Visualizzazione post con etichetta Occidente. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Occidente. Mostra tutti i post

domenica 15 novembre 2015

Amedeo Ricucci commenta il terrorismo a Parigi (e non solo)

Ci è pervenuto anche il commento del giornalista Amedeo Ricucci che ringraziamo.
Ringraziamo di cuore i giornalisti e gli esperti che ci stanno inviando il loro contributo, aiutandoci a capire.
 
 
La strage di Parigi rappresenta un salto di qualità nella strategia del terrore perseguita con accanimento dai fondamentalisti islamici di DAESH, il sedicente Califfato Islamico creato da Abu Bakr al Baghdadi. Finora, a portare la morte in Occidente era stati dei lupi solitari, che agivano individualmente o in piccoli gruppi. Due giorni fa, invece, a Parigi, è entrato in azione il branco. Un branco famelico e delirante, per il quale quest'attacco è stato solo "l'inizio della tempesta". Di fronte a questa sfida - e nonostante il bilancio assai pesante della mattanza di Parigi - la Francia e con essa l'Europa non possono permettersi di reagire con la logica dell'occhio per occhio, dente per dente, perseguendo cioè la vendetta. Faremmo il gioco dell'ISIS, che vuole lo scontro di civiltà e che da questo scontro trarrebbe un'innegabile legittimazione. Allo stesso tempo, l'Europa non permettersi di derogare al suo sistema di valori: il restringimento delle libertà individuali e dei diritti civili in risposta alla minaccia terroristica - come già avvenuto negli USA dopo l'11 settembre - sarebbe un drammatico autogol, in grado di consegnare nelle mani dell'ISIS quelle fasce delle comunità musulmane che qui da noi sono ai margini della società, non integrate o sofferenti. Quello che dobbiamo fare è prosciugare il lago all'interno del quale nuotano i terroristi e si alimenta il fascino della guerra santa, del jihad. Se lo alimentiamo, invece, peggio ancora se lo trasformiamo in un mare - criminalizzando i musulmani - si rischia di grosso.

Farid Adly commenta la strage di Parigi

L'Associazione per  i Diritti umani ringrazia molto il giornalista Farid Adly per questo suo commento alla strage di Parigi.
 
 
 
La strage di Parigi è un crimine orrendo, che dimostra la lontananza abissale di questi terroristi dalla vera fede islamica. E' stata presa di mira gente innocente che stava godendosi la vita. Sono stati colpiti i simboli della cultura, dello sport e dell'intrattenimento sociale. Gli jihadisti esprimono così il loro odio per la vita, in un macabro scenario di morte e distruzione. Sono una minoranza nel mondo arabo e islamico, ma una minoranza rumorosa che trova amplificazione in Occidente presso i sostenitori dello scontro tra civiltà. Certi sciacalli per un pugno di consensi sono capaci di addossare le responsabilità di ciò che è accaduto a Parigi sulle spalle degli immigrati di origine araba e islamica. Non è un'operazione nuova. La scena politica Italiana non è nuova a simili operazioni. E' stata già tentata negli anni ottanta, ma fallì miseramente.
La nostra condanna al terrorismo, noi maggioranza degli arabi e dei musulmani, cittadini e residenti in questo Paese, non è dettata né da un senso di colpa, né dal timore di essere additati, ma dal nostro credo democratico e progressista. Già ho espresso questo mio convincimento in un appello del Novembre 2003, in occasione del dialogo cristiano islamico e lo ripeto oggi: "Ora basta! Ogni nostro ulteriore silenzio è complice" e a questo appello vorrei ricordarne un altro, lanciato nel 2001, "OCCIDENTALI, NON VENDETECI PIU' ARMI!". La crisi che attanaglia la nostra regione è originata dalla presenza di ingenti risorse energetiche; ricchezze che si sono rivelate una catastrofe e hanno destabilizzato la regione, che è la prima mondiale per l'import di armamenti.

venerdì 10 luglio 2015

Medioriente e Occidente: un equilibrio possibile?


