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venerdì 25 settembre 2015

Petting zoo: un film sui diritti negati delle ragazze-madri singles

di Monica Macchi







Domenica 27 settembre 2015 presso cinema Beltrade (Milano) ore 15.00







I texani stanno crescendo, generazione dopo generazione,

come adulti sessualmente analfabeti

David C. Wiley, presidente dell’American School Health Association







Il Texas ha il più alto numero di ragazze madri, gli adolescenti che hanno rapporti sessuali sono il 52,5 % (la media nazionale è del 47%), e il tasso di diffusione dell’hiv è tra i più alti del Paese ma a causa di sostenitori molto influenti come George W. Bush e al fatto che i distretti scolastici hanno completa autonomia in tema di educazione sessuale, l’astinenza viene presentata come l’unico metodo sicuro per prevenire le malattie sessualmente trasmissibili, le gravidanze e i “traumi emotivi legati ai rapporti sessuali”. Recentemente poi è stata approvata una legge secondo cui le cliniche che praticano aborti devono dotarsi di locali, attrezzature e personale, equivalenti a quelli delle sale chirurgiche degli ospedali: il governo conservatore sostiene che queste misure servano a garantire la sicurezza delle donne, ma per le associazioni contrarie alla legge il vero obiettivo del provvedimento è rendere ancora più difficile l’interruzione di gravidanza. E in effetti in tutto il Texas, che ha una superficie di 700.000 chilometri quadrati ed è il secondo Stato più popoloso degli Usa, le cliniche che praticano aborti erano 41 nel 2012, e oggi sono solo18.   
 




Questo è l’ambiente sottoproletario e puritano in cui si muove Layla, una diciassettenne che dopo aver ricevuto una borsa di studio per Austin, scopre di essere incinta e pressata dalla sua famiglia, contraria all’aborto, rinuncia al college e va a vivere con la nonna in una roulotte.




Ecco la recensione completa:




domenica 14 dicembre 2014

Il calendario rom contro i pregiudizi











Pochi sanno che in Italia almeno 4 rom e sinti su 5 (130 mila uomini, donne e bambini) vivono “mimetizzati” in abitazioni convenzionali, svolgendo regolare lavoro e conducendo una vita che non ha nulla di diverso dall’esistenza di una qualsiasi famiglia, italiana o straniera, che vive sul territorio italiano.



È a loro che l'Associazione 21 luglio ha scelto di dedicare
il nuovo Calendario 2015, nell'intento di smontare i soliti stereotipi e pregiudizi verso rom e sinti.



Il
Calendario 2015 vuole scattare una fotografia della condizione lavorativa e occupazionale delle comunità rom e sinte in Italia. Dietro ogni scatto c’è un volto, una storia, una speranza. Ma soprattutto c’è un desiderio di inclusione e una volontà a “portare onestamente a casa un pezzo di pane,” come più di qualcuno ci ha tenuto a raccontare.



Con una donazione di soli 5 euro
puoi ordinare il Calendario on line e riceverlo direttamente a casa!


Donne che chiedono l’elemosina con i figli in braccio, coppie di anziani che rovistano dentro i cassonetti, uomini che trascinano carrelli carichi di materiale ferroso. E’ questa l’istantanea che appare nell’immaginario collettivo dei cittadini delle metropoli italiane quando si vuole associare l’universo rom all’attività lavorativa.


Pochi sanno che in Italia almeno 130 mila rom e sinti vivono “mimetizzati” in abitazioni convenzionali, svolgendo regolare lavoro, pagando le tasse e conducendo una vita che non ha nulla di diverso dall’esistenza di una qualsiasi famiglia, italiana o straniera, che vive sul territorio italiano.


Il Calendario 2015 dell’Associazione 21 luglio vuole scattare una fotografia della condizione lavorativa e occupazionale delle comunità rom e sinte in Italia. Dietro ogni scatto c’è un volto, una storia, una speranza. Ma soprattutto c’è un desiderio di inclusione e una volontà a “portare onestamente a casa un pezzo di pane,” come più di qualcuno ci ha tenuto a raccontare.

mercoledì 30 ottobre 2013

Una campagna contro i pregiudizi



Parte lunedì 11 novembre alle 11.30 con la conferenza dal titolo “Conflitti, mass media e diritti” che si terrà in Corso Vittorio Emanuele II 349)e, alle 20.30 con lo spettacolo “Senza Confini - Ebrei e Zingari” di Moni Ovadia presso il Teatro Vittoria, Piazza di Santa Maria Liberatrice 10, Roma, Ingresso libero a sottoscrizione, una campgna per combattere gli setereotipi negativi e i pregiudizi sui rom, anche a seguito dei fatti di cronaca di cui abbiamo parlato negli articoli precedenti. 
 
