di Riccardo Nouri (da Corriere della sera.it)
Raif Badawi, il blogger saudita condannato a 10 anni di carcere e a 1000 frustate per i contenuti dei suoi post, ha aggiunto ieri il suo nome al prestigioso elenco dei vincitori del premio Sakharov del Parlamento europeo per la libertà di pensiero. Il premio è stato ritirato dalla moglie, Ensaf Haidar.
Il premio, da un lato, riconosce l’importanza della figura e dell’azione di Badawi; dall’altro, costituisce una dura critica alla repressione che l’Arabia Saudita sta attuando nei confronti di blogger, attivisti e difensori dei diritti umani, anche attraverso il ricorso a pene crudeli e inumane.
Ma soprattutto la decisione del Parlamento segna un profondo contrasto col silenzio assordante della diplomazia dell’Unione europea che, ad oggi, non solo non ha reagito alle violazioni dei diritti umani in Arabia Saudita ma non ha neanche chiesto il rilascio incondizionato e immediato di Raif Badawi. Allo stesso modo, molti stati dell’Unione europea sono rimasti muti di fronte alla clamorose violazioni del diritto internazionale dei diritti umani, che chiamano in causa l’Arabia Saudita tanto all’interno del paese quanto in Yemen, dove le forze armate di Riad guidano una coalizione che dal 27 marzo bombarda senza pietà il paese.
L’assenza di iniziativa da parte dell’Unione europea coincide con un profondo aumento del ricorso alla pena di morte in Arabia Saudita, con almeno 151 esecuzioni quest’anno, più di quelle del 2014. Inoltre, da tre anni a questa parte, il governo saudita sta sistematicamente annullando ogni forma di attivismo sui diritti umani, anche grazie alla legislazione “antiterrorismo” entrata in vigore nel febbraio 2014.
L’avvocato di Raif Badawi, Waleed Abu al-Khair, è stato il primo difensore dei diritti umani condannato (a 15 anni di carcere!) ai sensi della nuova legge.
È evidente che nelle relazioni dell’Unione europea con l’Arabia Saudita, così come con gli altri paesi del Golfo, siano in gioco molti interessi di natura diversa, come l’energia, la fornitura di armi, le relazioni commerciali e la cooperazione contro il terrorismo.
L’Unione europea e molti dei suoi stati membri citano la necessità di cooperare con l’Arabia Saudita contro il terrorismo come scusa per non prendere posizione sui diritti umani. Ma in realtà sono proprio le controverse norme antiterrorismo in vigore in quel paese ad aver causato l’imprigionamento di molti difensori dei diritti umani. Cooperando con l’Arabia Saudita e al contempo ignorando ed evitando di condannare pubblicamente le violazioni dei diritti umani, l’Unione europea sta dando alle autorità di Riad il segnale di via libera ad andare avanti.
Ieri, Amnesty International ha chiesto all’Alta rappresentante e vicepresidente dell’Unione europea, Federica Mogherini, di convocare una discussione urgente del Consiglio affari esteri (che riunisce i 28 ministri degli Esteri dell’Unione europea) che intraprenda azioni concrete per ottenere il rilascio di Raif Badawi, del suo avvocato Walid Abu al-Khair e di tutti gli altri difensori dei diritti umani attualmente in carcere per aver esercitato pacificamente i loro diritti e aver difeso i diritti di altre persone. Da questa discussione potrebbe svilupparsi una strategia per fare miglior uso delle relazioni tra Unione europea e Arabia Saudita, allo scopo di proteggere i diritti umani universali.

"...Non si potrà avere un globo pulito se gli uomini sporchi restano impuniti. E' un ideale che agli scettici potrà sembrare utopico, ma è su ideali come questo che la civiltà umana ha finora progredito (per quello che poteva). Morte le ideologie che hanno funestato il Novecento, la realizzazione di una giustizia più giusta distribuita agli abitanti di questa Terra è un sogno al quale vale la pena dedicare il nostro stato di veglia".
Visualizzazione post con etichetta premio. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta premio. Mostra tutti i post
giovedì 17 dicembre 2015
Il Parlamento europeo premia Raif Badawi, l’Unione europea tace sui diritti umani in Arabia Saudita
Etichette:
Amnesty,
Arabia saudita,
associazione,
avvocati,
blogger,
diritti,
Diritti umani,
espressione,
frustate,
giornalisti,
giustizia,
legge,
Nouri,
parlamento,
politica,
premio,
Raif Badawi,
stampa,
terrorismo,
UE
mercoledì 1 luglio 2015
L’oftalmologa namibiana Helena Ndume vince il Nelson Mandela Award
di
Monica Macchi
Questo premio riconosce i meriti di chi promuove i principi delle Nazioni Unite omaggiando Nelson Mandela e le sue eredità di riconciliazione, transizioni politiche e trasformazioni sociali. Quest’anno è andato a Helena Ndume, un’oftalmologa nata a Tsumeb, in Namibia, che a soli 15 anni si è unita al movimento di liberazione che ha portato all'indipendenza del Paese, ed è dovuta vivere in Zambia, Gambia e Angola prima di laurearsi in medicina a Lipsia. Fra il 2001 e il 2007 è stata vice-Presidente della Croce Rossa namibiana, nel 2004 è diventata Gran Commendatore della Namibia e nel 2009 è stata premiata per la terapia contro la cataratta, la principale responsabile della cecità in Namibia. Il suo mantra è che “Non puoi definirti un paese progressista, se hai ancora gente cieca per la cataratta, che oggi è facilmente curabile con una semplice procedura chirurgica”: per questo Ndume è una volontaria di SEE International che dal 1995 ha garantito più di 300 interventi riabilitativi gratuiti. E il premio ha ampliato i suoi progetti: infatti quest’estate verrà attivata una collaborazione con la Fondazione Dikembe nella Repubblica Democratica del Congo.
