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sabato 14 giugno 2014

Un premio per Samia



Con 93 voti, il romanzo Non dirmi che hai paura di Giuseppe Catozzella ha vinto il Premio Strega Giovani e guida la cinquina del premio principale, oltre ad aver ottenuto anche il premio Società Dante Alighieri. E noi siamo felici di ripubblicare una breve intervista che qualche settimana fa abbiamo avuto occasione di fare all'autore, congratulandoci ancora e ringraziandolo per averci fatto conoscere la storia di Samia.
 
 
Non dirmi che hai paura: dare la vita per un sogno   



Una storia esemplare, quella di Samia, una ragazzina di Mogadiscio che ha la corsa nelle gambe e nel cuore: Samia corre in nome della libertà di tutte le donne, in particolare di quelle somale che vivono in una situazione di guerra e di sopraffazione. Samia corre in nome della libertà e della giustizia. Samia condivide i suoi sogni e i suoi ideali con il suo amico Ali e primo allenatore che crede in lei, nella sua tenacia e nella sua forza. Samia, infatti, riesce a qualificarsi, a soli 17 anni, ai Giochi olimpici di Pechino, diventando un simbolo. Il destino di Samia sarà tragico, come quello di tanti migranti, ma la sua giovane vita porta in sé, e regala al futuro, la gioia del riscatto.




Quando nasce il progetto del libro e perché ha ritenuto necessario raccontare questa storia?

L’idea di raccontare la vita di Samia Yusuf Omar è nata quando mi sono imbattuto nella notizia della vita e della morte di Samia (ero in Africa, a Lamu, in Kenya e stavo svolgendo delle ricerche per un’altra storia) mi sono sentito in colpa da italiano per la sua morte e ho deciso che avrei raccontato nel paese che Samia vedeva come sua salvezza e speranza di vita nuova e in cui non era mai riuscita ad arrivare – il mio stesso paese, l’Italia – la sua storia. Per cercare di creare materiale letterario dalla speranza e dal dolore. E per risarcire, in qualche modo, il destino di Samia.

Samia Yusuf Omar nasce a Mogadiscio, in una terra colonizzata dagli italiani e oggi ancora dilaniata dalla guerra: quanto è importante mantenere viva la memoria sulla Storia di ieri per capire il Presente?

È fondamentale. La memoria è come il respiro ed è un arco teso. Soltanto caricandolo all’indietro si può avere una direzione e una meta.

Il racconto della vita della protagonista si può definire come un "racconto di formazione"? E ci può anticipare il motivo per cui Samia diventa il simbolo di tutte le donne musulmane nel mondo?

È una storia di formazione, perché è la storia della formazione di Samia, da quando ha 8 anni a quando ne ha 21. Samia diventa simbolo perché per correre al massimo delle sue potenzialità compie un gesto ovvio e al contempo rivoluzionario: decide di correre alle Olimpiadi senza velo.

Si tratta anche di una storia di migrazione, di tenacia e di coraggio, con una sorta di “lieto fine” : la sua storia è importante per abbattere gli stereotipi e i pregiudizi sui richiedenti asilo, sui profughi e sui migranti in generale?

La storia di Samia purtroppo non ha un lieto fine nel senso consueto del termine, perché Samia muore al largo di Lampedusa. Ma contiene un lieto fine nel senso che è una storia di speranza e di coraggio.

sabato 14 dicembre 2013

Lontano da Mogadiscio: partire dal Passato per capire meglio il Presente





Shirin Fazel Ramzanali è nata a Mogadiscio; ha studiato nelle scuole italiane della Somalia, agli inizi degli anni '70, e poi si è trasferita in Italia, con la sua famiglia, per fuggire dal regime dittatoriale di Siad Barre. Nel 1994 ha scritto un libro, diventato un testo fondamentale per parlare di colonialismo e primo vero esempio di letteratura italiana della migrazione.
Un testo che narra la Storia attraverso uno stile "meticcio": spunti, considerazioni, note biografiche, riflessioni politiche. Un libro diviso in sei parti: la prima incentrata sulla Somalia un Paese che, come scrive l'autrice: "Un tempo era il Paese delle favole"; nella seconda parte predomina l'aspetto autobiografico con la diffidenza, da aprte degli italiani, nei confronti di chi aveva il colore della pelle più scuro; poi la scrittrice racconta i viaggi all'estero a fianco del marito e, nella quarta parte, riporta la brutalità della guerra civile in Somalia per riprendere l'argomento nella sezione successiva in cui spiega come il suo Paese d'origine sia stato sfruttato dalle superpotenze occidentali. La scrittrice, infine, racconta l'inserimento nella società italiana.
Lontano da Mogadiscio torna in versione e-book e in edizione bilingue (italiano e inglese) ed è arricchito da una postfazione di Simone Brioni.