Offrire una fotografia reale della popolazione Rom in Italia e in Europa, dando spazio alla cultura romanì e ai giovani Rom impegnati nel miglioramento delle condizioni di vita delle proprie comunità, e’ l’obiettivo della campagna ROMAIDENTITY- IL MIO NOME E’ ROM promossa dalla ong Ricerca e Cooperazione insieme a Associazione Stampa Romana, Associazione Rom Sinti @ Politica, Università La Sapienza e altre associazioni e istituzioni di Italia, Romania e Spagna.

Alla conferenza pubblica “Conflitti, mass media e diritti” parteciperà l'attore Moni Ovadia, insieme a Paolo Butturini (Stampa Romana), Nazzareno Guarnieri (Associazione Rom Sinti @ Politica) e Natascia Palmieri (Ricerca e Cooperazione). Segurà lo spettacolo teatrale e, all'iniziativa, interverranno inoltre: Pietro Vulpiani (Unar – Ufficio Antidiscriminazioni Razziali) e Serena Tosi Combini (Fondazione Michelucci, Università di Verona) autrice del volume “La zingara rapitrice”.

mercoledì 24 luglio 2013

Il caso Tryvon Martin




Siamo negli Stati Uniti del 2012: eppure ancora qualcosa non va.
Un giovane nero - si saprà poi che aveva 17 anni - cammina, con il cappuccio di una felpa in testa e le mani in tasca, nel quartiere bianco di Sanford, in Florida. E' il 27 febbraio dell'anno scorso, ed è sera. Il ragazzo si chiama Tryvon Martin, frequenta la scuola e gioca in una squadra di football; ma quella sera, incrocia il passo di George Zimmermann, un ventottenne autoproclamatosi “capitano della guardia di quartiere”. Zimmermann, vedendo il ragazzo incappucciato, chissà perchè si insospettisce, pensa che sia uno spacciatore e inizia a seguirlo. Martin, intanto, è al telefono con un'amica alla quale dice di sentirsi pedinato da qualcuno e gli consiglia di scappare: il ragazzo comincia a farlo, la guardia teme che sia armato (solo perchè continua a tenere l'altra mano in tasca), i due si ritrovano faccia a faccia. Comincia una colluttazione, Zimmermann ha una pistola e spara. Arrivano i soccorsi, ma è troppo tardi: Tryvon è morto a soli 17 anni. Nelle sue tasche sono state trovate caramelle e una bottiglia di the alla pesca.
La vicenda di Tryvon Martin ha assunto dimensioni planetarie perchè conferma quanto lavoro c'è ancora da fare per abbattere stereotipi, pregiudizi, razzismo e violenza.
I genitori del ragazzo hanno lanciato una petizione online, pochi giorni dopo la sua uccisione, per chiedere giustizia. Durante la marcia a New York del 21 marzo 2012 chiamata “Million Hoodie March” (composta da migliaia di persone con un cappuccio in testa che scandivano slogan tra cui “Il prossimo sono io?”) la madre di Tryvon, Sybrina Fulton, ha detto: “ Questa non è una questione tra bianchi e neri. Questa è una questione di giusto e sbagliato. Nostro figlio è vostro figlio”. E le ha fatto eco il Presidente Obama che ha affermato, rivolgendosi ai genitori della vittima: “Se avessi un figlio, avrebbe il suo stesso aspetto”. Eppure un ragazzo nero con una felpa - nell'Occidente emancipato, capistalista, libero e democratico - viene ancora preso per uno spacciatore e niente di più. E viene ucciso. Anche se, nel manuale della guardia di quartiere si legge: “ Deve essere ricordato ai membri che loro non hanno poteri di Polizia e, quindi, non devono portare con sé armi né possono fare inseguimenti”.
Il sociologo Zygmut Baumann , nel suo saggio intitolato “Paura liquida” scrive: “Paura è il nome che diamo alla nostra incertezza: alla nostra ignoranza della minaccia, o di ciò che c’è da fare - che possiamo o non possiamo fare - per arrestarne il cammino o, se questo non è in nostro potere, almeno per affrontarla...La generazione meglio equipaggiata di tutta la storia umana è anche la generazione afflitta come nessun’altra da sensazioni di insicurezza e di impotenza.” (…) Il paradosso nell’analisi della paure diffuse che, nate e alimentate dall’insicurezza, saturano la vita liquido-moderna è che viviamo senza dubbio - per lo meno nei paesi sviluppati - nelle società più sicure mai esistite...I messaggi che arrivano dai luoghi del potere politico, propongono più flessibilità come unico rimedio a un livello già intollerabilie di insicurezza, prospettando ulteriori sfide e una maggiore privatizzazione dei disagi: in ultima un’insicurezza ancora minore (…). Incitano all’incolumità individuale, in un mondo sempre più incerto e imprevedibile e dunque potenzialmente pericoloso”: ormai la cultura della paura ha invaso le nostre società e modificato i nostri pensieri e gli stili di vita. La paura causa necessità di sicurezza e questa si tramuta in volontà di controllo. Ogni singola minaccia, vera o presunta, scatena aggressività e autodifesa.
E proprio appellandosi al diritto di legittima difesa, in quanto si sentiva minacciato dal ragazzino, Zimmermann, quasi a un anno di distanza dall'accaduto, è stato assolto.
I genitori potranno rivolgersi ad un tribunale civile, mentre le autorità dovranno decidere se avviare un procedimento federale.
L'opinione pubblica, non solo quella americana, ha già espresso il proprio parere: tantissime persone, infatti, sono scese in piazza per manifestare di nuovo contro la decisione della giuria della Florida mentre anche molti giornalisti e intellettuali si interrogano sul significato di quanto è successo.

