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martedì 21 aprile 2015

La rimozione forzata della memoria



di Angelo D'Orsi (da Il Manifesto)




«Ad Auschwitz, uno dei monu­menti più note­voli tra quelli dedi­cati alle varie comu­nità degli inter­nati è il cosid­detto "Memo­riale Ita­liano"».Vogliono spostarlo da quel luogo. . Perchè no.

Ad Ausch­witz, uno dei monu­menti più note­voli tra quelli dedi­cati alle varie comu­nità degli inter­nati è il cosid­detto «Memo­riale Ita­liano». Un paio di anni or sono le auto­rità polac­che deci­sero di chiu­derlo al pub­blico, nel silen­zio del governo ita­liano, e dell’Aned, in teo­ria pro­prie­ta­ria dell’opera. Pochi mesi fa la sovrin­ten­denza del campo, ormai museo, ha deciso di pro­ce­dere alla rimo­zione del Memo­riale. La sua colpa? Quella di ricor­dare che nei lager non furono sol­tanto depor­tati e ster­mi­nati gli ebrei, ma gli slavi, i sinti, i rom, i comu­ni­sti insieme a social­de­mo­cra­tici e cat­to­lici, gli omo­ses­suali, i disa­bili. Quel Memo­riale opera egre­gia, alla cui idea­zione, su pro­getto dello stu­dio BBPR (Banfi Bel­gio­joso Perus­sutti Rogers, il pre­sti­gioso col­let­tivo mila­nese di cui faceva parte Ludo­vico Bel­gio­joso, già inter­nato a Buche­n­wald) col­la­bo­ra­rono Primo Levi, Nelo Risi, Pupino Samonà, Luigi Nono…, ha dei «torti» aggiun­tivi, come l’accogliere fra le sue tante deco­ra­zioni e sim­bo­lo­gie anche una falce e mar­tello, e una immagine di Anto­nio Gram­sci, icona di tutte le vit­time del fasci­smo.
Ora, ai gover­nanti polac­chi, desi­de­rosi di rimuo­vere il pas­sato, distur­bano quei richiami, agli ebrei il fatto che il monu­mento metta in crisi «l’esclusiva» ebraica rela­tiva ad Ausch­witz. Ed è grave che una città ita­liana, Firenze, si sia detta pronta ad acco­glierlo. Con­tro que­sta scel­le­rata ini­zia­tiva si sta ten­tando da tempo una mobi­li­ta­zione cul­tu­rale, che si spera possa avere un riscon­tro poli­tico forte e oggi su que­sto si svol­gerà nel Senato ita­liano una ini­zia­tiva di denun­cia pro­mossa da Ghe­rush 92-Committee for Human Right e dall’Accademia di Belle Arti di Brera. Spo­stare quel monu­mento dalla sua sede natu­rale, equi­vale a tra­sfor­marlo in mero oggetto deco­ra­tivo, men­tre esso deve stare dove è nato, per il sito per il quale fu pen­sato, a ricor­dare, pro­prio là, die­tro i can­celli del campo di ster­mi­nio, cosa fu il nazi­smo e il suo lucido pro­getto di annien­ta­mento, che, appunto, non con­cer­neva solo gli ebrei, col­lo­cati in fondo alla gerar­chia umana, ma anche tutti gli altri popoli, giu­di­cati essere «razze infe­riori» come gli slavi, o i nemici del Reich, comu­ni­sti in testa, o ancora gli «scarti» di uma­nità, secondo le oscene teo­rie degli «scien­ziati» di Hitler.

Insomma, la rimo­zione del Memo­riale, è una rimo­zione della memo­ria e un’offesa alla sto­ria. Ebbene, l’atteggiamento dell’Aned e delle Comu­nità israe­li­ti­che ita­liane, che o hanno taciuto, o hanno appro­vato la rimo­zione del Memo­riale (in attesa della sua sosti­tu­zione con un bel manu­fatto poli­ti­ca­mente adat­tato ai tempi nuovi), appare grave.

E in qual­che modo richiama le pole­mi­che di que­sti giorni rela­tive alla mani­fe­sta­zione romana del 25 aprile.

Pre­messo che la cosa «si svol­gerà di sabato», e dun­que, come ha pre­te­stuo­sa­mente pre­ci­sato il pre­si­dente della Comu­nità israe­li­tica romana, gli ebrei non avreb­bero comun­que par­te­ci­pato, la denun­cia che «non si vogliono gli ebrei», è un rove­scia­mento della verità: non si vogliono i pale­sti­nesi. Ed è grave l’assenza annun­ciata dell’ANED, per la prima volta, anche se la bagarre si è sca­te­nata sull’assenza della «Bri­gata Ebraica». La quale ha le sue ori­gini remote niente meno in Vla­di­mir Jabo­tin­sky, sio­ni­sta estre­mi­sta di destra con legami negli anni ’30 mai smen­titi con Mus­so­lini, che con­vinse le auto­rità bri­tan­ni­che, nella I guerra mon­diale, a dar vita a una Legione ebraica. Nel II con­flitto mon­diale, fu Chur­chill a lasciarsi con­vin­cere a orga­niz­zare un Jewish Bri­gade Group, inqua­drato nell’esercito bri­tan­nico: 5000 uomini che ope­ra­rono in par­ti­co­lare nell’Italia cen­trale, con­tri­buendo alla libe­ra­zione di Ravenna e di altri bor­ghi. Ebbe i suoi morti, e le sue glo­rie. Bene dun­que cele­brarla. Ma non fu né avrebbe potuto avere un ruolo emi­nente, come sem­bre­rebbe a leg­gere certe dichia­ra­zioni. Ma il fuoco media­tico supera il fuoco delle armi. E che dire di ciò che avvenne dopo? Come sto­rico ho il dovere di ricor­darlo. Quei sol­dati diven­nero il nucleo ini­ziale delle mili­zie dell’Irgun e del Haga­nah — quelle che cac­cia­rono i pale­sti­nesi nella Nakba — e poi dell’esercito del neo­nato Stato di Israele, al quale offri­rono anche la ban­diera.

Si capi­sce l’imbarazzo dell’Anpi di Roma, tra l’incudine e il mar­tello. Ma quando leggo che il suo pre­si­dente afferma che «i pale­sti­nesi non c’entrano con lo spi­rito della mani­fe­sta­zione», mi vien voglia di chie­der­gli se gli amici di Neta­nyahu c’entrino di più. Altri hanno dichia­rato in que­sti giorni che biso­gna lasciar par­lare solo chi ha fatto la guerra di libe­ra­zione; ma se così intanto andreb­bero cac­ciati dai pal­chi tanti trom­boni in cerca di applausi; e soprat­tutto se si adotta que­sta logica è evi­dente che tra poco non ci sarà più modo di festeg­giare il 25 aprile, per­ché, ahimè, i par­ti­giani saranno tutti scom­parsi.



