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giovedì 31 dicembre 2015

Un anno: Islam, Medioriente e Occidente

Per ricordare, simbolicamente, quello che è accaduto durante il 2015 nel mondo, l'Associazione per i Diritti Umani ripubblica, per voi, il video di un incontro organizzato nel gennaio scorso.

I temi: rapporto Occidente e Medioriente, Islam e politica, terrorismo, il genocidio della popolazione siriana, le migrazioni e molto altro.
Ma soprattutto il nostro pensiero va a Padre Paolo Dall'Oglio e a tutti coloro che sono stati rapiti e di cui non si hanno notizie.

Ringraziamo il giornalista Shady Hamadi e il Prof. Camille Eid




venerdì 25 dicembre 2015

Quel pranzo di Natale nel carcere di Opera



Nella Casa di reclusione di Opera, lo scorso 23 dicembre, si è tenuto un pranzo molto speciale: uno chef stellato ha cucinato varie prelibatezze per i detenuti e i loro familiari.

Anche se apprezziamo il gesto professionale e umano dello chef e delle altre persone famose coinvolte nell'iniziativa intitola "L'ALTrA cucina... per un pranzo d'amore",
 
non vogliamo citarle perchè a noi interessa altro: interessa sottolineare i motivi che stanno alla base di questa scelta illuminata, da parte del Direttore dell'istituto di pena, e le conseguenze positive. La giornata è poi proseguita con un concero di Edoardo Bennato, preso il teatro dell'istituto. Tornando al motivo della bella iniziativa: immaginiamo che sia stato quello di offrire ai reclusi un momento diverso dalla quotidianità, uno spazio per riabbracciare i cari, stare in compagnia e riflettere, tutti insieme, sul senso vero e profondo della nascita di Gesù: un uomo che ha incarnato i peccati degli altri uomini, che ha pagato per tutti, ma che poi è tornato alla vita. Le conseguenze: la gioia di tutte le persone, libere e non, che si sono ritrovate insieme a condividere il pane, simbolo di pace. Ma non è tutto: a servire il pranzo sono state le vittime di alcuni reati commessi dai detenuti. Una decisione meritevole, un esempio grande di capacità di perdono. Si deve andare avanti, cercando di mettersi nei panni dell'Altro, anche quando l'errore è stato enorme. Ci vuole tempo, tanto tempo per capire, perdonare. Ci vuole tempo, tanto tempo anche per riscattarsi.

Il dono più bello? La presenza dei bambini che, con il loro chiasso, le loro domande, il loro entusiasmo hanno ridato la voglia di continuare a stare dentro e ad aspettare fuori, con la fiducia nel sapere che non è poi tutto sprecato.


L'iniziativa è stata replicata in altre quattro carceri per le detenute e i detenuti e i loro familiari.

sabato 19 dicembre 2015

Sulla legge anti-niqab

L'Associazione per i Diritti umani ringrazia moltissimo Omar Jibril -  dirigente CAIM (Coordinamento Associazioni Islamiche di Milano) e Resp. Servizi Edilizi e valorizzazione del Territorio - per aver scritto per i nostri lettori questo suo contributo a commento della nuova legge regionale sul divieto del niqab in alcuni luoghi pubblici.
Ecco il testo di Omar Jibril:


A chi non è capitato di leggere od ascoltare almeno una volta, tra i banchi di scuola, l’ Articolo 3 della Costituzione Italiana che recita: “Tutti i cittadini hanno hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali….”?

La tendenza dell’uomo ad etichettare, escludere, categorizzare ha avuto influenze nefaste nel corso della storia, spingendo gli uni contro gli altri, determinando guerre e conflitti, schiavitù, orrori e massacri.

Il 10 dicembre del 1948 a Parigi l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò e proclamò la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani: ogni stato di diritto avrebbe assicurato la salvaguardia ed il rispetto dei diritti umani e delle libertà individuali, e avrebbe posto le proprie fondamenta sui principi di uguaglianza, giustizia ed equità.

Gli oltre 70 milioni di morti della Seconda Guerra Mondiale costituivano un tributo terrificante, il Mondo Civile voleva voltare pagina e scrivere un nuovo capitolo di pace ed armonia.

Nel 1960, Cassius Clay Mohamed Ali gettò nel fiume la medaglia d’oro di pugilato vinta alle Olimpiadi di Roma: tornato a casa sua a Louisville, nel Kentuchy, non potè fare colazione in un bar in quanto dedicato ai soli cittadini bianchi.

E se l’apartheid, la politica di segregazione razziale in Sudafrica, è perdurato fino al 1993, molti paesi vivono ancora oggi la medesima condizione.

In Italia la situazione è certamente molto diversa, ma non possiamo dire d’aver compiuto grandi passi avanti per es. sul tema della cittadinanza, che l’Impero Romano garantiva ad ogni cittadino residente entro i confini territoriali dello Stato che, all’epoca, dominava un quarto della popolazione mondiale. Oggi tra dispute parlamentari e proposte di legge, lo ius soli è entrato in vigore solo parzialmente.

Negli ultimi anni abbiamo assistito al proliferare del populismo politico, delle cassandre visionarie, dei profeti della paura. Se negli anni ’60-70 il problema erano i “terun” che emigravano verso il nord Italia rubando il lavoro agli autoctoni, negli anni ’90 hanno lasciato il posto agli immigrati da paesi esteri.

L’accanimento di alcune forze politiche e di alcuni media è oggi concentrato verso una categoria ben precisa: i musulmani.

Autoctoni o di origine straniera, i musulmani nel Belpaese sono circa 2 milioni, lavorano e contribuiscono al mantenimento dello Stato che da loro riceve più di quanto spende.

A inizio 2015 la Regione Lombardia ha attuato una legge che presenta tratti evidenti di incostituzionalità, la famosa Legge 12 definita “Anti-moschee”, perché mira ad impedire la costruzione di luogo di culto musulmani. La legge è già stata impugnata dal Governo e la sentenza è prevista a metà del 2016.

Confermando la propria vocazione, il Presidente della Regione Lombardia Maroni ha approvato un regolamento che vieta l’ingresso a volto coperto nei luoghi pubblici, facendo riferimento ad una Legge già esistente, la n° 152 del 22 maggio 1975 che dice: “È vietato l’uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo”.

Il 6 maggio del 2009 i deputati Sibai e Contento hanno presentato una proposta di legge con la quale volevano venisse integrato l’art. n° 152: “Al primo comma dell'articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152, e successive modificazioni, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: «È altresì vietato, al fine di cui al primo periodo, l'utilizzo degli indumenti femminili in uso presso le donne di religione islamica denominati burqa e niqab»”.

È chiaro ed evidente che una certa classe politica manifesta un palese accanimento nei confronti della comunità islamica italiana, negando de facto ai cittadini musulmani la possibilità di poter professare la propria religione in maniera dignitosa, e addirittura approvando regolamenti che vogliono colpire quella minoranza.

La “Legge anti-niqab” vuole impedire alle donne musulmane che portano il niqab, il velo che copre il viso lasciando scoperti solo gli occhi, l’accesso ai luoghi pubblici.

Partendo da un semplice calcolo statistico (le donne che indossano il niqab in Lombardia si contano sulle dita di una mano), non è ben chiaro per quale motivo in regione abbiano voluto rimarcare un principio che già fa parte del nostro ordinamento giuridico e che è sempre stato applicato con la regola del buonsenso.

Si vuol far passare l’idea che un certo abbigliamento è pericoloso, e che chi lo indossa può perseguire scopi violenti, sulla base della squallida equazione musulmani = terroristi.