Cari amici,

l'Associazione per i Diritti Umani pubblica, oggi, il video dell'incontro che ha organizzato – nell'ambito della manifestazione “D(i)RITTI al CENTRO!” - con la giornalista Laura Silvia Battaglia.

Medioriente e Occidente: un equilibrio possibile?

Tanti gli argomenti trattati: le basi del terrorismo dell'Isis, la situazione in Iraq e Yemen, il ruolo dell'Iran, la religione strumentalizzata, la condizione e il ruolo delle donne, la stampa nazionale e internazionale.

Ringraziamo ancora molto Laura Silvia Battaglia per la sua presenza e generosità.





lunedì 20 aprile 2015


L'Associazione per i Diritti Umani



in collaborazione con il Centro Asteria



PRESENTA



DIRITTI AL CENTRO:


MEDIORIENTE e OCCIDENTE: un EQUILIBRIO POSSIBILE ?



Alla presenza di Laura Silvia Battaglia (giornalista e videomaker)



DOMENICA 26 APRILE



ORE 17.30

presso



CENTRO ASTERIA

Piazza Carrara 17.1, ang. Via G. Da Cermenate (MM Romolo, Famagosta)



L’Associazione per i Diritti Umani presenta il terzo appuntamento della serie di incontri dal titolo “DiRITTI AL CENTRO”, che affronta, attraverso incontri con autori, registi ed esperti, temi che spaziano dal lavoro, diritti delle donne in Italia e all’estero, minori, carceri, immigrazione...

In ogni incontro l’Associazione per i Diritti Umani attraverso la sua vicepresidente Alessandra Montesanto, saggista e formatrice, vuole dar voce ad uno o più esperti della tematica trattata e, attraverso uno scambio, anche con il pubblico, vuole dare degli spunti di riflessione sull’attualità e più in generale sui grandi temi dei giorni nostri.



In questo incontro dal titolo “Medioriente e Occidente: un equilibrio possibile?si parlerà di Medioriente attraverso l'approfondimento della giornalista Laura Silvia Battaglia che – attraverso le sue opere scritte e documentaristiche – proporrà un viaggio dall'Iraq allo Yemen. Laura Silvia Battaglia vive e lavora tra Italia e Yemen. Gli argomenti saranno tanti: equilibri geopolitici, condizioni di vita delle popolazioni in guerra, Islam religioso e politico e il ruolo dell'informazione.





LAURA SILVIA BATTAGLIA



Laura Silvia Battaglia giornalista professionista freelance e documentarista, è nata a Catania e vive tra Milano e Sanaa (Yemen). Corrisponde da Sanaa per l'agenzia video-giornalistica americano-libanese Transterra Media, e per gli americani The Fair Observer e Guernica Magazine. Per i media italiani, collabora stabilmente con quotidiani di carta stampata (Avvenire, La Stampa), network radiofonici (Radio Tre Mondo, Radio Popolare, Radio In Blu), televisione (TG3 - Agenda del mondo, Rai News 24), magazine (D - Repubblica delle Donne, Popoli, Lookout), agenzie (Redattore Sociale), siti web (TGcom 24, Lettera43, Assaman). Ha iniziato a lavorare nel 1998 per il quotidiano La Sicilia di Catania. Dal 2007 si dedica al reportage in zone di conflitto (Libano, Israele e Palestina, Gaza, Afghanistan, Kosovo, Egitto, Tunisia, Libia, Iraq, Iran, Yemen, confini siriani). Ha girato, autoprodotto e venduto cinque video documentari. Il primo, Maria Grazia Cutuli. Il prezzo della verità, ha vinto il Premio Giancarlo Siani 2010. Ha inoltre ricevuto il Premio Maria Grazia Cutuli 2013 come giornalista siciliana emergente. Dal 2007 insegna al master in Giornalismo dell'Università Cattolica di Milano.

lunedì 23 marzo 2015





STARE ANCORA INSIEME



In solidarietà con la TUNISIA

Milano, Piazza Duomo

 