Per
informazioni e donazioni
http://www.seeintl.org
Etichette:
Africa,
chirurgia,
Congo,
Croce Rossa,
democrazia,
medicina,
Namibia,
notizie,
occhi,
oftalmologo,
ONU,
politica,
premio,
salute,
sanità
martedì 30 settembre 2014
Morte di un uomo felice: il vincitore del Premio Campiello 2014
Giorgio
Fontana, autore giovane, ma con al suo attivo già molte opere di
successo. Il suo ultimo lavoro letterario si intitola Morte
di un uomo felice , edito
da Sellerio, ed è il romanzo vincitore del Premio Campiello 2014.
Milano, estate 1981: siamo nella
fase più tarda, e più feroce, della stagione terroristica in
Italia. Non ancora quarantenne, Giacomo Colnaghi a Milano è un
magistrato sulla linea del fronte. Coordinando un piccolo gruppo di
inquirenti, indaga da tempo sulle attività di una nuova banda
armata, responsabile dell’assassinio di un politico democristiano.
Il dubbio e l’inquietudine lo accompagnano da sempre. Egli è
intensamente cattolico, ma di una religiosità intima e tragica. È
di umili origini, ma convinto che la sua riuscita personale sia la
prova di vivere in una società aperta. È sposato con figli, ma i
rapporti con la famiglia sono distanti e sofferti. Ha due amici
carissimi, con i quali incrocia schermaglie, il calcio, gli
incontri nelle osterie.
Dall’inquietudine è avvolto anche il ricordo del padre Ernesto, che lo lasciò bambino morendo in un’azione partigiana. Quel padre che la famiglia cattolica conformista non poté mai perdonare per la sua ribellione all’ordine, la cui storia eroica Colnaghi ha sempre inseguito, per sapere, e per trattenere quell’unica persona che ha forse amato davvero, pur senza conoscerla.
L’inchiesta che svolge è complessa e articolata, tra interrogatori e appostamenti, e andrà a buon fine. Ma la sua coscienza aggiunge alla caccia all’uomo una corsa per capire le ragioni profonde, l’origine delle ferite che stanno attraversando il Paese. Anche a costo della sua stessa vita.
Dall’inquietudine è avvolto anche il ricordo del padre Ernesto, che lo lasciò bambino morendo in un’azione partigiana. Quel padre che la famiglia cattolica conformista non poté mai perdonare per la sua ribellione all’ordine, la cui storia eroica Colnaghi ha sempre inseguito, per sapere, e per trattenere quell’unica persona che ha forse amato davvero, pur senza conoscerla.
L’inchiesta che svolge è complessa e articolata, tra interrogatori e appostamenti, e andrà a buon fine. Ma la sua coscienza aggiunge alla caccia all’uomo una corsa per capire le ragioni profonde, l’origine delle ferite che stanno attraversando il Paese. Anche a costo della sua stessa vita.
Abbiamo
avuto l'opportunità di fare questa breve intervista all'utore che
ringraziamo molto.
C'è
una data importante nel romanzo: il 1981. E' anche la sua stessa data
di nascita. Si tratta solo di una coincidenza?
In effetti sì: la data della morte di
Giacomo Colnaghi era stata decisa nel romanzo precedente, "Per
legge superiore", dove compariva come personaggio minore — ma
non per questo meno importante. Mi sembrava un anno adeguato dal
punto di vista storico, e così l'ho scelto.
Perchè ha sentito l'esigenza di
scrivere questa storia?
Mi è sempre terribilmente difficile
rispondere a questo domanda. Per me non c'è una ragione o
un'esigenza identificabile che spingono a raccontare una storia o un
personaggio, se non l'amore per quella storia e per quel personaggio.
Tutto qua.
Come si è documentanto per la stesura
del libro?
Ho studiato molto. Non avendo vissuto
quegli anni, ho sentito particolarmente la responsabilità di
ricostruirli nella loro complessità. Certo, ho scelto di raccontare
solo una delle tante storie possibili; ma per farlo era necessario
avere uno sfondo di conoscenze accurato. E così ho passato diverso
tempo sui libri, sugli archivi dei giornali, a guardare filmati
dell'epoca... E naturalmente anche a girare per Milano.
Quanto è importante, oggi, una
riflessione sul tema dell giustizia?
Credo sia sempre importantissima; non
solo sulla giustizia procedurale ma anche e soprattutto sulla
giustizia sociale, la cui situazione in Italia è particolarmente
spaventosa. Per quanto mi riguarda, cerco di tenere distinta la mia
attività di narratore da quella di — uso questa parola molto
ambigua — "intellettuale" militante. È vero che gli
ultimi due miei romanzi si interrogano sulla giustizia, ma per me è
fondamentale innanzitutto raccontare i singoli, non tanto i grandi
temi.
Anche il tema della Fede è
centrale...
Pur essendo ateo, mi è piaciuto
rappresentare Colnaghi come un uomo di fede — ma dotato di una fede
tormentata, intima, che lo porta continuamente a interrogarsi su
quello che fa e quelli che invece sono i suoi limiti.
Etichette:
associazione,
Campiello,
democrazia,
diritti,
Giorgio Fontana,
giornalismo,
giustizia,
governo,
libro,
magistrato,
notizie,
politica,
premio,
Religione,
romanzo,
stampa,
terrorismo
sabato 14 giugno 2014
Un premio per Samia
Con 93 voti, il romanzo Non dirmi che hai paura di Giuseppe Catozzella ha vinto il Premio Strega Giovani e guida la cinquina del premio principale, oltre ad aver ottenuto anche il premio Società Dante Alighieri. E noi siamo felici di ripubblicare una breve intervista che qualche settimana fa abbiamo avuto occasione di fare all'autore, congratulandoci ancora e ringraziandolo per averci fatto conoscere la storia di Samia.