mercoledì 22 maggio 2013

Se dico rom...Indagine sulla rappresentazione dei cittadini rom e sinti nella stampa italiana

Dal giugno 2012 al marzo 2013, i volontari dell'associazione Naga (Associazione volontaria di Assisetnza Socio-Sanitaria e per i Diritti di cittadini stranieri, rom e sinti) hanno analizzato gli articoli realtivi ai cittadini rom e sinti pubblicati su nove testate giornalistiche italiane: Corriere della Sera, La Repubblica, La Stampa, il Sole 24 ore, Il Giornale, Libero Quotidiano, La Padania, La Prealpina, Leggo, edizione di Milano.
Uno dei risultati emersi è che sia molto diffusa la pratica di inserire i rom in articoli che parlano di fatti negativi. Vengono, infatti, associati a criminalità e degrado anche i cittadini rom che compiono atti che non costituiscono reato (ad esempio, lavarsi ad una fontana) oppure che sono del tutto neutri (passare per un luogo o camminare). Ormai è sufficiente essere rom per essere qualcosa di negativo: lo stereotipo è talmente radicato che ha raggiunto un livello ontologico. Natascia Curto, una delle volontarie che ha curato la ricerca ha scritto, nel rapporto intitolato Se dico rom...Indagine sulla rappresentazione dei cittadini rom e sinti nella stampa italiana (che vede l'introduzione di federico Faloppa): “Abbiamo analizzato gli articoli per descrivere alcuni dei meccanismi attraverso i quali questo processo avviene e per capire quale sia il nesso tra rappresentazione negativa e discriminazione...Spesso queste associazioni raggiungono livelli discriminatori e vengono fatte ricorrendo a dichiarazioni riportate tra virgolette. Inoltre, un'altra modalità riscontrata nel trattamento dei rom nella stampa è quella di creare una separazione, un noi e un loro, i “cittadini” e i rom: due gruppi diversi...che non si intersecano e il cui benessere è alternativo”. O stiamo bene noi, quindi, oppure stanno bene loro.
Dall'analisi quantitativa, effettuata da Cristina Ferloni e Fanny Gerli, emerge che nel 30% degli articoli sono presenti dichiarazioni che si possono considerare discriminatorie. Hanno detto affermato le volontarie: “ La maggior frequenza di articoli che parlano di rom è riconducibile alle testate nazionali, con una significativa prevalenza per il Corriere della Sera e La Repubblica, seguiti da Libero nella sua edizione milanese. Le dichiarazioni discriminatorie analizzate rimandano in prevalenza a racconti di intolleranza sociale e discriminazione (37,2%), seguti da quelli che fanno emergere una differenziazione tra un “noi” e un “loro” (32,3%)”.
Il trattamento che la stampa fa dei rom ha l'effetto di creare, nell'opinione pubblica, un'idea negativa di queste persone, rinforzando le barriere che impediscono la piena fruizione dei diritti civili e sociali da parte dei rom. Ma la stampa, di contro, può essere anche veicolo di conoscenza e di avvicinamento. Cinzia Colombo, Presidente del Naga, ha chiesto ai singoli giornalisti, ai titolisti, alla Federazione Nazionale della Stampa e agli editori di rispettare e applicare le linee-guida per l'applicazione della Carta di Roma; di dar voce ai cittadini rom e sinti e ascoltarli come fonti; e, infine, di firmare l'appello dal titolo “I media rispettino il popolo rom”, lanciato dai giornalisti contro il razzismo.
Ogni singolo cittadino, infine, nella quotidianità, quando parla con gli amici, nei discorsi in famiglia, ha l'occasione di confermare o contrastare gli stereotipi e i pregiudizi che circolano sui rom e sinti: è importante avviare un lavoro culturale, capillare e costante.