Abbiamo intervistato per voi Shirin Fazel Ramzanali che ringraziamo tantissimo per la sua disponibilità    





Shirin Fazel Ramzanali




Perchè la decisione di far uscire di nuovo il libro, apparso nel 1994, come primo testo di letteratura post-coloniale?

Lontano da Mogadiscio, a distanza di vent’anni è un libro vivo, fa discutere su temi importanti. E’stato usato e lo usano tuttora nella sezione di Italianistica in molte università. Purtroppo il cartaceo, dopo un numero di anni, va fuori stampa e diventa introvabile. La nuova versione è bilingue, italiano-inglese; ed il fatto che è in formato e-book lo rende reperibile ad un’ampia cerchia di lettori internazionali.
E’ una opportunità per i giovani (italiani e somali) che vorranno leggerlo, scoprire che Mogadiscio un tempo poteva sembrare una città di provincia italiana. Si tende a guardare il presente senza riflettere sul passato, dimenticando molto spesso che il fenomeno dell’immigrazione è in parte anche legato ad un passato coloniale di molte nazioni europee.
La versione inglese è tradotta da me. Alcuni brani li ho riscritti, per cercare di trasmettere le emozioni del momento. Questa riscrittura sicuramente darà una nuova chiave di lettura al testo.
Nei capitoli inediti parlo delle mie esperienze degli ultimi decenni maturate durante le mie permanenze in paesi diversi, racconto di luoghi come la città inglese di Birmingham dove risiede una folta comunità di somali. Sono a contatto con la diaspora e consapevole di tutte le problematiche e difficoltà che si trascina dietro. Inoltre, osservo e racconto con distacco questa Italia che sta cambiando volto, ma ahimè attuando anche nuove sottili forme di discriminazione.





Che cosa è cambiato, a distanza di vent'anni, nel suo Paese d'origine?


Purtroppo in questi ultimi vent’anni la Somalia è stata violentata, sfruttata, calpestata senza avere una voce in capitolo a livello mondiale come stato sovrano. Milioni di rifugiati sparsi nei quattro continenti, hanno faticato per rifarsi una nuova vita. Anche se fisicamente lontani, hanno sempre sostenuto, con le loro rimesse ai parenti, l’economia del paese. Abbiamo una generazione che ha conosciuto solo guerra e continua a cercare all’estero una vita migliore. Sono ancora fresche nella memoria le immagini delle centinaia di persone che hanno perso la vita nel Mediterraneo. I giovani che rappresentano il futuro della nazione purtroppo non hanno prospettive. Penso che la Somalia ha sofferto abbastanza, e ha vissuto sulla propria pelle gli orrori di una guerra civile. Certamente c’è chi ha beneficiato di questa situazione, ma non voglio innescare una polemica. Voglio essere positiva anche perché finalmente per la Somalia si è aperto un nuovo orizzonte. Anche se ci sono elementi che mirano a destabilizzare il paese, si ha la palpabile sensazione di una luce in fondo al tunnel. Oggi c’è un governo stabile, e riconosciuto. A Mogadiscio si stanno riaprendo le ambasciate. Il paese cerca una rinascita in tutti i settori. Questa energia positiva ha innescato nei somali che vivono all’estero la voglia di ritornare in patria e di portare il loro know-how acquisito in questi lunghi anni di forzato esilio.



Ci può raccontare quali sono state le difficoltà durante il suo inserimento nella società italiana?

Io sono arrivata in Italia nei primi anni settanta già come cittadina italiana. Avendo frequentato le scuole italiane, ed essendo bilingue sin da bambina, non ho avuto barriere a livello linguistico. Venendo però da una città multiculturale, mi sono dovuta adattare ad una città provinciale italiana che prima di allora non aveva avuto contatti con persone di provenienza africana. Ho subìto sguardi di gente curiosa, che mi rivolgeva domande imbarazzanti. Non è bello sentirsi osservata come un fenomeno di baraccone.



Qual è il suo rapporto con l'Italia e con gli italiani, oggi?

