia. È formato da tutte le donne e gli uomini, i ragazzi e le ragazze, i commercianti e i consumatori che si riconoscono nella frase “Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”.

Addiopizzo è anche un’associazione di volontariato espressamente apartitica e volutamente “monotematica”, il cui campo d’azione specifico, all’interno di un più ampio fronte antimafia, è la promozione di un’economia virtuosa e libera dalla mafia attraverso lo strumento del “consumo critico Addiopizzo”.

L'Associazione per i Diritti umani ha rivolto alcune domande ai membri del Comitato Addio Pizzo.

Risponde, per voi, Pico Di Trapani. Ringraziamo moltissimo il Comitato Addio pizzo.


 


Un comitato, il vostro, costituito da studenti: potete parlarci delle vostre competenze, dei motivi che vi hanno spinto e di come siete organizzati?

Siamo un gruppo di cittadini palermitani di età varia, abbiamo tutti intorno ai venti, trenta, quarant'anni e ci siamo ritrovati nel tempo a costruire un percorso dentro l'associazione convenendo sulla necessità di creare a Palermo, la nostra città, una rete che permettesse in ultima istanza ai commercianti e imprenditori vessati dal racket delle estorsioni mafiose, di denunciare in tutta sicurezza le violenze subite da Cosa nostra. Proveniamo da percorsi personali differenti, ma siamo uniti dall'adesione a principi comuni che si riassumono nella frase “Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”. Tutto nacque casualmente così, nel 2004, dal primo nucleo storico della futura associazione, che decise di condividere quella comunicazione con la città di Palermo affiggendo dappertutto, per le strade del centro storico, centinaia di adesivi che riportavano quel messaggio. Poi nel tempo i volontari sono aumentati e ci siamo potuti strutturare meglio, pianificando azioni che vanno nella stessa direzione e che ad oggi convergono su un'opera di sensibilizzazione nei confronti della cittadinanza e del mondo delle scuole, una comunicazione costante sul tema del racket e di ciò che concerne la lotta alla mafia, l'organizzazione di eventi e la promozione di una lista di consumo critico antiracket - consultabile sul nostro sito internte e tramite App - l'assistenza processuale e psicologica alle vittime del pizzo, etc.

Perchè l'estorsione è la “madre di tutti i crimini”?

Quando sosteniamo questo, riportiamo e quindi condividiamo l'idea espressa nel 1991 da Libero Grassi, che diceva al proposito: “L’estorsione è la madre di tutti i crimini perché è funzionale a stabilire, consolidare ed estendere il governo sul territorio rappresentato da una strada, una piazza o un quartiere. Il pizzo è manifestazione della signoria territoriale di Cosa nostra sulla città di Palermo. Con il pizzo la mafia si fa Stato”. Il pizzo, pur costituendo un'emergenza sociale ed essendo ancora oggi fortemente radicato come prassi criminale, non è per Cosa nostra e non ha mai costituito una fonte di reddito così alta, in rapporto al totale delle sue entrate. Ciononostante, è da sempre praticata dalle organizzazioni mafiose come strumento di affermazione del proprio potere e di riconoscimento della propria superiorità da parte della comunità locale vessata, che invece di unirsi e reagire accetta questa supremazia imposta con la violenza. Sta in questo il vulnus culturale su cui intendiamo agire, invitando gli altri palermitani e siciliani a riconoscere in noi stessi per primi i responsabili di questo potere mafioso nella nostra regione, e a reagire insieme di conseguenza.

Come si svolgono le vostre iniziative antiracket rivolte alle scuole?

Dal 2005 i nostri volontari incontrano studenti di ogni età, nella certezza che la scuola, bene comune prioritario, è laboratorio privilegiato per la lotta alla criminalità mafiosa e alla mentalità che ne sta alla base. Le scuole, luogo di incontro di culture differenti, possono e debbono educare il cittadino in un’ottica cosmopolita, quella di una società interculturale, finalmente libera. Gli incontri con gli studenti si svolgono nelle rispettive scuole o nella sede a noi affidata, un bene confiscato alla mafia, per questo stesso luogo di forte impatto simbolico. A fianco di docenti, studenti, genitori e dirigenti scolastici, che ringraziamo sentitamente, Addiopizzo in questi anni ha non solo inciso nella formazione di questi studenti, ma segnato, secondo noi, un momento unico e significativo nella storia della nostra città con le diverse iniziative e progetti di sensibilizzazione elaborati e attuati ogni anno, a dimostrazione di quanto la scuola possa essere determinante nel formare le coscienze dei giovani.

Quali appoggi e quali ostacoli avete incontrato durante il vostro lavoro?

Gli ostacoli maggiori provengono dal tentativo che portiamo avanti, di provare a scardinare la mentalità di chi è rassegnato all’idea che nulla possa cambiare e per tale approccio assume atteggiamenti di indifferenza, nella migliore delle ipotesi, o di acquiescenza nella peggiore, a fenomeni dai quali oggi ci si può davvero liberare. Ma si tratta di un lavoro per il quale bisogna ancora tanto faticare. Si tratta di sfide e ostacoli prettamente culturali. Non a caso la maggior parte degli operatori economici che hanno denunciato e che si sono avvalsi del nostro ausilio appartengono a generazioni di giovani - trentenni, quarantenni e cinquantenni che hanno forti resistenze culturali rispetto a fenomeni come quello delle estorsioni. Noi vogliamo sostanzialmente restituire normalità alla nostra terra, facendo in modo che chi resiste alle pressioni mafiose e clientelari possa proseguire il proprio lavoro senza ripercussioni sulla propria incolumità e sull’attività economica che esercita. La presenza mafiosa nell’economia siciliana è ancora forte. Il pizzo imposto ai commercianti, oltre a rappresentare la negazione di libertà importanti, come quella di impresa, è anche un pesante macigno che incide sulla possibilità dello sviluppo dell’economia isolana, distorcendone le regole del mercato e della libera concorrenza. Ma, oggi, esistono molti esempi positivi di riscatto che possono permettere di sperare in un futuro diverso, libero dalla criminalità organizzata e dai suoi disastrosi effetti. L'appoggio su cui contiamo proviene da questa rete che da anni, ognuno per la propria parte, stiamo contribuendo a tessere insieme.

sabato 26 dicembre 2015

Se in Danimarca tramonta l'Europa



di Adriano Prosperi (da La Republica)