E allora — visto l’articolo 2 dello Sta­tuto dell’Anpi che riven­dica un pro­fondo legame con i movi­menti di libe­ra­zione nel mondo — come non dare spa­zio a chi oggi lotta per libe­rarsi da un regime oppres­sivo, discri­mi­na­to­rio come quello israe­liano, rap­pre­sen­tato ora dal governo di destra di Neta­nyahu? Chi più dei pale­sti­nesi ha diritto oggi a recla­mare la «libe­ra­zione»? E invece temo si vada verso que­sto (addi­rit­tura in que­ste ore in forse a Roma) e i pros­simi 25 Aprile inges­sati e reistituzionalizzati.









venerdì 21 novembre 2014

Memoria storica e attualità


Associazione per i Diritti Umani

PRESENTA



D(i)RITTI AL CENTRO

Memoria storica e attualità



presentazione del saggio “LE CATACOMBE DELLA ROMANIA – Testimonianze dalle carceri comuniste 1945 - 1964”

alla presenza di Violeta P. Popescu, Antonio Buozzi, Mirela Tingire, Vlad Scolari



MERCOLEDI' 26 NOVEMBRE

ore 19.00

presso

BISTRO' DEL TEMPO RITROVATO

Via Foppa, 4 (MM Sant'Agostino) Milano



L’Associazione per i Diritti Umani presenta il nono appuntamento della serie di incontri dal titolo “DiRITTI AL CENTRO”, che affronta, attraverso incontri con autori, registi ed esperti, temi che spaziano dal lavoro, diritti delle donne in Italia e all’estero, minori, carceri, disabilità.

In ogni incontro l’Associazione per i Diritti Umani attraverso la sua vice presidente Alessandra Montesanto, saggista e formatrice, vuole dar voce ad uno o più esperti della tematica trattata e, attraverso uno scambio, anche con il pubblico, vuole dare degli spunti di riflessione sull’attualità e più in generale sui grandi temi dei giorni nostri



L'appuntamento è per mercoledì 26 novembre, alle ore 19.00, presso il Bistrò del tempo ritrovato, Via Foppa, 4 (MM Sant'Agostino) Milano




IL LIBRO:

...La Romania non ha ancora chiuso tutti i conti con il proprio passato. Il passo successivo nel processo che impone di confrontarsi con il passatocomunista e recuperare la memoria è quello di conoscere i responsabili del gulag romeno. Accettare il passato comunista significa anche chiarire i fatti che hanno condotto a un vero e proprio genocidio di massa”.


Per rendere onore a tutti romeni che hanno sofferto in nome della libertà, della dignità e della fede, durante il regime comunista della Romania”.

mercoledì 19 novembre 2014

Looking for Kadija: l'Eritrea, il colonialismo, l'amore





Il regista Andrea Patierno, lo sceneggiatore Alessandro Caruso e il regista Francesco Raganato, con l'aiuto di Francesco Sardello, organizzatore sul posto, pianificano i provini per trovare l'attrice principale, poi sistemano i set, chiedono alle maestranze di costruire un carrello per il dolly: questo per girare Looking for Kadija, lavoro girato tra le città di Asmara e Massaua e i villaggi di Agada, Cheren, Cheru, ricostruendo una vicenda poco nota e molto avventurosa (raccontata da Vittorio Dan Segre in "La guerra privata del tenente Guillet. La resistenza italiana in Eritrea durante la seconda guerra mondiale", Corbaccio 2008).
Sono giovani donne che raccontano del servizio militare civile oppure obbligatorio, di amori e di emigrazioni. Si racconta, così, un Paese fortemente militarizzato che fa molta fatica ad ottenere qualche spiraglio di democrazia.
L'Associazione per i Diritti Umani ha posto alcune domande al regista Francesco Raganato e lo ringrazia.



Il suo documentario nasce da una storia lontana: ce la può raccontare?

 

La storia che raccontiamo nel documentario nasce da lontano, sia nel tempo che nello spazio.

Siamo in Eritrea, colonia italiana, alla fine della seconda guerra mondiale. Dopo la resa e la firma dell’armistizio in Europa, un ufficiale di cavalleria italiano di stanza in Eritrea, Amedeo Guillet, si rifiuta di consegnare il paese agli inglesi e organizza la resistenza eritrea, di fatto diventandone il capo carismatico. Al suo fianco Kadija, la bellissima figlia di un capotribù locale.

Dopo oltre mezzo secolo, una troupe italiana, composta da me, dal produttore Andrea Patierno e dallo sceneggiatore Alessandro Caruso, giunge in Eritrea per preparare un film dedicato a questa grande storia di amore ed eroismo.

I casting per trovare la protagonista del film diventano l'occasione per conoscere, attraverso le storie delle giovani aspiranti e delle loro famiglie, la condizione e le speranze di un paese isolato dal resto del mondo da vent'anni di dittatura militare.

Così nasce “Looking for Kadija”.



L'Eritrea, come molti Paesi africani, vede molte persone emigrare verso un futuro migliore e, spesso, però sono gli uomini a farlo. Molte madri, mogli, sorelle restano e aspettano: avete raccolto le storie di queste famiglie spezzate?



Inevitabilmente intervistando le ragazze è venuta fuori la questione dell’emigrazione, soprattutto di quella maschile. In ogni famiglia c’è almeno un caso di emigrazione, è una situazione che tocca davvero tutti.

L’argomento però non è mai approfondito, è sempre accennato, velato, forse per paura, forse per pudore, questo non lo sappiamo.




Qual è la condizione femminile nell'Eritrea di oggi?



E’ una domanda a cui posso rispondere solo parzialmente, poiché il nostro film non è un’inchiesta, ma è un viaggio incentrato sulla ricerca di una attrice.

Quello che posso dire con certezza, perché mi si è palesato davanti agli occhi durante i casting, è che le donne eritree hanno una fierezza ed una dignità invidiabili. Hanno una scintilla nei loro occhi che mette quasi soggezione, hanno voglia di fare, di emergere, di realizzare i loro sogni, ai quali per fortuna non rinunciano. Hanno amore fortissimo per il loro paese e per la loro cultura, un amore sano, oltre a una enorme voglia di riscatto, una voglia reale, che si tocca con mano.





Il film intreccia presente e passato. Una domanda che ci sta sempre molto a cuore è: quanto è importante la memoria storica, anche alla luce degli avvenimenti attuali, nei naufragi nel Mediterraneo?



La memoria storica è sempre di fondamentale importanza, non solo perché banalmente si può imparare a non ripetere gli errori del passato, ma soprattutto perché tutto ciò che è accaduto in passato ci dà una chiave per leggere e interpretare (e migliorare) il presente.

Per essere più concreti, ad un certo punto del film, un signore di Massaua, con un italiano impeccabile, ci racconta di come gli italiani durante gli anni del colonialismo erano arrivati in Eritrea per rimanere, per vivere una vita magari migliore di quella che avevano in Italia. Di conseguenza hanno costruito edifici meravigliosi, strade efficienti, ferrovie all’avanguardia. Hanno dotato il paese di infrastrutture da cui ancora oggi gli Eritrei traggono beneficio.

Ci ha raccontato sostanzialmente un esempio di una sana compenetrazione culturale ed economica, in cui tutte e due le parti traggono beneficio.