Una storia esemplare, quella di Samia, una ragazzina di Mogadiscio che ha la corsa nelle gambe e nel cuore: Samia corre in nome della libertà di tutte le donne, in particolare di quelle somale che vivono in una situazione di guerra e di sopraffazione. Samia corre in nome della libertà e della giustizia. Samia condivide i suoi sogni e i suoi ideali con il suo amico Ali e primo allenatore che crede in lei, nella sua tenacia e nella sua forza. Samia, infatti, riesce a qualificarsi, a soli 17 anni, ai Giochi olimpici di Pechino, diventando un simbolo. Il destino di Samia sarà tragico, come quello di tanti migranti, ma la sua giovane vita porta in sé, e regala al futuro, la gioia del riscatto.
Quando nasce il progetto
del libro e perché ha ritenuto necessario raccontare questa storia?
L’idea
di raccontare la vita di Samia Yusuf Omar è nata quando mi sono
imbattuto nella notizia della vita e della morte di Samia (ero in
Africa, a Lamu, in Kenya e stavo svolgendo delle ricerche per
un’altra storia) mi sono sentito in colpa da italiano per la sua
morte e ho deciso che avrei raccontato nel paese che Samia vedeva
come sua salvezza e speranza di vita nuova e in cui non era mai
riuscita ad arrivare – il mio stesso paese, l’Italia – la sua
storia. Per cercare di creare materiale letterario dalla speranza e
dal dolore. E per risarcire, in qualche modo, il destino di Samia.
Samia
Yusuf Omar nasce a Mogadiscio, in una terra colonizzata dagli
italiani e oggi ancora dilaniata dalla guerra: quanto è importante
mantenere viva la memoria sulla Storia di ieri per capire il
Presente?
È
fondamentale. La memoria è come il respiro ed è un arco teso.
Soltanto caricandolo all’indietro si può avere una direzione e una
meta.
Il
racconto della vita della protagonista si può definire come un
"racconto di formazione"? E ci può anticipare il motivo
per cui Samia diventa il simbolo di tutte le donne musulmane nel
mondo?
È
una storia di formazione, perché è la storia della formazione di
Samia, da quando ha 8 anni a quando ne ha 21. Samia diventa simbolo
perché per correre al massimo delle sue potenzialità compie un
gesto ovvio e al contempo rivoluzionario: decide di correre alle
Olimpiadi senza velo.
Si
tratta anche di una storia di migrazione, di tenacia e di coraggio,
con una
sorta di “lieto fine” : la sua storia è importante per
abbattere gli stereotipi e i pregiudizi sui richiedenti asilo, sui
profughi e sui migranti in generale?
La
storia di Samia purtroppo non ha un lieto fine nel senso consueto del
termine, perché Samia muore al largo di Lampedusa. Ma contiene un
lieto fine nel senso che è una storia di speranza e di coraggio.
lunedì 9 giugno 2014
Il premio va...al romanzo "La fabbrica del panico"
Il
romanzo di Stefano Valenti, La
fabbrica del panico ha
vinto il Premio Campiello – Opera prima e noi siamo lieti di
ripubblicare l'intervista che abbiamo fatto all'autore in occasione
della scorsa Giornata dei lavoratori.
Nel
romanzo si racconta la storia dell'Italia operaia dagli anni
cinquanta ad oggi: cosa è cambiato nelle condizioni di vita delle
persone che lavorano in fabbrica?
Poco
o niente, per molti versi la crisi mondiale ha aggravato la
condizione operaia. Con il ricatto della disoccupazione padroni e
sindacati confederali obbligano a turni e a ritmi sempre più
pesanti. Esistono oltre tre milioni di disoccupati e tuttavia chi ha
la 'fortuna' di avere un lavoro è costretto a fare straordinari con
turni anche di dodici ore al giorno come è successo alla
ThyssenKrupp nel 2007. Così i padroni alimentano la concorrenza fra
lavoratori e incrementano i profitti risparmiando sulla manutenzione
e sulla sicurezza, come è accaduto all’ Eternit di Casale
Monferrato, alla Fibronit di Broni, alla Breda di Sesto San Giovanni
e in moltissime fabbriche. La 'normalità' dei morti sul lavoro e di
lavoro a causa delle malattie professionali non è un residuo
ottocentesco, ma rappresenta semmai la 'modernità' del capitalismo
che continua a uccidere. Le morti sul lavoro non sono una fatalità,
ma il tributo degli operai alla realizzazione del profitto.
Una
storia molto personale che si fa universale: ci conferma che si
tratta anche di una storia di denuncia?
Negli
ultimi decenni la narrativa italiana ha accuratamente evitato di
raccontare parte consistente del Paese, classe operaia e indigenti in
particolare. Il postmoderno ha assoggettato la prosa agli automatismi
della fiction, prelibata dai media e dal mercato. È arrivato il
momento di parlare anche di coloro che sono stati messi da parte.
Per
tutti coloro che si sono ammalati in quanto esposti, per anni, a
sostanze nocive: sono stati condannati i responsabili della Breda
Fucine? Conosce casi simili a quello raccontato nel libro e in cui
siano state inflitte pene esemplari oppure è difficile che questo
accada?
Per
quanto riguarda la Breda fucine, dopo numerose archiviazioni, sono
giunti a conclusione due processi. Il primo, nel 2003, ha assolto i
dirigenti 'perché il fatto non sussiste', il secondo, nel 2005, pur
riconoscendoli colpevoli, li ha condannati per omicidio colposo a
diciotto mesi concedendo le attenuanti generiche.