L’Italia è il mio paese, ho vissuto i cambiamenti politici e sociali degli ultimi quaranta anni. I miei genitori sono sepolti qui. I miei figli e nipoti sono nati in questa terra . Mi sento inserita, vivo e partecipo i problemi che tutti i cittadini affrontano. Il mio rapporto con l’Italia di oggi è quello che vivono un po’ tutti. Anche se vivo all’estero, grazie alla tv satellitare e le varie risorse che la tecnologia ci offre, sono quotidianamente in contatto con la realtà italiana. Sono estremamente delusa da una classe politica che ha portato il paese allo sfascio, nonostante gli enormi sacrifici imposti alle famiglie italiane, nonostante le continue vessazioni subite dai piccoli imprenditori che sono la linfa vitale dell’economia italiana e malgrado il lavoro umile degli immigrati che con i loro sacrifici tengono a galla numerosi settori e contribuiscono fattivamente alla formazione del Pil. Vorrei finalmente al governo delle persone veramente capaci, in sintonia con il popolo e che avessero come priorità il benessere dell’Italia. In altre parole io, tutti noi vogliamo assistere ad un cambiamento positivo nella gestione della cosa pubblica.
Come italiana di origine somala, sono delusa del fatto che il governo italiano ha fatto troppo poco per accogliere i rifugiati somali. Come persona migrante sono indignata che
gli immigrati vengano penalizzati da leggi che non tutelano la loro dignità di persona o di cittadini.
Il mio rapporto vis-à-vis con gli italiani è di vecchia data, gli ho avuti come compagni dai tempi dell’asilo. “Ragazzi” con cui sono a contatto ancora oggi. Tra gli italiani ho amici, conoscenti e persone che stimo moltissimo. Conosco e scambio quattro chiacchiere con le persone che abitano nel mio quartiere. Ho un rapporto di confidenza con i miei vicini, ci beviamo un tè insieme. Io non mi creo barriere mentali.



Secondo lei, gli italiani hanno cambiato mentalità o permangono pregiudizi consolidati nei confronti degli stranieri?

Non mi piace generalizzare. Sparsi come formiche, per tutto il territorio italiano c’e il lavoro di migliaia di persone che ogni giorno si danno da fare per costruire una società sana e priva di pregiudizi.
Purtroppo sui media vanno a finire soltanto gli episodi di intolleranza e razzismo più eclatanti, ma riportati in una prospettiva che invece di condannarli senza possibilità di appello innescano piuttosto sterili polemiche che si trascinano inutilmente per settimane. Ci sono i politici che usano questo tipo di propaganda per fini elettorali. Di conseguenza l’uomo comune si lascia trascinare in questo vortice che non fa altro che alzare il livello di scontro e aumentare le paure per “l’altro”. Quello che secondo me deve cambiare nella nostra società è di dare spazio alla meritocrazia. Leggi che tutelano gli immigrati facendoli sentire anche politicamente parte del territorio in cui vivono. Non ghettizzarli. Riconoscere come cittadini italiani i ragazzi nati e cresciuti nel nostro paese, che in effetti sono italiani.
Che senso ha dire ad un giovane di pelle scura, nato e cresciuto in Italia di tornare al suo paese?
Solo quando una società dà pari opportunità ai propri cittadini allora cambia il modo di pensare, il modo di percepire l’altro.
Non si può credere di avere dei privilegi solo perché si è bianchi.
Non scordiamoci che la ricchezza dell’ Europa è costruita dallo sfruttamento di risorse primarie che provengono da paesi etichettati “poveri”.

sabato 9 marzo 2013

La quarta via. Mogadiscio, Italia: un documentario sul post-colonialismo – E l'intervista a Kaha Mohamed Aden, l'autrice del testo autobiografico da cui è tratto il film

Kaha Mohamed Aden, scrittrice e mediatrice culturale, è nata a Mogadiscio e, dal 1987, risiede in Italia. Da Pavia, città in cui vive, ricostruisce la sua storia, partendo dal proprio immaginario in cui la capitale della Somalia è divisa in cinque vie che corrispondono a diversi periodi storici. La quarta via, in particolare, è quella che si riferisce all'attuale guerra civile.
Il documentario, attraverso la vicenda personale della scrittrice, si fa universale nel momento in cui ricorda un pezzo di Storia recente che coinvolge, direttamente, anche l'Italia. Un filo diretto tra Passato e Presente per costruire un ponte, un nuovo Futuro tra Paesi che sono, in fondo, lontani e, allo stesso tempo, vicini. 

 

Abbiamo rivolto alcune domande a Kaha Mohamed Aden


Il documentario inizia con una sua frase in cui dice: " E' molto difficile per me raccontare Mogadiscio". Perchè?

E’ difficile raccontare una storia il cui contesto è stato spazzato via.
Per esempio con questa guerra clanica, fratricida, non è scomparsa soltanto una città, ma sono cambiati i costumi, i modi di dirimere i conflitti, il modo di affrontare il sacro: sostanzialmente tutto il mio mondo di riferimento è stato cancellato, come se non fosse mai esistito. Inoltre i somali, quelli che non sono stati “rapiti” dal delirio della guerra dei clan, sono intenti a garantirsi un minimo di sicurezza e un tetto sulla testa; il mondo non se ne è nemmeno accorto della tragedia della pulizia clanica e delle sue conseguenze. Infine i vincitori di questa guerra non sono interessati a svelare la storia delle nefandezze che hanno compiuto. E io che non sono contenta di questo stato di cose, e per fortuna non sono la sola, mi arrabatto a raccontare, con difficoltà sì, come i somali sono stati capaci nel passato di gestirsi in una convivenza complessa e dignitosa e quindi possono farlo in futuro.