UN pagamento anticipato delle spese di asilo e di assistenza. È una notizia che merita di essere attentamente considerata da tutti i cittadini europei. È un passo ulteriore nell'inedito esperimento di rapporti tra popoli migranti e popoli stanziali in atto ai nostri giorni.
Non del tutto inedito, tuttavia. Esso ci richiama alla mente quella tripartizione di ruoli che secondo lo storico Raul Hilberg si disegnò ai tempi del genocidio nazista e divise i contemporanei dei fatti tra carnefici, vittime, spettatori. Ci si chiede se sia possibile applicare questa tripartizione ai nostri tempi. Quali siano le vittime è evidente: in Europa attendiamo fra poco l'arrivo del milionesimo migrante per chiudere il bilancio del raccolto di questo anno. L'estate scorsa se ne attendevano ottocentomila e sembravano già troppi. Nel conto ci sarebbe da considerare anche quelli morti per via. All'Università di Amsterdam si censiscono i casi di "Death at the borders of Southern Europe". È l'elenco dei caduti di una guerra senza fine. A differenza di quelli delle guerre mondiali europee del ‘900 questi morti sono rappresentanti con una infografica fatta di tanti puntini dai colori diversi: in blu chiaro quelli identificati, in blu scuro quelli senza nome. Soldati ignoti della grande guerra in atto. Ma le vittime non sono solo quelle morte in viaggio. La strada dell'Europa è dura e piena di imprevisti anche per via di terra. I piedi dei bambini e delle donne migranti fanno pensare a quelli della sirenetta di Andersen. La nostra Europa così poco unita sembra divisa solo dalla diversa asprezza delle prove a cui sottopone i dannati della terra. E gli europei, cioè noi, sembrano impegnati in mutevoli giochi di ruolo: oggi carnefici ieri spettatori. Pronti comunque anche a livello politico ufficiale a rigettare responsabilità sul vicino e sempre protetti da chi caccia le cattive notizie nelle pagine interne dei giornali: come quella dei cinque bambini annegati due giorni fa nelle acque turche. Bambini sì, ma migranti. Fossero stati figli di gitanti ne avremmo conosciuto nomi e nazionalità e visto le foto in prima pagina. Chi non ricorda il corpo del piccolo Aylan, quella sua t-shirt rossa e quei pantaloncini blu scuro? La donna che scattò la fotografia disse di essersi sentita pietrificata: e sembra che il premier inglese Cameron dopo averla vista abbia modificato la durezza delle sue posizioni sull'immigrazione. Ma oggi tira un vento diverso. Impallidiscono i colori delle buone intenzioni dell'estate passata . Quelle della Merkel, che permisero a tutti i tedeschi per una volta almeno di sentirsi buoni, per ora hanno incontrato più ostacoli che consensi. Alla prova dei fatti contano le mura, quelle materiali e quelle legali e burocratiche che sono state alzate davanti a ogni frontiera, specialmente ma non solo a quella orientale dell'Europa, dove intanto la Turchia svolge il lavoro sporco ma ben retribuito di cane da guardia. È bastata l'ombra del terrorismo, l'idea che sui barconi arrivino da noi dei fanatici votati al martirio stragistico e la paura ha fatto il resto, gonfiando le vele dei partiti xenofobi, cambiando di colpo il paesaggio politico francese.
Il rapporto tra parole e fatti può essere misurato da quello che è accaduto il 18 dicembre. Era il giorno della Giornata internazionale di solidarietà con i migranti, fissato a ricordo della data in cui l'Assemblea generale delle Nazioni Unite adottò nel 1990 la Convenzione internazionale per la tutela dei diritti dei migranti. Ma proprio in quel giorno, sulla festa delle buone intenzioni è calata dalla Danimarca l'ombra cupa del progetto di legge che abbiamo ricordato. In quel paese di una democrazia e di un welfare idoleggiati non solo dai migranti si avanza la legge che promette di essere la soluzione finale del problema. Il governo, espresso dal partito xenofobo Venstre, ha già fatto parecchio in questo senso.
Ora sta progettando un vero salto di qualità. Chi si presenterà alle frontiere sarà perquisito e si vedrà sequestrare danaro e ogni oggetto di valore. Si lasceranno le fedi nuziali, si dice: e non si arriverà certo a strappare ai migranti i denti d'oro, come i nazisti facevano alle loro vittime. È il danaro che conta: è questa la misura unica del valore nell'età del neoliberismo.
Anche se la violenza sui corpi non è una frontiera insuperabile. Proprio in questi giorni le cosiddette autorità europee hanno rimproverato quelle italiane per le mancate registrazioni delle impronte digitali dei migranti: e hanno imposto di permettere l'uso della forza per la raccolta delle impronte e di "trattenere più a lungo" i migranti che oppongono resistenza.
Dunque, guardiamo alla sostanza, ai duri fatti di un conflitto tra le ragioni della più elementare umanità e l'avanzare strisciante di un ritorno preventivo a misure che sono iscritte nelle pagine peggiori del nostro recente passato. Tocca a tutti noi come spettatori decidere se voltare altrove lo sguardo o resistere attivamente al degrado della realtà - questa sinistra realtà europea dei nostri giorni. I valori che sono in gioco non sono solo i soldi e gli oggetti preziosi dei migranti: sono quelli immateriali che dovrebbero costituire il fondamento di una costruzione europea oggi tutta da ripensare.

 

mercoledì 23 dicembre 2015

Burundi e Nigeria: tra Passato e Presente




Burundi
Mancato impegno dei governi africani nella gestione della crisi in Burundi


L'Associazione per i Popoli Minacciati (APM) esorta i governi africani a impegnarsi maggiormente per una soluzione politica della crisi in Burundi e per la tutela della popolazione civile dalle violazioni dei diritti umani. Non mancano certo gli appelli alla pace e al dialogo delle organizzazioni non governative e dei singoli politici, ma sia l'Unione Africana (UA), sia la Comunità dell'Africa orientale (EAC) sia la Conferenza Internazionale sulla regione dei grandi laghi sembrano muoversi con troppa esitazione, senza molte idee e con poca coerenza. Gli interessi nazionali , la concorrenza tra di loro e la mancante neutralità così come la mancanza di volontà politica e la divergenza di opinioni in questioni basilari intralciano ogni tentativo di trovare una soluzione politica per la crisi in Burundi. I governi africani hanno perso un'occasione per mostrare responsabilità in una situazione di crisi.

Il fallimento dell'EAC è probabilmente l'esempio più eclatante della mancata assunzione di responsabilità dei governi africani. Nel vertice dell'EAC previsto per lo scorso 30 novembre 2015 la presidenza dell'organizzazione sarebbe dovuta toccare al Burundi. Per evitare discussioni interne e non urtare il discusso governo del Burundi scegliendo un altro paese per la presidenza, l'EAC ha semplicemente rimandato il vertice a data da definire. L'atteggiamento con cui si è scelto di mettere la testa nella sabbia piuttosto che affrontare i problemi, certamente non può contribuire in modo costruttivo alla risoluzione della grave crisi che scuote il Burundi.

Anche l'Unione Africana (UA) ha per mesi mantenuto una posizione di attesa. Il presidente ugandese Yoweri Museveni incaricato dall'UA di mediare per un dialogo in Burundi sembra invece essere occupato più con la propria campagna elettorale che con la crisi in Burundi e la sua non sembra essere una posizione neutra. Il dialogo in questo modo non fa progressi. Inoltre nei colloqui finora tenuti sulla crisi in Burundi non si è mai tenuto conto della situazione della popolazione civile. Nonostante l'UA abbia deciso delle sanzioni contro il Burundi e il Consiglio di Sicurezza dell'Unione Africana abbia in ottobre 2015 proposto di prepararsi a un intervento delle truppe di pace africane, tale intervento rischia di creare maggiori tensioni per la mancata neutralità dei paesi vicini del Burundi. Inoltre non è chiaro se la missione di pace africana voglia far impiegare le truppe dell'"African Capacity for Immediate Response to Crises (ACIRC)" o dell'"African Standby Force (ASF)". Non manca certo il sostegno finanziario a entrambe le truppe, ma loro efficienza in situazioni di crisi è più che dubbia.


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IL DOCUMENTARIO “DEVIL COMES TO KOKO” al MUDEC di Milano






DEVIL COMES TO KOKO”, che si terrà all'Auditorium del Mudec mercoledì 23 dicembre 2015 alle ore 19.00.