giovedì 28 marzo 2013

Una conversazione con Clelia Bartoli, autrice del saggio “Razzisti per legge. L'Italia che discrimina”, Editori Laterza




 In Razzisti per legge. L'Italia che discrimina (Editori Laterza) Clelia Bartoli, docente di Diritti umani alla Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Palermo, riesce a dimostrare che - nonostante gli italiani dichiarino di non essere razzisti, la “razza” -  nel Belpaese, non sia un dato naturale, ma un oggetto sociale e che essa prenda corpo perchè collettivamente, attraverso le leggi e il comportamento, la facciamo esistere. E, in particolare,sempre secondo la tesi dell'autrice, i migranti siano diventati una “razza” nuova, contemporanea: quella dei clandestini.



Abbiamo rivolto alcune domande a Clelia Bartoli



Quanto è importante, oggi, monitorare il linguaggio? Le parole, pronunciate e scritte, confermano stereotipi e pregiudizi?

La parola, come eminente espressione umana, è impregnata dalle relazioni di potere. Il linguaggio pone un ordine nel pensiero e nelle emozioni, censurando, enfatizzando, plasmando ciò che crediamo e sentiamo. Ciò significa che le frasi offensive, i discorsi escludenti, gli epiteti pregiudiziali costituiscono una forma di razzismo. Ma la discriminazione si annida perfino nella grammatica, nella sintassi, in espressioni comuni apparentemente neutrali. Ad esempio l’uso del plurale maschile per indicare un gruppo di donne e uomini, significa che il genere (non solo grammaticale) per eccellenza è quella maschile. L’usare la parola “nero” e “scuro” associate a situazioni negative, mentre il “bianco” e il “candore” alla bontà e all’innocenza, sono tutte connotazioni del linguaggio cariche di giudizio, che è bene smascherare e rovesciare. Un percorso di liberazione e affermazione di un gruppo oppresso passa comunque dal linguaggio, il Black power l’aveva ben capito, non a caso diffonde slogan come: “Nero è bello”.
Consiglio di leggere a questo riguardo il bel libro di Federico Faloppa, Razzisti a Parole (per tacer dei fatti), edito da Laterza.

Cosa si intende per “razzismo istituzionale”?

Quando si usa la parola razzismo ci si riferisce generalmente ad atti, parole o atteggiamenti discriminatori posti in essere da una persona contro un individuo o un gruppo. Esiste però un altro tipo di razzismo ancora più pericoloso perché suoi effetti sono più estesi ed è meno visibile, ed è il razzismo istituzionale.
Si tratta della disuguaglianza, della marginalità prodotta da leggi, regole, burocrazia, prassi amministrative, con o senza l’intenzione. Ad esempio sono forme di razzismo istituzionale il fatto che un ragazzo nato o cresciuto in Italia, perché figlio di immigrati, non possa avere la cittadinanza e dunque abbia meno diritti degli altri suoi compagni. È una forma grave di razzismo l’istituzione dei “campi nomadi”, che non hanno nulla a che vedere con la cultura rom, ma sono un modo per ghettizzare, impoverire e avvilire. Altro caso è la detenzione amministrativa nei Cie, che si basa sul principio che un migrante, in quanto tale, può essere privato del più antico e fondamentale dei diritti: quello della libertà, in mancanza di una colpa e di un processo. E potrei continuare a lungo con esempi di razzismo istituzionale.