All’opposto, e non dico nulla di nuovo, i naufragi del Mediterraneo in realtà sono l’evidente risultato di una scellerata politica colonialista, un colonialismo da saccheggio, perpetrata da molti governi extra-africani (non è esatto dire “occidentali”) a danni delle fragili democrazie africane (ove ce ne siano). Ma è un discorso lungo e complicato da affrontare in poche battute.





Quando e come è stato realizzato questo suo lavoro?



Nell’ottobre del 2013 siamo stati in Eritrea per circa 20 giorni per fare le riprese. Abbiamo visitato Asmara, poi Massaua e Cheren dove oltre alla ricerca delle location per il fim che vogliamo fare abbiamo organizzato i casting per trovare Kadija. Ci siamo spinti anche verso la piana di Cheru, che fu il teatro della tremenda battaglia in cui morirono molti italiani e ascari eritrei che fianco a fianco combatterono contro gli inglesi.

Poi da gennaio 2014 fino ad aprile c’è stato un lunghissimo lavoro di montaggio con Alice Roffinengo, la nostra editor, e Chiara Laudani, autrice del documentario con Alessandro Caruso.

Rai Cinema ha creduto sin da subito al progetto e ci ha concesso il sostegno finanziario per realizzare questo lavoro.

La vittoria al Festival di Roma è giunta davvero inaspettata, e questo ha messo in moto ciò che speravamo, ovvero la possibilità di pensare davvero di realizzare finalmente un film sulla storia di Amedeo Guillet e Kadija.

martedì 8 luglio 2014

Cercando Lindiwe: senza memoria non c'è identità





Valentina Acava Mmaka è una scrittrice italo-sudafricana, giornalista e attivista per i diritti umani. E' da poco uscito un suo romanzo - già edito nel 2007 e ora ripubblicato per Kabiliana Press - intitolato Cercando Lindiwe. Lindiwe è una donna nera, costretta ad abbandonare il Sudafrica a causa del massacro di Shaperville, avvenuto nel 1960 quando decine e decine di manifestanti pacifici vengono massacrati perchè protestano contro il pass, il lasciapassare dei neri per poter uscire dai ghetti.

Dopo 33 anni di esilio, la protagonista torna in patria, con il nome di Ruth. Ritorna sul proprio Passato e su quello del Paese: sull'apartheid, sulle discriminazioni, sui delitti. Una donna che vuole ricomporre la propria idendità perchè, come scrive l'autrice: “Non esiste identità se non c'è memoria”.

Un romanzo che rapisce e indigna. Un romanzo che ridà speranza solo, però, dopo un percorso di consapevolezza e riconciliazione.



Abbiamo rivolto alcune domande a Valentina Acava Mmaka e la ringraziamo molto per questo suo intervento.



Ci può, brevemente, spiegare cosa significhi essere esiliati?



L’Esilio è l’esperienza migratoria più estrema e ineluttabile. L’esilio è una separazione non solo dalla propria casa, dagli affetti ma anche dal proprio passato.

Il poeta Wallace Stevens lo definisce una “mente invernale”, la tensione verso una stagione più mite è solo un’illusione per l’esule. L’esilio di Lindiwe, nel romanzo, rispecchia questa immagine, quasi di fissità, di congelamento, di irrigidimento. L’essere partiti con il biglietto di sola andata è una condizione psichica estrema che trasforma la percezione della realtà nuova, quella dell’esilio, e anche quella del passato lasciato alle spalle. Stuart Hall diceva che ogni migrazione, dunque anche l’esilio, è in ogni caso sempre un viaggio di sola andata.



Qual è il prezzo che la protagonista ha dovuto pagare in nome della propria libertà? E quella libertà è strettamente collegata ai concetti di “appartenenza” e di “identità” che attraversano tutta la narrazione?



Lindiwe paga il prezzo più alto dalla sua esperienza di esilio rinunciando in primis alla nozione di appartenenza. L’esilio spazza via tutte le certezze e la spinge in un limbo che la rende estranea persino alla causa per la quale ha sempre lottato. La sua idea iniziale di continuare la lotta nell’altrove, in un luogo più “sicuro” nel quale enfatizzare la causa anti segregazione, è morta nel preciso momento in cui la nave è partita dal porto di Durban. La mancanza di tangibilità con il luogo della sua lotta diventa un deterrente. L’esilio definisce l’esule in relazione al luogo a cui appartiene, dove è nato, dove custodisce gli affetti e nel quale gli viene spesso negata la libertà, un rapporto di amore e di odio al tempo stesso. Per estremo l’altrove le impone, direttamente e indirettamente, di vivere uno spazio disconnesso senza corrispondenze, anche la vicinanza con altri esuli non sortisce in lei alcuna empatia o riconoscimento, poiché l’esilio è una esperienza legata al luogo che si lascia e in quanto tale, alla lingua, alla storia, è un legame di di affinità, di corrispondenze. L’esilio rappresenta un’ “assenza” ed è in essa che nasce il conflitto identitario della protagonista, dove attraverso un gioco di sdoppiamento della persona, tenta di capire le ragioni della sua inerzia, del suo “inverno” interiore.



Che cosa si intende per “ubuntu”?



L’ubuntu fa riferimento all’etica secondo cui io sono ciò che sono perché gli altri sono. È un principio fondamentale che può prestarsi come premessa di una società basata sul rispetto, sulla solidarietà, sul confronto, sulla riconciliazione. Un’utopia allo stato attuale in cui si trovano le società mondiali.


Può approfondire anche il tema che riguarda l'importanza della Memoria? Memoria storica, Memoria collettiva...


La scrittrice Toni Morrison scrive che non si può dare una passata di bianco al passato. Per quanto doloroso, anzi, maggiore esso è doloroso, con maggior vigore la fiamma del suo ricordo va alimentata. La memoria storica è un bene cui la collettività non può e non deve rinunciare. E’ importante per una società stabilire una relazione permanente costante e continua con il proprio passato, ci permette di sapere dove vogliamo che la “nostra” storia personale si collochi .La memoria aiuta una comprensione più ampia della Storia. Essa seleziona e moltiplica i significati degli eventi e li pone sul piano dei sentimenti e delle emozioni. In questo senso la memoria collettiva è indispenssabile ai fini dell’identità che rischia altrimenti di essere corrosa dalla frentica corsa verso la globalizzazione del presente.

La scrittura è il luogo che incarna il mio ideale di libertà. La scrittura declina concetti come patria, casa, paese nell’unico modo accettabile. In essa trovo possibile tradurre la realtà interna ed esterna trasferendola ad un piano immaginario dove posso riscriverla. La scrittura è la mia coscienza e la mia responsbailità come artista e donna.

mercoledì 4 giugno 2014

Kamchatka: quando il gioco diventa realtà



La Kamchatka per molti è solo una regione da conquistare nel gioco del Risiko. E a Risiko, in effetti, gioca il protagonista di un romanzo (che è anche diventato un film, dal titolo omonimo del regista Marcelo Piñeyro).

Stiamo parlando del romanzo di Marcelo Fugueras, scrittore, sceneggiatore e giornalista di Buenos Aires, edito da L'asino d'oro, ambientato durante la dittatura militare che infestò il Sudamerica tra il 1976 e il 1983. Storia recente, dunque, di cui si parla pochissimo.