Ogni individuo ha il diritto di vestirsi come ritiene opportuno, nei limiti della decenza, ben vengano i controlli a random (come le postazioni dei carabinieri lungo le grandi vie di esodo), chi non ha nulla da nascondere non avrà problemi a mostrare il proprio documento di riconoscimento, col volto celato o scoperto, ma davvero non abbiamo bisogno di questo clima di sospetto e diffidenza.

Bob Marley due giorni prima di un importante concerto fu ferito in un attentato; ciò non lo scoraggiò ed il 5 dicembre 1976 si esibì davanti ad una folla oceanica. Quando qualcuno gli chiese perchè avesse cantato quella sera lui rispose con quella che divenne una delle sue frasi più celebri: “Perché le persone che cercano di far diventare peggiore questo mondo non si concedono un giorno libero… Come potrei farlo io?!“.

Dio dice nel Corano: “O uomini, vi abbiamo creato da un maschio e da una femmina e abbiamo fatto di voi popoli e tribù, affinchè vi conosceste a vicenda”. E forse, supereremo il pregiudizio.


domenica 13 dicembre 2015

La situazione odierna in Medioriente e le prospettive possibili nel conflitto israelo-palestinese



di Monica Macchi



LECTIO MAGISTRALIS DI GIDEON LEVY



Israele è come certi maestosi alberi del New England in Usa,

che sembrano solidissimi e forti, ma crollano all’improvviso,

perché sono marci dal di dentro.

Ecco la società israeliana è ormai persa,

ma dalle vostre società civili può arrivare una scossa,

attraverso il boicottaggio e altre iniziative”

Gideon Levy



Mercoledì scorso alla Casa della Cultura di Milano, organizzata dall’Associazione Oltre il Mare e senza patrocini istituzionali, la conferenza stampa del pomeriggio è andata deserta ma all’incontro serale con Gideon Levy la sala era strapiena per ascoltare una versione lontana dal pensiero unico mainstream…eccola anche a voi:
 
Figlio di rifugiati europei, giornalista di Ha’aretz e di Internazionale, Gideon Levy si autodefinisce come il tipico prodotto del sistema socio-educativo israeliano: convinto dello status di vittima obbligata ad una difesa permanente, non ha mai sentito parlare della Nakba fino agli anni ‘80 quando, durante la Prima Intifada, va in Cisgiordania come inviato e scopre “il dramma nel cortile dietro casa”, dramma che pochi giornalisti documentano. Ed è proprio per questo ha iniziato e continua a denunciare i crimini commessi ai danni dei palestinesi: “ci sarà un giorno in cui ci verrà chiesto conto di tutto questo. Ed è giusto che ne resti memoria. Gli israeliani non sono consapevoli e non sono informati, ma non potranno dire ‘io non sapevo’”.



Il filo conduttore di questo intervento è la domanda di apertura che Levy fa al pubblico e a sé stesso: “Perché un popolo generoso come gli israeliani che danno spesso aiuti nelle calamità internazionali (come è successo recentemente dopo il terremoto in Nepal e con i rifugiati siriani ospitati nelle sinagoghe di diversi Paesi) non ha dubbi morali e non protesta per il dramma e i crimini che stanno compiendo contro i Palestinesi?”

La risposta parte dalla constatazione che Israele è l’unico Stato al mondo con 3 regimi al suo interno: una democrazia liberale per gli ebrei (seppur resa debole e fragile da una legislazione anti-democratica); un regime discriminatorio per la minoranza palestinese (20% della popolazione) che partecipa solo formalmente; un regime totalitario e di apartheid nei Territori Occupati Militarmente. Dunque la prima cosa da fare è sfatare il mito di “Israele unica democrazia del Medio Oriente”: una democrazia non può essere “a metà” solo per un gruppo privilegiato di cittadini; o c’è uguaglianza o non c’è democrazia. E la seconda immagine iconica da abbattere è “l’eccezionalismo”: dall’unicità della Shoah per cui gli ebrei sono le uniche vittime della Storia..e anzi sono vittime anche degli occupati che impongono loro l’occupazione (Golda Meir è arrivata a dire non perdoneremo mai i Palestinesi per averci obbligato a uccidere i loro figli”) fino alla convinzione di essere il “popolo eletto” per cui le norme del diritto internazionale valgono solo per gli altri popoli e non si applicano agli ebrei che hanno invece un diritto di origine divina la cui fonte è direttamente nella Bibbia. Parallelamente si sta assistendo anche da parte dei media ad una deumanizzazione e criminalizzazione dei Palestinesi rappresentati come sub-umani (quindi obtorto collo non si possono neppure applicare i diritti umani a “loro”); sono “intrinsecamente cattivi”, “nati per uccidere” e la recente “Intifada dei coltelli” viene raccontata come se accoltellare ebrei fosse il nuovo hobby degli adolescenti palestinesi… esattamente come altri adolescenti collezionano farfalle, figurine o francobolli.

Gideon Levy non vede quindi una possibilità di cambiamento endogena nella società israeliana, che negli anni è diventata sempre più nazionalista, razzista e militarista e delegittima voci coraggiose ed impegnate come quella di “Breaking the silence”, un’associazione che raccoglie e diffonde testimonianze di soldati sui crimini dell’occupazione. Ripone invece speranze in variabili esogene, non tanto nell’Europa troppo paralizzata dal suo passato e dalla sua storia né negli Stati Uniti che danno un supporto cieco ed automatico a Israele al punto tale che Gideon Levy chiede provocatoriamente: “chi è il burattino e chi la super-potenza?” ma nel Sud-Africa… o meglio nel modello del Sud-Africa. Infatti dopo un viaggio a Johannesburg, si è reso conto che l’apartheid è stato sconfitto dal boicottaggio e dal fatto che i responsabili siano stati chiamati a render conto dei loro comportamenti: solo la giustizia può disinnescare l’odio. E ha cambiato idea sull’ipotesi dei 2 Stati, di cui è stato a lungo sostenitore. Visto che è dal 1967 che esiste un unico Stato ma il problema è il regime, propone di applicare il principio “una testa, un voto” perché “Israele non avrà altra scelta che accettare o essere costretta ad ammettere di praticare l’Apartheid. E chi è disposto ad accettarlo nel 2015?”.



sabato 12 dicembre 2015

Stay human, Africa: il terrorismo in Mali


di Veronica Tedeschi
 

Il 20 novembre, ad una settimana esatta dopo la strage di Parigi, alcuni uomini armati hanno fatto irruzione all’Hotel Radisson blu di Bamako, la capitale del Mali. L’albergo è il più famoso della città e da sempre è frequentato da diplomatici e uomini d’affari occidentali; al momento dell’attacco l’hotel era pieno per il 90% della sua accoglienza totale, con circa 140 clienti e 30 dipendenti.

Dopo un assedio di otto ore, le forze di sicurezza maliane e internazionali sono intervenute per liberare i cento ostaggi; il bilancio è di 22 persone morte, compresi gli assalitori.

La rivendicazione dell’attacco è stata fatta dal gruppo Mourabitoun, affiliato ad Al Quaeda e che si sarebbe recentemente unito all’Isis.

Il presidente Boubacar Keïta, ha condannato “Nella maniera più ferma possibile, questo atto barbaro che non ha niente a che vedere con la religione”. Il presidente francese, Francois Hollande, ha dichiarato: “Dobbiamo dimostrare la nostra solidarietà al Mali, un Paese amico” e ha invitato i francesi a Bamako a raggiungere l'ambasciata e a mettersi al sicuro, e tutti i cittadini francesi nei Paesi a rischio ad adottare precauzioni. 




Il Mali, purtroppo non è nuovo ad attacchi del genere, nonostante non se ne senta parlare in Occidente; in passato gli attacchi degli estremisti islamici erano concentrati nel nord del Paese ma a partire dal 2015 si sono diffusi anche al centro e poi al sud, fino ad arrivare al confine con la Costa d’Avorio e il Burkina Faso.

