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sabato 17 gennaio 2015

Il valore dell'immigrazione

PER PARTECIPARE E’ NECESSARIO INVIARE RICHIESTA DI ACCREDITO 
ENTRO IL 26 GENNAIO.
PER L’ACCREDITAMENTO CLICCA QUI O INVIA UNA MAIL A info@fondazioneleonemoressa.org
Il volume verrà distribuito ai partecipanti fino ad esaurimento copie.

 
per informazioni: 
Fondazione Leone Moressa
Via Torre Belfredo 81/e, 30171 Mestre (Venezia)
tel  041 610734   cell  338 6774612

 
Per partecipare al Convegno segnalare il proprio nominativo a info@fondazioneleonemoressa.it oppure a Silvia De Marchi silvia.demarchi@camera.it
Per gli uomini è obbligatoria la giacca.

domenica 14 dicembre 2014

Il calendario rom contro i pregiudizi











Pochi sanno che in Italia almeno 4 rom e sinti su 5 (130 mila uomini, donne e bambini) vivono “mimetizzati” in abitazioni convenzionali, svolgendo regolare lavoro e conducendo una vita che non ha nulla di diverso dall’esistenza di una qualsiasi famiglia, italiana o straniera, che vive sul territorio italiano.



È a loro che l'Associazione 21 luglio ha scelto di dedicare
il nuovo Calendario 2015, nell'intento di smontare i soliti stereotipi e pregiudizi verso rom e sinti.



Il
Calendario 2015 vuole scattare una fotografia della condizione lavorativa e occupazionale delle comunità rom e sinte in Italia. Dietro ogni scatto c’è un volto, una storia, una speranza. Ma soprattutto c’è un desiderio di inclusione e una volontà a “portare onestamente a casa un pezzo di pane,” come più di qualcuno ci ha tenuto a raccontare.



Con una donazione di soli 5 euro
puoi ordinare il Calendario on line e riceverlo direttamente a casa!


Donne che chiedono l’elemosina con i figli in braccio, coppie di anziani che rovistano dentro i cassonetti, uomini che trascinano carrelli carichi di materiale ferroso. E’ questa l’istantanea che appare nell’immaginario collettivo dei cittadini delle metropoli italiane quando si vuole associare l’universo rom all’attività lavorativa.


Pochi sanno che in Italia almeno 130 mila rom e sinti vivono “mimetizzati” in abitazioni convenzionali, svolgendo regolare lavoro, pagando le tasse e conducendo una vita che non ha nulla di diverso dall’esistenza di una qualsiasi famiglia, italiana o straniera, che vive sul territorio italiano.


Il Calendario 2015 dell’Associazione 21 luglio vuole scattare una fotografia della condizione lavorativa e occupazionale delle comunità rom e sinte in Italia. Dietro ogni scatto c’è un volto, una storia, una speranza. Ma soprattutto c’è un desiderio di inclusione e una volontà a “portare onestamente a casa un pezzo di pane,” come più di qualcuno ci ha tenuto a raccontare.

mercoledì 30 ottobre 2013

Una campagna contro i pregiudizi



Parte lunedì 11 novembre alle 11.30 con la conferenza dal titolo “Conflitti, mass media e diritti” che si terrà in Corso Vittorio Emanuele II 349)e, alle 20.30 con lo spettacolo “Senza Confini - Ebrei e Zingari” di Moni Ovadia presso il Teatro Vittoria, Piazza di Santa Maria Liberatrice 10, Roma, Ingresso libero a sottoscrizione, una campgna per combattere gli setereotipi negativi e i pregiudizi sui rom, anche a seguito dei fatti di cronaca di cui abbiamo parlato negli articoli precedenti. 
 
Offrire una fotografia reale della popolazione Rom in Italia e in Europa, dando spazio alla cultura romanì e ai giovani Rom impegnati nel miglioramento delle condizioni di vita delle proprie comunità, e’ l’obiettivo della campagna ROMAIDENTITY- IL MIO NOME E’ ROM promossa dalla ong Ricerca e Cooperazione insieme a Associazione Stampa Romana, Associazione Rom Sinti @ Politica, Università La Sapienza e altre associazioni e istituzioni di Italia, Romania e Spagna.

Alla conferenza pubblica “Conflitti, mass media e diritti” parteciperà l'attore Moni Ovadia, insieme a Paolo Butturini (Stampa Romana), Nazzareno Guarnieri (Associazione Rom Sinti @ Politica) e Natascia Palmieri (Ricerca e Cooperazione). Segurà lo spettacolo teatrale e, all'iniziativa, interverranno inoltre: Pietro Vulpiani (Unar – Ufficio Antidiscriminazioni Razziali) e Serena Tosi Combini (Fondazione Michelucci, Università di Verona) autrice del volume “La zingara rapitrice”.

giovedì 10 ottobre 2013

Un taxi fantasma per l'Africa: il romanzo di Massimo Bargna


Jean Pierre, tassista senza licenza, affronta uno stralunato percorso notturno intorno alla città, che è una e insieme tutte le metropoli equatoriali: tra casupole e hotel a cinque stelle, dalle luci invitanti al buio, tra soldati prepotenti come banditi e banditi armati come soldati. Un’avventura sospesa tra magia animistica e modernità selvaggia che ci mostra l’altra faccia dell’Africa, quella dilaniata dai conflitti etnici, dall’illegalità, oppressa dai figli degeneri del colonialismo.
Il taxi fantasma non passa dai paradisi artificiali per turisti. Jean Pierre, questo eroe sognatore maldestro e sfortunato, nel suo girovagare s'imbatte nei campioni di un'umanità degradata, o in cerca di riscatto, e nelle mille presenze enigmatiche, seducenti e minacciose che abitano la notte.
Chi è stato su quel taxi conosce i mali dell'Africa ma,nonostante tutto, conserverà per sempre dentro di sé una sottile malinconia.




Abbiamo intervistato Massimo Bargna che ringraziamo per la sua disponibilità
Massimo Bargna

Quando e come è nato questo romanzo?

E’ un fantasma che aspettava di prendere corpo da troppo tempo. In realtà è sempre stata una mia aspirazione scrivere un’opera letteraria che fosse, sul modello evangelico, un’avventura spirituale ed esistenziale sullo sfondo di fatti storici drammatici. Infatti non mi sono mai ritenuto un fotoreporter prestato alla letteratura ma l’esatto contrario: l’unica forma di scrittura che mi interessa realmente e su cui credo di poter dare un apporto originale è quella del romanzo e della poesia.
Questa esigenza creativa è diventata un imperativo, anche morale, man mano che i ricordi e le esperienze accumulati durante quasi trent’anni di viaggi in Africa hanno reclamato di essere espresse in una forma più pregnante di quella dei fotoreportage che avevo pubblicato per alcune riviste nazionali.
Quando sei testimone di eventi drammatici come quelli a cui ho assistito in Africa, soprattutto in Africa centrorientale, ti senti scosso in tutte le tue certezze e ti poni degli interrogativi sulla natura dell’anima umana che non possono essere risolti (ammesso che ciò sia possibile) nella forma di un articolo di giornale o di una foto.
Convogliare tutto ciò che avevo dentro in un romanzo, rielaborare i ricordi attraverso la narrazione, è stata un modo per esorcizzare i miei fantasmi, quasi un abbozzo di catarsi personale.
Detto questo, risulterà forse meno strano il fatto che la stesura di questo romanzo di media lunghezza abbia richiesto ben tre anni.
Questa lentezza è stata dovuta in parte al fatto che ero al mio primo romanzo e dovevo risolvere una serie di problemi stilistici ma soprattutto alla necessità di cercare di cogliere il senso più profondo di ciò che avevo vissuto.
A mio avviso, ogni opera letteraria dovrebbe essere motivata da un’urgenza interiore: si scrive soltanto quando si ritiene di avere qualcosa di importante da dire. Altrimenti l’opera non merita di esistere e scade nel puro intrattenimento.