E noi vogliamo farlo attraverso questo libro in cui la storia è narrata da un bambino, Harry, che come tutti i suoi coetanei, ama giocare a Risiko con l'amico Bertuccio e ama tanto i genitori e il fratello minore, il Nano. Raccontare l'orrore e la paura, il rischio e il coraggio dei dissidenti tramite gli occhi di un bambino non è operazione facile, ma sicuramente è utile per tutelare anche i lettori dalla violenza e dal dolore perchè Harry, con la sua infantile ingenuità, vive tutto come se fosse un gioco: anche la necessità di cambiare nome e identità.

Interessante la spiegazione che lo scrittore ha dato per questa sua scelta: dice di non aver voluto scrivere di desaparecidos perchè, parlare di quelle persone in questi termini, significa farle diventare come fantasmi, senza nome, solo numeri. Ha voluto raccontare, invece, una storia di persone, di figli e genitori, di una intera famiglia. Una storia in cui tutti si possano identificare in quanto figli, genitori, uomini, donne e bambini.

I protagonisti del romanzo (come quelli del film), infatti, hanno pregi e difetti come tutti, limiti e punti di forza: mettono la propria vita a servizo di una causa e di valori fondamentali e lo fanno giorno dopo giorno, da persone comuni che vivono la loro comune quotidianità. Persone che sanno anche ridere, che vivono con gioia anche se non sanno quanto questa gioia durerà. Genitori che insegnano ai propri figli l'onestà e la coerenza, ma soprattutto l'amore e il rispetto per gli altri.

Giocare a cowboy, al pirata o all'agente segreto, in fondo, è un gioco di ruolo che insegna a cambiare identità a seconda delle circostanze e cambiare identità in nome della libertà è il gioco più grande. E solo così, con la certezza di aver vissuto anche solo per poco ma con passione e per un grande ideale, la vita si prende gioco della morte e vince.
 

venerdì 25 aprile 2014

Una questione privata (anzi no)




25 aprile: nella giornata per la festa della Liberazione dal nazifascismo vogliamo ricordare un romanzo che, più di molte narrazioni, ha parlato della Resistenza senza retorica, con spietata lucidità, intrecciando una vicenda privata alla grande Storia.

Stiamo parlando de Una questione privata di Beppe Fenoglio, un libro “costruito con la geometrica tensione d'un romanzo di follia amorosa e cavallereschi inseguimenti come l'Orlando Furioso, e nello stesso tempo c'è la resistenza proprio com'era, di dentro e di fuori, vera come non mai era stata scritta, serbata per tanti anni limpidamente dalla memoria fedele e, con tutti i valori morali, tanto più forti quanto impliciti, e la commozione e la furia”. Con queste parole un altro autore importantissimo, Italo Calvino, nella prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno, presenta il testo di Fenoglio, in cui Milton, il protagonista, è
accecato dall'amore per Fulvia e ossessionato dal dubbio del tradimento con Giorgio, il suo migliore amico. Tra fango e nebbia Milton vuole cercare Giorgio e, con lui, la verità e scopre che l'uomo è stato rapito ad Alba dai fascisti: Milton, allora, organizza uno scambio facendo prigioniero un sergente nemico che, però,si troverà costretto ad uccidere. Milton non si rassegna: torna alla villa con la speranza di incontrare di nuovo la sua amata, ma trova una colonna nazista che lo costringe ad una fuga disperata... fino all'epilogo.

Nel XI capitolo Milton dice: “Vengo da Santo Stefano, per una questione privata”: da qui Calvino, dopo la morte prematura di Fenoglio, decide di dare al libro il titolo Una questione privata, libro che, infatti, fu pubblicato postumo nel 1963.

Il viaggio, come viaggio mentale e di formazione, è sicuramente uno dei topoi narrativi. E poi l'amore, un amore malato, un'ossessione, come puo' esserlo anche quello verso un'ideologia; e la Resistenza che fa da contesto storico alla vicenda ed è raccontata nella maniera più sincera e umana possibile. I partigiani sono, prima di tutto, persone con pregi e difetti, punti di forza e fragilità. E, infine, Fulvia: Fulvia, la donna, la speranza. La speranza (e la volontà) di trovare la verità, di trovare un senso per la vita umana e per la Storia.

domenica 30 marzo 2014

Genocidio Rwanda: per parlare alle nostre coscienze



Sono trascorsi vent'anni dal genocidio e da una guerra civile che fece circa un milione di vittime in Rwanda: una corte di Parigi ha emesso la prima sentenza nei confronti dell'ex capo dell'intelligence del governo ruandese dell'epoca e capitano della guardia presidenziale, Pascal Simbikangwa, condannandolo a 25 anni di carcere per complicità in genocidio e crimini contro l'umanità.

Noi vogliamo riportare alla memoria quel genocidio con la recensione di un libro: Nostra Signora del Nilo di Scholastique Mukasonga (uscito in Italia il 20 febbraio per i tipi di 66thand2nd), libro che ha ottenuto il premio Ahmadou Kourouma al Salone del libro di Ginevra e, nel novembre 2012, il premio Renaudot. 

Nostra signora del Nilo è il nome di un istituto scolastico, di un liceo femminile situato non lontano dal Grande fiume dove si erge la statua della Madonna nera. Siamo in Rwanda, negli anni'70, e in quell'istituto studiano allieve, spesso figlie di uomini potenti: avvocati, ministri, uomini d'affari. Intorno a quell'istituto si muovono, le suore, la madre superiora e il cappellano, ma anche il sindaco della città di Nyaminombe e le guardie comunali che insegnano e predicano alle ragazze i valori dell'onestà, della purezza e della castità. Gloriosa, Frida, Goretti, Godelive, Immaculée: questi i nomi di alcune di loro, ma nel gruppo, ci sono anche Virginia e Veronica, due giovani di etnia tutsi, ammesse alla scuola grazie alla quota “concessa” dagli hutu, l'etnia dominante. 


Un anno scolastico è un'occasione di confronto (o di scontro): un'impudenza, infatti, sfocerà nell'odio razziale è sarà uno dei primi segnali che porteranno al genocidio del 1994, nel periodo tra aprile e luglio, quando gli estremisti hutu, per preservare il loro potere, organizzarono l'immenso massacro.

Le ore di religione erano ovviamente affidate a padre Herménégilde. A suon di proverbi, dimostrava che i ruandesi avevano sempre adorato un unico Dio, un Dio che si chiamava Imana e che somigliava come un fratello gemello allo Jahvè degli ebrei della Bibbia. Gli antichi ruandesi erano, senza sapere di esserlo, dei cristiani che aspettavano con impazienza l'arrivo dei missionari per farsi battezzare, ma il diavolo era giunto a corrompere la loro coscienza”: questo è un brano del romanzo, scritto con un linguaggio semplice, ma efficace, che ripercorre la Storia passata e recente di un Paese sempre dilaniato da conflitti interetnici e religiosi e lacerato dal colonialismo.