Nel mese di marzo Bamako è stata ancora una volta la protagonista di un attentato in un ristorante nel quale sono morte cinque persone.

Il 10 giugno scorso, uomini armati hanno attaccato le forze di sicurezza a Misseni, città al confine con la Costa d’Avorio e, infine, ad agosto è stata attaccata la città di Sévaré, nella regione di Mopti, a nordest di Bamako.

Solo nel 2015 gli attentati in Mali sono, quindi, stati quattro ma le violenze nell’ex colonia francese sono cominciate già nel 2013 quando i soldati tuareg sono tornati nel nord del Paese dopo la guerra in Libia, creando un movimento nazionale con lo scopo di combattere il governo di Bamako e conquistare l’indipendenza della regione settentrionale dell’Azawad. Questo conflitto ha portato ad un colpo di Stato e, infine, alla proclamazione dell’indipendenza dell’Azawad nell’aprile del 2012.

Il susseguirsi di violenze ha causato l’intervento delle truppe francesi e africane.

Ad oggi, in Mali, sono quindi presenti truppe francesi, malesi, internazionali e tedesche. Il 25 novembre, infatti, anche la Germania ha annunciato l’invio di 650 soldati a sostegno della missione francese in Mali.
 
 




Nel mirino dell’interesse internazionale è ora presente l’ex colonia francese, ma vedere nell’aumento degli attacchi terroristici in Mali solo un altro pezzo del puzzle del terrorismo islamico sarebbe un errore. L’aumento di gruppi nel Paese è soprattutto il prodotto di condizioni storiche locali e non di un’ideologia imposta dall’esterno. Il terreno è fertile in Mali, come nel resto dell’Africa, per il reclutamento di chi vuole la violenza.

Gli stati africani, già alla prese con la povertà e gli esperimenti di democrazia, non dispongono dell’arsenale e delle competenze in materia di sicurezza per opporre la resistenza necessaria a tentativi di condizionamento.


Dopo l’11 settembre americano e il 13 novembre francese nessuno è al sicuro dal terrorismo?

Forse sì, ma ci sono molti motivi per dubitarne.  La vulnerabilità di un Paese varia in base al livello di sviluppo dello stesso, al suo grado di organizzazione e reattività dei servizi di intelligence.

Per comprende meglio questo concetto, basta pensare alla situazione della Somalia, la quale non riesce a stare a galla di fronte alla minaccia del gruppo jihadista Al Shabab; stiamo parlando di uno stato fallito a causa della lunga guerra civile che l’ha invaso per anni, di uno stato corrotto e non in grado di proteggere la sua popolazione.

La situazione in Mali non può essere paragonata a quella somala ma entrambi questi stati hanno alla base molta debolezza e necessità di aiuti esterni tanto da rendere i rispettivi governi vulnerabili a violenze e attacchi esterni.


 

venerdì 11 dicembre 2015

Laura Silvia Battaglia commenta le elezioni francesi (e non solo)




La giornalista Laura Silvia Battaglia ci ha mandato questo suo contributo a commento delle elezioni francesi e alla rinuncia, da parte della Francia, della Convenzione dei diritti dell'Uomo.



L'Associazione per i Diritti umani la ringrazia.



Libertà, uguaglianza, fraternità. I tre pilastri della rivoluzione francese, innalzati nel 1789 comunque a prezzo di sangue, come in tutte le rivoluzioni, sono stati e saranno ulteriormente e progressivamente abbattuti nei mesi a venire. La libertà con una serie di misure di controllo sui movimenti dei cittadini e dei residenti temporanei, della libertà di espressione, financo sull'uso di sistemi di comunicazione criptati VPN e TOR su internet, utili anche a giornalisti investigativi e attivisti dei diritti umani; l'uguaglianza, con l'annunciata rinuncia al rispetto della Cedu, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, che, con una deroga di tre mesi a causa di "minacce alla vita della nazione", prevede, tra gli altri, la sospensione del diritto a equo processo, nonostante vieti comunque, sulla carta, l'applicazione di torture in carcere; la fraternità con un crescente sospetto sociale verso i musulmani che la conquista di sei seggi regionali da parte della destra nazionalista della Le Pen potrebbe sterzare verso assai più che una semplice islamofobia.

Occorre chiedersi, a poca distanza dai fatti del Bardo ma anche abbastanza a freddo rispetto ad alcune settimane fa, se la nazione che ha inventato la libertà laica e ha abolito la parola libertinaggio dai vocabolari in nome della bohemè, non stia derogando al suo principio fondante, in nome di una presunta e comunque fallibile sicurezza. Noi attendiamo la fine di questi tre mesi, abbastanza certi che presto nascerà una Guantanamo europea.

giovedì 26 novembre 2015

Michele Karaboue commenta i fatti di Parigi e in altri Paesi del mondo



L'Associazione per i Diritti umani ha raccolto, per voi,anche il commento del Prof. Karaboue, docente presso la Seconda Università di Napoli e lo ringrazia molto per la sua disponibilità.

 

Gli attentati di Parigi sono atti molto tristi, che lasciano sgomento, ma che non possono essere ricondotti ad una volontà religiosa, nel senso che è opportuno distinguere l'atto di terrorismo dalla religione islamica. E' oggettivamente complesso comprendere questa dinamiche che hvanno condannate ed è compito nostro cercare di spiegare e di analizzare i fatti per quello che sono: qui parliamo di un atto criminale che ha coinvolto un Paese amico come la Francia ed è un atto da condannare con forza.



C'è un fenomeno mediatico di manipolazione e di interessi specifici. Ci siamo accorti della questione francese, ma da sempre tanti Paesi (Kenya, Congo, Siria, Yemen ad esempio) hanno subìto le stesse manifestazioni anche con un numero di vittime superiori, però non hanno la stessa visibilità mediatica in quanto la situazione di questi Paesi viene vista con minore attenzione e con minore sensibilità. La stessa attenzione data legittimamente ai francesi deve essere concessa anche alle altre stragi che il mondo piange perchè è attraverso questa sensibilizzazione globale che si potrebbe scuotere le coscienze e far comprendere a tutti quanto sia universale la drammaticità dei fatti che stanno accadendo.


L'Isis si sconfigge con la presa di consapevolezza dal punto di vista culturale: si parla di Stato islamico che, invece, non esiste ma esiste una realtà - radicata in alcuni territori - che punta a costituire una territorialità politicamente riconosciuta. L'Isis, quindi, va combattuta con un sussulto culturale, isolando e condannando fortemente - a partire dai musulmani - queste attività che nulla hanno a che fare con l'azione religiosa. Non sentendosi legittimata e senza propaganda, l'Isis potrà definire le proprie azioni all'interno di una circoscritta attività che potrebbe anche risolversi nel nulla.


domenica 22 novembre 2015

Il commento del Naga ai fatti di Parigi

I fatti di Parigi ci lasciano senza parole e siamo consapevoli che non ci sono soluzioni immediate.
Ma allo stesso tempo siamo convinti che sia necessario continuare a credere nel valore dell'accoglienza.
E continuare a dire: Benvenuti.



Guarda il video: clicca qui    








  

venerdì 20 novembre 2015

PARIGI: CHAOUKI-MANCONI, PIENO SOSTEGNO A MANIFESTAZIONE MUSULMANI A ROMA.