Qual è il personaggio a cui è più legato?

Sarebbe scontato dire il protagonista, cioè il giovane taxista Jean Pierre che vaga nella notte magica, tenera e violenta di una capitale africana non meglio identificata incappando in una serie di situazioni enigmatiche, seducenti e minacciose. E’ una specie di Don Chisciotte africano. La mia preferenza, però, va forse a un personaggio secondario: Kurt Weiss, il bianco che incarna non tanto il colonialismo quanto la visione neo-colonialista o, meglio ancora, post-colonialista di quegli occidentali che hanno perso il dominio sull’Africa e sopravvivono ormai come vecchi relitti abbandonati. E’ un personaggio dalla condotta deprecabile ma anche patetico nella sua mitizzazione del passato, un passato che forse non è mai esistito. Odio profondamente Kurt Weiss e tutti quelli come lui ma non riesco a non provare una certa “tenerezza” per chi sta annegando fra i flutti e si rifiuta di tendere la mano.


Quali sono, ancora oggi, i problemi del continente africano?

Negli anni sessanta, quando le nazioni africane raggiunsero l’indipendenza affrancandosi dal colonialismo, si visse un periodo di entusiasmo in cui tutto pareva possibile. La democrazia, la libertà di parola, il benessere e l’istruzione erano obiettivi a portata di mano. Visto che la miseria dell’Africa era dovuta ai bianchi, ora che i bianchi non c’erano più tutti i problemi erano automaticamente risolti. Purtroppo non è andata così. Da una parte le ex potenze coloniali hanno mantenuto l’Africa in schiavitù attraverso una strategia di ingerenza politica ed economica. Dall’altra le nazioni africane sono state governate da una classe politica locale corrotta che (con rare eccezioni) è la caricatura di quella del periodo coloniale. Non solo rubano la ricchezza del paese come facevano i bianchi ma, spesso e volentieri, rivelano una totale impreparazione a governare, mandano a pezzi l’economia nazionale e trascinano il popolo in guerre disastrose la cui unica ragion d’essere è di non far perdere i propri privilegi al dittatore di turno.
Non sono un analista della politica africana. Credo però che, fondamentalmente, il problema sia che gli africani devono smetterla di dare agli altri la colpa dei propri problemi e prendere in mano il proprio destino.
Invece la tendenza è a cercarsi nuovi padroni, nella fattispecie i cinesi che stanno rimpiazzando i bianchi in tutta l’Africa.
Non voglio essere pessimista. ll quadro della situazione è a macchia di leopardo: in alcune aree del continente è stato fatto un passo avanti sia sul piano economico che dei diritti dell’uomo; in altre, però, ne sono stati fatti due indietro.

Quali sono gli stereotipi negativi sugli africani, confermati in Occidente?

Gli stereotipi sono sempre gli stessi. Si oscilla tra il buonismo e il razzismo e in entrambi i casi non si considera lo straniero per quello che è: una persona. Ovviamente tra buonismo e razzismo, a fare maggiori danni è il secondo. Mi spiace dirlo ma in Italia, parlo per esperienza personale, il razzismo esiste eccome. In parte è dovuto all’ignoranza e a un provincialismo tipicamente italico dovuto, forse, al fatto che la nostra avventura coloniale in Africa (diversamente da quella inglese e francese) è stata di breve durata e non ha lasciato il segno. E di conseguenza l’afflusso di emigranti africani nel nostro paese è iniziato molto tardi. Ricordo che molta gente negli anni ottanta non aveva mai visto una persona di pelle scura tranne che in televisione, un po’ come in certi villaggi sperduti della foresta africana dove i bambini non hanno mai visto un bianco. Chi fa un paragone con la Francia e l’Inghilterra, sostenendo che questi paesi sono molto più accoglienti con gli stranieri, dovrebbe prendere atto di questa realtà storica.
E poi ci sono gli idioti. Quelli che non hanno attenuanti perché rifiutano a priori di conoscere l’altro. E’ gente che vive nel proprio mondo ristretto, fatto di piccole abitudini e privilegi e che non sopporta di confrontarsi col nuovo. A volte hanno ruoli di potere e scelgono al posto nostro ma appartengono a un passato che, loro malgrado, non potrà più tornare e quindi il loro controllo della realtà è illusorio. Sono sorpassati dagli eventi e nemmeno se ne accorgono.

Come si riesce a conciliare la tradizione con la modernità?

Ciò che accade in Africa è accaduto da noi durante il brusco passaggio dalla cultura contadina a quella industriale. In un primo tempo si rifiuta in blocco la tradizione, la si butta nel porta immondizia, ma poi, piano piano, si acquisisce un giudizio più equilibrato e si va alla ricerca delle proprie radici. Il problema è che bisogna metabolizzare la modernità e ciò richiede un certo tempo. Poi si sviluppano gli anticorpi e si impara a difendersi. Anche in Africa questo processo è iniziato. La gente si è accorta che il progresso inarrestabile della modernità è solo un mito. E riscopre la propria cultura.

Che cosa si aspettano le popolazioni africane dai paesi “ricchi” e cosa noi abbiamo da imparare ?

Noi dovremmo farla finita con questa continua ansia del “dare” e cominciare ad apprezzare ciò che possiamo ricevere. Ovviamente non parlo di cose materiali. L’Africa, nonostante un parziale crollo della tradizione, è ancora depositaria di un ricco patrimonio di valori umani. In alcune zone, quelle dove più sono state preservate le strutture sociali tradizionali, c’è un forte senso dell’unità famigliare e della solidarietà, il rispetto degli anziani, il valore della maternità e della vita e il senso del divino. In generale c’è un’attenzione per i valori più essenziali dell’essere umano e un amore per la semplicità di vita. Ma come dicevo stiamo parlando di una cultura africana agricola e di allevatori i cui valori sono stati indeboliti, talvolta snaturati, dall’urbanizzazione.
Riguardo agli africani, non so cosa debbano ancora imparare da noi che non abbiano già imparato, vizi compresi. La rivendicazione dei diritti umani, in particolare della donna, è ormai abbastanza diffusa in tutta l’Africa anche se, in questo caso, la tradizione può essere d’intralcio.
Credo però che, tornando al tema del razzismo, il cambiamento di mentalità non debba essere a senso unico. Anche gli africani dovrebbero superare i propri pregiudizi nei confronti degli occidentali. Questo è molto più facile per chi è venuto a vivere qui e ha perso la visione mitizzata dell’Europa che ha la maggior parte degli africani che vivono nella propria terra.


lunedì 5 agosto 2013

Un'interessante novità letteraria: Nessun requiem per mia madre



Claudiléia Lemes Dias - nata a Rio Brilhante, nel cuore del Brasile - dopo essersi laureata in Legge si trasferisce in Italia dove consegue il Master in Mediazione Familiare e in Tutela Internazionale dei Diritti Umani e oggi è al suo esordio letterario con il romanzo intitolato “Nessun requiem per mia madre”, per Fazi Editore.
Marta è arrivata in Italia dal Brasile. Non è una ragazza in fuga, non ha un passato da dimenticare. Marta ha soltanto un futuro da costruire: qui studia, si innamora e si sposa. È felice della propria vita. Ma allora perché è l’unica grande assente al funerale di sua suocera, Genuflessa De Benedictis? La madre di suo marito Franco, salutata ora con commozione dall’intero quartiere Parioli in cui viveva, è stata in realtà la più terribile e distruttiva delle suocere. Possessiva e pronta a tutto pur di non lasciare il figlio prediletto nelle grinfie dell’“approfittatrice straniera”.