Un testo che racconta di una terra bellissima su cui gli Uomini hanno seminato razzismo e sopraffazione, rabbia e fanatismo: ma una speranza, nel racconto, c'è e si chiama solidarietà.


martedì 28 gennaio 2014

La shoah dei bambini





Continuiamo il nostro percorso sull'importanza della memoria con la segnalazione del libro intitiolato La Shoah dei bambini di Bruno Maida, edito da Einaudi. Il saggio è stato presentato lo scorso 19 gennaio presso la Casa della Cultura di Milano.

Un libro che riattraversa «con occhi di bambino» le tragiche vicende della persecuzione antiebraica: per i bambini «ariani», cresciuti nell'educazione al razzismo e alla guerra e, soprattutto, per i bambini ebrei, allontanati da scuola, testimoni impotenti della progressiva emarginazione sociale e lavorativa dei genitori, quando non della distruzione e dell'eliminazione fisica della propria famiglia. Da questa prospettiva - peculiare, e tuttavia indispensabile per comprendere l'essenza di una persecuzione razziale, dunque fondata propriamente sulla nascita - la storia che abbiamo alle spalle assume nuovi significati e stratificazioni. In bilico tra due registri - narrativo e storiografico - il libro si colloca in un filone d'indagine che vede crescere a livello internazionale l'interesse verso la storia dell'infanzia nel Novecento.



Abbiamo intervistato il Prof. Maida che ringraziamo molto per la sua disponibilità.



Ogni anno, il 27 gennaio, si parla della Giornata della memoria, ma che cos'è la memoria storica e quanto è importante per il Presente e per il Futuro dell'umanità?



La memoria non è la Storia, sono due cose differenti. La memoria è una fonte straordinaria per la Storia, per la possibilità di raccontarla, soprattutto nel caso della Shoah dove molte prove sono state cancellate e distrutte e, quindi, è molto difficile ricostruirne il processo.

 

Nel suo libro affronta il tema dell'Olocausto da un punto di vista inusuale: quello dei bambini. Perchè questa scelta?

 

Per due ragioni, fra le molte importanti: una è che la Shoah dei bambini è la Shoah. Perchè, se il tentativo era quello di distruggere completamente un gruppo, di annientarlo, uccidere i bambini era la condizione primaria. In secondo luogo, più in generale, perchè parlare dei bambini significa attribuire un protagonismo all'infanzia e, quindi, considerare i bambini non soltanto come oggetto della Storia, ma come soggetto protagonista della Storia.



Cosa significa essere genitori di bambini perseguitati?

 

Vuol dire, prima di tutto, essere perseguitati in prima persona e,quindi, essere soggetti che progressivamente si indeboliscono e perdono quella possibilità e capacità di proteggere, di difendere i propri figli. Nello stesso tempo significa, come è accaduto in quella vicenda, riuscire a far emergere straordinarie energie, oltre alla capacità di costruire quel simulacro di normalità nel clima di persecuzione e, così, di garantire ai propri figli una condizione meno brutta possibile.



Anche i bambini ariani, in fondo, sono stati vittime dell'educazione nazista...



Il nazismo educò alla morte, all'intolleranza, alla violenza. Sicuramente i bambini educati all'ideologia nazista furono anch'essi vittime, in molti modi differenti: lo furono perchè si formarono su alcuni sistemi di valori di quel genere, lo furono perchè costretti anche a combattere, lo furono anche senza essere ebrei perchè alcuni ariani vennero perseguitati e uccisi solo perchè considerati inferiori, pensiamo, ad esempio, ai bambini handicappati.

L'ideologia nazista, infatti, aveva al suo centro l'infanzia e si basava sulla distruzione di tutte quelle parti d'infanzia che non corrispondevano al suo modello.



Il suo saggio è molto documentato: dove ha reperito il materiale per prepararlo?

Questo lavoro si è costruito, soprattutto, come la raccolta di voci: voci di testimonianze orali, di raccolte, di documentazioni scritte. Le fonti principali sono state il Centro di documentazione ebraica di Milano e la Fondazione Spielberg che forniscono tantissime storie. Il mio obiettivo era ricostruire quella vicenda e, contemporaneamente, ridare voce pubblica a quei bambini.







lunedì 27 gennaio 2014

Un genocidio quasi dimenticato

In attesa dell'importante intervista che pubblicheremo domani, oggi - in occasione della Giornata internazionale della Memoria - vi riproponiamo due video sul genocidio degli armeni, per ricordare, oltre all'Olocausto degli ebrei, anche altri drammi che hanno , purtroppo, segnato il '900.
I due filmati - interessanti sia dal punto di vista del contenuto sia da quello artistico - sono stati realizzati da un ragazzo che frequenta la scuola media, in onore della sua nonna armena: per conoscere, per capire, per divulgare la Storia. Storia che appartiene a tutti.


(Ricordiamo che tutti i nostri contributi video sono anche disponibili sul canale dedicato YOUTUBE dell'Associazione per i Diritti Umani)

domenica 26 gennaio 2014

In memoria di Nelson Mandela



 
Nella storia dell'umanità, sono tanti i fatti e le persone da ricordare e da onorare perchè - in situazioni difficili, di guerra, di discriminazione - hanno cercato la pace, la riconciliazione, il rispetto di tutti. E noi, nel nostro piccolo, in questi giorni della memoria, vogliamo onorare Nelson Mandela, a poche settimane dalla sua scomparsa: un uomo che ha lasciato un esempio e un testamento morale importantissimi.

Vogliamo ricordare Madiba con la galleria di immagini di Cinzia Quadrati, una nostra lettrice che ce le ha mandate e che ringraziamo. Le fotografie sono state scattate, lo scorso dicembre, davanti all'abitazione di Mandela a Johannesburg e, nel tragitto  tra le città di Johannesburg, Durban e Cape Town, come testimonianza dell'affetto e della riconoscenza del popolo sudafricano per il suo leader.

 (Se volete, potete cercare su questo sito gli altri articoli correlati a questo argomento)










mercoledì 22 gennaio 2014

Per la giornata della memoria: presentazione del film IL FIGLIO DELL'ALTRA




In occasione della Giornata della memoria, il 27 gennaio, l'Associazione per i Diritti Umani presenterà il film Il figlio dell'altra, opera prima della regista francese, di origine ebraica, Lorrein Lévy. Il film veicola molti argomenti importanti e universali: si parlerà, infatti, dell'importanza della memoria storica, individuale e collettiva; di Storia contemporanea; di relazioni umane, in particolare del rapporto tra genitori e figli; della faticosa ricerca della propria identità, complicata dal contesto di guerra.

Il film si inserisce nel cineforum organizzato dall'istituto Seraphicum di Roma e sarà proiettato venerdì sera - 24 gennaio - alle ore 21.00 e sabato 25, al pomeriggio alle ore 16.00, con la presentazione dell'Associazione per i Diritti Umani.

Per il programma completo del cineforum www.seraphicum.org

Indirizzo: Via del Serafico, 1 ROMA      








Di seguito una breve recensione del film IL FIGLIO DELL'ALTRA



Tel Aviv, oggi. Orith e Alon sono una coppia con due figli: durante la visita per il servizio militare del loro primogenito, Joseph, si viene a scoprire che il ragazzo non è il loro figlio biologico perchè, alla nascita, è stato scambiato con Yacine, figlio di una coppia palestinese che vive in Cisgiordania.

