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giovedì 17 dicembre 2015

Il Parlamento europeo premia Raif Badawi, l’Unione europea tace sui diritti umani in Arabia Saudita

di Riccardo Nouri  (da Corriere della sera.it)



Raif Badawi, il blogger saudita condannato a 10 anni di carcere e a 1000 frustate per i contenuti dei suoi post, ha aggiunto ieri il suo nome al prestigioso elenco dei vincitori del premio Sakharov del Parlamento europeo per la libertà di pensiero. Il premio è stato ritirato dalla moglie, Ensaf Haidar.
Il premio, da un lato, riconosce l’importanza della figura e dell’azione di Badawi; dall’altro, costituisce una dura critica alla repressione che l’Arabia Saudita sta attuando nei confronti di blogger, attivisti e difensori dei diritti umani, anche attraverso il ricorso a pene crudeli e inumane.
Ma soprattutto la decisione del Parlamento segna un profondo contrasto col silenzio assordante della diplomazia dell’Unione europea che, ad oggi, non solo non ha reagito alle violazioni dei diritti umani in Arabia Saudita ma non ha neanche chiesto il rilascio incondizionato e immediato di Raif Badawi. Allo stesso modo, molti stati dell’Unione europea sono rimasti muti di fronte alla clamorose violazioni del diritto internazionale dei diritti umani, che chiamano in causa l’Arabia Saudita tanto all’interno del paese quanto in Yemen, dove le forze armate di Riad guidano una coalizione che dal 27 marzo bombarda senza pietà il paese.
L’assenza di iniziativa da parte dell’Unione europea coincide con un profondo aumento del ricorso alla pena di morte in Arabia Saudita, con almeno 151 esecuzioni quest’anno,  più di quelle del 2014. Inoltre, da tre anni a questa parte, il governo saudita sta sistematicamente annullando ogni forma di attivismo sui diritti umani, anche grazie alla legislazione “antiterrorismo” entrata in vigore nel febbraio 2014.
L’avvocato di Raif Badawi, Waleed Abu al-Khair, è stato il primo difensore dei diritti umani condannato (a 15 anni di carcere!) ai sensi della nuova legge.
È evidente che nelle relazioni dell’Unione europea con l’Arabia Saudita, così come con gli altri paesi del Golfo, siano in gioco molti interessi di natura diversa, come l’energia, la fornitura di armi, le relazioni commerciali e la cooperazione contro il terrorismo.
L’Unione europea e molti dei suoi stati membri citano la necessità di cooperare con l’Arabia Saudita contro il terrorismo come scusa per non prendere posizione sui diritti umani. Ma in realtà sono proprio le controverse norme antiterrorismo in vigore in quel paese ad aver causato l’imprigionamento di molti difensori dei diritti umani. Cooperando con l’Arabia Saudita e al contempo ignorando ed evitando di condannare pubblicamente le violazioni dei diritti umani, l’Unione europea sta dando alle autorità di Riad il segnale di via libera ad andare avanti.
Ieri, Amnesty International ha chiesto all’Alta rappresentante e vicepresidente dell’Unione europea, Federica Mogherini, di convocare una discussione urgente del Consiglio affari esteri (che riunisce i 28 ministri degli Esteri dell’Unione europea) che intraprenda azioni concrete per ottenere il rilascio di Raif Badawi, del suo avvocato Walid Abu al-Khair e di tutti gli altri difensori dei diritti umani attualmente in carcere per aver esercitato pacificamente i loro diritti e aver difeso i diritti di altre persone. Da questa discussione potrebbe svilupparsi una strategia per fare miglior uso delle relazioni tra Unione europea e Arabia Saudita, allo scopo di proteggere i diritti umani universali.

mercoledì 1 luglio 2015

L’oftalmologa namibiana Helena Ndume vince il Nelson Mandela Award





di Monica Macchi



 





Questo premio riconosce i meriti di chi promuove i principi delle Nazioni Unite omaggiando Nelson Mandela e le sue eredità di riconciliazione, transizioni politiche e trasformazioni sociali. Quest’anno è andato a Helena Ndume, un’oftalmologa nata a Tsumeb, in Namibia, che a soli 15 anni si è unita al movimento di liberazione che ha portato all'indipendenza del Paese, ed è dovuta vivere in Zambia, Gambia e Angola prima di laurearsi in medicina a Lipsia. Fra il 2001 e il 2007 è stata vice-Presidente della Croce Rossa namibiana, nel 2004 è diventata Gran Commendatore della Namibia e nel 2009 è stata premiata per la terapia contro la cataratta, la principale responsabile della cecità in Namibia. Il suo mantra è che “Non puoi definirti un paese progressista, se hai ancora gente cieca per la cataratta, che oggi è facilmente curabile con una semplice procedura chirurgica”: per questo Ndume è una volontaria di SEE International che dal 1995 ha garantito più di 300 interventi riabilitativi gratuiti. E il premio ha ampliato i suoi progetti: infatti quest’estate verrà attivata una collaborazione con la Fondazione Dikembe nella Repubblica Democratica del Congo.