Pieno apprezzamento e sostegno alla manifestazione nazionale promossa dalle comunità islamiche italiane che hanno deciso di scendere in piazza in solidarietà con le vittime di Parigi e contro il terrorismo di Daesh sabato 21 alle ore 15. La manifestazione nazionale, che si terrà a Roma, vedrà un largo coinvolgimento delle musulmane e musulmani d’Italia, riuniti per ribadire il loro “Not In My Name”. Sarà importante che tutti i cittadini italiani insieme alle associazioni religiose e laiche siano in piazza insieme ai musulmani italiani per ribadire la nostra piena solidarietà alle vittime del terrorismo di Daesh e per affermare i valori condivisi della nostra società. Le musulmane e i musulmani d’Italia in questo difficile momento storico sono dunque nostri preziosi alleati in questa sfida al terrore, una sfida che vinceremo tutti uniti e animati dai comuni valori del rispetto della sacralità della vita e dalla netta condanna di qualsiasi forma di radicalismo. Lo affermano Khalid Chaouki, deputato Pd e coordinatore dell'Intergruppo parlamentare immigrazione e Luigi Manconi, senatore e Presidente della Commissione per i diritti umani.

11 SETTEMBRE… 13 NOVEMBRE: non ripetiamo gli stessi errori


di Paolo Branca   (Casadellacultura)
 
I corpi delle numerose e incolpevoli vittime degli attentati di Parigi sono ancora caldi, ma già si scatenano le varie propagande.
Una riflessione meno emotiva e più razionale, pur nell'assurdità della situazione, invece s'imporrebbe.

Dopo l'11 settembre 2001 si è avuta un'excalation di imprese militaresche più o meno sgangherate o del tutto sciagurate che hanno portato gradualmente al buco nero dell'attuale caos mediorientale.
Non tanto in Afghanistan, paese che in buona sostanza non è mai riuscito a controllare nessuno, quanto più a ovest di esso, fino al dissolvimento dell'Iraq e della Siria, non a caso antiche sedi del primo califfato (di Damasco e di Baghdad) e dove oggi si appalesa il 'monstrum' dell'Isis.
La gravità di quanto è accaduto nella capitale francese, unita alle legittime preoccupazioni derivanti dall'attivismo russo nell'area - che molto deve alla lunga inerzia occidentale - fanno supporre un probabile upgrade di interventismo armato euro-americano.
Possibili soluzioni politiche, finora poco effettivamente ricercate, sbiadiscono ancor di più all'orizzonte.
Un simile e reiterato dilettantismo risponde forse a esigenze elettorali di varie parti in causa, ma una vera gestione della crisi che possa riportare stabilità in paesi a noi tanto vicini e per noi così importanti, non può certo avvalersi di mere esibizioni muscolari.
Tanto più che queste ultime non avrebbero altro esito, nell'immediato, che l'aumento di distruzioni e l'annientamento di innumerevoli vite innocenti.
Ci rendiamo conto che la contabilità dei morti ha ben diverso peso quando il colore delle loro pelle (o la lingua che parlano e la religione che professano) sono un po' esotiche, ma nel mondo globalizzato simili ragionamenti ormai non funzionano più, non tanto per sempiterne ragioni morali, ma almeno per calcoli di convenienza che non dovrebbero essere oscuri più a nessuno.

mercoledì 18 novembre 2015

La sacralità di Lea Garofalo secondo Marco Tullio Giordana







 



Questa sera, alle 21.20, su RAI 1 il film di Marco Tullio Giordana sulla vita di Lea Garofalo.



di Maurizio Porro (da La 27maOra)
 
 
Altri 100 passi di Marco Tullio Giordana in direzione del cinema civile. Se nel film di 15 anni fa con Lo Cascio si ricordava Peppino Impastato in lotta contro la mafia in cui militava il padre, Lea , che apre l’11 novembre il RomaFiction Fest coordinato da Piera Detassis, è la storia di una vittima della ‘ndrangheta in cui milita tutta la famiglia. Dice il regista: «Lei aveva fatto vedere I cento passi alla figlia, dicendo che avrebbe fatto la stessa fine: quel film è stato un punto di riferimento. Questo ricorda uno dei fatti di cronaca più spaventosi, un omicidio tribale e orrendo che viene da un mondo remoto».
Ancora anime nere: la Calabria in trasferta al Nord e una donna che non vuole accettare il malaffare atavico e cerca di resistere con la figlia Denise, sotto scorta. Quando il programma di protezione viene revocato, Lea scompare, il 24 novembre 2009. Spetta a Denise infiltratasi nella cosca familiare per denunciare i veri colpevoli, fratello e padre, smascherati da un pentito, finché il corpo viene trovato: ergastolo per tutti, anche per la 24enne Denise che vive da sorvegliata speciale.
Una vera tragedia greca. «Gli elementi ci sono tutti — dice Giordana —. Il film è in ordine cronologico: la adolescenza calabrese di Lea, inseguendo un romanzo di formazione, girando a Milano, ricostruendo aule del tribunale e telecamere di sorveglianza. Solo alla fine ho inserito veri documenti del funerale con la città intera mobilitata. L’eloquenza di quelle facce ed espressioni non si poteva replicare, volevo fosse chiaro che avevamo raccontato una storia vera».
Tornando alla tv, dove piantò un paletto d’autore con La meglio gioventù , Giordana la vede come un supporto importante: «Proposta l’idea, ho girato come un fulmine in 6 settimane». Lea (produzione Rai e Angelo Barbagallo con l’Associazione Produttori Tv e la Fondazione Cinema per Roma, col sostegno di Regione Lazio, Camera di commercio) passerà su Rai1 il 18 novembre. «Non è solo un film-tv di rara forza, ma è anche un‘opera di grande valore civile, anzi di denuncia. Un impegno che per noi è prioritario», sottolinea il direttore Rai Fiction Tinny Andreatta.
Tensioni sul set? «No — riprende Giordana — ho avuto appoggi basilari, come quello di don Ciotti, interpretato da Diego Ribon. Lui e l’avvocato Vincenza Rando hanno spiegato che la denuncia contro l’omertà, la rottura con le famiglie, è il passo che mette in crisi i meccanismi automatici di obbedienza, le leggi non scritte della ‘ndrangheta».
E qui è la madre Lea a ribellarsi: «Quando le donne rompono la linea di continuità si apre la frattura, la crisi vera. Don Ciotti rivela che, dopo Lea, è stato avvicinato da molte donne terrorizzate, il fenomeno è in crescita, è l’unico modo per rompere il blocco, la fortezza impenetrabile». Per Lea un cast di volti nuovi di cui Giordana è entusiasta, partendo dalle due eroine, Vanessa Scalera (Lea) e Linda Caridi (Denise).
Ma fra quei cento passi e questi c’è continuità: «È sempre l’universo familiare, clan a delinquere fondato sul sacro vincolo di sangue. Lea si ribella e cambia vita perché pensa ai figli, cioè al futuro. Gli uomini hanno perso credibilità, le donne sono concrete, a loro spetta educazione e trasmissione di valori. L’elemento rivoluzionario è femminile».
La prova? È nel testo che Giordana prepara dell’irlandese Colm Tòibìn, Il testamento di Maria con Michela Cescon, dal 17 novembre allo Stabile di Torino. «Le due figure archetipe di madri, una laica, l’altra sacra, la Madonna, due ribelli che protestano contro il ruolo attribuito, vogliono esser se stesse».
Anche Lea ha una sua religione in fondo? «In lei c’è sacralità. Ex agnostico e incredulo, oggi ho la massima curiosità e invidia per chi ha la fede. Penso che Lea credesse: quel sentimento di maternità l’avvicina alla religione. Perciò metto il film a disposizione della società civile. Ma di politica non ne voglio più nemmeno sentir parlare».