Il Mudec - Museo delle Culture - presenta “Devil comes to Koko”, il documentario prodotto da Fabrica - centro di ricerca sulla comunicazione di Benetton Group - nell’ambito del programma di eventi a cura del Forum della Città Mondo.
Il documentario si concentra su due brutali episodi avvenuti in Nigeria, visti attraverso lo sguardo di Alfie Nze, regista teatrale nigeriano trasferitosi in Italia negli anni novanta.
Il film narra della sanguinosa invasione inglese di Benin City del 1897 e dello scandalo dei rifiuti tossici scaricati nel 1987 nel porto della città di Koko.
A partire dai due eventi drammatici, il regista percorre un viaggio alla ricerca di radici, di complessità intime, visioni oniriche e corto circuiti tra comunità locali e politiche internazionali.
La direzione creativa del progetto è di Alfie Nze, regista alla sua prima opera e già vincitore nel 2013 del Premio Mutti Amm, premio dedicato ai registi migranti attivi in Italia, e Cineteca di Bologna.
Prodotto da Fabrica, da sempre luogo di sperimentazione, di confronto, di crescita culturale e attento all'espressione libera di ogni arte.

La proiezione, della durata di circa 50 minuti, sarà ad
ingresso libero fino ad esaurimento posti, con prenotazione attraverso la piattaforma eventbrite al seguente link:


http://www.eventbrite.com/e/devil-comes-to-koko-proiettato-al-mudec-tickets-20033760517


venerdì 20 novembre 2015

martedì 24 novembre ore 17.30
 
presso il MUDEC (Museo delle culture di Milano - VIA TORTONA 56)


Dare un calcio alla povertà… in Brasile



Proiezione del documentario “Avenida Maracanà” con l’intervento degli autori.







a cura di Associazione per i Diritti Umani 


Rio de Janeiro. Mentre gli occhi del mondo sono puntati sul Mondiale di calcio e le proteste ad esso legate, le gioie e i dolori di un paese per la propria Nazionale fanno da sfondo alle sofferenze e agli affetti di una famiglia che vive in una favela. L’occhio della macchina da presa documenta quello che accade, lo riprende, lo registra e ce lo mostra, senza filtri, senza parteggiare.
A presentare e commentare il documentario intervengono Stefano Bertolino, Anna Cordioli, Francesco Moroni Spidalieri, filmaker, registi e produttori. Coordina Alessandra Montesanto, vicepresidente dell’Associazione per i diritti umani e critico cinematografico.

venerdì 13 novembre 2015

La legge del mercato: un nuovo film dalla Francia riflette sulla crisi del lavoro





In Italia è uscito con il titolo La legge del mercato, il titolo anglofono è The measure of a man e quello internazionale recita A simple man: tutti titoli adatti per descrivere, in poche parole, quello che sarà il contenuto dell'ultimo lavoro di Stèphane Brizé grazie al quale Vincent Lindon ha vinto il premio per la migliore interpretazione maschile all'ultima edizione del festival di Cannes. Lindon è qui Thierry Taugordeau, un uomo sulla cinquantina, sposato e con un figlio disabile. L'attore presta il suo volto e il suo sguardo ad una persona che procede per inerzia, che ha perso il lavoro presso un'impresa in cui ha svolto l'attività per venticinque anni, ha poi frequentato molti corsi di formazione, ma non riesce a ricollocarsi nel mondo professionale. Fino a che, un giorno finalmente, trova un impiego come addetto alla sicurezza in un supermercato. Accetta, anche se si tratta di fare un passo indietro di carriera, ma il problema non sarà questo: il vero problema si porrà nel momento in cui Thierry dovrà denunciare i suoi stessi colleghi oppure le persone che non hanno abbastanza denaro per pagare i prodotti che vorrebbero acquistare.

Lo spettatore entra lentamente nella vita del protagonista e nella società capitalistica: la quotidianità di Thierry si va a scontrare con la crisi economica che colpisce, in maniera indistinta, giovani e meno giovani, professionisti e operai. Una lentezza quasi agonizzante che si allinea alla freddezza delle inquadrature, delle luci e dei paesaggi, tipici di quelle aree metropolitane in cui la povertà si sta divulgando, portando via sogni, sicurezze e voglia di vivere.

Grigio è il volto di Thierry, grigi i volti delle altre persone, tutti attori non professionisti per ricreare sullo schermo la verosomiglianza delle situazioni che si vogliono denunciare; i luoghi fisici sono spesso strade in cui l'uomo cerca un lavoro, le agenzia di collocamento, il supermercato, tutti “non-luoghi” come li definisce Marc Augè, ovvero luoghi di transito dove gli individui camminano, si spostano in cerca di qualcosa oppure dove trascinano la propria esistenza senza creare legami affettivi profondi. Nemmeno in famiglia, Thierry può garantire la propria presenza, o per lo meno una presenza serena: prima perchè è rimasto senza sostentamento e poi perchè si trova a dover affrontare un dilemma etico molto grave.

Il dilemma è, ovviamente, posto anche al pubblico: cosa faremmo al posto di Thierry di fronte a una persona povera che ruba la merce al supermercato? Come dire a un nostro collega che verrà lincenziato, quando sappiamo bene cosa significhi rimanere senza un posto?

L'empatia e l'dentificazione sono meccanismi che dovrebbero scattare grazie all'Arte cinematografica: e forse il regista ha usato il proprio mezzo per far riflettere sulla tragedia che molti, troppi stanno vivendo sulla priopria pelle, anche se i proclama dei governi raccontano una storia molto diversa. Nel film viene rappresentata la solidarietà tra poveri e la guerra tra poveri e, al di sopra di tutti, il Mercato, il Denaro, le nuove divinità a cui siamo costretti ad immolarci anche a scapito della nostra dignità: le telecamere sono appostate ovunque, spiano e registrano ogni parola e ogni movimento, estensione di un Potere occulto, strisciante e imperante. Niente più tempo libero, svaghi, giochi: tutto è ridotto alla sfida, all'eliminazione, alla concorrenza. Perchè in questo tipo di società non c'è più spazio per le relazioni dirette, per i sentimenti e neanche per la salute. Una persona è davvero soltanto considerata come “capitale umano”, per citare un film di Paolo Virzì, e non c'è bisogno di scomodare teorie marxiste o di ricordare Chaplin: basta guardarsi intorno.

Il finale della pellicola rimane aperto perchè siamo nel pieno della crisi, perchè ancora non è migliorato nulla e, perchè, forse nessuno di noi ha la risposta giusta alla domanda: sarei vittima o carnefice?




martedì 27 ottobre 2015

Carlos Pronzato: un regista militante in Sudamerica



L'Associazione per i Diritti Umani ha intervistato per voi il regista Carlos Pronzato: figlio di piemontesi, si è trasferito con la sua famiglia in Argentina. Viaggiatore e documentarista indipendente racconta, con i suoi lavori, l'America latina di oggi, i cambiamenti, le crisi, le conseguenze sulle popolazioni delle scelte economico-politiche del Nord del mondo. 
 
 



Ecco le sue parole. Ringraziamo moltissimo Carlos Pronzato per la sua disponibilità.



Il suo è stato definito un cinema "militante": è corretta questa definizione?

 

Questa definizione è in un certo senso corretta se riferita alla parte più rappresentativa della mia opera cioè la descrizione dei movimenti sociali attuali in costante lotta contro l’oppressione del capitale e degli Stati. Un cinema documentale fatto di interventi sociali e politici a lato dei movimenti insurrezionali in America Latina i cui protagonisti sono in maggioranza i militanti; da questo deriva l’espressione “cinema militante”, un cinema che beve alle fonti ispiratrici degli anni ‘60 ed è un riflesso di questa lotta che si estende fino ai giorni nostri, soprattutto nelle strade. Si può dire che è anche militante da un punto di vista economico giacchè è realizzato con un risorse minime attraverso l’appoggio di enti, organizzazioni e contributi di singole persone; e direi anche che forse è ancora più militante per l'abbandono consapevole di altre possibilità estetiche, diciamo così, di lavorare in un ambiente economicamente più vantaggioso, ma in questo modo il regista si prende un impegno politico con il suo tempo.