Bisogna
ricordare che per anni è esistito un muro di omertà e complicità
da parte di Stato, partiti e istituzioni tutte. Oggi la situazione
sta cambiando grazie alle lotte degli ultimi anni dei comitati sorti
in fabbrica e nel territorio, come quello della Breda fucine, che
hanno riunito nel territorio operai e cittadini. Ne sono un esempio i
processi ThyssenKrupp ed Eternit in cui sono state comminate pene
esemplari sia in primo sia in secondo grado, con pesanti condanne
Come
procede l'operato del Comitato per la difesa della salute nei luoghi
di lavoro e nel territorio, comitato che è stato fondato a Sesto San
Giovanni nel 1996? Sono stati ottenuti risultati positivi?
ll Comitato che ha sede nel Centro di iniziativa proletaria G. Tagarelli – Giambattista Tagarelli, al quale è stata intitolata la sede, è uno dei fondatori del Comitato ucciso dalle fibre killer – ormai è ramificato sul territorio nazionale ed è diventato un interlocutore stabile delle istituzioni favorendo il riconoscimento dell'esposizione all’amianto e delle malattie professionali di centinaia di ex lavoratori vittime dell’amianto e dei cancerogeni. Il Comitato è tra gli artefici del Coordinamento nazionale amianto che raggruppa decine di associazioni e comitati in tutta Italia. Grazie a lotte e manifestazioni è riuscito a far approvare il Fondo per le vittime dell’amianto e l'assistenza gratuita delle vittime dell'amianto e dei loro famigliari presso la Clinica del lavoro di Milano o nei comuni di residenza. Inoltre nel mese di aprile di ogni anno ricorda pubblicamente tutti i lavoratori morti a causa dello sfruttamento con un corteo a cui invitiamo anche i vostri lettori a partecipare e che si terrà sabato 26 aprile 2014 alle ore 16 con partenza dal Centro di iniziativa proletaria G. Tagarelli di via Magenta 88 a Sesto San Giovanni.
Etichette:
associazione,
Breda,
denuncia,
diritti,
film,
giornalismo,
La fabbrica del panico,
lavoro,
libro,
malattia,
morte,
operai,
premio,
romanzo,
società eternit,
Stefano Valenti,
vita
sabato 31 maggio 2014
24° Festival del Cinema africano, d'Asia e America latina
di Ivana Trevisani
Ringraziamo tantissimo Ivana Trevisani per questo suo contributo.
Ancora
una volta, anche quest'anno, la qualità della filmografia proposta
dal 24° Festival Africano d'Asia e America Latina (che si è svolto
a Milano dal 6 al 12 maggio 2014) ha potuto offrirci il dono di
avvicinamento al vero.
Il
vero della vita che il linguaggio cinematografico, se di qualità,
nella sua libertà di restituzione è in grado di dire più di ogni
analisi, dissertazione, speculazione, oltre ogni dilagante
opinionismo.
I
film proposti, sia nella cifra della fiction che del documentario,
sono riusciti a dar conto del vero del vivere, proponendoci il
quotidiano semplice di persone semplici, che senza eroismi ma
eroicamente riescono a superare difficoltà piccole o grandi, intoppi
o tragedie.
La
quotidianità
è il registro adottato dal siriano Mohamed Malas per restituire il
dramma della guerra fratricida che sta dilaniando il suo Paese. Non è
l' enfasi dell'abituale voyerismo occidentale centrato sul sangue, le
ferite, i corpi morti e gli scheletri dei palazzi bombardati a
renderci il dolore della guerra. A restituircelo è piuttosto ciò
che ogni singola persona vive, palesato con misura, senza facile
retorica dai volti e dalle lacrime dei ragazzi di una casa- cortile.
La casa e il cortile dove si svolge il quotidiano dei dodici ragazzi
e della padrona di casa, a cui l'eco della tragedia che si sta
consumando e della sua progressiva recrudescenza giunge, giorno dopo
giorno, evocata e mai espressa a reportage, dai suoni del fuori,
fragore di bombe ed esplosioni, e dalle parole di chi da fuori
ritorna o chiama al cellulare. Un fuori non lontano, il centro stesso
di Damasco in cui è situata la casa cortile di “Ladder
to Damascus”(“Scala
per Damasco”)
girato
clandestinamente dal regista nel suo Paese.
La
quotidianità tuttavia non sempre e non necessariamente deve essere
segnata dal negativo, anche in situazioni di vita difficili, è il
messaggio affidato dagli autori al collettivo “Stripelife
– Gaza in a Day” (“Stripelife-Gaza
in un giorno”).
La
scelta di mostrare una giornata di vita a Gaza nelle sue
sfaccettature di “normalità”: giochi di ragazzi, lavoro,
relazioni, ha consentito agli autori di aggirare le consuete
restituzioni dell'area in cifra esclusivamente tragica, per dar conto
di una capacità del vivere che permane e riesce a portare una
popolazione e ogni suo singolo, oltre una situazione che pure resta
drammatica, senza lasciarsene sopraffare.
Ma
il quotidiano
torna a farsi duro nella vita dell'interprete di “Om
Amira” (“La
mamma di Amira”),
dell'egiziano
Naji Esmail, l'infaticabile venditrice di patate fritte in una viuzza
del Cairo, nei pressi della più famosa piazza Tahir. La
sopportazione della durezza, della fatica, del rischio di donna sola
nella notte cairota dietro il suo fornello di friggitrice, è resa
possibile solo dal
desiderio
di salvezza della propria figlia. Ogni goccia di sudore, ogni piccolo
guadagno della madre, destinati all'operazione della figlia
cardiopatica, al di là di ogni esito possibile.