MARTEDI 24 marzo, ore 18.00
 



Tunisi, dopo Parigi. E ogni giorno, dall’Afghanistan alla Nigeria. Poco più di due mesi fa, a Milano, abbiamo sentito la necessità di stare insieme e ascoltare la voce di tutti quelli, e sono tanti, che di fronte alla morte e alla violenza rispondono con il dialogo, la solidarietà e la pratica dei diritti.
Oggi, come allora, è importante unire quelli che non fanno distinzione tra le vittime, da Utoya a Baghdad, passando per il Mediterraneo. Perché l’attacco nel cuore di una città europea è doloroso come quello in una capitale del Nord Africa. Non c’è alcuna differenza, per chi crede che diritti, democrazia e libertà siano l’unico antidoto alla guerra, per spezzare il cerchio della violenza e del terrore. Dove l’odio divide, i diritti possono unire.
Per non cedere alla paura e all’odio, alle divisioni e alla violenza, vi aspettiamo martedì 24, in piazza Duomo alle 18.





I primi promotori : Acli, Amnesty International, Anpi, Arci, Associazione PONTES dei tunisini in Italia, Camera del Lavoro Milano, Cost. Beni Comuni, Emergency, Libera mi, Mani Tese, Associazione per i Diritti Umani, Milano senza frontiere, Altra Europa mi, PD mi, PRC mi, SEL mi



Per adesioni:
https://www.facebook.com/events/364247953761677/



****Il presidio si terrà mentre a Tunisi sarà in corso la manifestazione di apertura del Foro Social Mondiale 2015. Sotto il comunicato nel quale gli organizzatori confermano la manifestazione di apertura del Forum sotto lo slogan: I popoli del mondo contro il terrorismo.



La Rete della Pace ha chiesto a tutte le realtà di “imitare” ciò che si farà a Milano, cioè la manifestazione in contemporanea a quella di Tunisi, in altre città di Italia.




COMUNICATO DEL COMITATO ORGANIZZATORE DEL FORO SOCIALE MONDIALE DI TUNISI 24-28 MARZO 2015




Il Comitato Organizzatore del Forum Sociale Mondiale ha tenuto stamattina una riunione urgente per esaminare gli ultimi elementi dopo l’attentato terrorista al Museo del Bardo.


Avendo preso atto dei numerosi messaggi e comunicati di sostegno alla Tunisia, provenienti dai diversi attori sociali e civili di tutto il mondo, che hanno rinnovato la loro totale adesione allo svolgimento del Forum Sociale Mondiale a Tunisi, e la loro volontà di partecipare a questo momento eccezionale di mobilitazione popolare in Tunisia, nella regione e nel resto del mondo contro il terrorismo,


Il comitato organizzatore attore informa l'opinione pubblica mondiale che:




*Tutte le organizzazioni hanno confermato la loro partecipazione alle attività programmate senza alcun cambiamento e modifica: questo dimostra la forza della solidarietà effettiva dei militanti altermondialisti con la Tunisia, il suo popolo, le famiglie delle vittime di differenti nazionalità. E l’attaccamento ai principi della pace, della solidarietà ai popoli, della democrazia, e della libertà.



*Una manifestazione si terrà in occasione della cerimonia d'apertura martedì 24 marzo 2015 alle 16.00, che partirà dalla piazza Bab Saadoun in direzione del Museo del Bardo con le parole d’ordine:


I popoli del mondo contro il terrorismo




*Verrà creata una commissione in seno al Consiglio Internazionale per la redazione di una "carta internazionale altermondialista del Bardo di lotta contro il terrorismo".

 *Il comitato chiama a un concentramento 26 marzo 2015 al campus Farhat Hached a partire da mezzogiorno.


Il Comitato Preparatorio del Forum Sociale Mondiale rinnova il suo appello a intensificare la mobilitazione di tutte le forze sociali, civili, altermondialiste e pacifiche per fare del Forum Sociale mondiale di Tunisi un punto di svolta la creazione di un rapporto di forze favorevole alla pace, alla democrazia, alla giustizia sociale nella regione e nel mondo.