La sua è una famiglia di artisti: l'arte dei suoi genitori ha influito sulle scelte per il uo lavoro? L'estetica, gli argomenti, etc...



Certamente! L'influenza è stata totale, innanzitutto nel campo artistico, nella conoscenza e nel mondo dell’estetica alleata sempre alla sua funzione etica e sociale e come possibilità estetica e funzionale. Soprattutto nel campo del teatro, della letteratura e del cinema. In particolare nella questione cinematografica che sviluppo io, sono stati cruciali gli anni delle mie esperienze in molti Paesi dell'America Latina prima di stabilirmi in Brasile e anche l'influenza di uno dei film interpretato da mio padre, Victor Proncet, che è stato anche sceneggiatore e autore del racconto che ha dato origine al film: “I traditori” del regista desapararecido Raymundo Gleizer, regista e film icona del cinema politico di tutto il mondo.



E' vero che il Brasile sta vivendo una fase di crescita economica? E allora perché molti criticano il governo attuale?



Il Brasile ha attraversato un periodo di crescita economica spettacolare negli ultimi anni, ed è riuscito a superare i tempi duri dopo il 2008, ma adesso è entrato in una fase di recessione e nella crisi globale. Questo è un dato fondamentale anche per capire il rifiuto nella popolazione contro le indicazioni del governo del PT e la sua alleanza di mera governabilità con altri partiti (tra cui anche figure storiche della politica brasiliana) e non solo di centro-sinistra. Un governo socialdemocratico che ha saputo distribuire le prestazioni sociali durante i periodi positivi (ma in parallelo a questo è necessario registrare i profitti record delle banche e delle multinazionali presenti nel Paese), ma che si è allontanato dalle sue basi sociali e dai movimenti che gli hanno dato la possibilità di accedere al potere politico, mentre il potere economico resta intoccabile. Le critiche e le grandi mobilitazioni che ci sono ora in Brasile contro il governo sono espressioni di una disputa elettorale che punta al 2018, di contenuto politico molto basso, interpretato dai settori di una élite che ha perso i settori chiave dello Stato per il loro business e che ora sono manipolati da un altro gruppo politico. Nel mese di giugno 2013 ci sono state mobilitazioni molto più potenti ed esplosive nel contenuto socio-politico che puntavano molto oltre al governo di turno, puntavano a un sistema, a un ordine capitalistico che sembra immutabile e continua a distruggere il pianeta, come già successo in varie parti del mondo. Ma quelle manifestazioni di ribellione legittime e autentiche alla ricerca di qualcosa di nuovo continuano ad essere offuscate dalle marce costanti e padronali dal profilo elettorale. Qui si fa riferimento a una “elezione Fla-Flu” (squadre di calcio brasiliane molto popolari), come fosse una disputa calcistica.



In generale, quali sono i rapporti tra l'America latina e il Nordamerica (soprattutto per quanto riguarda l'accoglienza dei migranti) ?



Le relazioni tra l'America Latina e il Nord America, in termini di migrazione, sia obbligatoria che volontaria, sono molte. Entrambe le aree geografiche hanno ricevuto milioni di schiavi dall’ Africa, uomini e donne, che hanno costruito questi Paesi, e al di là dei loro contributi culturali e delle relazioni sociali, il razzismo ha avuto risposte diverse ma tutte terribili fino ad oggi, per la loro dignità. A proposito di gruppi provenienti da altri luoghi, me compreso, come discendente di italiani (padre italiano) e galiziani (madre nipote di galiziani), la loro presenza è stata determinante nella costruzione di un'identità (ancora in formazione) realizzata sulla distruzione dei popoli indigeni di entrambe le regioni. Questo è stato un incendio, letteralmente, ma bisogna prendere in considerazione anche gli aspetti culturali positivi. Qui, nel sud, ci sono tanti che difendono un’unificazione latino-indo-afro, unificando tutte le radici, le origini e le terre in cui vivono, ma ci sono anche altri che si palesano proprio nel campo economico e nel raggio d’azione americano. A seconda della vicinanza geografica agli Stati Uniti, questa influenza sarà maggiore o minore. Per alcuni, questa vicinanza, come ha detto una volta lo scrittore messicano Carlos Fuentes, non è così benefica: “Tanto lontani da Dio e tanto vicini agli Stati Uniti".



Perché ha deciso di raccontare, nei suoi film, le trasformazioni sociali del sudamerica?


Credo di aver risposto a questa domanda sopra quando ho fatto riferimento agli anni in cui sono vissuto in altri Paesi dell'America Latina. A quel tempo non mi dedicavo alle mie occupazioni attuali, ma certamente è stato un periodo di formazione, di osservazione sul campo, fondamentale per il mio processo di sviluppo estetico e penso soprattutto per la ricerca di un’etica che si trasformi in proposta di lavoro e di vita. Queste trasformazioni stanno procedendo con una dinamica esaustiva e col riconoscimento di determinati obiettivi specifici, la scelta di temi specifici da essere affrontati dal genere documentario è una decisione praticamente quotidiana. E soprattutto oggi, quando ogni azione politica è immediatamente postata sul web, il nostro mestiere e professione di documentaristi è affinare gli strumenti di originalità creativa per continuare a costruire narrazioni, esempi di lotta per tutti e soprattutto per coloro che dedicano la loro vita per salvaguardare i diritti inalienabili dell’Umanità, costantemente vilipesi dal capitale e dai suoi portavoce della politica istituzionale.

sabato 17 ottobre 2015

Accesso ai servizi sanitari in Africa

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 



di Veronica Tedeschi




La cartina qui in alto rappresenta l’accesso ai servizi sanitari in tutta l’Africa.


Inutile precisare che la situazione è critica per la maggior parte dei territori africani, soprattutto considerando il confronto con i Paesi europei in cui la percentuale del grafico è del 100% e questo indica che l'accesso è ottimale, o quasi.


Come si può notare, gli Stati che si trovano in condizioni più gravi interessano l’Africa subsahariana: le motivazioni sono molteplici, ma sicuramente le guerre civili che dilaniano questi Paesi non permettono la crescita istituzionale e sanitaria.



I pochi ospedali esistenti sono situati solo nelle grandi città, dove c’è sovraffollamento ed inoltre si presentano come agglomerati molto estesi e privi di qualsiasi struttura.

I medici sono circa 0,8 per mille abitanti e tutte le spese sono a carico dei malati, spesso bambini, donne in gravidanza e anziani.

Anche i farmaci hanno un costo alto e, nella maggior parte dei casi, sono di qualità scadente; altro problema è che molti farmaci provengono dall’Occidente e quindi non sono adatti per le malattie tropicali (uno studio del 1999, infatti, evidenzia che solo 13 dei 1233 farmaci in commercio in Africa sono creati per curare malattie tropicali).

 
 
A tutto questo si aggiunge che il 52% del continente africano non dispone di acqua potabile e il 90% delle malattie viene trasmesso proprio attraverso l'acqua.