Per informazioni e donazioni


http://www.seeintl.org


martedì 30 settembre 2014

Morte di un uomo felice: il vincitore del Premio Campiello 2014




Giorgio Fontana, autore giovane, ma con al suo attivo già molte opere di successo. Il suo ultimo lavoro letterario si intitola Morte di un uomo felice , edito da Sellerio, ed è il romanzo vincitore del Premio Campiello 2014.

Milano, estate 1981: siamo nella fase più tarda, e più feroce, della stagione terroristica in Italia. Non ancora quarantenne, Giacomo Colnaghi a Milano è un magistrato sulla linea del fronte. Coordinando un piccolo gruppo di inquirenti, indaga da tempo sulle attività di una nuova banda armata, responsabile dell’assassinio di un politico democristiano. Il dubbio e l’inquietudine lo accompagnano da sempre. Egli è intensamente cattolico, ma di una religiosità intima e tragica. È di umili origini, ma convinto che la sua riuscita personale sia la prova di vivere in una società aperta. È sposato con figli, ma i rapporti con la famiglia sono distanti e sofferti. Ha due amici carissimi, con i quali incrocia schermaglie, il calcio, gli incontri nelle osterie.
Dall’inquietudine è avvolto anche il ricordo del padre Ernesto, che lo lasciò bambino morendo in un’azione partigiana. Quel padre che la famiglia cattolica conformista non poté mai perdonare per la sua ribellione all’ordine, la cui storia eroica Colnaghi ha sempre inseguito, per sapere, e per trattenere quell’unica persona che ha forse amato davvero, pur senza conoscerla.
L’inchiesta che svolge è complessa e articolata, tra interrogatori e appostamenti, e andrà a buon fine. Ma la sua coscienza aggiunge alla caccia all’uomo una corsa per capire le ragioni profonde, l’origine delle ferite che stanno attraversando il Paese. Anche a costo della sua stessa vita.



Abbiamo avuto l'opportunità di fare questa breve intervista all'utore che ringraziamo molto.




C'è una data importante nel romanzo: il 1981. E' anche la sua stessa data di nascita. Si tratta solo di una coincidenza?


In effetti sì: la data della morte di Giacomo Colnaghi era stata decisa nel romanzo precedente, "Per legge superiore", dove compariva come personaggio minore — ma non per questo meno importante. Mi sembrava un anno adeguato dal punto di vista storico, e così l'ho scelto.



Perchè ha sentito l'esigenza di scrivere questa storia?



Mi è sempre terribilmente difficile rispondere a questo domanda. Per me non c'è una ragione o un'esigenza identificabile che spingono a raccontare una storia o un personaggio, se non l'amore per quella storia e per quel personaggio. Tutto qua.



Come si è documentanto per la stesura del libro?



Ho studiato molto. Non avendo vissuto quegli anni, ho sentito particolarmente la responsabilità di ricostruirli nella loro complessità. Certo, ho scelto di raccontare solo una delle tante storie possibili; ma per farlo era necessario avere uno sfondo di conoscenze accurato. E così ho passato diverso tempo sui libri, sugli archivi dei giornali, a guardare filmati dell'epoca... E naturalmente anche a girare per Milano.



Quanto è importante, oggi, una riflessione sul tema dell giustizia?


Credo sia sempre importantissima; non solo sulla giustizia procedurale ma anche e soprattutto sulla giustizia sociale, la cui situazione in Italia è particolarmente spaventosa. Per quanto mi riguarda, cerco di tenere distinta la mia attività di narratore da quella di — uso questa parola molto ambigua — "intellettuale" militante. È vero che gli ultimi due miei romanzi si interrogano sulla giustizia, ma per me è fondamentale innanzitutto raccontare i singoli, non tanto i grandi temi.




Anche il tema della Fede è centrale...

 

Pur essendo ateo, mi è piaciuto rappresentare Colnaghi come un uomo di fede — ma dotato di una fede tormentata, intima, che lo porta continuamente a interrogarsi su quello che fa e quelli che invece sono i suoi limiti.

sabato 14 giugno 2014

Un premio per Samia



Con 93 voti, il romanzo Non dirmi che hai paura di Giuseppe Catozzella ha vinto il Premio Strega Giovani e guida la cinquina del premio principale, oltre ad aver ottenuto anche il premio Società Dante Alighieri. E noi siamo felici di ripubblicare una breve intervista che qualche settimana fa abbiamo avuto occasione di fare all'autore, congratulandoci ancora e ringraziandolo per averci fatto conoscere la storia di Samia.
 
 
Non dirmi che hai paura: dare la vita per un sogno   



Una storia esemplare, quella di Samia, una ragazzina di Mogadiscio che ha la corsa nelle gambe e nel cuore: Samia corre in nome della libertà di tutte le donne, in particolare di quelle somale che vivono in una situazione di guerra e di sopraffazione. Samia corre in nome della libertà e della giustizia. Samia condivide i suoi sogni e i suoi ideali con il suo amico Ali e primo allenatore che crede in lei, nella sua tenacia e nella sua forza. Samia, infatti, riesce a qualificarsi, a soli 17 anni, ai Giochi olimpici di Pechino, diventando un simbolo. Il destino di Samia sarà tragico, come quello di tanti migranti, ma la sua giovane vita porta in sé, e regala al futuro, la gioia del riscatto.