Abbiamo intervistato l'autrice


Nel suo romanzo fa un ritratto feroce della famiglia italiana - borghese e cattolica - a contatto con lo straniero: possiamo chiederle se è una storia di fantasia o, in parte, autobiografica?

Le suocere e le nuore hanno spesso tratti comuni un po’ in tutto il mondo. Sono arrivata in Italia per approfondire gli studi con un Master in Mediazione Familiare, che pensavo, sarebbe stato il campo del mio futuro lavorativo. Molti degli avvenimenti provengono da testimonianze ascoltate in quegli anni di studio. Certamente l’atmosfera ricreata nel libro proviene dalle storie più estreme e patologiche che hanno modificato e segnato, fino a devastare, matrimoni basati su affinità che sembravano solide. Il mio tentativo è stato quello di immedesimarmi, sia nella madre che nel figlio, ed essere voce narrante di una asfissiante simbiosi in cui la madre non ammette che venga sottratto “il suo bastone della vecchiaia”. Non penso però sia solo una storia italiana dello stereotipato “mammone” o ultimamente politicizzato “bamboccione”. Le dinamiche dell’accettazione dello straniero sono quasi in secondo piano rispetto al rifiuto di una separazione fisica, che agli occhi della madre è vista come un tradimento. Poco importa che Marta, la nuora, sia straniera o autoctona. È la possibilità di aprirsi al mondo e di abbandonare le vecchie morbose abitudini a spaventare Genuflessa.

Cosa rappresenta Genuflessa De Benedictis, la “madre”, la “suocera”, al di là del suo ruolo familiare? E il suo è vero amore nei confronti dei figli o c'è dell'altro?

Genuflessa De Benedictis è madre e nella sua personale religione è Dio. Non ha solo procreato, ma creato i propri figli, uomini che vengono descritti nel romanzo come una sua propaggine inalienabile, cellule omozigote...Essendo ermeticamente chiusa in sé stessa, solo di sé (e quindi dei figli), Genuflessa crede di potersi fidare. Direi che non è amore ma spietato narcisismo.

Quali sono gli stereotipi da demolire quando si parla di brasiliani, sudamericani e di immigrati in genere?

Ridurre con le parole un popolo è il modo più semplice per odiarlo o per provarne simpatia. Se parlo dei romeni si pensa immediatamente alle badanti o ai pirati della strada, se dico peruviano o filippino la mente si sposta su bravi domestici, al brasiliano invece si associa alla trans della Cassia o della Cristoforo Colombo, al calcio e alle mulatte che camminano sulle spiagge bianche di Ipanema. Quanto di più fuorviante ci può essere, se con sei termini ho sintetizzato circa 350 milioni di persone? Gli stereotipi sono molti e cambiano spesso sulla base della volontà politica di strumentalizzare determinate situazioni o momenti storici.

L'Italia è un Paese razzista?

L’Italia ha una storia complessa. Non va capita ma psicanalizzata come un’affascinante donna profondamente insicura e impaurita che ha bisogno di eterne conferme sulla propria identità. Un Paese andrebbe misurato non attraverso lo spread o i rating delle banche, ma attraverso l’umanità e cultura che ha sviluppato nei secoli di storia. Da questo punto di vista definire l’Italia un Paese razzista sarebbe storicamente sbagliato, si pensi solamente alla globalità dell’impero Romano con il suo straordinario Diritto, ma anche alla storia più recente come la Carta dei Diritti dell’Uomo (Carta di Roma). Atteggiamenti incivili di pochi non possono condizionare un quadro generale che si presenta positivo e in costante evoluzione, anche se non voglio tuttavia minimizzare una certa inquietudine recente verso atteggiamenti sessisti e di fanatismo religioso.

Ci può rivelare il significato del titolo del romanzo?

È l’incapacità di perdonare le debolezze di chi ci ha generato. È l’eterno risentimento che si ha quando i genitori affidano nei figli il proprio riscatto.


Claudiléia Lemes Dias




mercoledì 31 luglio 2013

Università estiva 21-25 agosto 2013 a Firenze


Razzismo, antirazzismo, multiculturalità, immigrazione: questi sono temi molto dibattituti negli ultimi vent'anni, in Italia e nel mondo. Ma gli immigrati, i richiedenti asilo, i profughi, gli stranieri sono spesso solamente oggetto di studio e di indagine e quasi mai protagonisti delle riflessioni: eppure sono loro ad aver vissuto situazioni complicate in prima persona e sull propria pelle.
La neonata associazione “Prendiamo la parola” - costituita da persone immigrate e di orgine straniera - organizza, con il sostegno di vari enti pubblici e privati e in collaborazione con l'UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazione Razziale), l'Università estiva sul razzismo e la lotta contro la discriminazione, un laboratorio di formazione antirazzista che si terrà dal 21 al 25 agosto, presso la Facoltà Avventista di Teologia, Villa Aurora, a Firenze.
L'università estiva si propone come un luogo di formazione per supportare azioni sociali, politiche, culturali per contrastare le forme di razzismo - xenofobia - discriminazione, più o meno esplicite, presenti nella nostra società.
Il programma è ricco e gli interventi interessanti. Ne segnaliamo alcuni: “Le categorie dell'esclusione nella storia” a cura di Adel Jabbar, sociologo dei processi migratori, comunicazione e relazioni transculturali; “Stereotipi, pregiudizi, raazzismo, discriminazione. Come interagiscono? Cosa producono?” di Udo Enwereuzor, coordnatore del Punto Focale Nazionale per il FRANET e EIGE, svolge attività di ricerca, formazione e consulenza sui temi della lotta al razzismo e alle discriminazioni; Edda Pando Juarez, attivista antirazzista e del movimento degli e delle immigrati/e terrà una cnferenza su “ Autorganizzazione. Quale capitale politico”. Agli approfondimenti sono collegati laboratori di decostruzione dei processi e dei meccanismi che portano a pratiche e a comportamenti razzisti e discriminatori.
Il titolo dell'iniziativa di quest'anno, infatti, è: “Ma che razza di discorsi! Immigrzione, dal Discorso sulla razza ai meccanismi di discriminazione: strumenti per la decostruzione”. La proposta formativa è rivolta a partecipanti di ogni età, nazionalità, provenienza, livello di istruzione e, in particolar modo, agli insegnati, agli operatori sociali, ai giornalisti, agli educatori, ai referenti dei centri iinterculturali e ai funzionari degli uffici pubblici che si occupano di migrazioni.