La carta di Beirut: l'Islam liberale non vuole la violenza



"Non si può costringere alla conversione né perseguire chi ha una fede diversa dalla propria. L’islam vieta di condurre una guerra contro chi è diverso, scacciarlo dalle propria terre e limitarne la libertà in nome della religione. Beirut si fa portavoce dell’islam liberale che vuole la convivenza con i cristiani, di cui è ricca la tradizione del Libano": queste sono alcune delle importanti affermazioni contenute nella “Dichiarazione di Beirut sulla libertà religiosa”, pubblicato dalla Mokassed di Beirut, associazione sunnita vicina a Dar el-Fatwa. Il messaggio è stato preparato il 20 giugno scorso.
 
La dichiarazione di Beirut sulle libertà religiose
Il Libano, gli altri Paesi Arabi e i musulmani sono oggi in tumulto a causa della religione, del settarismo e del confessionalismo. Le persone sono uccise, escluse della propria casa e della dignità.
In questa situazione anormale, la religione è sfruttata per motivi politici, sacrificando invano persone, Paesi e civiltà. Questo sta provocando il sorgere dell’islamofobia in varie parti del mondo. La convivenza e i valori ereditati dalla nostra civiltà, come pure il futuro dei nostri giovani, sono seriamente minacciate. Molte iniziative arabe e islamiche hanno tentato di porre rimedio, e perfino combattere questa situazione, per correggere e rigettare la violenza perpetrata in nome della religione.
L’Associazione filantropica islamica Makassed di Beirut, che è impegnata nei valori educativi, islamici e nazionali, si trova obbligata a sostenere e diffondere la cultura della tolleranza e della ragione (enlightenment). Essa si ritiene responsabile nel costruire una società dove le persone possono vivere insieme in libertà, in una società civile e di progresso che può affrontare i pericoli che minacciano la nazione, i suoi cittadini, i valori morali e religiosi.
La Makassed, in quanto organizzazione araba e nazionale, è chiamata a opporsi all’estremismo e alla violenza, e per questo annuncia la Dichiarazione di Beirut sulle libertà religiose, confermando i valori tradizionale che sono gli illuminati valori di Beirut e del Libano, per salvaguardare la dignità di ogni cittadino ed essere umano. Perciò, la Makassed spera di salvare e proteggere la religione da coloro che tentano di prenderla in ostaggio con falsi slogan.

1. La libertà di fede, di culto ed educazione
La fede religiosa è una libera scelta e un libero impegno. È un diritto di ogni persona. Il Sacro Corano inequivocabilmente protegge questo diritto quando dice:
“Non c’è costrizione nella religione. L’orientamento giusto è stato distinto dall’errore” (Al-Baqara 256).
E in un altro versetto:
“Quindi ricordati! (rivolto al Profeta, la pace sia con lui) Perché tu non sei che un promemoria; tu non hai influenza su di loro” (Al-Ghashiyah 22).
Per più di 13 secoli, la nostra terra ha visto moschee, chiese e luoghi di culto costruiti fianco a fianco. Noi vogliamo che questa eredità di libertà, di collaborazione e di vita comune rimanga profondamente salda nella nostra terra, nelle nostre città e tra i nostri giovani. La nostra religione e tradizioni nazionali, le nostre alleanze e le nostre leggi ci guidano ad aderire fermamente a questi principi.
Negare il diritto delle comunità cristiane di esercitare la loro libertà religiosa e distruggere le loro chiese, i loro monasteri e istituti educativi e sociali, è contrario agli insegnamenti dell’islam ed è una violazione palese dei suoi principi, visto che questi abusi sono compiuti nel suo nome.
Di conseguenza, noi proclamiamo, dal punto di vista islamico, umanitario e nazionale, che noi siamo assolutamente contrari a questi atti distruttivi e facciamo appello ai nostri compatrioti cristiani perché resistano agli atti di terrore che cercano di cacciarli dalla loro terra e li sollecitiamo a rimanere attaccati e radicati in profondità a queste terre, insieme ai loro fratelli musulmani, godendo insieme a loro degli stessi diritti e doveri. In questo modo loro, con i compatrioti musulmani, salvaguarderanno i nostri valori comuni e la nostra convivenza in una comunità multireligiosa e onnicomprensiva.
La nostra eredità comune, come credenti in Dio, ci impone di rigettare la costrizione in ambito di fede, di rispettare la libertà intellettuale e di accettare le differenze fra gli uomini come un espressione del volere di Dio. Solo Dio può giudicare dli uomini laddove essi differiscono.

2. Il diritto alla dignità
Questo è un diritto proclamato dal testo coranico. Il Sacro Corano dice:
“Abbiamo onorato la progenie di Abramo e l’abbiamo portata per terra e per mare. Li abbiamo rifocillati di prelibatezze e li abbiamo  preferiti di gran lunga tra molti che abbiamo creato” (Al-Israa’ 17:70).
Perciò, l’uomo ha dignità in quanto essere umano. Il fondamento della sua dignità è il fatto che è stato dotato di ragione, libertà di credere, d’opinione e d’espressione. Egli è responsabile in modo diretto davanti a Dio per l’esercizio delle sue libertà. È diritto dell’uomo godere di protezione della sua libertà da parte dell’autorità al governo; nessuno ha il diritto di giudicare le persone per la loro fede e di perseguitarle e discriminarle per ragioni religiose o etniche. Dio l’Altissimo dice:
“Non dire ad alcuno che si sottomette a te in pace: ‘Tu non sei un credente’, cercando così il bottino della vita presente” (Al – Nisa’ 4:94).
“Tutta l’umanità è la progenie di Adamo”, ha detto il Profeta Maometto (la pace sia con lui) nell’ultimo sermone. Egli ha anche detto “tutti gli esseri umani sono uguali”.
Il Sacro Corano riconosce solo due ragioni per una guerra difensiva: la persecuzione religiosa e l’espulsione dalla propria terra. Il Sacro Corano dice:
“Riguardo a coloro che non ti hanno combattuto per la tua religione, che non ti hanno cacciato dalle tue case, Dio non vi vieta di trattare loro in modo onorevole e di agire con bontà nei loro confronti, perché Dio ama coloro che agiscono con onestà” (Al-Mumtahinah 60:8).
Agli occhi del Corano, nessuno ha il diritto di fare la guerra ad una persona a causa del suo credo o ad un popolo o una comunità per cacciarli dalle loro case, o privarli della loro terra. È perciò nostro dovere unire gli sforzi per proteggere le libertà religiose e nazionali, rispettare la dignità umana per proteggere la convivenza sulla base della giustizia e dell’amore.

3. Il diritto alla differenza, il diritto alla pluralità
Il diritto ad essere diversi è confermato da Dio che dice:
“Oh umanità, noi ti abbiamo creata maschio e femmina, e formata in nazioni e tribù così che vi possiate conoscere. Agli occhi di Dio, i più nobili in mezzo a voi sono i più pii” (Le Stanze 49:13).
Le differenze tra le società e la loro pluralità, la libertà individuale e comunitaria tra le società e i gruppi sono un fenomeno naturale. Conoscere e riconoscersi gli uni gli altri è un comando divino. Mai le società umane sono state una o la stessa nel loro atteggiamento e nel loro modo di vivere, o anche nel loro credo religioso.

4. Il diritto a partecipare alla vita politica e pubblica
Il diritto di partecipare alla vita politica e pubblica è fondato sui principi dell’uguaglianza, della libertà di scelta e della responsabilità individuale. L’islam, come dichiara il documento di Al-Azhar, non impone uno specifico regime politico e non approva uno Stato religioso. Il sistema politico, in qualunque società, è la creazione della gente in quella società, musulmani e non musulmani. Secondo gli accordi comuni come cittadini, il popolo sceglie il proprio sistema di governo, ed essi lo cambiano secondo la loro libera volontà secondo i loro migliori interessi. Perciò, considerare uno specifico sistema politico come sacro o infallibile, o come una materia di fede religiosa, è un fraintendimento della religione e una imposizione sulla gente, che sia musulmana o non musulmana. Tutte le persone sono custodite dallo Stato nazionale che essi hanno creato insieme, ed essi rispettano la costituzione e le leggi che li considera uguali in diritti e doveri.