Quando nasce il progetto del libro e perché ha ritenuto necessario raccontare questa storia?

L’idea di raccontare la vita di Samia Yusuf Omar è nata quando mi sono imbattuto nella notizia della vita e della morte di Samia (ero in Africa, a Lamu, in Kenya e stavo svolgendo delle ricerche per un’altra storia) mi sono sentito in colpa da italiano per la sua morte e ho deciso che avrei raccontato nel paese che Samia vedeva come sua salvezza e speranza di vita nuova e in cui non era mai riuscita ad arrivare – il mio stesso paese, l’Italia – la sua storia. Per cercare di creare materiale letterario dalla speranza e dal dolore. E per risarcire, in qualche modo, il destino di Samia.

Samia Yusuf Omar nasce a Mogadiscio, in una terra colonizzata dagli italiani e oggi ancora dilaniata dalla guerra: quanto è importante mantenere viva la memoria sulla Storia di ieri per capire il Presente?

È fondamentale. La memoria è come il respiro ed è un arco teso. Soltanto caricandolo all’indietro si può avere una direzione e una meta.

Il racconto della vita della protagonista si può definire come un "racconto di formazione"? E ci può anticipare il motivo per cui Samia diventa il simbolo di tutte le donne musulmane nel mondo?

È una storia di formazione, perché è la storia della formazione di Samia, da quando ha 8 anni a quando ne ha 21. Samia diventa simbolo perché per correre al massimo delle sue potenzialità compie un gesto ovvio e al contempo rivoluzionario: decide di correre alle Olimpiadi senza velo.

Si tratta anche di una storia di migrazione, di tenacia e di coraggio, con una sorta di “lieto fine” : la sua storia è importante per abbattere gli stereotipi e i pregiudizi sui richiedenti asilo, sui profughi e sui migranti in generale?

La storia di Samia purtroppo non ha un lieto fine nel senso consueto del termine, perché Samia muore al largo di Lampedusa. Ma contiene un lieto fine nel senso che è una storia di speranza e di coraggio.

lunedì 9 giugno 2014

Il premio va...al romanzo "La fabbrica del panico"



Il romanzo di Stefano Valenti, La fabbrica del panico ha vinto il Premio Campiello – Opera prima e noi siamo lieti di ripubblicare l'intervista che abbiamo fatto all'autore in occasione della scorsa Giornata dei lavoratori.









Nel romanzo si racconta la storia dell'Italia operaia dagli anni cinquanta ad oggi: cosa è cambiato nelle condizioni di vita delle persone che lavorano in fabbrica?



Poco o niente, per molti versi la crisi mondiale ha aggravato la condizione operaia. Con il ricatto della disoccupazione padroni e sindacati confederali obbligano a turni e a ritmi sempre più pesanti. Esistono oltre tre milioni di disoccupati e tuttavia chi ha la 'fortuna' di avere un lavoro è costretto a fare straordinari con turni anche di dodici ore al giorno come è successo alla ThyssenKrupp nel 2007. Così i padroni alimentano la concorrenza fra lavoratori e incrementano i profitti risparmiando sulla manutenzione e sulla sicurezza, come è accaduto all’ Eternit di Casale Monferrato, alla Fibronit di Broni, alla Breda di Sesto San Giovanni e in moltissime fabbriche. La 'normalità' dei morti sul lavoro e di lavoro a causa delle malattie professionali non è un residuo ottocentesco, ma rappresenta semmai la 'modernità' del capitalismo che continua a uccidere. Le morti sul lavoro non sono una fatalità, ma il tributo degli operai alla realizzazione del profitto.



Una storia molto personale che si fa universale: ci conferma che si tratta anche di una storia di denuncia?



Negli ultimi decenni la narrativa italiana ha accuratamente evitato di raccontare parte consistente del Paese, classe operaia e indigenti in particolare. Il postmoderno ha assoggettato la prosa agli automatismi della fiction, prelibata dai media e dal mercato. È arrivato il momento di parlare anche di coloro che sono stati messi da parte.



Per tutti coloro che si sono ammalati in quanto esposti, per anni, a sostanze nocive: sono stati condannati i responsabili della Breda Fucine? Conosce casi simili a quello raccontato nel libro e in cui siano state inflitte pene esemplari oppure è difficile che questo accada?


Per quanto riguarda la Breda fucine, dopo numerose archiviazioni, sono giunti a conclusione due processi. Il primo, nel 2003, ha assolto i dirigenti 'perché il fatto non sussiste', il secondo, nel 2005, pur riconoscendoli colpevoli, li ha condannati per omicidio colposo a diciotto mesi concedendo le attenuanti generiche.