Chi ci rimette, naturalmente, è la popolazione civile che, nella maggior parte dei casi, è costretta a scappare e a migrare illegalmente nei territori limitrofi.

 







venerdì 16 ottobre 2015

La crisi dell'attività agricola nelle opere di Moira Ricci



Un progetto intitolato “Capitale terreno” racchiude due mostre interessanti dell'artista Moira Ricci, nata nella campagna maremmana e da sempre fedele alla cultura della (sua) terra. Moira Ricci è presente a Milano – presso lo Spazio Oberdan, fino al 18 ottobre 2015 – con due lavori: Da buio a buio e Dove il cielo è più vicino in cui, attraverso fotografie, video, installazioni, raccoglie narrazioni, racconti popolari, testimonianze di un mondo, quello contadino, in via di estinzione. La sua arte fa riflettere sulle nuove forme di economia, sulla fine della tradizione, sulla crisi contemporanea, attraverso metafore e suggestioni che affondano le radici nel Passato e nell'attualità.



Abbiamo rivolto alcune domande a Moira Ricci e la ringraziamo.






Qual è il filo conduttore tra la civiltà contadina e la contemporaneità?



Ogni civiltà nasce contadina. Mi sembra che l'economia mondiale, basata su un capitalismo che pensa solo ai consumi, non sia più in grado di preservare non solo la libertà degli individui e il loro benessere, ma anche la salute del pianeta stesso. Sarebbe prezioso recuperare un po' della consapevolezza contadina per ritrovare un equilibrio tra gli uomini e il mondo che abitano.



Quanto è importante il recupero della Memoria per porre le basi di un futuro di uguaglianza e di giustizia (anche nella redistribuzione dei prodotti della terra)?



Penso che sia fondamentale tener conto della memoria. Se si conoscesse bene la storia, non si continuerebbe a sbagliare.



Quale sarà il futuro dell'attività agricola in Italia?



Purtroppo io ho una visione pessimistica per l'imminente futuro. Adesso siamo dentro al passaggio da un'era all'altra e l'impatto con il cambiamento è stato forte. Credo che sarà un periodo lunghissimo e molto doloroso. Anche l'agricoltura in questo momento è in piena crisi grazie alle leggi sempre più stupide da parte dei governi e delle multinazionali e grazie al quasi totale disinteresse sull'argomento da parte dei mezzi d'informazione.




Ci può anticipare una leggenda che ha raccolto durante le ricerche che ha effettuato per il suo lavoro?

 

Quelle che ho conosciuto durante le ricerche sono “l'uomo-cavallo” che aveva una metà del corpo somigliante ad un equino e “la donna col foco al culo” (scusate il termine ma la chiamavano così), una signora che, a seguito dell'incendio alla sua casa nella collina vicino a casa mia, è scesa di corsa giù verso il mare tutta infuocata. Era diventata un personaggio pauroso per i bambini della zona degli anni '50-'60 perchè gli adulti usavano questa storia per intimorirli. Le storie di cui parlo invece in mostra sono le uniche quattro che conoscevo fin da piccola.

martedì 13 ottobre 2015

L’ ISLAM NUDO: verso una “Umma dei consumatori”?

di Monica Macchi




Nel libro di Lorenzo Declich, L'Islam nudo (edito da Jouvence), l’Islam inserito nella globalizzazione si trova a convivere con le regole dell’economia di mercato che spingono per orientarlo verso fattori identitari. Si cercano di cancellare differenze inevitabilmente insite in un universo che conta più di 1 miliardo e 600.000 persone creando un nuovo immaginario in cui viene meno la tradizionale dimensione comunitaria a favore dell’individualismo capitalista. Dall’etichettatura halal, ai cosmetici, alle app islamiche con gli orari delle preghiere o le parti del Corano da leggere durante il Ramadan, fino alla finanza islamica e all’architettura (interessante la parte sulla Mecca dove è stato costruito il secondo grattacielo più alto al mondo o sulle “meraviglie” di Dubai) l’identità islamica viene ridefinita in una individualizzazione dell’esperienza religiosa. Ma mentre la guerra fredda era caratterizzata dalla lontananza dicotomica “noi/loro” separati addirittura da una “cortina di ferro”, la separazione tra mondo islamico e non-islamico segue linee più complesse. Tradizionalmente la cultura islamica distingue tra dar al-Islam (i territori che sono sottoposti all'imperio politico e giuridico dell'Islam), e dar al-harb (tutti gli altri). Ma già da tempo le migrazioni, e in misura minore, le conversioni hanno fatto venir meno questa dicotomia ed è stata proposta la categoria intermedia di dar al-amn, cioè un territorio in cui i musulmani, si ritrovano ad essere minoranza. E se da un punto di vista teologico-giuridico si stanno rivisitando le fonti scritte per restare fedeli alla propria coscienza religiosa in un contesto legislativo laico (è stata creata la categoria di “islam europeo” di cui Tariq Ramadan è considerato il più autorevole esperto, ancora più ascoltato e considerato controverso in quanto nipote di Hasan al Banna, il fondatore dei Fratelli Musulmani in Egitto. Per chi volesse approfondire queste tematiche ecco il link al sito personale di Ramadan in costante aggiornamento http://www.tariqramadan.com/) da un punto di vista economico vivere l’Islam in una terra non islamica va a cambiare gli stili di vita dei singoli musulmani ma anche dei convertiti che spesso non hanno un profondo background religioso. Ecco quindi che i musulmani diventano il target dell’emergente mercato borghese globale che da un lato corrode la dimensione religiosa mistificandola in sterili e pericolosi stereotipi che identificano arabi-musulmani-terroristi come fossero sinonimi, dall’altro li blandisce rendendoli docili consumatori facilmente manipolabili.


sabato 10 ottobre 2015

Ministero dell’Economia: stabilito l’importo per il rilascio del nuovo documento elettronico per cittadini stranieri



(da ProgrammaIntegra.it)


Dal 24 settembre 2015 è entrato in vigore il nuovo documento elettronico per cittadini stranieri, apolidi e titolari di protezione internazionale, e il Ministero dell’Economia e delle Finanze, con il decreto ministeriale del 14 settembre 2015, ha determinato il nuovo importo delle spese a carico dei soggetti richiedenti.

Il documento di viaggio viene rilasciato a apolidi, titolari di protezione internazionale e cittadini stranieri, che sono nell’impossibilità di farsi rilasciare un passaporto dalle autorità dei loro Paesi d’origine.

I Regolamenti del Consiglio Europeo hanno imposto l’adeguamento al formato elettronico, al fine di rendere questo documento più sicuro, difficilmente falsificabile.

Il nuovo documento è stampato dall’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, ha 32 pagine, è dotato di microchip e sono memorizzate le immagini del volto e due impronte digitali del titolare.

Il documento di viaggio viene rilasciato dalla Questura territorialmente competente al rilascio del titolo di soggiorno.

Dal 24 settembre non sarà più possibile emettere i precedenti documenti in formato cartaceo.

Il nuovo documento ha un costo di € 42,22 e all’atto di presentazione della richiesta di rilascio deve essere consegnata la ricevuta di versamento su bollettino di conto corrente n.67422808 intestato a: Ministero dell’Economia e delle Finanze – Dipartimento del Tesoro.