5. Il nostro impegno per le alleanze arabe e internazionali
La cultura araba ha avuto una civiltà gloriosa e pluralista, che ha contribuito al progresso del mondo. Essa ha creato Stati e sistemi di governo e istituzioni. La religione non è mai stata un ostacolo a questi traguardi. Se noi oggi ci volgiamo contro questa cultura in nome della religione, noi tradiamo la grande eredità del passato e la nostra costante lotta per il progresso e la sicurezza. Noi siamo impegnati a sostenere la Carta delle Nazioni Unite, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e le successive Dichiarazioni arabe. L’ultima di queste è la dichiarazione di al-Azhar riguardo le libertà fondamentali.
Noi siamo parte di questo mondo, e aspiriamo a essere positivamente partecipi del suo progresso. Non siamo spaventati dal resto del mondo e non vogliamo essere una fonte di paura per gli altri. Non vogliamo isolarci dal resto del mondo e non vogliamo  che il mondo si isoli da noi. Ricordiamo che i musulmani costituiscono un quinto della popolazione mondiale, e un terzo di essi vive in Paesi non musulmani.

6. Il nostro impegno verso il Libano perché sia una patria e uno Stato democratico unificato
Basata sui valori di libertà, libera associazione e vita sociale comune, la formula libanese dello Stato ha creato un sistema consensuale, che garantisce le libertà di base e ha condotto ad uno Stato fiorente. Certo, noi riconosciamo che il sistema libanese di governo soffre di grossi problemi, ma questo sistema rimane aperto a miglioramenti, nella misura in cui la libertà politica e religiosa sono garantite e la volontà del popolo è salvaguardata. I pensatori e intellettuali libanesi musulmani, molti dei quali sono laureati alla Makassed, hanno contribuito a questa cultura di libertà e a questo pensiero islamico liberale. Essi si sono uniti ad altri intellettuali libanesi nel tracciare l’Alleanza nazionale, gli accordi di  Taef e i Dieci principi che Dar Al Fatwa ha proclamato nel 1983. Quest’ultimo documento afferma i principi della cittadinanza comune, del governo civile, delle libertà civili e della lealtà al Libano come Stato sovrano e patria per tutti i cittadini. Noi vogliamo che il Libano rimanga unito e democratico, protettore delle libertà e dei diritti di tutti i cittadini e un modello di società plurale e libera. Il Libano sarà quindi un esempio da seguire per tutti i regimi arabi che stanno soffrendo profondamente a causa dell’estremismo e dell’intolleranza e dei crimini commessi in nome della religione, che cacciano le persone fuori delle proprie case, ignorando i principi della convivenza e della dignità umana. Il modello libanese sarà [uno] di tolleranza, di non violenza e di umanesimo.  

7. Il ruolo e l’impegno della Makassed
La Makassed rimarrà fedele alla sua missione e ai suoi principi come sono stati definiti 137 anni fa. Esso sgi impegna per la libertà di educazione e l’insegnamento della tolleranza religiosa. La Makassed ha insegnato l’islam a numerose generazioni tramite rinomati insegnanti proveniente dal Libano e da altri Paesi arabi.
Noi faremo rivivere questa tradizione e riformeremo l’insegnamento dell’islam in stretta collaborazione con Dar Al Fatwa, e beneficeremo dai recenti metodi innovativi di insegnamento di materie civiche. La Makassed è sempre stato un faro di tolleranza nell’educazione civica e religiosa. Col volere di Dio, rimarrà tale.
Beirut è stata “la Madre delle leggi” e una casa per la libertà e la creatività. Allo stesso modo in cui ha partecipato alla creazione dello Stato moderno e al progresso della libertà, essa si sforza di rimanere tale, insieme coi musulmani, i non musulmani, con la Makassed, in questi tempi difficili per gli Arabi e per il Libano. Beirut rimarrà la torcia dell’illuminismo musulmano, del progresso arabo e della pace umanitaria.


lunedì 16 novembre 2015


L'ASSOCIAZIONE PER I DIRITTI UMANI



Associazione per i Diritti Umani




PRESENTA



il saggio “Egitto, democrazia militare”

di Giuseppe Acconcia



 
 


mercoledì 18 NOVEMBRE, ore 19

presso



BISTROT DEL TEMPO RITROVATO

Via Foppa, 4 (MM Sant'Agostino) MILANO





L’Associazione per i Diritti Umani organizza l'incontro nell'ambito della manifestazione “D(I)RITTI AL CENTRO!”.



Presentazione del saggio il saggio “Egitto, democrazia militare” di Giuseppe Acconcia, Exòrma edizioni.



Il saggio:

L'incoronazione dell'ex generale Abdel Fattah al-Sisi come nuovo presidente egiziano ha chiuso tre anni rivoluzionari che hanno cambiato il Paese. Il racconto dal basso delle rivolte di piazza descrive un Egitto straordinario, diviso tra modernità e tradizione, dalla repressione di migranti e minoranze, alla punizione collettiva delle tribù del Sinai, dagli operai delle fabbriche di Suez al massacro di Rabaa al-Adaweya.




Coordina: Alessandra Montesanto, Vicepresidente Associazione per i Diritti Umani





Parigi sotto attacco: la colpa è dell’Islam (?)


di Shady Hamadi  (da Il fatto quotidiano)



“E’ l’Islam il problema. La violenza che vediamo è il naturale frutto di una religione violenta” è questa l’idea che si diffonde a macchia d’olio in queste ore. Era la stessa idea che dilagava nelle ore, e nei giorni, dopo la strage di Charlie Hebdo. Tutte le responsabilità sono affidate a questa fede che sarebbe in antitesi con tutte le cose belle (democrazia, libertà e illuminismo – una parola molto ricorrente) dell’Occidente. La nuova strage a Parigi, dove hanno perso la vita 127 persone, sarebbe l’ennesima conferma dell’idea all’inizio. Allora si può cominciare a dare la responsabilità di quello che succede a oltre un miliardo di persone.

Le forze reazionarie in Europa, i paladini dell’identitarismo, non aspettavano altro per cominciare il loro proselitismo politico: la raccolta del consenso. «Più sicurezza contro il nemico esterno, l’Islam» gridano in questi istanti gli imprenditori della paura in tutta Europa. E come potrebbero avere torto? Perfino persone che sono sempre state disposte al dialogo si arrendono di fronte a quella che pare l’evidenza: l’Islam è una religione dell’odio. Ripongono il dialogo nell’armadio dei ricordi e da moderati passano al gruppo di chi vuole la chiusura delle frontiere. “Questi musulmani”, ci diranno fra un po, “sono tutti pericolosi. Il fondamentalista islamico è il nostro vicino di casa. Obblighiamoli a indossare un segno di riconoscimento. Magari una mezza luna”. Qualcuno potrebbe proporre di ritirare la cittadinanza a chi è nato e cresciuto nei nostri paesi da genitori musulmani perchè potenzialmente pericoloso. Sarebbe sbagliata una scelta del genere? No, se viene generalizzato il problema e la colpa diventa di tutti indistintamente. Alla fine sono “Bastardi islamici” come titola Libero. Di fronte alla facilità di cadere nel bacino, sempre più capiente, dei partiti xenofobi europei l’unica cura pare quella difficile dell’analisi di quello che è il Medioriente oggi e la rilettura della nostra Storia, quella europea. Scopriremmo molte cose interessanti e, fra le tante, che, in alcuni periodi storici, quando è stata generalizzata la colpa a una etnia o gruppo religioso si sono aperti gli anni bui che sono terminati con i massacri di questi capri espiatori.