La
forza di donna è
messa
al centro anche da Mario Rizzi
nel
suo documentario “Al
intithar” (“L'attesa”),
storia
di ordinaria quotidianità di Eklas, vedova, madre di quattro figli,
confinata nel campo per profughi siriani di Zaatari nel deserto
giordano. Anche qui, mettendosi alle spalle di una vita difficile e
dall'orizzonte chiuso, la protagonista riesce, giorno dopo giorno,
ad affrontare e superare le difficoltà economiche e psicologiche
della condizione di attesa sospesa del campo, per sé e i figli e
mantenendoli in una relazione di reciproco sostegno, per proteggere
il nucleo residuo di una famiglia distrutta.
La
potenza femminile ancestrale è celebrata dal corto “Margelle”
(“Il
bordo del pozzo”)
del
marocchino Omar Mouldoira, dipanata dalla trasmissione del mito alle
relazioni dell'oggi. nella breve ma intensa storia di un comune
triangolo familiare, madre figlio padre. Ma il film, come
dichiarato dallo stesso regista. vuole anche coraggiosamente
proiettare un cono di luce sulla paura, pure ancestrale, che di
tale potenza ha l'uomo arabo.
Anche
i due cortometraggi tunisini “Les
soulières de l'Aid” (“Le
scarpe della festa”) di Anis Lassoued e “Zakaria”,
di Leila Bouzid, ugualmente trattano delle difficoltà, delle
reciproche incomprensioni nei rapporti genitori figli figlie, ad ogni
latitudine, nella Tunisia d'origine come nella Francia dell'approdo
migratorio.
Ma
se per la figlia dell'immigrato “Zakaria”,
il gruppo dei coetanei riesce a condizionarne la libertà di scelta e
allontanarla, senza una motivazione realmente maturata in sé,
dalla famiglia, in un altro
cortometraggio
firmato
da
Carine
May e Hakim Zouhani, “La
virée à Paname” (“Un
giro in centro”) le
difficoltà
nelle relazioni familiari e con i compagni di quartiere, non fermano
il giovane aspirante scrittore. Le pressioni non arrestano il cammino
dell'adolescente che cerca il riscatto all'emarginazione, in una
ricerca di sé che si rivela non corrispondergli, ma che ha voluto
comunque tentare di esplorare.
Ancora
la possibilità di lettura semplice ed immediata della realtà
algerina a cinquant'anni dall'indipendenza si può trovare in “Ouine
Algeria”
(“Dov'è
l'Algeria?”),
documentario
dell'algerino
Lemnaouer Ahmine, e più precisamente negli incontri, qua e là nel
Paese, dell'autore con pochi “esperti” e più persone comuni e
familiari ritrovati. Lo stesso regista nell'incontro con il pubblico
del Festival ha dichiarato come nessun analista politico o
intellettuale sarebbe riuscito a spiegare in un fulmineo lucido
flash, esposto da un familiare intervistato, un Algerino qualsiasi,
la questione “islamismo di stato o secolarismo”, che pare
inquietare più l'occidente che l'Algeria. Un cittadino comune, ma
certo credente e di fervente pratica segnalata dal vistoso “callo
della preghiera” in mezzo alla fronte, che dichiara la convinzione
argomentata della necessaria separazione tra Stato e religione.
Ouandiè
e Sosa, uniche concessioni a figure emblematiche, servono agli
autori di “Une
feuille dans le vent” (“Una
foglia nel vento”)
del
camerunese Jean-Marie Teno e “Mercedes
Sosa, la voz de Latinoamérica” (“Mercedes
Sosa, la voce dell'America Latina”)
dell'argentino
Rodrigo H. Vila, per riaffermare la necessità di mantenere viva la
memoria.
Ernestine, figlia dell'attivista politico camerunese Ernest Ouandiè,
assassinato in circostanze poco chiare e mai conosciuto da
Ernestine, nell'intensa lunga intervista confessione afferma “La
prima morte è quella vera, la seconda è il silenzio”,
alludendo all'oblio calato sulla storia del padre e momenti oscuri
archiviati della storia del Paese.
L'invito
a non dimenticare è pure rinnovato ad ogni passaggio della
biografia di Mercedes Sosa,
non
solo voce, ma presenza forte e significativa nella vita politica
latinoamericana, restituita in un commovente inreccio di vita
pubblica e familiare, a ricordo della storia di Mercedes e di quella
dell'Argentina anche nei giorni più bui della dittatura.
Restare
nel presente senza cancellare il passato e non facendosi soverchiare
dal futuro, è il messaggio del visionario “Bastardo”
del
tunisino Nejib Belkadhi, vincitore del festival. Nessuna antenna GSM,
che forse porta ricchezza economica, può rendere piena la vita,
l'unica antenna che consente il vero ancoraggio a se' è la
consapevolezza piena di dove siamo, da dove veniamo e dove stiamo
andando, sapere chi vogliamo diventare.
Etichette:
Africa,
america latina,
asia,
associazione,
bambini,
cinema,
diritti,
donne,
Festival,
film,
giornalismo,
guerra,
immigrazione,
Medioriente,
migranti,
premio,
regista,
rivoluzioni,
società
giovedì 6 marzo 2014
I nostri premi Oscar
La
magica notte degli Oscar hollywoodiana ha premiato un film, per chi
scrive sopravvalutato: La
grande bellezza di Paolo
Sorrentino.
Ma noi
preferiamo parlare dell'altro lungometraggio candidato come Miglior
Film Straniero:
Omar,
di Hany Abu-Assad, già regista di Paradise
Now.