Bisogna ricordare che per anni è esistito un muro di omertà e complicità da parte di Stato, partiti e istituzioni tutte. Oggi la situazione sta cambiando grazie alle lotte degli ultimi anni dei comitati sorti in fabbrica e nel territorio, come quello della Breda fucine, che hanno riunito nel territorio operai e cittadini. Ne sono un esempio i processi ThyssenKrupp ed Eternit in cui sono state comminate pene esemplari sia in primo sia in secondo grado, con pesanti condanne


Come procede l'operato del Comitato per la difesa della salute nei luoghi di lavoro e nel territorio, comitato che è stato fondato a Sesto San Giovanni nel 1996? Sono stati ottenuti risultati positivi?


ll Comitato che ha sede nel Centro di iniziativa proletaria G. Tagarelli – Giambattista Tagarelli, al quale è stata intitolata la sede, è uno dei fondatori del Comitato ucciso dalle fibre killer – ormai è ramificato sul territorio nazionale ed è diventato un interlocutore stabile delle istituzioni favorendo il riconoscimento dell'esposizione all’amianto e delle malattie professionali di centinaia di ex lavoratori vittime dell’amianto e dei cancerogeni. Il Comitato è tra gli artefici del Coordinamento nazionale amianto che raggruppa decine di associazioni e comitati in tutta Italia. Grazie a lotte e manifestazioni è riuscito a far approvare il Fondo per le vittime dell’amianto e l'assistenza gratuita delle vittime dell'amianto e dei loro famigliari presso la Clinica del lavoro di Milano o nei comuni di residenza. Inoltre nel mese di aprile di ogni anno ricorda pubblicamente tutti i lavoratori morti a causa dello sfruttamento con un corteo a cui invitiamo anche i vostri lettori a partecipare e che si terrà sabato 26 aprile 2014 alle ore 16 con partenza dal Centro di iniziativa proletaria G. Tagarelli di via Magenta 88 a Sesto San Giovanni.

sabato 31 maggio 2014

24° Festival del Cinema africano, d'Asia e America latina


di Ivana Trevisani

Ringraziamo tantissimo Ivana Trevisani per questo suo contributo.




Ancora una volta, anche quest'anno, la qualità della filmografia proposta dal 24° Festival Africano d'Asia e America Latina (che si è svolto a Milano dal 6 al 12 maggio 2014) ha potuto offrirci il dono di avvicinamento al vero.

Il vero della vita che il linguaggio cinematografico, se di qualità, nella sua libertà di restituzione è in grado di dire più di ogni analisi, dissertazione, speculazione, oltre ogni dilagante opinionismo.

I film proposti, sia nella cifra della fiction che del documentario, sono riusciti a dar conto del vero del vivere, proponendoci il quotidiano semplice di persone semplici, che senza eroismi ma eroicamente riescono a superare difficoltà piccole o grandi, intoppi o tragedie.

La quotidianità è il registro adottato dal siriano Mohamed Malas per restituire il dramma della guerra fratricida che sta dilaniando il suo Paese. Non è l' enfasi dell'abituale voyerismo occidentale centrato sul sangue, le ferite, i corpi morti e gli scheletri dei palazzi bombardati a renderci il dolore della guerra. A restituircelo è piuttosto ciò che ogni singola persona vive, palesato con misura, senza facile retorica dai volti e dalle lacrime dei ragazzi di una casa- cortile. La casa e il cortile dove si svolge il quotidiano dei dodici ragazzi e della padrona di casa, a cui l'eco della tragedia che si sta consumando e della sua progressiva recrudescenza giunge, giorno dopo giorno, evocata e mai espressa a reportage, dai suoni del fuori, fragore di bombe ed esplosioni, e dalle parole di chi da fuori ritorna o chiama al cellulare. Un fuori non lontano, il centro stesso di Damasco in cui è situata la casa cortile di “Ladder to Damascus”(“Scala per Damasco”) girato clandestinamente dal regista nel suo Paese.

La quotidianità tuttavia non sempre e non necessariamente deve essere segnata dal negativo, anche in situazioni di vita difficili, è il messaggio affidato dagli autori al collettivo “Stripelife – Gaza in a Day” (“Stripelife-Gaza in un giorno”). La scelta di mostrare una giornata di vita a Gaza nelle sue sfaccettature di “normalità”: giochi di ragazzi, lavoro, relazioni, ha consentito agli autori di aggirare le consuete restituzioni dell'area in cifra esclusivamente tragica, per dar conto di una capacità del vivere che permane e riesce a portare una popolazione e ogni suo singolo, oltre una situazione che pure resta drammatica, senza lasciarsene sopraffare.

Ma il quotidiano torna a farsi duro nella vita dell'interprete di “Om Amira” (“La mamma di Amira”), dell'egiziano Naji Esmail, l'infaticabile venditrice di patate fritte in una viuzza del Cairo, nei pressi della più famosa piazza Tahir. La sopportazione della durezza, della fatica, del rischio di donna sola nella notte cairota dietro il suo fornello di friggitrice, è resa possibile solo dal desiderio di salvezza della propria figlia. Ogni goccia di sudore, ogni piccolo guadagno della madre, destinati all'operazione della figlia cardiopatica, al di là di ogni esito possibile.