 Per il Comitato Preparatorio del Forum Sociale Mondiale

 Abderrahmane Hedhili




Non cediamo il passo al terrore


Noi, associazioni, sindacati, movimenti sociali coinvolti nella dinamica del Forum Sociale Maghreb proviamo orrore per l'atto terrorista, criminale e barbaro perpetrato al Museo del Bardo a Tunisi il 18 marzo 2015.


Questo atto criminale, in flagrante negazione dei valori lodati dalle diverse religioni, carte e patti internazionali, mira a gettare nel caos il paese da dove è partita la speranza di un' Altra Tunisia, di un Altro Marghreb alla vigilia del Forum Sociale Mondiale.


Mira a distruggere le fondamenta del rilancio economico della Tunisia, della sua esperienza nella risoluzione pacifica dei conflitti, della sua transizione verso la democrazia. Mira a imporre il pensiero unico, a seminare il terrore nei visitatori della Tunisia.


Questo atto barbaro si scrive nella stessa linea dell'assassinio di Choukri Belaid avvenuto alla vigilia del Forum Sociale Mondiale nel 2013.


Condanniamo questo atto criminale ed esprimiamo la nostra solidarietà con le vittime, le famiglie delle vittime e ci auguriamo la pronta guarigione dei feriti, presentiamo le nostre più sentite condoglianze ai familiari dei defunti, al popolo tunisino per tutti popoli che subiscono il tormento degli atti terroristici;


Facciamo appello alla resistenza e alla solidarietà contro tutti gli atti terroristici e criminali che colpiscono il diritto alla vita e non fanno altro che attizzare ed estendere la violenza, il risentimento e l’odio;


Ricordiamo che solo la cultura del dialogo e del rispetto al diritto alla diversità, costruisce argine contro la barbarie ed è l'unico modo per assicurare la coesistenza fra gli individui e le comunità


Chiamiamo alla più larga mobilitazione e partecipazione al Forum Sociale Mondiale 2015 che si terrà a Tunisi tra il 24 e il 28 marzo 2015 per dire che noi restiamo in piedi e non arretriamo di un passo davanti al terrore


Facciamo appello ai movimenti sociali di tutto il mondo per una manifestazione a Tunisi nel corso del Forum Sociale Mondiale 2015 per portare il nostro sostegno al popolo tunisino, per esprimere con forza il nostro attaccamento e la nostra aspirazione alla democrazia, al rispetto della diversità, alla giustizia sociale, alla libertà, a un altro mondo possibile e necessario.


Il comitato di coordinamento del Forum Sociale Maghreb




mercoledì 4 marzo 2015

Trappola Gaza: la verità al centro dell'informazione





Trappola Gaza racconta l’operazione Margine di Protezione, condotta a luglio e agosto scorso dall’esercito israeliano nella Striscia in risposta al rapimento e all’omicidio di tre adolescenti israeliani in Cisgiordania. Il bilancio è di oltre 2100 vittime palestinesi; 66 soldati e 6 civili israeliani. Tra le vittime anche il reporter Simone Camilli e altri 15 giornalisti. In un contesto così complesso e difficile l’informazione si trasforma in un’arma a totale discapito della verità: parte da qui la riflessione di Gabriele Barbati nel suo ebook multimediale intitolato Trappola Gaza – Nel fuoco incrociato tra Israele e Palestina.



Abbiamo rivolto, per voi, alcune domande a Gabriele Barbati che ringraziamo per la sua disponibilità.






Sei stato testimone di quello che è successo nel giungo 2014: la guerra tra Hamas e Isralele che ha portato alla morte di più di 2000 persone. Puoi condividere, almeno in parte, la tua testimonianza sull'accaduto?