Buttare le colpe sull’Islam, questa entità vuota, sconosciuta a troppi, è un gioco estremamente semplice che si alimenta grazie all’ignoranza e che ci impedisce di ragionare su quali sono i motivi che creano il fondamentalismi. Dico fondamentalismi perché Boko Haram è differente da Isis; l’Isis è differente da Al Qaida. I contesti sociali, linguistici, storici dove sono nati questi fenomeni non hanno nulla in comune fra di loro se non l’estrema povertà causata dallo sfruttamento di risorse e lo strapotere di élite politiche e economiche che creano dislivelli di ricchezza enormi.

Al fondamentalismo islamico c’è chi, come le formazioni di estrema destra, invoca il ritorno allo status quo precedente al 2010, alle primavere arabe. “Bisogna far tornare i vecchi regimi perché davano stabilità!”, dichiarano, “perché Saddam, Asad, Gheddafi ecc…sono il male minore”. Ai musulmani servirebbero dei tutori, dei massacratori. Poco importa se chi li aiuta a instaurarsi al potere si definisce democratico. La morale qui non vale. Non vediamo invece che la maggior parte dei giovani arabi che entrano nelle formazioni fondamentaliste hanno 30 anni e sono cresciuti educati e formati proprio sotto questi governi considerati “mali minori e laici”. Con questo intendo che dobbiamo domandarci “cosa spinge alcuni giovani nati e cresciuti sotto i regimi – buoni, come li considera qualcuno – a propendere verso il fanatismo?”. La risposta è la costante mancanza di libertà, l’asfissia sociale, la consapevolezza di non poter cambiare le cose e l’accettazione – da parte di alcuni di loro- della morte come eventualità quotidiana.

Quest’ultimo punto è stato per me evidente due giorni fa. Camminavo nel centro di Beirut con un mio amico e da qualche ora c’era stato l’attentato che aveva causato quasi 50 morti. Intorno a noi la gente riempiva i bar e la vita procedeva tranquilla. Questo amico mi ha chiesto che cosa pensassi: “non ti sembra strano che tutto proceda come se nulla fosse”? “E’ la temporaneità”, gli ho risposto, «”la concezione che nulla sia duraturo. E’ tutto fragile. Domani può arrivare un aereo di chissà quale Stato, sganciare una bomba e andarsene. Tutti sanno che non ci sarà nessuna reazione. La vita si è plasmata qui, e in altri luoghi del mondo arabo, intorno alla costante insicurezza”. Non è una concezione vittimistica della vita ma direi l’accettazione dell’eventualità della morte. Così, noi in Europa, non capiamo che le vittime di Beirut sono vicine, insieme a quelle in Siria, in Palestina, Israele, Iraq e Yemen a quelle di Parigi.
Ma solo le ultime raggiungono lo status di vittime perchè ci identifichiamo con loro mentre le altre sono numeri. Quando proveremo empatia verso tutti; quando la smetteremo di chiedere a ogni musulmano vicino di casa di sentirsi in colpa e condannare gli attentati; quando proveremo tutti insieme, musulmani, cristiani, ebrei – tutti noi – la solidarietà a prescindere dalla nazionalità, allora il fondamentalismo avrà fine. Questo sforzo deve arrivare da tutte le parti. Preme però sottolineare che il punto essenziale, oggi, è capire che la Siria e la guerra(incompresa) che si combatte lì, ha ripercussioni dirette nelle nostre società. Solo la risoluzione di quella catastrofe, che miete centinaia di morti al giorno, può dare un contributo fondamentale alla stabilità dell’area. Ma la scelta per risolverlo non deve essere fra un regime e il fondamentalismo: dobbiamo scegliere il popolo, la gente.
Solo il dialogo ci salva dai tempi bui, ma questa strada è sempre la più difficile.

domenica 15 novembre 2015

Il Presidente delle comunità arabe in Italia commenta i fatti di Parigi





Foad Aodi ha rilasciato, per i nostri lettori, un commento sui fatti di Parigi. Ringraziamo molto Foad Aodi per la sua disponibilità.



A nome di Co-Mai (Amsi e Uniti per Unire) esprimiamo solidarietà ai francesi - come abbiamo fatto, purtroppo, in occasione anche dello scorso attentato, davanti all'Ambasciata - e con la solidarietà esprimiamo anche la nostra condanna di ogni forma di violenza e di terrorismo.

Vogliamo ribadire che l'Islam non c'entra con questi movimenti estremisti; come musulmani non abbiamo mai visto una violenza come questa, una violenza cieca contro Paesi civili e democratici.

L'Isis ha l'obiettivo di prendere il primato del Consorzio del terrore, combattendo due guerre: una interna – nei confronti di altri movimenti estremisti nei vari Paesi – e utilizzando anche il franchising del terrorismo formato da tanti lupi solitari che seguono la propaganda, senza nemmeno sapere bene cosa vogliono (e questo è il pericolo maggiore).

Concordo con Papa Francesco che si tratti di una terza guerra mondiale e credo che si debba agire in fretta su due binari: da una parte le comunità del mondo arabo, le comunità musulmane, ebree e cristiane devono unirsi per promuovere il dialogo interreligioso e, dall'altra, sono importanti anche le azioni diplomatiche e delle forze politiche che devono agire subito per fermare l'avanzamento dell'Isis, anche perchè tutti noi non sappiamo ancora rispondere a tre domande: Com'è nato? Chi lo sponsorizza? Dove vuole arrivare?

Farid Adly commenta la strage di Parigi

L'Associazione per  i Diritti umani ringrazia molto il giornalista Farid Adly per questo suo commento alla strage di Parigi.
 
 
 
La strage di Parigi è un crimine orrendo, che dimostra la lontananza abissale di questi terroristi dalla vera fede islamica. E' stata presa di mira gente innocente che stava godendosi la vita. Sono stati colpiti i simboli della cultura, dello sport e dell'intrattenimento sociale. Gli jihadisti esprimono così il loro odio per la vita, in un macabro scenario di morte e distruzione. Sono una minoranza nel mondo arabo e islamico, ma una minoranza rumorosa che trova amplificazione in Occidente presso i sostenitori dello scontro tra civiltà. Certi sciacalli per un pugno di consensi sono capaci di addossare le responsabilità di ciò che è accaduto a Parigi sulle spalle degli immigrati di origine araba e islamica. Non è un'operazione nuova. La scena politica Italiana non è nuova a simili operazioni. E' stata già tentata negli anni ottanta, ma fallì miseramente.
La nostra condanna al terrorismo, noi maggioranza degli arabi e dei musulmani, cittadini e residenti in questo Paese, non è dettata né da un senso di colpa, né dal timore di essere additati, ma dal nostro credo democratico e progressista. Già ho espresso questo mio convincimento in un appello del Novembre 2003, in occasione del dialogo cristiano islamico e lo ripeto oggi: "Ora basta! Ogni nostro ulteriore silenzio è complice" e a questo appello vorrei ricordarne un altro, lanciato nel 2001, "OCCIDENTALI, NON VENDETECI PIU' ARMI!". La crisi che attanaglia la nostra regione è originata dalla presenza di ingenti risorse energetiche; ricchezze che si sono rivelate una catastrofe e hanno destabilizzato la regione, che è la prima mondiale per l'import di armamenti.

venerdì 13 novembre 2015


L'ASSOCIAZIONE PER I DIRITTI UMANI



Associazione per i Diritti Umani




PRESENTA



il saggio “Egitto, democrazia militare”

di Giuseppe Acconcia





mercoledì 18 NOVEMBRE, ore 19

presso



BISTROT DEL TEMPO RITROVATO

Via Foppa, 4 (MM Sant'Agostino) MILANO





L’Associazione per i Diritti Umani organizza l'incontro nell'ambito della manifestazione “D(I)RITTI AL CENTRO!”.