La forza di donna è messa al centro anche da Mario Rizzi nel suo documentario “Al intithar” (“L'attesa”), storia di ordinaria quotidianità di Eklas, vedova, madre di quattro figli, confinata nel campo per profughi siriani di Zaatari nel deserto giordano. Anche qui, mettendosi alle spalle di una vita difficile e dall'orizzonte chiuso, la protagonista riesce, giorno dopo giorno, ad affrontare e superare le difficoltà economiche e psicologiche della condizione di attesa sospesa del campo, per sé e i figli e mantenendoli in una relazione di reciproco sostegno, per proteggere il nucleo residuo di una famiglia distrutta.

La potenza femminile ancestrale è celebrata dal corto “Margelle” (“Il bordo del pozzo”) del marocchino Omar Mouldoira, dipanata dalla trasmissione del mito alle relazioni dell'oggi. nella breve ma intensa storia di un comune triangolo familiare, madre figlio padre. Ma il film, come dichiarato dallo stesso regista. vuole anche coraggiosamente proiettare un cono di luce sulla paura, pure ancestrale, che di tale potenza ha l'uomo arabo.

Anche i due cortometraggi tunisini “Les soulières de l'Aid” (“Le scarpe della festa”) di Anis Lassoued e “Zakaria”, di Leila Bouzid, ugualmente trattano delle difficoltà, delle reciproche incomprensioni nei rapporti genitori figli figlie, ad ogni latitudine, nella Tunisia d'origine come nella Francia dell'approdo migratorio.

Ma se per la figlia dell'immigrato “Zakaria”, il gruppo dei coetanei riesce a condizionarne la libertà di scelta e allontanarla, senza una motivazione realmente maturata in sé, dalla famiglia, in un altro cortometraggio firmato da Carine May e Hakim Zouhani, “La virée à Paname” (“Un giro in centro”) le difficoltà nelle relazioni familiari e con i compagni di quartiere, non fermano il giovane aspirante scrittore. Le pressioni non arrestano il cammino dell'adolescente che cerca il riscatto all'emarginazione, in una ricerca di sé che si rivela non corrispondergli, ma che ha voluto comunque tentare di esplorare.

Ancora la possibilità di lettura semplice ed immediata della realtà algerina a cinquant'anni dall'indipendenza si può trovare in “Ouine Algeria” (“Dov'è l'Algeria?”), documentario dell'algerino Lemnaouer Ahmine, e più precisamente negli incontri, qua e là nel Paese, dell'autore con pochi “esperti” e più persone comuni e familiari ritrovati. Lo stesso regista nell'incontro con il pubblico del Festival ha dichiarato come nessun analista politico o intellettuale sarebbe riuscito a spiegare in un fulmineo lucido flash, esposto da un familiare intervistato, un Algerino qualsiasi, la questione “islamismo di stato o secolarismo”, che pare inquietare più l'occidente che l'Algeria. Un cittadino comune, ma certo credente e di fervente pratica segnalata dal vistoso “callo della preghiera” in mezzo alla fronte, che dichiara la convinzione argomentata della necessaria separazione tra Stato e religione.

Ouandiè e Sosa, uniche concessioni a figure emblematiche, servono agli autori di “Une feuille dans le vent” (“Una foglia nel vento”) del camerunese Jean-Marie Teno e “Mercedes Sosa, la voz de Latinoamérica” (“Mercedes Sosa, la voce dell'America Latina”) dell'argentino Rodrigo H. Vila, per riaffermare la necessità di mantenere viva la memoria. Ernestine, figlia dell'attivista politico camerunese Ernest Ouandiè, assassinato in circostanze poco chiare e mai conosciuto da Ernestine, nell'intensa lunga intervista confessione afferma “La prima morte è quella vera, la seconda è il silenzio”, alludendo all'oblio calato sulla storia del padre e momenti oscuri archiviati della storia del Paese.

L'invito a non dimenticare è pure rinnovato ad ogni passaggio della biografia di Mercedes Sosa, non solo voce, ma presenza forte e significativa nella vita politica latinoamericana, restituita in un commovente inreccio di vita pubblica e familiare, a ricordo della storia di Mercedes e di quella dell'Argentina anche nei giorni più bui della dittatura.

Restare nel presente senza cancellare il passato e non facendosi soverchiare dal futuro, è il messaggio del visionario “Bastardo” del tunisino Nejib Belkadhi, vincitore del festival. Nessuna antenna GSM, che forse porta ricchezza economica, può rendere piena la vita, l'unica antenna che consente il vero ancoraggio a se' è la consapevolezza piena di dove siamo, da dove veniamo e dove stiamo andando, sapere chi vogliamo diventare.

giovedì 6 marzo 2014

I nostri premi Oscar



La magica notte degli Oscar hollywoodiana ha premiato un film, per chi scrive sopravvalutato: La grande bellezza di Paolo Sorrentino.

Ma noi preferiamo parlare dell'altro lungometraggio candidato come Miglior Film Straniero:

Omar, di Hany Abu-Assad, già regista di Paradise Now.