Ho vissuto tre anni tra Palestinesi e Israeliani e seguito due guerre a Gaza, eppure le tre settimane trascorse nella Striscia la scorsa estate sono state inaudite. I bombardamenti israeliani hanno raso al suolo intere urbane, in precedenza abitate da migliaia di persone. Avevo visto un simile grado di distruzione solo durante i terremoti terribili che ho raccontato da giornalista in Estremo Oriente. Già dal principio del conflitto, da Gerusalemme e poi da Gaza città, si capiva che la guerra del 2014 sarebbe diventata la più sanguinosa di sempre. Profughi a migliaia, ospedali al collasso, nessun posto dove rifugiarsi (l’embargo e il blocco navale di Israele e Egitto negano ogni possibilità alla maggior parte dei palestinesi di lasciare Gaza). I numeri di morti, feriti, invalidi di luglio e agosto testimoniano da soli cosa è stato e a sei mesi di distanza, in mancanza di accordi sulla ricostruzione o sul futuro politico di Gaza - tra Israele, Hamas e l’Egitto che fa da mediatore - la situazione è purtroppo peggiorata.




Quali sono, a tuo parere, gli interrogativi che l'Occidente e i Paesi dell'area si devono porre a proposito della situazione tra Israele e Palestina, ma anche in merito alla situazione politica interna alla Palestina stessa?



Dal lato israeliano, l’interrogativo rimane quello che il presidente americano Barack Obama pose durante la visita a Gerusalemme nel 2013: Israele, che si identifica come stato democratico e ebraico, potrà rimanere tale nel lungo periodo senza risolvere la questione palestinese? La risposta finora è stata di chiusura totale: maggiori controlli e maggiore violenza. L’intervento militare (battezzato Operazione Margine di Protezione in inglese ma in ebraico, significativamente, Scogliera Salda) ha superato ogni livello visto in precedenza, quanto a portata dei bombardamenti e scarsa considerazione degli obiettivi, che hanno incluso ambulanze, ospedali e persino scuole delle Nazioni Unite dove si raccoglievano i profughi. Con l’innalzamento dello scontro, motivato anche da una maggiore capacità di Hamas di combattere una guerriglia urbana, sono morti più civili a Gaza, più soldati israeliani (in maggioranza ventenni di leva) e la paura dentro Israele è esplosa. Quali assurdità raggiungerà la prossima guerra? E’ possibile fare peggio dell’ultimo conflitto? O è il caso di fare dei passi indietro, a cominciare dalla rimozione dell’embargo, che di fatto ha peggiorato la situazione di Gaza senza portare maggiore sicurezza?



Gli Stati uniti e l’Unione Europea dovrebbero trovare essi stessi una risposta a questa domanda, soprattutto quando decidono i primi di sostenere il governo di Israele e la seconda soltanto di ammonirlo con dichiarazioni di circostanza.



Le domande esistenziali non risparmiano naturalmente i palestinesi: non è arrivato il tempo di capire che la disperazione, per quanto comprensibile, se tramutata in violenza e resistenza armata da parte di Hamas e Jihad Islamica, non porta da nessuna parte? Quante persone in più sono morte a causa delle ritorsioni ai razzi lanciati dalla Striscia? Quelle che Hamas chiama “vittorie” – tenere in scacco la popolazione e l’esercito di Israele con razzi e combattenti – hanno accresciuto benefici e benessere per la popolazione di Gaza? Molti a Gerusalemme dicono che sarebbe anche il caso di sciogliere l’Autorità Nazionale Palestinese, il para-governo istituto dagli Accordi di Oslo e oggi guidato da Mahmoud Abbas, presidente eletto che scansa da diversi anni nuove elezioni, rinviandole. Quell’enorme macchina burocratica ingoia aiuti finanziari e agisce involontariamente da filtro alle colpe dell’occupazione Israeliana della Cisgiordania, di Gerusalemme Est e indirettamente di Gaza, senza neanche riuscire fino in fondo a richiamare Israele alle proprie responsabilità nelle sedi internazionali.



Lo scorso 19 febbraio 2015 è stato richiesto il riconoscimento dello Stato di Palestina...