Interessante la scelta di raccontare anche attraverso segni grafici: delle linee tracciate sulla carta. Cosa rappresentano?

Le linee sono un tentativo di rendere visibile almeno quattro delle mille dimensioni che abitavano la città di Mogadiscio. Ogni linea è diversa dalle altre e corrisponde ad un modo di essere, un pensiero, una via, una visione del mondo di chi ha governato oppure dominato la città in un determinato periodo. Vorrei sottolineare che le prime tre vie le sento morbide, porose, una accanto all’altra, in netto contrasto col pensiero semplice e lineare che ha dominato l’intero paese questi ultimi 23 anni di guerra clanica.
Non vorrei essere fraintesa: quando ho lasciato il mio paese eravamo in pieno regime dittatoriale, corrispondente alla fine della terza via, e mio padre come oppositore politico era in isolamento nel carcere speciale di Labatan Girow, per cui lontano da me sostenere che prima della guerra interna tutto era rose e fiori. Ma, quello che è successo con la cacciata del dittatore mi ha sorpreso con dolore.

Cosa significa, per lei, "colonialismo"?

Il colonialismo per me significa niente di diverso da quello che spero condiviso da tutti, ossia tutto il male possibile. E’ soggiogare, massacrare, usurpare una popolazione di tutto quello che ha e utilizzare la deumanizzazione di questi ultimi per giustificare le pratiche del dominio.

Qual è il collegamento tra il colonialismo di ieri e l'attualità?
E quanto è importante, quindi, la Memoria del passato ?

Il collegamento tra l’attualità e il colonialismo è una tematica aperta e complessa dove naturalmente gli studiosi postcoloniali si stanno tuttora interrogando. I disastri commessi dal colonialismo, dai danni e benefici economici all’alienazione culturale, si propagano tuttora sia all’interno dei paesi colonizzati che nei paesi colonizzatori. A proposito della memoria, quella che caratterizza il caso Italiano è la quasi totale rimozione e la difficoltà di misurarsi con la propria storia coloniale, quasi che non si volesse riconoscere, nemmeno nel passato, che un governo italiano abbia commesso atti e politiche di sopraffazione.
L’11 agosto del 2012 ad Affile provincia di Roma si è costruito un mausoleo per il gerarca Graziani e a questo proposito mi piace dirla con i Wu Ming 2 che hanno scritto un bel articolo su questo tema: “Quei mattoni dozzinali, la scritta “Patria e Onore” sul frontone, sembrano voler dire: “Magari ci fosse ancora qualcuno che può impunemente tirare il gas sugli africani! Quanto ci farebbe comodo uno così”

Qual è la "quarta via"?

La quarta via è la via in cui i capi della USC (United Somali Congress), l’organizzazione che ha cacciato il dittatore per conquistare l’intero Stato e distruggere qualunque altra alternativa, sono riuscite a commutare l’odio nei confronti della dittatura in un odio verso il clan in cui è nato Siad Barre e dato il via alla pulizia clanica. I capi di questa organizzazione sono stati molto abili nel rendere complice la gente comune, organizzandoli e fomentandoli a commettere assassini contro civili solo perché appartenenti al clan del dittatore. Non è la prima volta che vengono massacrati dei civili: Siad Barre, usando l’aeronautica militare somala, ha bombardato la città di Hargeysa e massacrato i suoi abitanti che tra l’altro erano quasi tutti appartenenti ad un solo clan. Ma nel caso della Quarta Via i massacratori non erano i militari ma il vicino di casa. Questa guerra clanica che dura da 23 anni ha incastrato noi somali nelle appartenenze identitarie, famigliari, che a me stanno stretti. La Quarta Via è anche un modo per segnare che la storia somala non si blocca qui come piacerebbe ai signori della guerra. C’era un passato e sopratutto ci sarà un futuro pieno di speranze che il documentario lo chiama la Quinta Via.
Al di là della metafora: che Mogadiscio e tutta la Somalia si animi di mille vie!!!
Amen!


La Quarta Via un documentario
Tratto da un omonimo racconto orale di Kaha Mohamed Aden
Scritto da Kaha Mohamed Aden e Simone Brioni.
La regia è di Simone Brioni, Graziano Chiscuzzu, Ermanno Guida
Prodotta da "Redigital e cinquesei"