Per iscrizioni e informazioni, si può consulatre il sito dell'Associazione Prendiamo la Parola: www.prendiamolaparola.org



mercoledì 24 luglio 2013

Il caso Tryvon Martin




Siamo negli Stati Uniti del 2012: eppure ancora qualcosa non va.
Un giovane nero - si saprà poi che aveva 17 anni - cammina, con il cappuccio di una felpa in testa e le mani in tasca, nel quartiere bianco di Sanford, in Florida. E' il 27 febbraio dell'anno scorso, ed è sera. Il ragazzo si chiama Tryvon Martin, frequenta la scuola e gioca in una squadra di football; ma quella sera, incrocia il passo di George Zimmermann, un ventottenne autoproclamatosi “capitano della guardia di quartiere”. Zimmermann, vedendo il ragazzo incappucciato, chissà perchè si insospettisce, pensa che sia uno spacciatore e inizia a seguirlo. Martin, intanto, è al telefono con un'amica alla quale dice di sentirsi pedinato da qualcuno e gli consiglia di scappare: il ragazzo comincia a farlo, la guardia teme che sia armato (solo perchè continua a tenere l'altra mano in tasca), i due si ritrovano faccia a faccia. Comincia una colluttazione, Zimmermann ha una pistola e spara. Arrivano i soccorsi, ma è troppo tardi: Tryvon è morto a soli 17 anni. Nelle sue tasche sono state trovate caramelle e una bottiglia di the alla pesca.
La vicenda di Tryvon Martin ha assunto dimensioni planetarie perchè conferma quanto lavoro c'è ancora da fare per abbattere stereotipi, pregiudizi, razzismo e violenza.
I genitori del ragazzo hanno lanciato una petizione online, pochi giorni dopo la sua uccisione, per chiedere giustizia. Durante la marcia a New York del 21 marzo 2012 chiamata “Million Hoodie March” (composta da migliaia di persone con un cappuccio in testa che scandivano slogan tra cui “Il prossimo sono io?”) la madre di Tryvon, Sybrina Fulton, ha detto: “ Questa non è una questione tra bianchi e neri. Questa è una questione di giusto e sbagliato. Nostro figlio è vostro figlio”. E le ha fatto eco il Presidente Obama che ha affermato, rivolgendosi ai genitori della vittima: “Se avessi un figlio, avrebbe il suo stesso aspetto”. Eppure un ragazzo nero con una felpa - nell'Occidente emancipato, capistalista, libero e democratico - viene ancora preso per uno spacciatore e niente di più. E viene ucciso. Anche se, nel manuale della guardia di quartiere si legge: “ Deve essere ricordato ai membri che loro non hanno poteri di Polizia e, quindi, non devono portare con sé armi né possono fare inseguimenti”.
Il sociologo Zygmut Baumann , nel suo saggio intitolato “Paura liquida” scrive: “Paura è il nome che diamo alla nostra incertezza: alla nostra ignoranza della minaccia, o di ciò che c’è da fare - che possiamo o non possiamo fare - per arrestarne il cammino o, se questo non è in nostro potere, almeno per affrontarla...La generazione meglio equipaggiata di tutta la storia umana è anche la generazione afflitta come nessun’altra da sensazioni di insicurezza e di impotenza.” (…) Il paradosso nell’analisi della paure diffuse che, nate e alimentate dall’insicurezza, saturano la vita liquido-moderna è che viviamo senza dubbio - per lo meno nei paesi sviluppati - nelle società più sicure mai esistite...I messaggi che arrivano dai luoghi del potere politico, propongono più flessibilità come unico rimedio a un livello già intollerabilie di insicurezza, prospettando ulteriori sfide e una maggiore privatizzazione dei disagi: in ultima un’insicurezza ancora minore (…). Incitano all’incolumità individuale, in un mondo sempre più incerto e imprevedibile e dunque potenzialmente pericoloso”: ormai la cultura della paura ha invaso le nostre società e modificato i nostri pensieri e gli stili di vita. La paura causa necessità di sicurezza e questa si tramuta in volontà di controllo. Ogni singola minaccia, vera o presunta, scatena aggressività e autodifesa.
E proprio appellandosi al diritto di legittima difesa, in quanto si sentiva minacciato dal ragazzino, Zimmermann, quasi a un anno di distanza dall'accaduto, è stato assolto.
I genitori potranno rivolgersi ad un tribunale civile, mentre le autorità dovranno decidere se avviare un procedimento federale.
L'opinione pubblica, non solo quella americana, ha già espresso il proprio parere: tantissime persone, infatti, sono scese in piazza per manifestare di nuovo contro la decisione della giuria della Florida mentre anche molti giornalisti e intellettuali si interrogano sul significato di quanto è successo.

martedì 18 giugno 2013

Noi donne di Teheran: il nuovo saggio di Farian Sabahi



"La verità è uno specchio caduto dalle mani di Dio e andato in frantumi: ogni pezzo restituisce a chi lo tiene, una parte di verità", queste sono i versi del poeta sufi Rumi. La poesia, per i persiani, è la seconda lingua madre e dal teatro e dalla poesia, veicoli di verità profonde, nasce il nuovo saggio di Farian Sabahi intitolato Noi donne di Teheran, pubblicato in e-book, nella collana I corsivi del Corriere delle Sera.
Un testo oggi più che mai importante, a pochi giorni dalle elezioni presidenziali in Iran e alle quali non è stata ammessa nemmeno una delle trenta donne candidate.
Farian Sabahi, docente di Storia dei Paesi islamici all'università di Torino e giornalista, riesce a coniugare leggerezza e ironia in un testo che affronta argomenti seri, quali: la condizione femminile, il divorzio, la dicotomia tra islamismo e modernità, il senso della democrazia, i diritti degli omosessuali musulmani e molto altro ancora.
Numerose citazioni letterarie e cinematografiche intrecciano Passato e Presente, Storia e attualità per raccontare, come una Sherazade contemporanea, gli aspetti chiaro-scuri della città di Teheran, del suo popolo e dell'intero Paese. Una città in cui le donne, oggi come ieri, sono ricchezza umana e culturale e potrebbero essere il motore del cambiamento verso una maggiore libertà e garanzia dei diritti, per tutti.


Abbiamo intervistato Farian Sabahi


Il libro è dedicato a suo figlio, Atesh. Qual è il significato di questo nome e perchè ha voluto scrivere per lui proprio questo saggio?

Atesh vuol dire “fuoco”, è un nome che appartiene alla tradizione zoroastriana e quindi alle origini dell'Iran, prima dell'invasione arabo-musulmana. Non ho scritto “Noi donne di Teheran” per lui, ma ho pensato di dedicarglielo per dargli uno strumento per abbattere, fin da ragazzino, gli stereotipi sul nostro paese d'origine.

Attraverso i racconti, i proverbi e le vicende di alcune persone – intellettuali e non – fa compiere, al lettore, un viaggio nella Storia e, in particolare, nella città di Teheran. Cosa rappresenta, per lei, la sua città ?

Qual è la mia città? Non so, ho vissuto in tanti posti diversi. Teheran è la città in cui è nato e cresciuto mio padre, poi emigrato a Torino. E non era in realtà nemmeno la città di mia nonna Mariam, di cui parlo verso la fine del testo: lei era nata a Baku, nell'odierna Repubblica dell'Azerbaigian. Poi, alla fine degli anni Venti del Novecento, è stata obbligata a varcare la frontiera, con la famiglia, cercando scampo in Iran. Il Medio Oriente e il Caucaso sono da sempre mondi complessi, e certe latitudini emigrare è spesso stata una scelta obbligata: per motivi legati alle persecuzioni politiche, per studiare, per il desiderio di conoscere altri luoghi ed emanciparsi dall'amore delle famiglie.