Ministero Dell’Economia e delle Finanze_nuovo documento di viaggio_DM 14 settembre 2015

Per saperne di più consulta le schede tematiche sul permesso di soggiorno

Leggi anche:

Sanatoria 2012: l’Avvocatura dello Stato chiarisce quali sono i documenti validi per dimostrare la presenza in Italia


martedì 6 ottobre 2015

Te lo ricordi il TTIP?




di Mayra Landaverde



Me lo ricordo il TTIP messicano. Si chiamava TLC “Tratado de Libre Comercio” .
Lo avevano scritto sui libri che usavamo alle elementari. Libri che lo Stato distribuiva gratuitamente a tutti i bambini e bambine del Paese. Il Messico ha una popolazione attuale di 119.715.000 persone.
Nel 1994, quando è entrato in vigore il TLCAN (Tratado de Libre Comercio con America del Norte) eravamo in 93.059.000, di cui un buon 28% era costituito da bambini. Io avevo 9 anni e frequentavo la scuola pubblica dove si sono incaricati di lavarci per bene i nostri piccoli cervelli. Ci dicevano che il TLC avrebbe portato tantissimi vantaggi al nostro Paese, avrebbe creato posti di lavoro, si sarebbero abbassati i prezzi della merce, avremmo avuto un’ ampia scelta dei prodotti più svariati che non immaginavamo neanche. Insomma questo TLC era proprio una figata!
E così andavamo in giro tutti quanti a parlare bene del TLC perché avrebbe portato un sacco di cose belle in Messico, saremmo diventati moderni come i nostri carissimi vicini statunitensi.
Si! Meno male che il Presidente della Repubblica, Ernesto Zedillo, firmò questo trattato con gli Stati Uniti e il Canada: ci voleva proprio, visto che ci leccavamo ancora le ferite del cambio di moneta del 1992 grazie al Presidente Carlos Salinas de Gortari. Ci voleva proprio una bella notizia. Col cambio della moneta i miei genitori hanno perso la casa e non sono più riusciti a pagare la macchina. Era una macchina bellissima, moderna perché eravamo benestanti. Eravamo.
Il clima del Paese era di una depressione collettiva, tutti gli adulti erano tristi, avevano perso le case, il lavoro, le macchine. Tutto. Così lo Stato pensò bene di dire a tutti i bimbi che questo TLC avrebbe fatto ritornare il sorriso sulla faccia dei nostri genitori. Tornavamo a casa entusiasti a parlare di questo trattato che il nostro lungimirante Presidente stava proprio per firmare.
Non vedevamo l’ora di poter comprare tutte le cose che qua non c’erano. Beh, la verità è che qua le cose c’erano, eccome. Ma non è lo stesso: sapete il fascino dei prodotti che vengono dagli Stati Uniti, sì sì proprio loro...Gli Stati Uniti di America, quelli dei Mc Donald’s, dei Burger King dei Kentucky Fried Chicken. Stavano arrivando! Loro, quelli di Monsanto e il loro maiz transgenico.
Mi ricordo benissimo la prima volta che sono entrata a Wal Mart. Mi sono trovata con una scelta ampissima di prodotti che guardavamo solo nei film: pizze surgelate, hamburger surgelati, involtini primavera surgelati. Un mondo del surgelato in questi corridoi lunghissimi illuminati in un modo strano, un po’ come i casinò con delle luci che ti fanno perdere la percezione del tempo. Quando stai lì, vuoi solo comprare cibo. Mi ricordo ancora quanto ero rimasta stupita di queste angurie luccicanti e perfette, tutte ma proprio tutte erano della stessa uguale misura e stavano benissimo sugli scaffali. I pomodori erano rossi rossi e luccicanti, le carote le uve, le mele. Era tutto luccicante e perfetto. C’erano anche gli avocadi, sì, avocadi israeliani. Ma, aspetta la parola avocado viene dal nahuatl ahuacatl lingua degli aztechi. Perché l’avocado è messicano,è nostro. Invece gli avocadi di Wal mart venivano da Israele. Niente di sorprendente per una città come la mia dove c’è un grande parco di nome Ben Gurion.
Dal 1994 in poi il Messico si è riempito di questi grandi supermercati e si è anche riempito di obesità e diabete.
Tutto è cominciato negli anni '90 quando Wal Mart acquisì il 50% dei supermercati diciamo messicani Bodegas Aurrera che comunque sono stati fondati da uno spagnolo. Con l’entrata in vigore del TLC, Wal Mart è riuscito a comprare tutto: Aurrera, Superama, Sam’s, Suburbia e Vip’s e ha gradualmente aperto i Wal mart Supercenter e i Sam’s Club. Tutti supermercati all’ingrosso di cibo spazzatura.
Nel mondo ci sono 670 millioni di obesi. Messico al primo posto. Anche in obesità infantile.
Prendiamo un esempio. Una delle bibite più famose in Messico, escludendo ovviamente la Coca Cola è questa: Manzana Lift. Fra gli ingredienti ci sono in ordine: acqua, zucchero e succo di mela, lo dice il nome stesso della bibita manzana che vuol dire mela. Peccato che il succo di mela sia solo l’1%. La bibita ha 144 kcal. Considerando che a pranzo ne bevi al meno 2 se non 3 bicchieri… ecco che arriva il diabete. Il 99% della popolazione messicana (sì avete letto bene!) consuma Coca cola quotidianamente. Cioè, ogni messicano ne beve almeno 775 bottiglie all’anno, ½ litro al dì. Quando abitavo ancora in Messico bevevo almeno 2 lt di Coca cola al giorno. Mi costava di meno dell’acqua. Perché noi compravamo a Wal mart i pacchi giganteschi di Coca cola. Mio nonno è diabetico ed io ho avuto dei seri problemi gastrointestinali da giovanissima.
La principale causa di morte nel mio Paese è il diabete, segue l’obesità.
Il Messico è maiz. Noi siamo il popolo del maiz. Io non riesco proprio a concepire la mia vita senza. E’ sempre stato il sostento e la base dell’alimentazione dei popoli azteca, maya, zoque, zapoteca, purhèpecha, totonaca ecc.
E voi penserete che mai e poi mai potremmo importare il maiz.
Il TLCAN ha permesso, per fare soltanto un esempio, a Monsanto di venderci il loro maiz transgenico. A partire dal 1994 l’importo di maiz statunitense è aumentato fino ad arrivare a 6 milioni di tonnellate.
Nel 1995 il bilancio destinato all’agricoltura era del 6.4%. Nel 2000 del 2.9%. Lo Stato ha lasciato morire di fame ai 25 milioni di contadini che vivevano grazie alla coltivazione di maiz. Ora tutte queste persone sono diventate consumatrici di maiz contaminato e più del 75% vive sotto la soglia di povertà.
Si, me lo ricordo bene il TTIP.


sabato 3 ottobre 2015

Cosa succede in Burkina Faso?



di Veronica Tedeschi




Il Burkina Faso, sbocciato da popolazioni migrate dal Ghana settentrionale, nel 1896 venne conquistato dai francesi con la presa della capitale Ouagadougou divenendo un protettorato francese. Gli abitanti del nuovo stato coloniale francese, durante la Prima guerra mondiale, combatterono nei battaglioni della città europea. Il 23 luglio 1956 la Francia iniziò a riorganizzare le proprie colonie d'oltremare cominciando ad assegnare loro un maggiore grado di autonomia con l'attuazione della cosiddetta Loi Cadre. Questo processo terminò l'11 dicembre 1958 quando l'Alto Volta divenne una repubblica autonoma all'interno del territorio coloniale francese. Solo nel 1960, dopo ulteriori vicende, il Burkina Faso conquistò l’indipendenza dalla Francia.

Indipendenza?