Girato
in Palestina - tra Nablus, Nazareth e Bisan - il film narra di un
giovane fornaio, Omar, abituato a scavalcare il muro di recinzione
(perchè di questo si tratta) che separa la sua terra da Israele:
schiva proiettili, supera check-point, questo Romeo contemporaneo,
per andare a trovare Nadia, la ragazza di cui è innamorato. Ma il
racconto non può essere, ovviamente, solo un racconto sentimentale,
c'è molto altro: Omar, insieme al fratello di Nadia, Tarek, e ad un
terzo amico, Amjad, partecipa ad un'attività di addestramento
clandestina per la liberazione della Palestina. Dopo l'uccisione di
un soldato, il protagonista verrà fatto prigioniero e sarà
torturato. Sopravvive, ma dovrà decidere se trascorrere il resto
della vita in carcere oppure collaborare con la polizia israeliana.

La
prima scena già anticipa il senso profondo del film: i palestinesi
sono divisi, geograficamente e fisicamente e sono separati anche tra
di loro (amici, parenti, amanti), ma portano dentro anche fratture
interiori, ferite dell'anima causate dall'emarginazione, dalla
guerra, dalla ricerca continua di un'identità. Non giudica, il
regista, ma cerca di immedesimarsi e di far identificare anche il
pubblico con questa gioventù che ha tutta una vita davanti, ma pur
sempre una vita spezzata.
Un
riscatto, invece, per la propria esistenza è quello narrato nel film
vincitore del premio come Miglior Film: 12
anni schiavo,
di Steve McQueen, un “inglese nero” come in tanti lo hanno
definito. Film che si è aggiudicato anche il riconoscimento per la
miglior sceneggiatura originale e per il quale è stata premiata
l'attrice non protagonista, Lupita Nyong'o.
Dopo
il bellissimo Django
Unchained
di Quentin Tarantino (trovate la recensione su questo sito), in tanti
hanno deciso di continuare a riflettere su una delle piaghe più
aperte della Storia americana, ma nessuno eguaglia la perfezione di
scrittura e di regia di Tarantino.
12
anni schiavo
riporta sullo schermo la schiavitù con la sua brutalità, ma anche
con gli accorgimenti estetici propri del buon Cinema, ma resta
superficiale la riflessione tematica: la discesa agli inferi e la
redenzione successiva fanno troppo “americanata”: l'opera
cinematografica riprende la biografia di Solomon Northup che, a metà
dell' '800, uomo libero, artigiano e padre di famiglia viene rapito e
venduto come schiavo per lavorare nelle piantagioni della Louisiana.
Lotta per dodici lunghi anni per poi riuscire a fare ritorno dai
propri cari. Ma la decisione della giuria di conferire il maggiore
riconoscimento a questo film è un messaggio importante: tornare a
parlare della schiavitù del Passato può essere utile per continuare
a riflettere sulle varie e nuove forme di schiavitù delle società
contemporanee e per tenere alta la guardia.
Etichette:
12 anni schiavo,
America,
cinema,
Django,
film,
Hollywood,
Israele,
La grande bellezza,
Miglior film,
Omar,
oscar,
Palestina,
Paolo Sorrentino,
premio,
razzismo,
schiavitù,
società,
Steve McQueen,
Tarantino
mercoledì 30 ottobre 2013
Il premio Sakarov a Malala Yousafzai
Il
premio Sakarov a Malala Yousafzai
Torniamo
a parlare di Malala Yousafzai, la ragazza pakistana che viene dal
Pakistan. Tra il 2007 e il 2009 la sua regione di origine, quella
della valle dello Swat, è stata controllata dai talebani che hanno
imposto una dura legge islamica e la chiusura delle scuole. Nel 2008
Malala pronuncia un discorso pubblico sul diritto all'istruzione e,
un anno dopo, sotto pseudonimo, attiva un blog sul sito della Bbc. In
seguito lei e suo padre, anche lui attivista, partecipano a numerosi
documentari e video e la sua identità viene svelata. Nel 2012 la
ragazza subisce un attentato: le sparano alla testa mentre si trova
sull'autobus che la conduce da scuola a casa. “Diffonde idee
occidentali”, questa la dichiarazione del leader del gruppo che ha
tentato di ucciderla: ma Malala è viva. E' stata operata prima a
Peshawar e poi a Londra.
Malala
Yousafzai è diventata un simbolo: della libertà e dei diritti. A
febbraio scorso il partito laburista norvegese ha appoggiato la sua
candidatura al Nobel per la Pace; da poco è stata premiata come
“ambasciatrice di coscienza” da Amnesty International e la scorsa
settimana ha ricevuto anche il prestigioso premio Sakarov, che le
verrà consegnato il prossimo 20 novembre.
Il
Premio Sakarov prende il nome dallo scienziato e dissidente
sovietico, Andrei Sakarov, ed è stato istituito nel 1988 dal
Parlamento europeo per onorare proprio le persone che dedicano la
propria vita alla difesa dei diritti umani e l'eurodeputato ALDE,
Andrea Zanoni, ha spiegato il motivo dell'assegnazione del premio a
Malala: “ Malala Yousafzai ha sfidato il regime talebano nel
distretto di Swat, in Pakistan, con la sua battaglia per i diritti
delle donne a ricevere un'adeguata istruzione. A simili donne va la
riconoscenza dell''Europa per aver condotto una battaglia così
fondamentale per tutte le donne del mondo. Grazie al suo coraggio e
alla sua forza, migliaia di donne in Pakistan hanno raggiunto una
maggior consapevolezza dei propri diritti e dell'importanza di
ricevere un'istruzione”.
Malala è
protagonista anche di una bella mostra dell'artista Marcello Reboani,
inaugurata a Lecce il 25 ottobre - presso il Must – dopo il debutto
a Firenze e che sarà allestita nel Salento fino al 26 novembre.