L'Italia è un Paese razzista?

Evidentemente l’Italia è un paese affetto da razzismo istituzionale. Certamente non è l’unico. Purtroppo il razzismo istituzionale, come quello interpersonale, è un fenomeno diffuso ad ogni latitudine e longitudine. La cosa più saggia da fare e, oserei dire, più patriottica è ammettere questo problema, diagnosticarlo nelle sue diverse forme e correggerlo. C’è chi l’ha fatto, la Gran Bretagna ha saputo intraprendere un esteso processo di ripensamento delle istituzioni in chiave più inclusiva dopo il report MacPherson.
Si badi, ciò andrebbe fatto non solo per una questione di giustizia e bontà verso i poveracci, ma perché l’uguaglianza e un certo benessere sociale sono la condizione per stare bene tutti. Dove le tensioni sociali sono forti, dove esiste una parte della popolazione in grave difficoltà, vi sono importanti ripercussioni anche sul piano della sicurezza e dell’economia dell’intera comunità.

Ci può raccontare un caso, invece, di “buona pratica”?

Fortunatamente ci sono anche delle felici esperienze di istituzioni che intendono essere accoglienti, anche se purtroppo hanno difficoltà a divenire sistema. Nel mio libro racconto il caso del Comune di Riace. Un comune montano calabro, svuotato dall’emigrazione, abbandonato e diroccato che è rifiorito accogliendo i rifugiati. Le case abbandonate sono state rimesse a posto e divenute alloggi per i rifugiati, sono stati recuperati i mestieri tradizionali aprendo botteghe che coniugavano l’abilità dei migranti con quelle degli abitanti del luogo, la scuola e altri servizi sono stati rimessi in funzioni grazie al nuovo popolamento. A Riace sono passati centinaia di migranti e non c’è stato alcun problema di ordine pubblico; il sindaco Domenico Lucanospiega come a Riace, grazie alla politica nuova e vecchia dell’accogliere, ci sia bisogno di artigiani, educatori, mediatori, insegnanti, ben poco di polizia.
Con il Comune di Palermo abbiamo appena intrapreso un’esperienza di accoglienza istituzionale complessa, ma che spero dia buoni frutti. Abbiamo costituito un FoRom, un forum sui rom e soprattutto con i rom, un cantiere di democrazia partecipata, per elaborare delle strategia che possano dare dignità e valore a questa parte di cittadinanza, coinvolgendola attivamente nel processo decisionale e progettuale.

Può aiutarci a riflettere sul significato dei concetti di “contaminazione” e di “democrazia”?

Le mie prime ricerche le ho svolte sugli intoccabili in India, cioè su quelle caste che sono considerate così indegne e impure e il cui contatto risulta altamente contaminante per i membri delle alte caste. La vita degli intoccabili è terribile: sono costantemente evitati, umiliati, usati per i mestieri più sgradevoli e pericolosi, privi del ben che minino diritto.
Si dovrà però convenire che la paura della contaminazione, l’assillo di non perdere il proprio status frequentando persone non ritenute sufficientemente degne, non è una cosa che riguarda solo l’India. La preoccupazione per la salvaguardia del proprio status impedisce l’incontro, la scoperta di altre persone, di possibili amici o addirittura amori. Lo slogan di quest’anno dell’Unar lo dice bene: se chiudi con il razzismo ti si apre un mondo.
Bisogna però dire che gli intoccabili non si sono rassegnati, che l’India non è un continente senza storia e che uno dei più influenti padri costituenti, Ambedkar, era un leader di origine intoccabile che ha introdotto nella costituzione indiana l’abolizione dell’intoccabilità, nonché azioni positive per raggiungere un’uguaglianza sostanziale di classi, caste e tribù svantaggiate. La democrazie è quindi quel dispositivo che prevede la contaminazione, che scardina le differenze di nascita, che crea legami civici in luogo di quelli di sangue.
Ma la democrazia è anche altamente cagionevole, va costantemente accudita, sorvegliata e corretta.