Nel 2014 si svolsero nella capitale una serie di manifestazioni contro la proposta del Presidente Campaorè di modificare la Costituzione per potersi riproporre per un nuovo mandato; le proteste si conclusero con le dimissioni forzate del leader Campaorè dopo 27 anni di governo. Dopo la fuga del capo di stato, in Burkina Faso venne creato un governo di transizione che sarebbe dovuto durare fino al prossimo 11 ottobre, giorno in cui erano previste le elezioni.

La situazione non si stabilizzò, fino ad arrivare al recente 16 settembre 2015, quando il reggimento di sicurezza presidenziale (Rsp), guidato dal generale Gilbert Dienderè, fece irruzione al Consiglio dei Ministri arrestando l’attuale presidente Kafando e il primo ministro Zida; il giorno dopo fu annunciato lo scioglimento del governo.

L’esercito non stette a guardare e pochi giorni dopo entrò nella capitale Ouagadougou dando un ultimatum al leader del colpo di stato; anche la popolazione si organizzò per la resistenza e scese in piazza per protestare ed opporsi al rovesciamento del potere da parte dei principali sostenitori dell’ordine del regime dell’ex presidente Blaise Compaorè, in esilio dal 2014.

La Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale (Ecowas), che svolge funzioni di cooperazione per la sicurezza dell’Africa occidentale, per evitare il peggio, pochi giorni fa ha inviato dei delegati per chiedere alla giunta di restituire il potere ai civili.

Gli altri paesi africani stanno sostenendo le proteste dei burkinabè e le popolazioni stanno scendendo in piazza contro il potere uniforme e contro i colpi di stato. Le maggiori istituzioni africane sembrano appoggiare questa posizione, esprimendo condanne e infliggendo sanzioni di vario genere nei confronti dei golpisti. L’Ua, riferisce Mull Katande – rappresentante ugandese di turno alla presidenza del Consiglio di pace e sicurezza - “ha deciso di sospendere con effetto immediato il Burkina Faso da tutte le attività”, costringendo, inoltre, i responsabili del colpo di stato a non uscire dal paese. La stessa Ecowas ha presentato una bozza di accordo per superare la crisi che ad oggi non è ancora stata firmata da nessuna delle parti coinvolte.


Le istituzioni africane stanno facendo il possibile per superare la crisi in Burkina Faso.

La popolazione di questo Stato non conosce pace da almeno due anni a questa parte ma è determinata a non cedere e continuerà a lottare per la pace. Non a caso, il Burkina Faso viene anche chiamato terra degli uomini integri nella lingua parlata dall’etnia mossi (che rappresenta il 40% della popolazione).

Un’altra pagina della storia degli uomini integri è stata scritta; il prossimo capoverso potrebbe iniziare con una svolta, con la parola Pace.

Gilbert Dienderè e l’Rsp usciranno rafforzati da questa vicenda?

La loro carriera finirà?

Le proteste della popolazione si placheranno?

Questo Stato vedrà mai la pace dopo anni di proteste, colpi di stato e presidenti “attaccati alla poltrona”?

Attendiamo il prossimo capitolo.
 
 


venerdì 25 settembre 2015

Petting zoo: un film sui diritti negati delle ragazze-madri singles

di Monica Macchi







Domenica 27 settembre 2015 presso cinema Beltrade (Milano) ore 15.00







I texani stanno crescendo, generazione dopo generazione,

come adulti sessualmente analfabeti

David C. Wiley, presidente dell’American School Health Association







Il Texas ha il più alto numero di ragazze madri, gli adolescenti che hanno rapporti sessuali sono il 52,5 % (la media nazionale è del 47%), e il tasso di diffusione dell’hiv è tra i più alti del Paese ma a causa di sostenitori molto influenti come George W. Bush e al fatto che i distretti scolastici hanno completa autonomia in tema di educazione sessuale, l’astinenza viene presentata come l’unico metodo sicuro per prevenire le malattie sessualmente trasmissibili, le gravidanze e i “traumi emotivi legati ai rapporti sessuali”. Recentemente poi è stata approvata una legge secondo cui le cliniche che praticano aborti devono dotarsi di locali, attrezzature e personale, equivalenti a quelli delle sale chirurgiche degli ospedali: il governo conservatore sostiene che queste misure servano a garantire la sicurezza delle donne, ma per le associazioni contrarie alla legge il vero obiettivo del provvedimento è rendere ancora più difficile l’interruzione di gravidanza. E in effetti in tutto il Texas, che ha una superficie di 700.000 chilometri quadrati ed è il secondo Stato più popoloso degli Usa, le cliniche che praticano aborti erano 41 nel 2012, e oggi sono solo18.   
 




Questo è l’ambiente sottoproletario e puritano in cui si muove Layla, una diciassettenne che dopo aver ricevuto una borsa di studio per Austin, scopre di essere incinta e pressata dalla sua famiglia, contraria all’aborto, rinuncia al college e va a vivere con la nonna in una roulotte.




Ecco la recensione completa:




domenica 20 settembre 2015

Gli infetti. Nel giro di un’estate gli europei hanno assestato alla loro presunta casa comune una sequenza di colpi micidiali



di Lucio Caracciolo       (da La Repubblica)




Nel giro di un’estate gli europei hanno assestato alla loro presunta casa comune una sequenza di colpi micidiali.
Prima con la crisi greca, quando ci siamo divisi lungo la faglia Nord-Sud, ovvero “formiche” contro “cicale”, spingendoci a evocare per la prima volta l’espulsione di un inquilino per morosità. Poi, medicata ma non curata tanta ferita, ecco lo tsunami dei migranti. Stavolta la partizione distingue, zigzagando, l’Est dall’Ovest, ossia alcuni paesi in paranoia xenofoba da altri che cercano di non farsene contagiare, aggrappandosi ai valori fondativi della moderna civiltà europea.
I muri portanti dell’architettura comunitaria si stanno sbriciolando. Al loro posto proliferano arcigni tramezzi o loro surrogati in lamiera e filo spinato. A disegnare sinistre enclave protette, che si vorrebbero impenetrabili ai migranti d’ogni sorta, profughi inclusi. Neanche fossero portatori d’infezione culturale. Forse però gli infetti siamo noi.
Come possiamo considerarci associati in una comunità di destino con un paese come l’Ungheria, che nel 1956, invasa dai carri sovietici, suscitò in Europa occidentale (Italia compresa) una gara di solidarietà con i suoi profughi, e che oggi si trincera dietro un muro, dichiara criminali coloro che vorrebbero passarlo e mobilita polizia ed esercito contro chi s’azzarda a bucarlo? Quando nel 2000 i “liberali” austriaci di Jorg Haider furono ammessi al governo dell’Austria, gli altri quattordici Stati membri (l’Ungheria e gli altri ex satelliti di Mosca erano ancora in lista d’attesa) imposero blande sanzioni politiche a Vienna. Oggi a Budapest domina, legittimato dal voto popolare, un carismatico leader xenofobo, Viktor Orbán, appetto del quale Haider si staglia campione di tolleranza. Per Orbán i migranti sono animali pericolosi e per tali vanno trattati.
Esasperati, i tedeschi minacciano di colpire l’Ungheria e gli altri paesi che equiparano i migranti ai criminali con sanzioni economiche, tagliando i fondi strutturali loro dedicati. È notevole che, nel penoso annaspare della Commissione e nella decadenza della Francia, Berlino si muova per conto del resto d’Europa, avendo constatato che persino i vertici intergovernativi non servono più a nulla, se non a riconoscersi diversi. Certo non è con le multe, per quanto onerose, che si può spaventare chi si considera in lotta per la sopravvivenza contro un’invasione nemica. L’unica coerente misura sarebbe di separarci con un taglio netto da chi viola apertamente e ripetutamente le regole di base della convivenza umana, prima che lettera e spirito dei trattati europei. Se questa è la sua Europa, se la tenga.
Sulla questione migratoria sta riaffiorando un antico spartiacque geoculturale che la retorica europeista voleva sepolto. Al Centro-Est del continente, tra Balcani e Baltico, persiste una radicata concezione etnica dello Stato: l’Ungheria è degli ungheresi (naturalmente anche di quelli in provvisoria diaspora, specie fra Slovacchia, Serbia e Ucraina), la Slovacchia degli slovacchi, la Romania dei romeni (inclusi quelli di Moldavia) eccetera. All’Ovest resiste a stento l’idea di cittadinanza, che fonda la nazione su valori e regole condivise al di là del sangue. Modello inaugurato dalla Francia rivoluzionaria, che oggi trova nella Germania multietnica l’esempio migliore. Geograficamente siamo tutti europei. Culturalmente e politicamente apparteniamo a continenti diversi. Ancora per poco, forse. Da questo sabba xenofobo potremmo essere travolti anche noi euroccidentali, italiani non esclusi. Il mito della comunità monoetnica, votata a proteggersi dalle impure razze che bussano alle porte, ha rivelato nella storia la sua potenza di fascinazione. Partita nel 1957 come Europa occidentale, avanguardia veterocontinentale dello schieramento atlantico, questa Unione Europea può scadere nel suo perfetto opposto: un caotico subbuglio di nazionalismi etnici. Arcipelago di reciproci apartheid. Ciascuno arroccato dietro le sue fortificazioni. Con le eurocrazie elitiste a salmodiare nei palazzi blu di Bruxelles e Strasburgo, mimando riti cui esse stesse hanno rinunciato a credere.
Nelle emergenze storiche le democrazie europee hanno saputo talvolta ispirarsi a leader decisi a difenderle. Vorremmo sbagliarci, ma oggi non ne vediamo traccia.