Il
titolo: “ Ladies for human rights”. Curata da Melissa Proietti -
in collaborazione con Rfk Center for Justice and Human Rights Europe
- il percorso si snoda in 18 ritratti materici, in tecnica mista, di
figure femminili che, nel corso del tempo, hanno operato per
l'affermazione e la tutela dei diritti umani, sociali e civili di
tutte e di tutti. Tra le donne rappresentate: Madre Teresa di
Calcutta e Annie Lennox, Rita Levi Montalcini e Lady Diana, Maria
Montessori e Audrey Hepburn. Le più giovani, Malala e Anna Frank,
rappresentano il valore didattico dato all'iniziativa che si rivolge
a tutti, ma in particolar modo, agli studenti per sensibilizzarli sui
temi dei diritti umani.
Etichette:
afghanistan,
bambine,
Diritti umani,
diritto all'istruzione,
donne,
Europa,
Human rights,
Malala,
minori,
mostra,
Pakistan,
premio,
ragazze,
sakarv,
scuola,
società,
talebani
giovedì 24 ottobre 2013
Le foto di Mauro Prandelli: per continuare a riflettere sul tema delle migrazioni
Dal 17
al 20 ottobre 2013 si è tenuto, a Lodi, il Festival
della fotografia etica:
“etica” una parola, un aggettivo che indicano un comportamento
oppure una scelta. Una parola, un aggettivo ormai in disuso.
Le
immagini delle numerose esposizioni che hanno arricchito il programma
della manifestazione (www.festivaldellafotografiaetica.it)
hanno aperto squarci sul
mondo e sull'attualità, ma soprattutto nella mente e nelle
coscienze di chi le ha potute vedere. Interessantissima, ad esempio,
la mostra intitolata “Battle to death” di Fabio Bucciarelli,
vincitore del World Report Award (e di altri premi prestigiosi
internazionali) con il suo sguardo attento e critico sulla Siria;
ricordiamo anche la mostra organizzata dal CESVI “Libya-Off
the Wall”; così come “Trieste: storie a parte” sul disagio
mentale di Carlo Gianfierro.
L'Associazione
per i Diritti Umani ha visitato il festival e ha voluto registrare,
per voi, l'incontro di presentazione di un'altra mostra molto
importante: EVROS PORTA
ORIENTALE d'EUROPA. Un muro contro l'immigrazione,
del fotografo Mauro Prandelli.
Un
fiume, l'Evros, che separa la Grecia dalla Turchia: è diventato una
delle vie preferenziali per l'immigrazione verso l'Europa cosiddetta
"ricca" e, nel 2012, Frontex, forza militare formata e
sostenuta dall'Unione Europea, ha dato via al progetto "Poseidon"
teso a controllare il flusso migratorio.
Il
fotografo Mauro Prandelli è stato sull'Evros, ha conosciuto e
ritratto alcuni migranti, ha riportato, nelle sue immagini, paure,
difficoltà, sogni e speranze.
E in
questo video racconta quegli incontri e il suo lavoro.
Ringraziamo
tantissimo Mauro Prandelli per averci permesso di condividere con i
nostri lettori questo utile approfondimento (www.mauroprandelli.com)
(Potete
visionare il filmato e scoprire gli altri nostri video anche sul
canale dedicato YOUTUBE dell'Associazione per i Diritti Umani)
Etichette:
Bucciarelli,
Cesvi,
dittatura,
etica,
Festival,
fotografia,
Grecia,
guerra,
immagini,
immigrati,
immigrazione,
lavoro,
libia,
Mauro Prandelli,
migranti,
migrazione,
mondo,
premio,
Siria,
Turchia
sabato 13 aprile 2013
Una poesia (una denuncia, uno sfogo) di Paul Polansky, insignito, nel 2004, del premio Human Rights Award
Paul
Polansky, giornalista, poeta, scrittore, fotografo e antropologo, ma
anche x pugile e giocatore di football americano. Scappa dalla guerra
in Vietnam e arriva in Spagna e girerà l'Europa, seguendo le sue
radici vichinghe: agli inizi degli anni '90 inizia un percorso di
ricerca sulle origini della propria famiglia che porterà alla luce
l'esistenza del campo di concentramento di Lety, in Repubblica Ceca;
nel 1999 viene ingaggiato dalle Nazioni Unite e inviato in Kosovo
come mediatore tra le istituzioni e i rom perseguitati e continuerà
a lottare affinché i rom, cacciati dagli estremisti albanesi,
possano uscire dai campi profughi, costruiti su terreni inquinati dal
piombo e altri metalli pesanti; nel 2004, Gunther Grass gli consegna
il premio Human Rights Award.
Attualmente
Paul Polansky vive a Nish, in Serbia dove prosegue la sua attività
nella difesa dei diritti umani anche attraverso lo strumento
audiovisivo: il suo ultimo documentario, Gipsy Blood, è
visibile su you tube ed è stato premiato al Golden Wheel
International Film Festival di Skopje.
Paul Polansky ci ha regalato la poesia (uno sfogo, una denuncia) che pubblichiamo qui di seguito.