Ed è' vero che Teheran si può accostare all'archetipo femminino?

“Donna è Teheran”, dico in questo testo che nasce per il teatro e ha un diverso registro di scrittura rispetto ai miei saggi accademici e ai reportage giornalistici. La città, declinata al femminile, diventa pretesto per raccontare la storia di un Paese, le sue similitudini rispetto al Sud Italia e le tante, tantissime contraddizioni. Per esempio religiose: a Teheran cristiani, ebrei e zoroastriani hanno i loro luoghi di culto, mentre i sunniti (musulmani pure loro, come gli sciiti) non hanno moschee tutte per loro. Ma non solo: niente omosessuali a Teheran, aveva dichiarato il presidente Ahmadinejad, ma a Teheran sono consentite (e incoraggiate) le operazioni chirurgiche per cambiare sesso. Questioni complesse, cui cerco di dare risposta.

Quali sono gli stereotipi confermati, ancora oggi, in Occidente sul popolo iraniano?

Principalmente quelli sulle donne, percepite sempre e comunque come coperte dal chador e quindi oppresse. Nel testo racconto che le iraniane hanno ricevuto il diritto di voto nel 1963, per gentile concessione dell'ultimo scià di Persia. 1963, ovvero cinquant'anni fa e quindi prima delle svizzere. Ma il diritto di voto non basta a fare una democrazia. E ancora, stereotipi sull'istruzione: non tutti sanno che a Teheran due matricole su tre sono donne. Che scelgono sempre e comunque (tranne un'esigua minoranza) materie scientifiche. Perché con una laurea in Lettere finisci tutt'al più a fare l'insegnante.

Perchè, nel suo libro, parla di “schizofrenia culturale” degli iraniani?

Prendo a prestito questa espressione dal filosofo iraniano Dariush Shayegan. Schizofrenia culturale perché Teheran non è né Oriente né Occidente. Teheran è una città con due anime. Viviamo sospesi, appunto tra Oriente e Occidente, tra modernità e tradizione. Siamo cittadini di una Repubblica... islamica, e la nostra dovrebbe essere una democrazia... religiosa, ma in realtà è una oligarchia di ayatollah e pasdaran. Mescoliamo Oriente e Occidente. Per esempio quando mangiamo la pizza: con il gormeh sabzi (un nostro piatto tipico). E al zereshk polo, un altro piatto tipico, qualcuno aggiunge il ketchup.

E, invece, cosa intende quando parla di “mondo iranico”?

I confini dell'Iran attuale sono ridimensionati rispetto a quelli dell'antico impero persiano. Mondo iranico è lo spazio culturale che va dall'est dell'Iraq all'India del Nord passando per l'Asia centrale. Un mondo ancora intriso di cultura persiana. In cui la poesia è una seconda lingua madre. Anche quando dobbiamo combattere gli integralismi. Perché spesso tiriamo in ballo un poeta antico, contemporaneo di Dante: il nostro Hafez.

Nella seconda parte del saggio, elenca nomi di donne che – attraverso il loro operato – si sono affermate nel mondo dell' Arte, della cultura, della politica e molte di loro hanno lottato per affermare diritti umani e civili. Nel 1907, in Iran, viene fondata la prima scuola femminile: sono gli stessi anni che vedono protagoniste, in Europa, le suffragette.
C'è così tanta differenza tra le donne iraniane e quelle occidentali, italane in particolare?

Non più di tanto. In “Noi donne di Teheran” l'elenco di donne in gamba è lungo, anche se ovviamente non esaustivo. In un primo momento pensavo di accorciarlo. E nella lettura teatrale salto a piè pari quel lungo elenco di nomi. Ma resta la frase finale di quella parte: quando pensare a noi riflettere sul nostro coraggio, sulla forza di noi donne di Teheran. Perché, come recita un proverbio persiano, se cerchi la luna guarda il cielo, non lo stagno.

 
Farian Sabahi (www.fariansabahi.com)

mercoledì 29 maggio 2013

Clandestini. Viaggio nel vocabolario della paura: un manuale per monitorare il linguaggio



Migrante irregolare, migrante/immigrato, vittima della tratta, rifugiato, profugo...Per raccontare e capire le trasformazioni della nostra società bisogna ricominciare dalle parole e questo è il lavoro proposto nel saggio Clandestini. Viaggio nel vocabolario della paura, di Giulio Di Luzio, edizioni Ediesse.
Si tratta di un vero e proprio alfabeto che elenca molti termini – tratti dalla cronaca e dalla narrativa – di uso comune nei confronti degli stranieri migranti e che, troppo spesso, generano e confermano pregiudizi e stereotipi negativi.



Abbiamo rivolto alcune domande all'autore


Quanto il linguaggio - la parola parlata e scritta - contribuisce a fomentare il sentimento della paura nei confronti dell' “Altro”?

Il ruolo delle narrazioni pubbliche sui temi delle migrazioni ha, per certi aspetti, un valore determinante nella percezione dell'opinione pubblica del fenomeno: i media, i giornali, si nutrono, soprattutto, di fonti provenienti dal mondo della politica, da quello giudiziario e da quello delle forze dell'ordine. ne viene fuori un quadro molto piatto, basato sull'emergenza, sull'allarmismo e sul panico morale.
La maggior parte delle persone – tranne chi ha un rapporto diretto o indiretto con le comunità di immigrati - apprende le notizie da queste fonti e, così, il mondo dell'informazione diventa determinante nel formare un “pensiero unico”. Uno studio dell'Univeristà di Lecce ha messo in evidenza che laddove gli studenti hanno avuto un contatto, anche minimo, con le comunità presenti, hanno maturato un quadro più strutturato e preciso, grazie all'esperienza diretta; laddove, invece, non avevano avuto contatti con le comunità di immigrati presenti nel Salento, risentivano pesantemente di un quadro di valutazione negativa”. Si affidavano solo su quello che avevano assorbito dai mass-media.

Quali sono i termini maggiormente usati nei confronti degli immigrati?

C'è un ventaglio di parole, ahimè, grazie al quale ho potuto mettere in fila, dalla A alla Z, circa cento parole che vengono utilizzate con enfasi e con un uso quasi vendicativo da noi occidentali nei confronti di chi giunge in Europa, in Italia.
Il libro racconta, per ogni vocabolo, l'uso improprio che se ne fa. Ad esempio: “clandestino”. Esistono profughi politici, migranti economici, persone con bisogni umanitari: la parola “clandestino” è stata coniata dal mondo dell'informazione, della politica e da quello giudiziario per evocare uno scenario delittuoso, di vite condotte nell'ombra e nell'illegalità. Peccato che, invece, molte persone scappino dalla guerra, da catastrofi umanitarie, da sconvolgimenti climatici.
Oppure prendiamo la parola “extracomunitario”, termine coniato dalla legislazione italiana per indicare persone estranee alla Comunità europea, ma che poi è stato esteso ed usato per escludere certe categorie di persone dai diritti fondamentali: non chiameremmo mai un giapponese o un americano “extracomunitario” ! Oggi, infatti, la parola “extracomunitario” non è più un aggettivo, ma è diventata un sostantivo per cui, quasi ontologicamente, gli extracomunitai sono quelli che ……..commettono reati.