L’Italia si appresta a votare una mozione parlamentare per indicare al governo di riconoscere lo stato Palestinese. Lo hanno fatto altri parlamenti europei l’anno scorso, e quello dell’Unione Europea, per quanto esclusivamente in linea di principio e condizionando il riconoscimento alla riapertura di negoziati bilaterali tra Israeliani e Palestinesi. La pressione internazionale – dalle iniziative nazionali a quelle in ambito ONU – è probabilmente l’unica maniera di smuovere chi ha il coltello dalla parte del manico in questo conflitto e anche la maggiore responsabilità morale di una soluzione, ossia Israele. La serie di votazioni in Francia, Irlanda, Spagna dello scorso autunno andava in questa direzione, ma certo un voto in Italia così in ritardo suona solo come uno scarico di coscienza (al pari dei soldi spesi annualmente per progetti di cooperazione in Palestina di scarsa efficacia nel lungo periodo). Valuti l’Europa piuttosto di intaccare davvero l’invulnerabilità israeliana: la decisione di non includere più nei programmi e nei fondi europei soggetti ed entità residenti negli insediamenti è stata un passo importante. Si mantenga la coerenza anche nel resto dei rapporti bilaterali e diplomatici con Israele e con l’Autorità nazionale Palestinese, a cui andrebbero richiesti trasparenza e risultati.




Come hanno vissuto, quei giorni, i giornalisti stanziati a Gerusalemme?Quali sono le notizie che la stampa, italiana e occidentale, non fornisce ?



I corrispondenti di base a Gerusalemme, e i tanti giornalisti accorsi da tutto il mondo, hanno affrontato l’ennesimo rigurgito di violenza israelo-palestinese seguendo il vecchio canovaccio di questo conflitto ormai secolare. Molti sono rimasti a Gerusalemme, o si sono spostati al sud, raccontando il lato israeliano. Altri, qualche centinaio, sono entrati a Gaza per raccontare quanto accadeva nella Striscia, ognuno valutando a modo proprio e attentamente i pericoli di una guerra che stavolta non ci ha risparmiato. I bombardamenti sono stati quotidiani, cosi come gli attacchi da parte dei combattenti di Hamas attraverso i tunnel, convincendo alcuni a inviare le proprie corrispondenze dagli hotel, altri dalle strade di Gaza accettando i rischi, altri ancora dalle zone di confine con Israele dove si combatteva corpo a corpo e piovevano i missili. Di questo conflitto non siamo stati osservatori, come nel novembre del 2012, ma parte coinvolta e diversi di noi sono morti.
La mia sensazione del tutto personale è che quest’ultimo conflitto abbia estremizzato l’approccio ideologico con cui la stampa internazionale da tempo affronta il conflitto tra Israeliani e Palestinesi. A questo tema ho dedicato due capitoli del mio libro (Trappola Gaza. Nel fuoco incrociato tra Israele e Palestina http://inform-ant.com/it/ebook/trappola-gaza.-nel-fuoco-incrociato-tra-israele-e-palestina ) perché ne sono rimasto scioccato, umanamente e professionalmente. Molti colleghi hanno preferito raccontare esclusivamente la distruzione e il dramma umano della guerra, una prassi consolidata in diversi conflitti. Altri hanno provato col passare del tempo a indagare anche le responsabilità di questa guerra, cercando di documentare i possibili crimini commessi dall’esercito Israeliano e dall’ala militare di Hamas, le Brigate Qassam. Sono entrambe scelte eticamente accettabili, contrariamente a quelle fatte da molti altri. Quanti hanno messo una causa, un’ideologia, un’identità – o come si voglia chiamarla, sia pro-Israele sia pro-Palestina – davanti alla propria professionalità, trasformandosi in avvocati, difensori, o strilloni di una propaganda di parte. E’ successo alla maggior parte dei media israeliani e palestinesi, a buona parte di quelli americani, a un certo numero di quelli europei. Qualche collega lo ha fatto coscientemente, qualche altro cedendo alle pressioni costanti e continue di personalità e organizzazioni filo-Israeliane nel mondo o alle intimidazioni dentro Gaza di uomini della sicurezza di Hamas. Sta di fatto che al pubblico alla fine è arrivato il solito pasto precotto: quello preparato dalla comunicazione israeliana e quello offerto anche stavolta dal mondo filo-palestinese. La stessa narrativa di sempre, una coperta corta tirata da un lato o dall’altro, un carnaio in cui anche i pezzi di verità comparsi su Twitter o Facebook sono stati affogati da attivisti on line di segno opposto. Come sempre, la grande confusione sui media tradizionali e social – a causa del cattivo giornalismo o seminata di proposito dalle parti in causa – ha costretto tanti che nutrivano una curiosità genuina o un interesse “laico” a sapere delle vicende di Gaza e di Israele a brancolare in un’incolpevole ignoranza.