Girato in Palestina - tra Nablus, Nazareth e Bisan - il film narra di un giovane fornaio, Omar, abituato a scavalcare il muro di recinzione (perchè di questo si tratta) che separa la sua terra da Israele: schiva proiettili, supera check-point, questo Romeo contemporaneo, per andare a trovare Nadia, la ragazza di cui è innamorato. Ma il racconto non può essere, ovviamente, solo un racconto sentimentale, c'è molto altro: Omar, insieme al fratello di Nadia, Tarek, e ad un terzo amico, Amjad, partecipa ad un'attività di addestramento clandestina per la liberazione della Palestina. Dopo l'uccisione di un soldato, il protagonista verrà fatto prigioniero e sarà torturato. Sopravvive, ma dovrà decidere se trascorrere il resto della vita in carcere oppure collaborare con la polizia israeliana. 

Interessante l'opera di Abu-Assad che inserisce - grazie alla sceneggiatura ben scritta - gli attori e in particolare Omar in una situazione claustrofobica sia per quanto riguarda gli ambienti sia per quanto riguarda la loro psicologia. Il ragazzo, infatti, si troverà a dover farei conti con le opportunità di una vita sempre più difficile: sopravvivere e tradire la causa, in una dicotomia tra etica ed egoismo.

La prima scena già anticipa il senso profondo del film: i palestinesi sono divisi, geograficamente e fisicamente e sono separati anche tra di loro (amici, parenti, amanti), ma portano dentro anche fratture interiori, ferite dell'anima causate dall'emarginazione, dalla guerra, dalla ricerca continua di un'identità. Non giudica, il regista, ma cerca di immedesimarsi e di far identificare anche il pubblico con questa gioventù che ha tutta una vita davanti, ma pur sempre una vita spezzata.

Un riscatto, invece, per la propria esistenza è quello narrato nel film vincitore del premio come Miglior Film: 12 anni schiavo, di Steve McQueen, un “inglese nero” come in tanti lo hanno definito. Film che si è aggiudicato anche il riconoscimento per la miglior sceneggiatura originale e per il quale è stata premiata l'attrice non protagonista, Lupita Nyong'o.

Dopo il bellissimo Django Unchained di Quentin Tarantino (trovate la recensione su questo sito), in tanti hanno deciso di continuare a riflettere su una delle piaghe più aperte della Storia americana, ma nessuno eguaglia la perfezione di scrittura e di regia di Tarantino.

12 anni schiavo riporta sullo schermo la schiavitù con la sua brutalità, ma anche con gli accorgimenti estetici propri del buon Cinema, ma resta superficiale la riflessione tematica: la discesa agli inferi e la redenzione successiva fanno troppo “americanata”: l'opera
cinematografica riprende la biografia di Solomon Northup che, a metà dell' '800, uomo libero, artigiano e padre di famiglia viene rapito e venduto come schiavo per lavorare nelle piantagioni della Louisiana. Lotta per dodici lunghi anni per poi riuscire a fare ritorno dai propri cari. Ma la decisione della giuria di conferire il maggiore riconoscimento a questo film è un messaggio importante: tornare a parlare della schiavitù del Passato può essere utile per continuare a riflettere sulle varie e nuove forme di schiavitù delle società contemporanee e per tenere alta la guardia.


mercoledì 30 ottobre 2013

Il premio Sakarov a Malala Yousafzai

Il premio Sakarov a Malala Yousafzai


Torniamo a parlare di Malala Yousafzai, la ragazza pakistana che viene dal Pakistan. Tra il 2007 e il 2009 la sua regione di origine, quella della valle dello Swat, è stata controllata dai talebani che hanno imposto una dura legge islamica e la chiusura delle scuole. Nel 2008 Malala pronuncia un discorso pubblico sul diritto all'istruzione e, un anno dopo, sotto pseudonimo, attiva un blog sul sito della Bbc. In seguito lei e suo padre, anche lui attivista, partecipano a numerosi documentari e video e la sua identità viene svelata. Nel 2012 la ragazza subisce un attentato: le sparano alla testa mentre si trova sull'autobus che la conduce da scuola a casa. “Diffonde idee occidentali”, questa la dichiarazione del leader del gruppo che ha tentato di ucciderla: ma Malala è viva. E' stata operata prima a Peshawar e poi a Londra.
Malala Yousafzai è diventata un simbolo: della libertà e dei diritti. A febbraio scorso il partito laburista norvegese ha appoggiato la sua candidatura al Nobel per la Pace; da poco è stata premiata come “ambasciatrice di coscienza” da Amnesty International e la scorsa settimana ha ricevuto anche il prestigioso premio Sakarov, che le verrà consegnato il prossimo 20 novembre.
Il Premio Sakarov prende il nome dallo scienziato e dissidente sovietico, Andrei Sakarov, ed è stato istituito nel 1988 dal Parlamento europeo per onorare proprio le persone che dedicano la propria vita alla difesa dei diritti umani e l'eurodeputato ALDE, Andrea Zanoni, ha spiegato il motivo dell'assegnazione del premio a Malala: “ Malala Yousafzai ha sfidato il regime talebano nel distretto di Swat, in Pakistan, con la sua battaglia per i diritti delle donne a ricevere un'adeguata istruzione. A simili donne va la riconoscenza dell''Europa per aver condotto una battaglia così fondamentale per tutte le donne del mondo. Grazie al suo coraggio e alla sua forza, migliaia di donne in Pakistan hanno raggiunto una maggior consapevolezza dei propri diritti e dell'importanza di ricevere un'istruzione”.