WHY
|
PERCHE’
|
|
|
Why
|
PERCHE’
|
In
the 21st
century |
Nel
21mo secolo
|
Has
the German govt
|
Il
governo tedesco
|
Invested
|
Ha
investito
|
½
million euros
|
½
milione di euro
|
In a
Gypsy camp
|
In un campo di
zingari |
Built
on toxic wasteland
|
Costruito su
un’area abbandonata tossica |
Where
everyone is being
|
Dove
tutti muoiono avvelenati? |
poisoned?
|
|
|
|
Why
|
Perchè
|
In
the 21st
century |
Nel
21mo secolo
|
Has
the German govt
|
Il
governo tedesco
|
Deported
from Deutschland
|
Ha
espulso dalla Germania |
Kosovo
Gypsies
|
Zingari
kosovari
|
Who
end up
|
Che
sono finiti
|
In
this camp
|
In
questo campo
|
Where
every child is born
|
Dove tutti i
bambini sono nati
|
With
irreversible brain damage…
|
Con danni
cerebrali irreversibili
|
If
they live.
|
E non si sa se
sopravviveranno |
|
|
Why
|
Perchè
|
In
the 21st
century |
Nel
21mo secolo
|
Has
the German govt
|
Il
governo tedesco
|
And
their implementing partner
|
E il
suo socio
|
The
United Nations
|
Le
Nazioni Unite
|
Ignored
pleas---
|
Hanno
ignorato la supplica |
Yes,
pleas for ten years---
|
Sì, per dieci
anni hanno ignorato la supplica |
From
the World Health Organization
|
Dell’Organizzazione
Mondiale della Sanità |
To
immediately evacuate and medically treat
|
Di evacuare e
curare immediatamente |
Children
and pregnant women
|
Bambini e donne in
stato interessante |
The
most vulnerable
|
I più
vulnerabili
|
Who
have the highest lead levels
|
Quelli che hanno i
più alti livelli di acetato di piombo
|
In
medical literature?
|
Nella
letteratura medica?
|
|
|
Why
|
Perchè
|
In
the 21st
century |
Nel
21mo secolo
|
Has
the German govt
|
Il
governo tedesco
|
Become
involved in a camp
|
Si
è trovato coinvolto in un campo
|
Where
almost 90 Gypsies have died
|
Dove
circa 90 zingari sono morti
|
Where
the lead poisoning has caused
|
Dove il veleno
dell’acetato di piombo ha causato
|
Hundreds
of miscarriages?
|
centinaia di
aborti? |
|
|
Why
|
PERCHE’
|
In
the 21st
century |
Nel
21mo secolo
|
Has
the German govt
|
Il
governo tedesco
|
Ignored
the pleas---
|
Ha
ignorato la supplica |
Yes,
the pleas----
|
Sì,
la supplica |
Of
the European Council’s
|
Della Commissione
Europea
|
Commissioner
for Human Rights
|
per I Diritti
Umani |
Begging
Germany
|
Che
pregava la Germania
|
Only
Germany
|
Solo
la Germania
|
Not
to deport anymore Gypsies
|
Di non espellere
più gli zingari |
Back
to Kosovo
|
E deportarli in
Kosovo |
Where
they might
|
Dove
avrebbero potuto
|
end
up
|
Finire
|
In
this deadly camp?
|
In questo campo di
morte? |
|
|
Why
|
PERCHE’
|
In
the 21st
century |
Nel
21mo secolo
|
Has
the German govt
|
Il
governo tedesco
|
Turned
a blind eye
|
Non
ha voluto
vedere |
To
the documentary films
|
I
documentari
|
Made
about this lead-poisoned camp
|
Riguardanti questo
campo avvelenato con il piombo |
By
the BBC,
|
girati dalla BBC |
Norwegian
TV, French TV,
|
dalla TV
norvegese, da quella francese |
Australian
TV
|
Dalla TV
australiana |
And
even German TV?
|
E perfino da
quella tedesca? |
|
|
Why
|
PERCHE’
|
In
the 21st
century |
Nel
21mo secolo
|
Is
the German govt---
|
Il
governo tedesco
|
This
time an elected
|
Un
governo regolarmente
eletto |
And
supposedly democratic govt---
|
E presumibilmente
un governo democratico |
Targeting
Gypsies
|
Prende di mira gli
zingari |
Threatening
Gypsies
|
Li
minaccia
|
Transporting
Gypsies
|
Li deporta |
Once
again
|
Ancora una volta |
Against
their will
|
Contro
la loro volontà
|
To a
camp
|
In un campo |
That
newspapers & magazines
|
Che
quotidiani e riviste
|
World-wide
|
Di
tutto il mondo
|
Have
called
|
Hanno
definito |
A
“death” camp?
|
Un
campo di morte?
|
|
|
WHY?
WHY? WHY? |
PERCHE’?
PERCHE’? PERCHE’? |
|
|
Paul Polansky |
Paul Polansky |
|
|
(Traduzione
a cura di EsseBi)
E' da
poco uscito nelle libreria italiane anche l'ultimo romanzo di Paul
Polansky, dal titolo Il pianto degli zingari, Volo
Press edizioni.
Danica
studia a Monaco ed è brava: forse diventerà un'insegnante o forse
una dottoressa. Ma una mattina d'inverno deve abbandonare tutto:
casa, scuola, amici e futuro per salire su un aereo diretto a
Pristina, insieme ad altri rom come lei.
Ritorna
l'incubo sepolto dieci anni prima quando suo padre aveva gridato
“Avna o nemcoja”: “Arrivano i tedeschi!”: era il giugno del
1999, ma quelle parole riportavano alla mente i ricordi del nonno e
della seconda guerra mondiale, con le sue atrocità. Nel '99, invece,
erano stati i vicini di casa albanesi a cacciare di casa lei (che
all'epoca aveva sette anni) e la sua famiglia.
Danica
adesso è più adulta e più consapevole e si chiede: ma non sono
tedesca? Studio in Germania, ho vinto anche una borsa di studio, ho
creato dei legami...Un racconto in versi, il punto di vista di
un'adolescente per parlare di dignità umana, di rispetto, di
cittadinanza, di inclusione, con una sensibilità e un'attenzione
particolare alla tutela dei diritti dei minori.
Etichette:
albanesi,
diritti,
discriminazioni,
Festival,
film,
Gibspy Blood,
Human rights Award,
Kosovo,
libro,
minori,
Nazioni Unite,
Paul Polansky,
poesia,
premio,
Rom,
Serbia,
Stati Uniti,
zingari
Iscriviti a:
Post (Atom)