L'errore è il motore del confronto tra due famiglie, tra due popoli da sempre in una situazione di conflitto; è l'occasione, per giovani e adulti, per occupati ed occupanti, di osservare e tentare di capire le ragioni dell'Altro. I padri cercheranno di negare l'accaduto; i figli tenteranno una conciliazione attraverso la conoscenza profonda; le madri si affideranno all'istinto.

La cinepresa racconta di un Paese lacerato da muri, check point, filo spinato; una città ricca, ariosa e luminosa (Tel Aviv) da una parte e i territori poveri e polverosi, in cui le persone sono imprigionate per l'odio atavico di chi governa, dall'altra. Ma la gente comune sa parlare e capire, è capace - nonostante tutto - di superare ideologie e pregiudizi per mettere in campo quei sentimenti che appartengono a tutti: la solidarietà, la comprensione, l'amore.


lunedì 20 gennaio 2014

Europa, che passione!





Europa, che passione! Storia di un amore tormentato. Questo il titolo di uno spettacolo musicale sul processo di integrazione europea dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi. Proposto dall'Associazione “Gli spaesati”, fondata da Daniela Martinelli e Francesco Pigozzo, lo spettacolo prevede canzoni e videoproiezioni in cui vengono sintetizzati i momenti-chiave nello sviluppo di istituzioni europee sovranazionali: la guerra, la dichiarazione Shuman, il Progetto di Comunità politica, i Trattati di Roma e il mercato unico, le tensioni degli anni'70, Maastricht, il tentativo costituente agli inizi del 2000, le sfide odierne, per citare solo alcuni momenti importanti. Un pezzo di Storia che ci riguarda molto da vicino.







Abbiamo rivolto alcune domande a Francesco Pigozzo - che ha scritto il testo insieme a Daniela Martinelli - per approfondire i temi dello spettacolo che si terrà venerdì 24 gennaio, alle ore 20.45 al Teatro Dal Verme, Via San Giovanni sul Muro, 2 a Milano. Ingresso libero.




Perché avete sentito la necessità di scrivere questo racconto in musica dedicato all'Europa? E perché la scelta di comunicare attraverso immagini e canzoni?



Il problema cui "Europa: che Passione!" vuole rispondere è: come rendere grandi numeri di cittadini europei consapevoli e partecipi delle decisive vicende che riguardano la creazione di istituzioni europee? Per i più giovani, si tratta di far scoprire da dove viene una storia che pesa enormemente sul loro futuro. Per i più adulti, di vedere con occhi del tutto nuovi la loro storia, perché quel che ci siamo raccontati finora ci impedisce di capire quel che ci sta accadendo e cosa possiamo fare per smettere di lamentarci e tornare a progettare con speranza concreta il futuro. La musica e il linguaggio artistico in generale ci sono parsi la risposta più naturale alle nostre esigenze: una musica popolare e immagini simboliche, che parlano in modo diretto alle emozioni del pubblico. Il problema con l'Europa non è soltanto far conoscere fatti e dati, ma ri-sintonizzare il maggior numero possibile di cittadini con il processo storico di cui fanno parte.



Quali sono state le tappe fondamentali che, dalla Seconda Guerra Mondiale, hanno caratterizzato il progetto di un'Europa unita?




Noi ne abbiamo scelte dodici, non per ragioni simboliche ma pensando effettivamente ai passaggi più importanti di questa storia. Ovviamente ogni selezione di questo tipo comporta delle semplificazioni, ma sulle tappe fondamentali nessuno potrebbe avere dei dubbi. Ne vogliamo sottolineare una: 9 maggio 1950, la Dichiarazione Schuman, ovvero il gesto con cui la Francia tese la mano alla Germania Occidentale per arrivare alla gestione sovranazionale del Carbone e dell'Acciaio (CECA) - le basi dell'industria pesante (e bellica) dell'epoca, le ragioni di fondo per le contese territoriali che avevano condotto alle guerre mondiali. Troppo spesso si sente dire che il progetto europeo ha scopi economici, nasce dall'interesse di gruppi specifici: la Comunità europea nasce per creare condizioni strutturali di pace sul nostro continente, a beneficio di tutti i suoi cittadini. La creazione del mercato comune venne dopo, e per motivi diversi da quelli che ci si potrebbe immaginare: fu la risposta al fallimento del progetto che seguì la nascita della CECA, e che ci avrebbe dato l'unità politica dell'Europa già sessant'anni fa… Si chiamava CED (Comunità Europea di Difesa), una proposta ancora una volta francese che col decisivo apporto dell'Italia si trasformò nell'idea di una Comunità Politica Europea - fallì per un soffio, nel 1954. Se dovessimo indicare altre tappe essenziali salteremmo al 1989-1992 (caduta del Muro, nascita della UE con impegno a fare l'Euro) e ai giorni nostri - proprio oggi stiamo vivendo una nuova occasione storica di completare l'unità politica del continente.



Cosa vuol dire essere "europei" oggi?



Per noi, significa agire in modo consapevole e responsabile, in tutti i contesti possibili, affinché l'Europa (l'Eurozona innanzitutto, ma senza confini prestabiliti o chiusi) si doti di un governo democratico, con poteri limitati ma ben chiari, che sia competente assieme agli altri livelli di governo territoriale in materia fiscale, di bilancio e di politica economica e che sia competente in modo esclusivo in materiale di politica estera, di sicurezza e di difesa. Sembra una cosa tecnica, ma non lo è affatto: significa che essere "europei" oggi vuol dire non farsi abbindolare dal falso dibattito "Europa sì, Europa no" o "Euro sì, Euro no" - quel che c'è in gioco è "quale Europa" vogliamo avere. Quella che per non abbandonare il feticcio (ormai vuoto) delle sovranità nazionali, lascia che in ultima istanza le decisioni fondamentali siano prese dai rappresentanti degli Stati nazionali, in modo poco trasparente e in base ai rapporti di forza? Oppure quella che ha dato alla modernità la democrazia, l'universalità dei diritti, la divisione dei poteri e le istituzioni liberali, lo stato sociale? Perché la crisi di oggi ci costringe appunto a scegliere tra i vecchi feticci e la piena applicazione, alle istituzioni europee, della nostra stessa cultura politica e giuridica - sono in fondo cento anni esatti che ci rifiutiamo di effettuare questa scelta, ma rimandarla ancora ai tempi della globalizzazione significa rinunciare del tutto alla nostra autonomia e quindi anche a giocare un ruolo responsabile nella storia del pianeta.



Qual è l'origine della crisi che stiamo vivendo e quale la sua possibile soluzione?



La crisi che stiamo vivendo va compresa a due livelli fondamentali: globale ed europeo.