domenica 13 settembre 2015

Centri di raccolta, docce e wifi. Belgrado si apre ai profughi



di Leo Lancari     (da Il Manifesto)

Serbia. 7 mila solo la scorsa notte. Il premier Vucic: «Sbagliato costruire muri»

Un altro passo impor­tante lungo la rotta bal­ca­nica l’hanno fatto. Un altro paese è stato attra­ver­sato da sud a nord nel lungo cam­mino verso l’Europa. Alle spalle si sono lasciati la Mace­do­nia, che dopo averli chiusi in gab­bia sigil­lando la sua fron­tiera con la Gre­cia, sabato notte ha final­mente fatto mar­cia indie­tro per­met­ten­do­gli di arri­vare in Ser­bia, nuova tappa di que­sto assurdo rea­lity della dispe­ra­zione.
Del resto non li ferma nes­suno. E loro arri­vano a migliaia: le auto­rità di Bel­grado hanno con­tato 23 mila rifu­giati nelle ultime due set­ti­mane. 7 mila solo nella notte tra sabato e dome­nica scorsi, quando Sko­pje ha final­mente ria­perto il con­fine. Arri­vano in treno, in auto­bus (il governo mace­done ne ha messi 70 a dispo­si­zione) e in taxi. Chi può noleg­gia una mac­china, la carica all’inverosimile di donne, vec­chi e bam­bini e corre verso la nuova fron­tiera: l’obiettivo adesso è l’Ungheria, la porta dell’Europa, ma è quello più dif­fi­cile.
In vista della nuova ondata di pro­fu­ghi Buda­pest sta infatti acce­le­rando la costru­zione del muro di 175 chi­lo­me­tri lungo il con­fine serbo e nei giorni scorsi ha ordi­nato il tra­sfe­ri­mento a sud di alcune migliaia di agenti di poli­zia. I rifu­giati si tro­ve­ranno così di fronte un muro fatto di acciaio, filo spi­nato e per­fino lamette insieme a un eser­cito di poli­ziotti in tenuta anti­som­mossa. Il Paese è «sotto un attacco orga­niz­zato», ha detto nei giorni scorsi Janos Lazar, vice­pre­mier del governo di Vik­tor Orbàn. E, come se non bastasse, per far capire ancora meglio che aria tira per que­sti dispe­rati in fuga da guerra e dai taglia­gole dell’Is ha aggiunto che gli agenti sono stati adde­strati per fron­teg­giare «migranti sem­pre più aggres­sivi che arri­vano con richie­ste sem­pre più decise».
«Europa sve­gliati!», tito­lava l’altro giorno un suo edi­to­riale il fran­cese Le Monde ricor­dando come quella dell’immigrazione sia una crisi che si dipana alle nostre fron­tiere da più di due anni .«Sotto i nostri occhi ma senza che abbiamo voluto vedere che si aggra­vava di mese in mese». Chi non fa più finta di non vedere (almeno per ora), e (sem­pre per ora) sem­bra muo­versi in con­tro­cor­rente rispetto alle iste­ria xeno­fobe di altri Paesi, è pro­pria la Ser­bia. Anzi­ché chiu­dersi Bel­grado ha aperto le sue porte alle migliaia e migliaia di dispe­rati che in que­ste ore stanno entrando nel Paese alle­stendo quat­tro nuovi cen­tri di acco­glienza (due a Pre­sevo e Miro­to­vac, a sud e due a Kani­jia e Subo­tic, a nord vicino al con­fine con l’Ungheria). Un altro cen­tro verrà invece aperto nei pros­simi giorni nella capi­tale, lungo l’autostrada per l’aeroporto. Come in Mace­do­nia anche qui a tutti i rifu­giati verrà con­cesso un per­messo di sog­giorno di 72 ore, rin­no­va­bile, per lasciare il Paese. Nel frat­tempo sem­pre nella capi­tale sono stati aperti dieci punti di assi­stenza igie­nica dove i pro­fu­ghi pos­sono tro­vare toi­lette e docce per lavarsi, insieme a una cen­tro infor­ma­zione for­nito di rete WiFi dove i pro­fu­ghi pos­sono richie­dere noti­zie su come pre­sen­tare domanda di asilo e rice­vere assi­stenza legale e psi­co­lo­gica. «La nostra rispo­sta alla crisi migra­to­ria non sono i man­ga­nelli o gli ordi­gni assor­danti, né l’erezione di muri», ha com­men­tato il vice­mi­ni­stro del lavoro e degli affari sociali Nenad Iva­ni­se­vic annun­ciando per i pros­simi giorni un nuovo piano del governo per i migranti. Iva­ni­se­vic ha ripe­tuto un con­cetto espresso nei giorni scorsi dal pre­mier serbo Alek­san­dar Vucic, anche lui cri­tico nei con­fronti di Buda­pest per la scelta di costruire il muro.
Scelte, quelle serbe, che hanno per­messo a Bel­grado di incas­sare i rin­gra­zia­menti dell’Unione euro­pea per il modo in cui affronta la crisi migranti, oltre alla pro­messa di nuovi aiuti eco­no­mici.
Ieri la que­stione pro­fu­ghi è stata affron­tata anche da un ver­tice a tre che si è tenuto a Sko­pje tra i mini­stri degli esteri di Mace­do­nia, Alba­nia e Bul­ga­ria, che hanno chie­sto all’Unione euro­pea una rispo­sta rapida a quanto sta acca­dendo lungo la rotta balcanica.