Malala è protagonista anche di una bella mostra dell'artista Marcello Reboani, inaugurata a Lecce il 25 ottobre - presso il Must – dopo il debutto a Firenze e che sarà allestita nel Salento fino al 26 novembre.
Il titolo: “ Ladies for human rights”. Curata da Melissa Proietti - in collaborazione con Rfk Center for Justice and Human Rights Europe - il percorso si snoda in 18 ritratti materici, in tecnica mista, di figure femminili che, nel corso del tempo, hanno operato per l'affermazione e la tutela dei diritti umani, sociali e civili di tutte e di tutti. Tra le donne rappresentate: Madre Teresa di Calcutta e Annie Lennox, Rita Levi Montalcini e Lady Diana, Maria Montessori e Audrey Hepburn. Le più giovani, Malala e Anna Frank, rappresentano il valore didattico dato all'iniziativa che si rivolge a tutti, ma in particolar modo, agli studenti per sensibilizzarli sui temi dei diritti umani.



giovedì 24 ottobre 2013

Le foto di Mauro Prandelli: per continuare a riflettere sul tema delle migrazioni


Dal 17 al 20 ottobre 2013 si è tenuto, a Lodi, il Festival della fotografia etica: “etica” una parola, un aggettivo che indicano un comportamento oppure una scelta. Una parola, un aggettivo ormai in disuso.
Le immagini delle numerose esposizioni che hanno arricchito il programma della manifestazione (www.festivaldellafotografiaetica.it) hanno aperto squarci sul mondo e sull'attualità, ma soprattutto nella mente e nelle coscienze di chi le ha potute vedere. Interessantissima, ad esempio, la mostra intitolata “Battle to death” di Fabio Bucciarelli, vincitore del World Report Award (e di altri premi prestigiosi internazionali) con il suo sguardo attento e critico sulla Siria; ricordiamo anche la mostra organizzata dal CESVI “Libya-Off the Wall”; così come “Trieste: storie a parte” sul disagio mentale di Carlo Gianfierro.

L'Associazione per i Diritti Umani ha visitato il festival e ha voluto registrare, per voi, l'incontro di presentazione di un'altra mostra molto importante: EVROS PORTA ORIENTALE d'EUROPA. Un muro contro l'immigrazione, del fotografo Mauro Prandelli.
Un fiume, l'Evros, che separa la Grecia dalla Turchia: è diventato una delle vie preferenziali per l'immigrazione verso l'Europa cosiddetta "ricca" e, nel 2012, Frontex, forza militare formata e sostenuta dall'Unione Europea, ha dato via al progetto "Poseidon" teso a controllare il flusso migratorio.
Il fotografo Mauro Prandelli è stato sull'Evros, ha conosciuto e ritratto alcuni migranti, ha riportato, nelle sue immagini, paure, difficoltà, sogni e speranze.
E in questo video racconta quegli incontri e il suo lavoro.

Ringraziamo tantissimo Mauro Prandelli per averci permesso di condividere con i nostri lettori questo utile approfondimento (www.mauroprandelli.com)





(Potete visionare il filmato e scoprire gli altri nostri video anche sul canale dedicato YOUTUBE dell'Associazione per i Diritti Umani)

sabato 13 aprile 2013

Una poesia (una denuncia, uno sfogo) di Paul Polansky, insignito, nel 2004, del premio Human Rights Award

Paul Polansky, giornalista, poeta, scrittore, fotografo e antropologo, ma anche x pugile e giocatore di football americano. Scappa dalla guerra in Vietnam e arriva in Spagna e girerà l'Europa, seguendo le sue radici vichinghe: agli inizi degli anni '90 inizia un percorso di ricerca sulle origini della propria famiglia che porterà alla luce l'esistenza del campo di concentramento di Lety, in Repubblica Ceca; nel 1999 viene ingaggiato dalle Nazioni Unite e inviato in Kosovo come mediatore tra le istituzioni e i rom perseguitati e continuerà a lottare affinché i rom, cacciati dagli estremisti albanesi, possano uscire dai campi profughi, costruiti su terreni inquinati dal piombo e altri metalli pesanti; nel 2004, Gunther Grass gli consegna il premio Human Rights Award.
Attualmente Paul Polansky vive a Nish, in Serbia dove prosegue la sua attività nella difesa dei diritti umani anche attraverso lo strumento audiovisivo: il suo ultimo documentario, Gipsy Blood, è visibile su you tube ed è stato premiato al Golden Wheel International Film Festival di Skopje. 
Paul Polansky ci ha regalato la poesia (uno sfogo, una denuncia) che pubblichiamo qui di seguito.