A livello globale, si tratta né più né meno della crisi dell'ordine che gli Stati Uniti d'America hanno saputo mantenere - nel bene e nel male - fin dalla Seconda Guerra Mondiale: un periodo in cui l'interdipendenza (produttiva, finanziaria, sociale, culturale) tra i popoli, le società, gli Stati del pianeta è andata crescendo in modo esponenziale. Oggi, sia sul piano della sicurezza che sul piano economico e finanziario, è finita la possibilità stessa per un singolo Stato, sia pure di dimensioni continentali, di garantire da solo (con i privilegi e gli oneri che gliene derivano) le condizioni necessarie all'interdipendenza globale. La crisi del 2007- 8, di cui noi europei soffriamo ancora oggi le conseguenze, non è altro che un aspetto di questo importante e difficile cambiamento storico - tra l'altro un aspetto non ancora risolto, che si può tradurre così: il predominio del dollaro non può durare per sempre, avremmo urgente bisogno di una moneta "terza" e più equa per favorire lo sviluppo economico globale, l'industria del denaro che produce denaro non potrà più essere la locomotiva della crescita economica degli Stati Uniti perché gli USA dovranno rinunciare alla facilità del credito e al basso costo del denaro che deriva loro non dalla mano invisibile del mercato ma dall'enorme afflusso di ricchezza reale prodotta altrove e attratta dal "potere di signoraggio" del dollaro.



A livello europeo, quel che stiamo vivendo è l'ennesima crisi che proviene da vicende mondiali in cui noi c'entriamo poco, ma che ci colgono impreparati e deboli perché siamo divisi. Ci capita così da quando tutti i nostri Stati nazionali sono diventati semplicemente troppo piccoli per essere realmente sovrani. Ma questa volta c'è una differenza. La crisi nata negli USA ha toccato il punto più sensibile e avanzato dell'intera costruzione europea: la moneta unica. L'Europa è entrata in crisi perché nel 1992, quando ha deciso di dotarsi dell'Euro, ha contestualmente deciso di non mettergli a fianco un governo democratico sovranazionale ma una serie di vincoli di bilancio reciproci. Come dire che una coppia decide finalmente di comprare casa e poi, per paura di perdere l'indipendenza, si crea minuziosi regolamenti sulle modalità di utilizzo e continua a vivere separata. Ma quel che serve alla coppia non sono regole sull'utilizzo della casa, è un patto chiaro per andarci a vivere assieme - persino la loro indipendenza ci guadagnerebbe… Fuor di metafora, pur di salvare l'apparenza dei feticci nazionali, gli Stati europei hanno imbrigliato le loro democrazie e si sono costretti a diffidare sempre più gli uni degli altri - se si fossero dotati di una Costituzione federale sarebbero stati di fatto più liberi e gli europei non solo sarebbero stati al riparo dalle tempeste ma avrebbero contribuito in modo molto più efficace al superamento degli stessi squilibri globali.



L'Euro da solo ha funzionato a meraviglia finché il contesto mondiale glielo ha permesso, ma ora non basterà a tirarci fuori dai guai. Per questo la crisi è diversa dal solito: se non diamo la risposta giusta, stavolta rischiamo di perdere tutto. In un contesto mondiale pieno di rischi e incertezze, in cui è in corso una redistribuzione di potere che privilegia una serie di attori di taglia continentale, l'Europa ha bisogno di piani di sviluppo di taglia direttamente continentale - ha bisogno di un governo democratico, che la rimetta in grado di discutere creativamente e collettivamente il futuro a lungo termine. Ce lo impone una stagnazione economica che è in realtà un problema strutturale vecchio di qualche decennio, camuffato dal successo temporaneo dell'Euro. Ce lo impone la necessità di corposi investimenti sovranazionali che puntino sull'innovazione, sulla formazione e sulla sostenibilità ambientale e sociale - non solo perché è idealmente giusto, ma perché è l'unica strada concreta per la nostra competitività. Ce lo impongono l'insicurezza delle zone del mondo ai nostri confini, l'insostenibilità del vecchio modello di sviluppo basato sui beni materiali e sullo squilibrio e lo sfruttamento di interi continenti (con conseguenti pressioni migratorie per sfuggirli), la salvaguardia di un modello ad elevato grado di giustizia sociale e l'importanza cruciale per il mondo del superamento pacifico di vecchie sovranità statuali bellicose.



Quanto è importante la memoria storica?



La memoria storica è fondamentale, purché non si riduca a un semplice ammonimento moralistico ma diventi un profondo stimolo morale. Questo riguarda tanto la storia collettiva quanto quella individuale. Il rischio per tutti noi è sempre di non accorgerci delle nuove forme e delle varianti che ci faranno cadere nei vecchi errori. Non basta esortarci a comportarci "bene" la prossima volta: finché non mettiamo in questione perché ha potuto diventare possibile che ci comportassimo "male", tenderemo a non riconoscere "la prossima volta". La memoria storica non ci fornisce modelli assoluti di comportamento, ma strumenti di comparazione per dare significato al presente e permetterci di pensare il futuro.


mercoledì 11 settembre 2013

Percorsi di memoria: CILE 1973-2013


11 settembre: una data difficile. Per l'attentato alle Torri gemelle di New York nel 2001. Ma non solo.
Esattamente quarant'anni fa i corpi speciali dell'esercito cileno, comandati dal generale Augusto Pinochet, destiuirono il governo di Salvador Allende. Un colpo di Stato militare che portò all'uccisione del presidente Allende e di 50.000 militanti del movimento operaio, e poi lavoratori e studenti, persone comuni. Da allora si instaurò nel Paese una sanguinosa dittatura a cui fecero eco altre in molti Stati sudamericani.
La mostra del cinema di Venezia, alla sua 70ma edizione, ha voluto rendere omaggio al Cile con due opere presentate nella sezione “Settimana della critica” di due registi, entrambi di un cognome molto diffuso: Sepúlveda.
Sebastiàn Sepúlveda, nel suo Las Niñas Quispe, racconta la quotidianità di Justa, Lucia e Luciana, tre sorelle che vivono di pastorizia sull'altopiano. Un visitatore porta loro la notizia dell'inserimento di una nuova legge che sconvolgerà del tutto la loro esistenza, un'esistenza fatta di gesti ripetuti e di lavoro duro, nel vento e nel freddo, ma che rassicura e garantisce stabilità. Donne segnate dalla fatica fisica, silenziose e tenaci. Coraggiose fino all'ultimo, quando faranno la scelta estrema e più difficile. Siamo nel 1974 quando tutti, in città come nelle ande, erano costretti a scegliere tra la libertà e la rassegnazione.
Il silenzio appartiene anche a Ximena, la protagonista del film di Moisès Sepúlveda, intitolato Las analfabetas, tratto dall'omonima pièce teatrale scritta da Pablo Paredes

(cosceneggiatore del film). Ximena ha cinquant'anni, ma non sa né leggere e né scrivere e questo, per lei, è un handicap che le impedisce di stabilire relazioni profonde con gli altri. Un giorno la donna riceve la visita inaspettata della giovane Jackeline, insegnante precaria che si offre di insegnare a Ximena la comunicazione scritta.
Un giorno Jackline trova un foglio gelosamente custodito da Ximena, come se fosse un tesoro prezioso: è la lettera che il padre le ha lasciato prima di abbandonarla. Quel foglio sarà lo strumento e il simbolo di una liberazione “intellettuale” e psicologica che porterà la donna ad uscire dal suo isolamento.
Las Niñas Quispe è un film di fiction che, alternando dialoghi rarefatti alla gestualità semplice e istintiva delle persone, documenta la vita sulle montagne e il percorso interiore di chi è costretto a fare i conti con un cambiamento troppo grande; con Las analfabetas si entra in un piccolo mondo fatto di un tavolo, di una cucina, di un cancello, ma in entrambi la via di fuga c'è: la morte o la cultura. Ma mai la rassegnazione.