Clelia Bartoli

lunedì 18 febbraio 2013

I Rom si raccontano


Che nell'agenda politica e in campagna elettorale non siano presenti i diritti umani è abbastanza evidente: ancor di più si evita di parlare dei Rom, dei Sinti o di altre minoranze se non con toni allarmistici.
Nel mese di gennaio, secondo un monitoraggio effettuato da Casa della carità di Milano, si sono registrati sui media italiani almeno 51 episodi di incitamento al razzismo e 155 casi di informazione scorretta. Informazione scorretta perchè, nonostante i pregiudizi ancora diffusi sui Rom, molte famiglie appartenenti a questa etnia hanno fatto il possibile per uscire dalla situazione di povertà e di esclusione. Molti di loro, infatti, oggi possiedono una casa e un lavoro e mandano regolarmente i figli a scuola.
Solo attraverso una conoscenza diretta e approfondita si superano i pregiudizi ( e le paure ad essi legate) sulle persone, sui popoli, sulle situazioni: per questo motivo, Casa della carità ha organizzato, per martedì 19 febbraio alle ore 18.00 presso l'Auditorium, l'incontro dal titolo: “Essere cittadini oltre ogni discriminazione. I Rom si raccontano”. All'incontro parteciperanno le famiglie rom seguite dalla Fondazione Romanì Italia e dal Centro Ambrosiano di Solidarietà e con loro dialogheranno Don Virginio Colmegna, presidente di Casa della carità, Marco Aime – antropologo dell'Università degli Studi di Genova e autore del libro “La macchia della razza” – e Nazzareno Guarnieri, presidente della Fondazione Romanì Italia.


La Fondazione Romanì Italia promuove, inoltre, la “Campagna Tre Erre” (3R): Rispetto per te stesso, Rispetto per gli altri, Responsabilità per le tue azioni.
Con il contributo di privati, istituzioni, enti pubblici, aziende e istituti di ricerca, la campagna si pone l'obiettivo di far accettare l'identità e la diversità di tutte le minoranze, senza più costringerle a nascondersi.
Il progetto, infatti, vuole dare una risposta ragionata alla rappresentazione sociale negativa che si abbatte sui bambini e i giovani rom, con questa campagna di comunicazione progettata - con la partecipazione attiva di professionisti rom della comunicazione - per il riconoscimento pieno dei diritti di rom e sinti: solo così queste persone potranno intraprendere percorsi positivi, sull'esempio di quelli già imboccati dai partecipanti alla serata del 19 febbraio.

venerdì 1 febbraio 2013

L'illogicità degli approcci assistenzialisti ed emergenziali per le minoranze.

A cura del NAGA , associazione di volontariato laica e apartitica che si è costituita a Milano nel 1987 allo scopo di promuovere e di tutelare i diritti di tutti i cittadini stranieri, rom e sinti senza discriminazione alcuna


Al di là di tutti i pregiudizi che circondano tale minoranza, la connotazione di “nomade”, è un termine non solo inappropriato dal punto di vista linguistico e culturale, ma è del tutto inadeguato a fotografare la situazione attuale di questa minoranza. Le stime indicano che i Rom e i Sinti presenti nel territorio europeo siano 10-12 milioni di persone, mentre in Italia sono stanziati circa 170-180 mila Rom. Tuttavia, il dato numerico reale delle comunità effettivamente presenti in Europa e in Italia non è univoco né tanto meno definitivo.
Queste premesse sono necessarie per comprendere a pieno l'assoluta illogicità del approccio assistenzialista e/o emergenziale, tenuto non solo dalle autorità italiane ma anche europee. La più grande minoranza europea rimane costantemente ai margini della società e viene utilizzata come capro espiatorio quando le cose vanno male e la popolazione locale non è disposta ad assumersene la responsabilità (il caso italiano e quello francese sono lo specchio di tutti i pregiudizi e abusi che si perpetuano su questa minoranza).

Tutto questo avviene in totale sfregio del diritto internazionale, in particolare del principio di non discriminazione, che costituisce il pilastro fondamentale del sistema di tutela internazionale dei diritti umani, e dunque, anche la base dei principi di protezione delle minoranze.