WHY
PERCHE’


Why
PERCHE’
In the 21st century
Nel 21mo secolo
Has the German govt
Il governo tedesco
Invested
Ha investito
½ million euros
½ milione di euro
In a Gypsy camp
In un campo di zingari
Built on toxic wasteland
Costruito su un’area abbandonata tossica
Where everyone is being
Dove tutti muoiono avvelenati?
poisoned?



Why
Perchè
In the 21st century
Nel 21mo secolo
Has the German govt
Il governo tedesco
Deported from Deutschland
Ha espulso dalla Germania
Kosovo Gypsies
Zingari kosovari
Who end up
Che sono finiti
In this camp
In questo campo
Where every child is born
Dove tutti i bambini sono nati
With irreversible brain damage…
Con danni cerebrali irreversibili
If they live.
E non si sa se sopravviveranno




Why
Perchè
In the 21st century
Nel 21mo secolo
Has the German govt
Il governo tedesco
And their implementing partner
E il suo socio
The United Nations
Le Nazioni Unite
Ignored pleas---
Hanno ignorato la supplica
Yes, pleas for ten years---
Sì, per dieci anni hanno ignorato la supplica
From the World Health Organization
Dell’Organizzazione Mondiale della Sanità
To immediately evacuate and medically treat
Di evacuare e curare immediatamente
Children and pregnant women
Bambini e donne in stato interessante
The most vulnerable
I più vulnerabili
Who have the highest lead levels
Quelli che hanno i più alti livelli di acetato di piombo
In medical literature?
Nella letteratura medica?


Why
Perchè
In the 21st century
Nel 21mo secolo
Has the German govt
Il governo tedesco
Become involved in a camp
Si è trovato coinvolto in un campo


Where almost 90 Gypsies have died
Dove circa 90 zingari sono morti

Where the lead poisoning has caused
Dove il veleno dell’acetato di piombo ha causato
Hundreds of miscarriages?
centinaia di aborti?




Why
PERCHE’
In the 21st century
Nel 21mo secolo
Has the German govt
Il governo tedesco
Ignored the pleas---
Ha ignorato la supplica
Yes, the pleas----
Sì, la supplica
Of the European Council’s
Della Commissione Europea
Commissioner for Human Rights
per I Diritti Umani
Begging Germany
Che pregava la Germania
Only Germany
Solo la Germania
Not to deport anymore Gypsies
Di non espellere più gli zingari
Back to Kosovo
E deportarli in Kosovo
Where they might
Dove avrebbero potuto
end up
Finire
In this deadly camp?
In questo campo di morte?




Why
PERCHE’
In the 21st century
Nel 21mo secolo
Has the German govt
Il governo tedesco
Turned a blind eye
Non ha voluto vedere
To the documentary films
I documentari
Made about this lead-poisoned camp
Riguardanti questo campo avvelenato con il piombo
By the BBC,
girati dalla BBC
Norwegian TV, French TV,
dalla TV norvegese, da quella francese
Australian TV
Dalla TV australiana
And even German TV?
E perfino da quella tedesca?




Why
PERCHE’
In the 21st century
Nel 21mo secolo
Is the German govt---
Il governo tedesco
This time an elected
Un governo regolarmente eletto
And supposedly democratic govt---
E presumibilmente un governo democratico
Targeting Gypsies
Prende di mira gli zingari
Threatening Gypsies
Li minaccia
Transporting Gypsies
Li deporta
Once again
Ancora una volta
Against their will
Contro la loro volontà
To a camp
In un campo
That newspapers & magazines
Che quotidiani e riviste
World-wide
Di tutto il mondo
Have called
Hanno definito
A “death” camp?
Un campo di morte?



WHY? WHY? WHY?
PERCHE’? PERCHE’? PERCHE’?




Paul Polansky
Paul Polansky




(Traduzione a cura di EsseBi)



E' da poco uscito nelle libreria italiane anche l'ultimo romanzo di Paul Polansky, dal titolo Il pianto degli zingari, Volo Press edizioni.
Danica studia a Monaco ed è brava: forse diventerà un'insegnante o forse una dottoressa. Ma una mattina d'inverno deve abbandonare tutto: casa, scuola, amici e futuro per salire su un aereo diretto a Pristina, insieme ad altri rom come lei.
Ritorna l'incubo sepolto dieci anni prima quando suo padre aveva gridato “Avna o nemcoja”: “Arrivano i tedeschi!”: era il giugno del 1999, ma quelle parole riportavano alla mente i ricordi del nonno e della seconda guerra mondiale, con le sue atrocità. Nel '99, invece, erano stati i vicini di casa albanesi a cacciare di casa lei (che all'epoca aveva sette anni) e la sua famiglia.
Danica adesso è più adulta e più consapevole e si chiede: ma non sono tedesca? Studio in Germania, ho vinto anche una borsa di studio, ho creato dei legami...Un racconto in versi, il punto di vista di un'adolescente per parlare di dignità umana, di rispetto, di cittadinanza, di inclusione, con una sensibilità e un'attenzione particolare alla tutela dei diritti dei minori.

 
Paul Polansky