Nella citttà di Milano è in programma una serie di iniziative per ricordare la dittatura cilena (e non solo). Riportiamo qui di seguito la comunicazione, ringraziando Monica Macchi per la segnalazione.

Mostra fotografica di Paola Agosti “Il Cile dell’Unidad Popular”, che si terrà in Umanitaria via Daverio, 7 - dal 7 al 12 Settembre. Il giorno dell’inaugurazione – 7 settembre ore 18 oltre all’autrice saranno presenti:
Pier Amos Nannini (Presidente Società Umanitaria), Emilio Barbarani (Diplomatico e scrittore), Marzia Oggiano (Segreteria Camera del Lavoro Metropolitana di Milano), Patricia Mayorga (Giornalista Corrispondente estera “El Mercurio” e scrittrice).
Mostra di immagini e manifesti relativi all’impegno sindacale per il ripristino della democrazia in Cile, in Camera del Lavoro Metropolitana di Milano dal 9 al 12 Settembre.
Concerto della cantattrice Annamaria Castelli in Trio con Giulio D’Agnello (chitarra, strumenti a corda e voce), Carlos Adriàn Fioramonti (chitarra) e con Elisa Roson (attrice), nell’Auditorium Di Vittorio il 10 Settembre alle ore 21;
Proiezione del film “SALVADOR ALLENDE” di Patricio Guzmàn, sempre al “Di Vittorio” alle ore 18 del 12 Settembre. Intervento di Graziano Gorla Segretario Generale
11 settembre alle ore 21 - all’Alcatraz via Valtellina, 25 – Concerto: INTIILLIMANI HISTORICO dal titolo “CANTO PARA NO OLVIDAR” organizzato da CGIL e CISL Lombardia


mercoledì 26 giugno 2013

Il tempo dalla mia parte: il primo libro di Mohamed Ba



L'attore, autore teatrale e musicista, Mohamed Ba ha deciso di narrare anche con la parola scritta e lo fa con il suo primo libro intitolato “Il tempo dalla mia parte”, pubblicato dalla casa editrice San Paolo, in cui racconta l'odissea di un popolo alla disperata ricerca di un tamburo. La siccità non lascia tregua: nessuna goccia di pioggia ammorbidisce il terreno secco della mitica Jolof, terra africana densa di racconti e incrocio di popoli e il giovane Amed si vede affidare una missione importante: dovrà partire per l'Occidente alla ricerca del tamburo magico, capace di invocare la pioggia e interrompere l'arsura. Ma Amed non è il primo a partire: un gruppo di giovani ha tentato l'impresa e non ha mai fatto ritorno. Tra Francia e Italia, tra momenti spassosi e altri di intensa drammaticità, questa vicenda si legherà a doppio filo ai problemi della convivenza tra popoli diversi, fino a costituire una vera e propria fiaba di riconciliazione. 


In occasione dell'uscita del libro, abbiamo rivolto alcune domande a Mohamed Ba:

Spesso, nelle favole o nei racconti mitologici, ci sono elementi simbolici: cosa rappresenta, in questa storia, la ricerca del tamburo perduto?


L'Africa, ancora prima dell'islamizzazione e dell'evangelizzazione, ha sempre avuto un rapporto morganatico con la natura. L'uomo considera se stesso come una perla la cui importanza avrà senso solo considerando l'intera collana, cioè la comunità sospesa tra il mondo visibile che siamo noi ed il mondo invisibile, quello degli Antenati che non sono sotto la terra ma circumnavigano attorno e ci curano. L'unico modo che abbiamo per entrare in contatto con loro è il tamburo. Nel mio romanzo, il tamburo rappresenta più di uno strumento musicale, ma diventa quel battito che farà ballare l'umano che c'è in ciascuno di noi, dovunque provenga. Ricercare il tamburo è più o meno l'analisi del terreno sul quale si vuole costruire un ponte per superare le divisioni secolari tra Nord e Sud del mondo.

Possiamo considerare questo testo come un testo anche sul tema dell'importanza della Memoria?


Tanti sono i figli d'Africa che sanno poco o nulla della loro storia. Quel poco che ne masticano passa attraverso i libri di testo scritti da altri e la conseguenza e la cancellazione progressiva dei valori morali tradizionali. Le frontiere e le lingue postcoloniali ci hanno divisi. Fratelli di ieri si massacrano oggi, la narrazione sotto l'albero - illuminati dal fallo e cullati dalla kora - si fa sempre di meno e gli anziani, una volta sacri, oggi si sentono quasi inutili. Credo che un popolo senza memoria è come una zebra senza strisce.

Lei vive da anni a Milano: è vero che, nonostante il passare del tempo, è sempre presente il sentimento della nostalgia per chi ha lasciato il proprio Paese d'origine?


Io vivo e lavoro in Italia da quattordici anni quindi posso affermare di essermi gradevolmente "italianizzato". Tuttavia, mi muovo con la consapevolezza che il tronco d'albero in acqua ci può stare per secoli ma non diventa mai un coccodrillo. Sono tra coloro che hanno lasciato tutto sulla strada della speranza senza dimenticare nulla.

Si tratta di una favola dedicata ai giovani e anche agli adulti? Ci può, infine, anticipare il significato del titolo scelto per il libro: "Il tempo dalla mia parte"?

Il romanzo parla ai giovani ma anche ai meno giovani. Parla della necessità di aprire nuovi orizzonti, perlustrare nuovi mondi per evolversi. La drammatica situazione economica del sud del mondo si scontra con l'intrappolamento sociale di cui soffre il nord. Il migrante di oggi si allontana dai suoi affetti e dai suoi effetti, convinto di potersi realizzare dall'altra parte della barriera. Crede possibile una decolonizzazione dell'immaginario ma si ritrova tra due fuochi incrociati: la sua comunità che è spesso remissiva e il pensiero dominante che lo vuole invisibile nelle città. Il migrante di oggi rifiuta di essere solo braccia ma cerca di far capire una valenza culturale e sociale che alberga in lui e che l'uomo di strada ignora. Il migrante cerca di dare un senso al suo stare in questo Paese, investe ed accetta di dare al tempo, il tempo di produrre il suo effetto. Non si nasconde, va verso l'altro con la convinzione che chi non conosca sia semplicemente un libro che aspetta di essere letto e non vuole privarsi di quella lettura. Il problema è che l'albero non più alto di te, non ti potrà mai dare l'ombra di cui hai bisogno. Quindi, con il tempo, il migrante si ritroverà nelle mani un patrimonio storico-culturale di un valore inestimabile di cui il popolo italiano avrà avuto poca cura. Speriamo che ci pensi lui, a valorizzarlo.