Presentazione del saggio il saggio “Egitto, democrazia militare” di Giuseppe Acconcia, Exòrma edizioni.







Il saggio:

L'incoronazione dell'ex generale Abdel Fattah al-Sisi come nuovo presidente egiziano ha chiuso tre anni rivoluzionari che hanno cambiato il Paese. Il racconto dal basso delle rivolte di piazza descrive un Egitto straordinario, diviso tra modernità e tradizione, dalla repressione di migranti e minoranze, alla punizione collettiva delle tribù del Sinai, dagli operai delle fabbriche di Suez al massacro di Rabaa al-Adaweya.





Coordina: Alessandra Montesanto, Vicepresidente Associazione per i Diritti Umani





sabato 31 ottobre 2015

I soldati di 38 unità delle forze armate greche: «Non partecipiamo alla guerra contro i migranti, non reprimiamo le lotte sociali»



carni lacerate dal filo spinato, bambini annegati sulle coste, affamati nelle piazze, folle accalcate che implorano per i loro documenti, …

Molti di noi hanno visto e hanno vissuto queste scene vergognose prima che arrivassero sulle prime pagine e nei telegiornali, sul fiume Evros e sulle isole, là dove ci hanno mandati per svolgere obbligatoriamente il servizio dell’assurdo. Lavoratori schiavi e contemporaneamente carne per i loro cannoni.

Queste scene ci scioccano, monopolizzano i nostri discorsi. Non vogliamo, però, che diventino routine. Come non ci siamo abituati e non riconosciamo i memorandum e le politiche anti-popolari, gli interventi imperialistici e le loro sporche guerre, così non accetteremo e non ci abitueremo al dramma dei profughi. È il dramma delle nostre genti, del nostro mondo, del mondo del lavoro, indipendentemente dalla nazionalità, dalla religione o dal sesso!

Il cosiddetto «aumento dei flussi migratori» è in realtà fuga dalla guerra e sradicamento. Non è un fenomeno naturale, ci sono dei responsabili. È la loro crisi capitalistica. Per far sì che passi, aboliscono i nostri diritti, ci lasciano nella fame, nella povertà, nella disoccupazione, nella nuova necessità di migrare. Sono gli USA, la NATO, l’Europa, la Cina e la Russia. Impongono i loro interessi economici con la paura e la morte, mantengono e resuscitano nuovi alleati e nemici, alimentano il fondamentalismo religioso. Sono le forze della periferia dell’impero (Turchia, Israele, Grecia, paesi Arabi), che inaspriscono gli antagonismi di quest’area.

Sono quelli che parlano di stati falliti e di popoli inferiori, quelli che affrontano gli uomini come spazzatura e fanno rastrellamenti, trasformando interi territori in discariche di persone e in dispense per il crudo sfruttamento! Uno solo è il nemico della classe borghese e dei suoi governi: i lavoratori, sia che si battano per i loro diritti, sia che si muovano senza documenti, anche se sono stati i loro interventi militari a portarli allo sradicamento. E inoltre, non sono i rifugiati a decidere dove andare: i flussi migratori vengono incanalati verso i moderni campi di concentramento, gli hot spot, perché i lavoratori scelgano dove essere sfruttati! Se ne libereranno, chiaramente, quando non avranno più bisogno di loro, o quando si azzarderanno a reagire, rimettendoli di nuovo sul mercato …

Lo stato greco e l’esercito sono parte del problema e non la soluzione. Il governo SYRIZA-ANEL continua la guerra al terrorismo, prende parte ai programmi imperialistici, combatte le «minacce non conformi» (migranti, movimenti sociali). Replica la falsa ripartizione tra profughi di guerra buoni e migranti economici cattivi. Le forze armate chiedono a noi, i soldati di leva, insieme a quelli in ferma stabile e agli ufficiali, di fare la guerra al «nemico interno», come nel caso recente dell’esercitazione PARMENIONE 2015! Al ciclo morte-sfruttamento-oppressione collaborano in armonia i “nemici” Grecia e Turchia, che pattuglieranno congiuntamente l’Egeo! Il fronte di guerra dell’Europa, per altro, comincia a Gibilterra e termina nell’Egeo, con Frontex con un ruolo preponderante.

Un sommergibile greco si unirà alla flotta europea che opera nelle acque territoriali libiche. La 16° divisione, sull’Evros, è in stato d’allerta per i migranti che arrivano da Edirne. Ci ordinano di esercitarci per reprimere le folle, come quando a Kos, dopo i drammatici eventi di Kalymnos, il generale ha richiesto che venisse dichiarato lo stato di emergenza e che fossimo mandati armati contro i migranti reclusi senza cibo né acqua. Facciamo la guardia a questa cortina assassina che è anche la ragione di tutti questi annegamenti nell’Egeo.

NON COMBATTIAMO, NON REPRIMIAMO, NON DIAMO LA CACCIA AI MIGRANTI.

Noi soldati in lotta siamo contro tutto questo, contro i loro crimini vecchi e nuovi.

Chiamiamo a un Movimento di massa, sia dentro che fuori l’esercito.

Per bloccare in ogni modo Frontex, la NATO e l’esercito europeo, l’azione delle forze armate in questo massacro continuo. Non partecipiamo alle ronde.

Aiutiamo ad abbattere le cortine e non a costruirne di nuove. Che nessun soldato salga sulle navi dirette in missione.

Navi, sommergibili e aeroplani facciano ritorno alle loro basi. Nessun supporto ai loro rifornimenti.

Rifiutiamo la trasformazione dell’esercito greco in un dispositivo capitalista, sia a discapito dei migranti che dei movimenti sociali. Non accetteremo di rimediare come «lavoratori volontari» alle carenze delle infrastrutture sociali. Per noi la minaccia non conforme sono la guerra dichiarataci contro dai governi e gli interessi che essi sostengono.

Chiediamo ai nostri colleghi non solo di mostrare pietà e compassione, ma anche di considerare i comuni interessi di classe. Sono le stesse istituzioni borghesi, le stesse politiche borghesi, gli stessi governi borghesi che distruggono anche i nostri sogni.

Quello che adesso vivono i profughi, la continua persecuzione da parte di dispositivi totalitaristici di ogni tipo, la lotta per la dignità e la sopravvivenza, il loro tragico presente, sono per molti di noi l’incubo di un presente e di un futuro che non dobbiamo vivere: lo stato del totalitarismo parlamentare con i collaboratori NAZISTI di Alba Dorata.

Sappiamo bene che le prossime rivolte vedranno gli sfruttati uniti o gli uni contro gli altri.

Non esiste oggi una solidarietà più pragmatica e un aiuto più grande a noi stessi che il colpire il male alle radici.

Siamo parte del moderno movimento dei lavoratori e contro la guerra, che può esistere solo attraverso un’ottica di classe, anticapitalista e internazionalista. Con la resistenza, l’opposizione, il rifiuto in toto del governo, dei dispositivi imperialistici, del mondo borghese dell’oppressione.

(seguono nel testo originale le sottoscrizioni dei soldati di 38 unità delle forze armate, n.d.t.)

RETE DI SOLDATI LIBERI “SPARTAKOS”

COMITATO DI SOLIDARIETA’ AI SOLDATI DI LEVA*


Traduzione di AteneCalling.org

http://atenecalling.org/comunicato-dei-soldati-di-50-unita-delle-forze-armate-greche-non-partecipiamo-alla-guerra-contro-i-migranti-non-reprimiamo-le-lotte-sociali/