In tempi di crisi economica, la tendenza a indirizzare le frustrazioni contro capri espiatori aumenta e i rom sono apparentemente tra i bersagli più facili di tali sentimenti. I leader politici dovrebbero comprendere per primi che la ripresa economica passa anche attraverso la difesa e la diffusione dei principi di non discriminazione e del rispetto delle persone provenienti da gruppi con origini etniche e culturali diverse, nella speranza che nell'attuale campagna elettorale non si riproponga più la retorica incresciosa delle precedenti consultazioni che hanno avuto come risultato altrettanti ignobili episodi di violenza.

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Fotografia di: Sara Guglielmi



giovedì 31 gennaio 2013

Lo sguardo degli altri: parole e immagini verso il 23° Festival del cinema africano, d'Asia e America latina


L'associazione Sunugal, c/o lo spazio Maschere Nere alla Fabbrica del vapore di Via Procaccini 4 , a Milano, domenica 3 febbraio presenta due cortometraggi africani in attesa della nuova edizione del Festival del cinema africano, d'Asia e America latina che si terrà, nel capoluogo lombardo, dal 4 al 10 maggio 2013.
Una guardia giurata e una statua africana a grandezza naturale: l'uomo è di turno davanti a un edificio, la statua è incatenata, come gli antichi schiavi, all'ingresso di una galleria d'arte. Un confronto silenzioso e significativo, per riflettere sugli stereotipi del colonialismo e dello schiavismo moderno. Tutto questo in Abandon de post, di Mohamed Bouhari, che, alla XXIma edizione del Festival, si è aggiudicato il Premio Fondazione ISMU con la seguente motivazione: “ Un film originale, intelligente, sarcastico, che confronta, con sguardo ironico e disincantato, gli stereotipi del colonialismo e dello schiavismo con le figure dei “nuovi schiavi” della società occidentale, affidando il proprio senso all'intensità degli sguardi, alle allusioni del non detto, più che alle parole. Attraverso il rigore del bianco e nero e la geometria delle immagini, il film ci porta “dentro” la ribellione del protagonista e ci fa partecipi del risveglio del suo orgoglio”.
E un'altra storia, di registro diverso, in Un trasport en commun, per la regia di Dyan Gaye, presentato nel 2009. Tutto prende l'avvio da un viaggio, a bordo di un taxi tradizionale adibito al trasporto collettivo, da Dakar a Saint-Louis. Sei passeggeri si incontrano sul luogo di partenza, ma manca il settimo. Dopo un periodo di attesa, i passeggeri dividono equamente la quota mancante e decidono di partire. Stretti nei sedili dell'auto, viaggiano individui diversi tra loro, ma accomunati da sentimenti, desideri, nostalgie e speranze. Si intrecciano le storie di Souki, diretta al funerale di suo padre; di Malick che vuole salutare la sua fidanzata prima di emigrare in Italia in cerca di un lavoro; di Madame Berry che vuole ricongiungersi ai suoi figli, lasciati anni prima...Ma l'originalità del cortometraggio consiste nell'approfondire temi seri e attuali con la leggerezza del musical. La sceneggiatura del film, infatti, non è solo recitata, ma anche cantata a ritmo di blues.
Un trasport en commun ha vinto due premi: il Premio ENI “per la scelta di utilizzare un genere come il musical, inconsueto nel cinema sub-sahariano, senza rinunciare a raccontare gli aspetti sociali e individuali della realtà contemporanea senegalese”; e il Premio CINIT che consiste nell'acquisizione dei diritti di distribuzione home-video in Italia. I due cortometraggi, infatti, si possono acquistare presso il COE (Centro Orientamento Educativo) di Via Lazzaroni, a Milano, che organizza il Festival, aspettando le novità della prossima edizione.


 