Quali sono le nazionalità più colpite da questo modo di esprimersi violento e denigratorio?

I Nord africani, marocchini e tunisini, in particolare, e gli albanesi. Secondo le varie stagioni storico-politiche, nel libro, sono indicate le comunita’ apostrofate con questo genere di linguaggio: per esempio, nel 1991 - con la prima ondata di migrazioni dal Paese delle Aquile verso la Puglia– albanese diventeràun’'icona negativa. Dire “albanese” voleva dire “ladro”, “persona sporca”.
Questi termini ci hanno impedito una comprensione oggettiva e più allargata dei fenomeni migratori: e proprio in questo senso il testo vuole essere un manuale per i giovani, per il mondo della formazione perchè scandaglia e spiega come ogni termine sia stato, sempre più, ammantato di significati negativi.

Cosa si nasconde dietro questa volontà di alimentare la diffidenza ?

Ci sono scelte politiche che solo gli ultimi trent’anni sono in grado di raccontare. L’approccio securitario del legislatore italiano fin dall’esordio, per esempio. La scelta di derubricare le priorità sul tema delle migrazioni da parte delle forze progressiste in Italia. Basta guardare quel che è successo dal 1989 in poi con la morte del profugo sudafricano Jerry Masslo in Italia, con la caduta del muro di Berlino e l’abolizione della “riserva geografica”, che limitava le tutele a chi proveniva dai Paese dell’Est.
Dopo il 1989 le forze democratiche progressiste hanno portato avanti una politica miope che non ha fatto altro che confermare pregiudizi e stereotipi.
Inoltre, sono state tagliate le nostre radici storiche come Paese di migranti.


Giulio Di Luzio


mercoledì 22 maggio 2013

Se dico rom...Indagine sulla rappresentazione dei cittadini rom e sinti nella stampa italiana

Dal giugno 2012 al marzo 2013, i volontari dell'associazione Naga (Associazione volontaria di Assisetnza Socio-Sanitaria e per i Diritti di cittadini stranieri, rom e sinti) hanno analizzato gli articoli realtivi ai cittadini rom e sinti pubblicati su nove testate giornalistiche italiane: Corriere della Sera, La Repubblica, La Stampa, il Sole 24 ore, Il Giornale, Libero Quotidiano, La Padania, La Prealpina, Leggo, edizione di Milano.
Uno dei risultati emersi è che sia molto diffusa la pratica di inserire i rom in articoli che parlano di fatti negativi. Vengono, infatti, associati a criminalità e degrado anche i cittadini rom che compiono atti che non costituiscono reato (ad esempio, lavarsi ad una fontana) oppure che sono del tutto neutri (passare per un luogo o camminare). Ormai è sufficiente essere rom per essere qualcosa di negativo: lo stereotipo è talmente radicato che ha raggiunto un livello ontologico. Natascia Curto, una delle volontarie che ha curato la ricerca ha scritto, nel rapporto intitolato Se dico rom...Indagine sulla rappresentazione dei cittadini rom e sinti nella stampa italiana (che vede l'introduzione di federico Faloppa): “Abbiamo analizzato gli articoli per descrivere alcuni dei meccanismi attraverso i quali questo processo avviene e per capire quale sia il nesso tra rappresentazione negativa e discriminazione...Spesso queste associazioni raggiungono livelli discriminatori e vengono fatte ricorrendo a dichiarazioni riportate tra virgolette. Inoltre, un'altra modalità riscontrata nel trattamento dei rom nella stampa è quella di creare una separazione, un noi e un loro, i “cittadini” e i rom: due gruppi diversi...che non si intersecano e il cui benessere è alternativo”. O stiamo bene noi, quindi, oppure stanno bene loro.
Dall'analisi quantitativa, effettuata da Cristina Ferloni e Fanny Gerli, emerge che nel 30% degli articoli sono presenti dichiarazioni che si possono considerare discriminatorie. Hanno detto affermato le volontarie: “ La maggior frequenza di articoli che parlano di rom è riconducibile alle testate nazionali, con una significativa prevalenza per il Corriere della Sera e La Repubblica, seguiti da Libero nella sua edizione milanese. Le dichiarazioni discriminatorie analizzate rimandano in prevalenza a racconti di intolleranza sociale e discriminazione (37,2%), seguti da quelli che fanno emergere una differenziazione tra un “noi” e un “loro” (32,3%)”.
Il trattamento che la stampa fa dei rom ha l'effetto di creare, nell'opinione pubblica, un'idea negativa di queste persone, rinforzando le barriere che impediscono la piena fruizione dei diritti civili e sociali da parte dei rom. Ma la stampa, di contro, può essere anche veicolo di conoscenza e di avvicinamento. Cinzia Colombo, Presidente del Naga, ha chiesto ai singoli giornalisti, ai titolisti, alla Federazione Nazionale della Stampa e agli editori di rispettare e applicare le linee-guida per l'applicazione della Carta di Roma; di dar voce ai cittadini rom e sinti e ascoltarli come fonti; e, infine, di firmare l'appello dal titolo “I media rispettino il popolo rom”, lanciato dai giornalisti contro il razzismo.
Ogni singolo cittadino, infine, nella quotidianità, quando parla con gli amici, nei discorsi in famiglia, ha l'occasione di confermare o contrastare gli stereotipi e i pregiudizi che circolano sui rom e sinti: è importante avviare un lavoro culturale, capillare e costante.


venerdì 19 aprile 2013

Pegas Ekamba Bessa: musica e parole



Pegas Ekamba Bessa è nato e cresciuto nella Repubblica Democratica del Congo ed è in Italia da circa quindici anni. Attore di formazione, diplomato all'Istituto Nazionale d'Arte e di Spettacoli a Kinshasa, è anche scrittore di pièce teatrali e ha da poco pubblicato un lavoro di parole, disegni e musica.
Il suo libro - che verrà presentato il 12 maggio presso il Centro Asteria di Milano - si intitola L'Africa che fa !!! (proprio con tre punti esclamativi) in cui l'autore ha voluto raccontare l'Africa e il suo tempo, ma non quello scandito dall'orologio: il tempo come maestro di vita e l'Africa come la vita stessa senza trascurare temi importanti quali: le guerre etniche, la fame, il lavoro e le differenze religiose, ma senza mai scadere nel folklore o nella retorica.
Un libro che racconta e affascina, come fanno i griots con le loro storie: un CD accompagna, con il ritmo delle note e degli strumenti, le parole che narrano di uomini e di bambini, dell' arte dei miracoli e dei prodigi, della madre terra e di civiltà, di scienza e di Natura. Perchè l'Africa è tutto questo. Ma, soprattutto, un testo che parla della donna: donna madre, nutrice come la stessa Africa è libertà, pazienza, forza ed energia.

Riportiamo una breve intervista che abbiamo fatto a Pegas Ekamba Bessa:

A chi è rivolto il suo ultimo lavoro editoriale?

Si tratta di un messaggio che ho pensato a lungo, soprattutto per chi non conosce l'Africa profonda. Quell'Africa che ho sempre considerato non come un continente, ma come una famiglia in cui due genitori - che magari vengono da due culture diverse – generano figli che, a loro volta, saranno diversi tra loro. L'Africa è un albero, con tante radici e un tronco da cui partono tanti rami che vanno in sensi diversi, ma la made rimane una sola

Quando ascoltano una favola, che differenza c'è tra i bambini africani e quelli occidentali? E, poi, esistono queste differenze?

Le favole hanno sempre un insegnamento e la sera è il momento ideale per raccontarle. Ma la differenza sta nel modo in cui i bambini gestiscono il tempo della loro giornata: un bambino africano usa le ore del giorno, seguendo il ritmo del suo villaggio e della Natura e, di sera, è in grado di seguire con attenzione la morale della favola che gli viene narrata. Il bambino occidentale, invece, durante la giornata, ha tanti impegni e la favola serale diventa per lui soltanto una ninnananna per la buonanotte; ecco perchè le favole, ad esempio in Italia, vengono raccontate a scuola. Comunque, di sera o di giorno, le favole servono a capire il senso della vita

Nel suo libro è riportata una poesia in cui si parla di una strada nuova e di una strada vecchia. Cosa porta con sé della strada vecchia e cosa ha scoperto su quella nuova?

La mia lingua esprime una cultura radicata. Si dice, ad esempio: “Per fare un bel salto, bisogna fare un passo indietro”. Quindi, per vedere chiaro il Futuro, ho bisogno del mio Passato. E' necessario ricordare gli insegnamenti ricevuti e che hanno fatto di me la persona che sono oggi. Sono arrivato in Italia che avevo già quasi 27 anni; quindi, avevo un buon bagaglio culturale. La strada nuova è quella di trasmettere questo bagaglio attraverso varie forme di comunicazione; e, al contrario, potrò portare in Africa le esperienze e le conoscenze che ho acquisito qui in Occidente.

Secondo lei, gli italiani sono aperti alle culture diverse?

E' difficile rispondere a questa domanda perchè sto ancora studiando l'Italia...Ciò che posso dire è che siamo noi a portare la nostra cultura e, quindi, siamo noi che abbiamo la responsabilità di farla conoscere, cercando di affascinare i curiosi. La speranza è di convivere con entusiasmo.

Cosa significa, per lei, la musica?

Per me la musica sono le emozioni. Per me la musica è il tempo, il tempo scandito da ogni battito del cuore.

Pegas Ekamba Bessa



L’Africa che fa!!!
Cultura e tradizione, sorgenti di sviluppo per l’Africa
Fondazione Nigrizia onlus, Verona
e Gruppo Solidarietà Africa, Seregno (Mi)
2011, pp. 95, 20 euro

giovedì 28 marzo 2013

Una conversazione con Clelia Bartoli, autrice del saggio “Razzisti per legge. L'Italia che discrimina”, Editori Laterza




 In Razzisti per legge. L'Italia che discrimina (Editori Laterza) Clelia Bartoli, docente di Diritti umani alla Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Palermo, riesce a dimostrare che - nonostante gli italiani dichiarino di non essere razzisti, la “razza” -  nel Belpaese, non sia un dato naturale, ma un oggetto sociale e che essa prenda corpo perchè collettivamente, attraverso le leggi e il comportamento, la facciamo esistere. E, in particolare,sempre secondo la tesi dell'autrice, i migranti siano diventati una “razza” nuova, contemporanea: quella dei clandestini.



Abbiamo rivolto alcune domande a Clelia Bartoli



Quanto è importante, oggi, monitorare il linguaggio? Le parole, pronunciate e scritte, confermano stereotipi e pregiudizi?

La parola, come eminente espressione umana, è impregnata dalle relazioni di potere. Il linguaggio pone un ordine nel pensiero e nelle emozioni, censurando, enfatizzando, plasmando ciò che crediamo e sentiamo. Ciò significa che le frasi offensive, i discorsi escludenti, gli epiteti pregiudiziali costituiscono una forma di razzismo. Ma la discriminazione si annida perfino nella grammatica, nella sintassi, in espressioni comuni apparentemente neutrali. Ad esempio l’uso del plurale maschile per indicare un gruppo di donne e uomini, significa che il genere (non solo grammaticale) per eccellenza è quella maschile. L’usare la parola “nero” e “scuro” associate a situazioni negative, mentre il “bianco” e il “candore” alla bontà e all’innocenza, sono tutte connotazioni del linguaggio cariche di giudizio, che è bene smascherare e rovesciare. Un percorso di liberazione e affermazione di un gruppo oppresso passa comunque dal linguaggio, il Black power l’aveva ben capito, non a caso diffonde slogan come: “Nero è bello”.
Consiglio di leggere a questo riguardo il bel libro di Federico Faloppa, Razzisti a Parole (per tacer dei fatti), edito da Laterza.

Cosa si intende per “razzismo istituzionale”?

Quando si usa la parola razzismo ci si riferisce generalmente ad atti, parole o atteggiamenti discriminatori posti in essere da una persona contro un individuo o un gruppo. Esiste però un altro tipo di razzismo ancora più pericoloso perché suoi effetti sono più estesi ed è meno visibile, ed è il razzismo istituzionale.
Si tratta della disuguaglianza, della marginalità prodotta da leggi, regole, burocrazia, prassi amministrative, con o senza l’intenzione. Ad esempio sono forme di razzismo istituzionale il fatto che un ragazzo nato o cresciuto in Italia, perché figlio di immigrati, non possa avere la cittadinanza e dunque abbia meno diritti degli altri suoi compagni. È una forma grave di razzismo l’istituzione dei “campi nomadi”, che non hanno nulla a che vedere con la cultura rom, ma sono un modo per ghettizzare, impoverire e avvilire. Altro caso è la detenzione amministrativa nei Cie, che si basa sul principio che un migrante, in quanto tale, può essere privato del più antico e fondamentale dei diritti: quello della libertà, in mancanza di una colpa e di un processo. E potrei continuare a lungo con esempi di razzismo istituzionale.

L'Italia è un Paese razzista?

Evidentemente l’Italia è un paese affetto da razzismo istituzionale. Certamente non è l’unico. Purtroppo il razzismo istituzionale, come quello interpersonale, è un fenomeno diffuso ad ogni latitudine e longitudine. La cosa più saggia da fare e, oserei dire, più patriottica è ammettere questo problema, diagnosticarlo nelle sue diverse forme e correggerlo. C’è chi l’ha fatto, la Gran Bretagna ha saputo intraprendere un esteso processo di ripensamento delle istituzioni in chiave più inclusiva dopo il report MacPherson.
Si badi, ciò andrebbe fatto non solo per una questione di giustizia e bontà verso i poveracci, ma perché l’uguaglianza e un certo benessere sociale sono la condizione per stare bene tutti. Dove le tensioni sociali sono forti, dove esiste una parte della popolazione in grave difficoltà, vi sono importanti ripercussioni anche sul piano della sicurezza e dell’economia dell’intera comunità.

Ci può raccontare un caso, invece, di “buona pratica”?