mercoledì 30 gennaio 2013

Rapporto HUMAN RIGHTS WATCH: l'occupazione israeliana dei territori palestinesi



Jubbet al-Dhib è un villaggio palestinese di 160 persone a sud-est di Betlemme. I bambini, per raggiungere la scuola in altri villaggi, devono percorrere un sentiero sterrato di 1,5 Km. Il villaggio non ha neanche l'energia elettrica perchè le autorità israeliane hanno respinto un progetto (finanziato da donatori internazionali) che avrebbe fornito lampioni a energia solare. Gli abitanti di Jubbet al-Dhib usano, per l'illuminazione, piccoli gruppi elettrogeni a carburante. I residenti, inoltre, si alimentano con prodotti conservati perchè, ad esempio, la carne e il latte vanno consumati velocemente a causa della mancanza dei refrigeratori.
Sde Bar è una comunità ebraica di circa 50 persone; è collegata a Gerusalemme da una nuova autostrada, la "Lieberman Road"; la comunità è anche fornita di una scuola superiore, di elettricità e di fondi per lo sviluppo residenziale.
Questi sono due esempi riportati nel rapporto di Human Rights Watch sui territori arabi occupati da Israele, intitolato: L'Apartheid in Palestina. Il libro sarà presentatao il 1 febbraio, alle 17.30, presso il Palazzo Ducale di genova, alla presenza del Prof. Alessandro Dal Lago.
Jubbet al-Dhib e Sde Bar si trovano, entrambi, nell'" Area C", in quel territorio che - in base agli accordi provvisori di pace di Oslo del 1995 - sono sottoposti al controllo civile e militare israeliano.
Il rapporto di Human Rights Watch mette in evidenza le pratiche israeliane che promuovono la vita nelle colonie e soffocano la crescita delle comunità palestinesi, controllandone molti aspetti della vita quotidiana, come, ad esempio: l'accesso alle reti elettriche, le richieste di permessi edilizi per le abitazioni, scuole e ambulatori medici e per le infrastrutture.
Un trattamento così diverso a causa dell'origine etnica e nazionale - non giustificabile da oggettivi pericoli di sicurezza - va a violare il divieto fondamentale di discriminazione.
Il testo del rapporto è stato tradotto anche in lingua italiana - con la cura di Gianfranca Scutari - con l'intento di farlo conoscere a tutti i gruppi, istituzioni e organizzazioni che danno il loro contributo per il pieno riconoscimento dei diritti umani, politici e sociali della popolazione palestinese. E'stato usato un linguaggio semplice per agevolarne la lettura anche e soprattutto a chi non conosce la situazione o abbia, come unica fonte di informazione, i giornali e la televisione che, spesso, riportano notizie poco chiare.




mercoledì 16 gennaio 2013

Roma: due mostre per approfondire il Passato e il Presente

Dal 12 al 19 gennaio è in corso, a Roma, una mostra itinerante (che, quindi, si potrà visitare anche in altre località) dal titolo "Regine ed eroine d'Africa". L'originalità dell'esposizione consiste nel fatto che viene proposta la Storia del continente africano attraverso le vicende delle sue figure femminili: dall'antico culto della Dea Madre alle combattenti contro la schiavitù fino alle protagoniste dell'attualità.
Venticinque pannelli - di illustrazioni e parole - accompagnano lo spettatore in un viaggio affascinante che non è solo un percorso storico-geografico, ma diventa anche un approfondimento sociologico e culturale.
Proposta dall'associazione " Solidarité Nord-Sud" Onlus, la mostra vuole ribaltare gli stereotipi (e i pregiudizi) che ancora, in Occidente soprattutto, vedono l'Africa e gli africani come soggetti deboli.
Sempre nella capitale, inoltre, è possibile visitare, fino al 2 aprile, un'altra proposta dal titolo "(S)oggetti migranti: dietro le cose le persone". L'iniziativa - che si tiene presso il museo "Luigi Pigorini" - è arricchita da una sezione speciale, "Idee migranti", che propone tre installazioni di artisti italiani e stranieri. 

OUEDDNA FINN (Dove sono i ostri figli?)...WAITING NEWS di Marzia Coronati, Giulia Fiocca, Elise Melot, Cristina Panicali, Lorenzo Romito = Durante la primavera araba tunisina, tra marzo e aprile 2011, più di 20.000 persone hanno lasciato il Paese a bordo di piccole barche di legno, dirette verso l'Europa; molte di loro sono andate disperse. A un anno di distanza, i parenti cercano i propri cari.

VOLARE PER SOPRAVVIVERE di Sofia Sebastianelli, Hamed Khawari, Paola Equizi, Viviana Petrucci, Federica Kent Fazi, Francesca Pacini = Sette aquiloni si librano a metà altezza, ancorati alle pareti e rinviano a luoghi diversi. La rappresentazione del viaggio di persone che lasciano il proprio Paese portando con sè solo i ricordi e le parole.

OSCILLAZIONI DI IDENTITA' di Milena Barberis e Kikoko = Un'immersione in un flusso di volti, in centinaia di "tessere" frammentate da interventi pittorici di libri, scritte e altri elementi: per una riflessione sul tema dell'"identità".