Fortunatamente ci sono anche delle felici esperienze di istituzioni che intendono essere accoglienti, anche se purtroppo hanno difficoltà a divenire sistema. Nel mio libro racconto il caso del Comune di Riace. Un comune montano calabro, svuotato dall’emigrazione, abbandonato e diroccato che è rifiorito accogliendo i rifugiati. Le case abbandonate sono state rimesse a posto e divenute alloggi per i rifugiati, sono stati recuperati i mestieri tradizionali aprendo botteghe che coniugavano l’abilità dei migranti con quelle degli abitanti del luogo, la scuola e altri servizi sono stati rimessi in funzioni grazie al nuovo popolamento. A Riace sono passati centinaia di migranti e non c’è stato alcun problema di ordine pubblico; il sindaco Domenico Lucanospiega come a Riace, grazie alla politica nuova e vecchia dell’accogliere, ci sia bisogno di artigiani, educatori, mediatori, insegnanti, ben poco di polizia.
Con il Comune di Palermo abbiamo appena intrapreso un’esperienza di accoglienza istituzionale complessa, ma che spero dia buoni frutti. Abbiamo costituito un FoRom, un forum sui rom e soprattutto con i rom, un cantiere di democrazia partecipata, per elaborare delle strategia che possano dare dignità e valore a questa parte di cittadinanza, coinvolgendola attivamente nel processo decisionale e progettuale.

Può aiutarci a riflettere sul significato dei concetti di “contaminazione” e di “democrazia”?

Le mie prime ricerche le ho svolte sugli intoccabili in India, cioè su quelle caste che sono considerate così indegne e impure e il cui contatto risulta altamente contaminante per i membri delle alte caste. La vita degli intoccabili è terribile: sono costantemente evitati, umiliati, usati per i mestieri più sgradevoli e pericolosi, privi del ben che minino diritto.
Si dovrà però convenire che la paura della contaminazione, l’assillo di non perdere il proprio status frequentando persone non ritenute sufficientemente degne, non è una cosa che riguarda solo l’India. La preoccupazione per la salvaguardia del proprio status impedisce l’incontro, la scoperta di altre persone, di possibili amici o addirittura amori. Lo slogan di quest’anno dell’Unar lo dice bene: se chiudi con il razzismo ti si apre un mondo.
Bisogna però dire che gli intoccabili non si sono rassegnati, che l’India non è un continente senza storia e che uno dei più influenti padri costituenti, Ambedkar, era un leader di origine intoccabile che ha introdotto nella costituzione indiana l’abolizione dell’intoccabilità, nonché azioni positive per raggiungere un’uguaglianza sostanziale di classi, caste e tribù svantaggiate. La democrazie è quindi quel dispositivo che prevede la contaminazione, che scardina le differenze di nascita, che crea legami civici in luogo di quelli di sangue.
Ma la democrazia è anche altamente cagionevole, va costantemente accudita, sorvegliata e corretta.


Clelia Bartoli

lunedì 18 febbraio 2013

I Rom si raccontano


Che nell'agenda politica e in campagna elettorale non siano presenti i diritti umani è abbastanza evidente: ancor di più si evita di parlare dei Rom, dei Sinti o di altre minoranze se non con toni allarmistici.
Nel mese di gennaio, secondo un monitoraggio effettuato da Casa della carità di Milano, si sono registrati sui media italiani almeno 51 episodi di incitamento al razzismo e 155 casi di informazione scorretta. Informazione scorretta perchè, nonostante i pregiudizi ancora diffusi sui Rom, molte famiglie appartenenti a questa etnia hanno fatto il possibile per uscire dalla situazione di povertà e di esclusione. Molti di loro, infatti, oggi possiedono una casa e un lavoro e mandano regolarmente i figli a scuola.
Solo attraverso una conoscenza diretta e approfondita si superano i pregiudizi ( e le paure ad essi legate) sulle persone, sui popoli, sulle situazioni: per questo motivo, Casa della carità ha organizzato, per martedì 19 febbraio alle ore 18.00 presso l'Auditorium, l'incontro dal titolo: “Essere cittadini oltre ogni discriminazione. I Rom si raccontano”. All'incontro parteciperanno le famiglie rom seguite dalla Fondazione Romanì Italia e dal Centro Ambrosiano di Solidarietà e con loro dialogheranno Don Virginio Colmegna, presidente di Casa della carità, Marco Aime – antropologo dell'Università degli Studi di Genova e autore del libro “La macchia della razza” – e Nazzareno Guarnieri, presidente della Fondazione Romanì Italia.


La Fondazione Romanì Italia promuove, inoltre, la “Campagna Tre Erre” (3R): Rispetto per te stesso, Rispetto per gli altri, Responsabilità per le tue azioni.
Con il contributo di privati, istituzioni, enti pubblici, aziende e istituti di ricerca, la campagna si pone l'obiettivo di far accettare l'identità e la diversità di tutte le minoranze, senza più costringerle a nascondersi.
Il progetto, infatti, vuole dare una risposta ragionata alla rappresentazione sociale negativa che si abbatte sui bambini e i giovani rom, con questa campagna di comunicazione progettata - con la partecipazione attiva di professionisti rom della comunicazione - per il riconoscimento pieno dei diritti di rom e sinti: solo così queste persone potranno intraprendere percorsi positivi, sull'esempio di quelli già imboccati dai partecipanti alla serata del 19 febbraio.

domenica 10 febbraio 2013

Mostra "Diar-Diar": per un gemellaggio artistico tra Milano e Dakar

Fino al 28 di febbraio è possibile visitare l'esposione Diar-Diar ovvero Percorso che propone l'incontro dell'artista senegalese "Douts" (Mohamadou Ndoye) e del suo connazionale Mor Talla Seck provenienti, entrambi, dalla Scuola di Belle Arti di Dakar (ENBA).
La mostra è ospitata presso la B.D.- ART GALLERY, Black Diaspora Art, di Via Mac Mahon, 84 a Milano, una galleria che si pone come luogo di aggregazione e di scambio per gli artisti africani, centro di esposizione permanente delle loro opere e laboratorio artistico per adulti e bambini. 
In occasione della mostra in corso, Douts presenta - oltre ai suoi dipinti (vedi fotografie) - il film di animazione intitolato Train-Train Medina in cui racconta la complessità e la bellezza di un quartiere della citàà di Dakar , una città che brulica di case, di strade, di persone che prendono forma da sabbia, cartone, vernice e stoffa. e poi le televisioni, le antenne, le partite di calcio e il passaggio degli autobus. Un caos e un sottofondo di povertà.
Il rischio è che il quartiere possa soccombere al disordine e al ritmo urbano. Ma, nell'opera di Douts, emergono la vivacità, i colori che pulsano vita e, soprattutto, la tenacia degli abitanti che cercano sempre soluzioni nuove e non conoscono la rassegnazione.

Per vedere il film :   http://vimeo.com/22070859

L'arte di Douts dialoga con quella di Mor Talla Seck - pittore e scultore - che presenta una serie di opere intitolata Sous Verre (Sotto vetro). La tecnica consiste nel disegnare e dipingere, in negativo dietro il vetro, in modo da far vedere, davanti, la parte positiva. Ed è un messaggio, una metafora, un consiglio: per comprendere meglio ciò che si ha davanti, è necessario osservarlo da ogni punto di vista. In particolare - quando si tratta di persone - è possibile valutarne i lati positivi...prima di giuducarle in base a stereotipi o pregiudizi.
Le opere di Mor Talla Seck (che ha lavorato anche per il TAM, Trattamento Artistico dei Metalli di Arnaldo pomodoro) sono definite "piani mistificati" e il loro significato affonda le proprie radici - come nei lavori di Douts - nella vita quotidiana senegalese, nella cultura e nella tradizione, toccando i temi della solidarietà e del rispetto, del libero arbitrio e della spiritualità.