martedì 6 gennaio 2015

Confronti mediterranei di donne



di Ivana Trevisani



Quando uno sguardo di donna scruta il mondo, sempre si posa sulla vita, anche se la realtà a cui guardare è quella belligerante dei conflitti armati e degli scontri esplosivi tra diversità rese irriducibili.

E' quanto ancora una volta si è realizzato a Milano lo scorso novembre, all'incontro “Sguardi di donne sui fondamentalismi e i conflitti in medio-oriente”, nello scambio di riflessioni tra le donne al tavolo di relazione: la cooperante italiana Irene Viola, l'operatrice sociale libanese Tamara Keldani, la Tunisina Ouejdane Mejiri da anni in Italia, insegnante al Politecnico di Milano e la Siriana Souheir Katkhouda, da vent'anni in Italia presidente delle donne musulmane d'Italia.

Ognuna di loro, nonostante il titolo, ha scelto di parlarci delle pratiche di vita che le donne stanno comunque agendo nei luoghi associati ormai soltanto, nei media e nell'immaginario collettivo occidentali, ad azioni di morte.

Certo queste donne, da sempre attive nel politico sociale dei loro Paesi e in Italia, non hanno ingenuamente rimosso la questione della violenza dilagante, ma l'hanno riletta nel registro dell'articolazione piuttosto che in quello del giudizio sbrigativo.

Così Viola, con il video dell'agricoltrice libanese Elham, che mostra fiera i frutti della sua attività agraria di cui sottolinea la rilevanza per una possibile ripresa di vita di una società, un'economia e un ambiente devastati dalle guerre infinite che hanno attraversato il Libano, ci ha riportate alla straordinaria potenza delle donne per l'amore e la cura della terra, che genera vita ed è amore per il mondo. Ma Elham ha voluto anche non scivolare sul valore di rela zione tra donne che sanno comprendersi e camminare insieme, confermandone anzi energicamente la straordinaria rilevanza nel ribadire la portata, per lei vitale, dell'incontro con il lavoro della cooperante Viola, di quella cooperante, che le ha consentito di pensare, progettare e realizzare il suo proposito di nuova vita dopo le lacerazioni patite da lei e dalla gente nel suo Paese.

Keldani da parte sua, attraverso la restituzione di senso del lavoro sulla differenza sessuale, soprattutto nelle zone rurali del Libano, con la sua associazione Les Amis des Marionettes, ci ha rivelato come agendo attraverso il simbolico di giochi di ruolo, sia stato possibile radicare nei vissuti di ragazzi e ragazze partecipanti ai laboratori, il senso e il valore di tale differenza e la potenza dell'essere donna.
Keldani ha voluto inoltre sottolineare come, muovendo dalla consapevolezza guadagnata grazie al progetto dai dalle adolescenti coinvolti, abbiano potuto di rimbalzo consolidarsi anche nel quotidiano delle comunità, il riconoscimento concreto e non di semplice adesione convenzionale alla consuetudine, la convinta certezza che la donna è il pilastro della famiglia e che reggendo l'equilibrio della famiglia può contribuire all'equilibrio dell'intera società. Restando a tema, quanto alla piaga dei matrimoni precoci, indistintamente tutte tutti gli allievi delle scuole coinvolte dai laboratori, hanno saputo con grande lucidità e maturità indiividuare e indicare il danno sociale di una pratica che, non permettendo alla madre troppo precoce di sviluppare appieno il senso di sè, non le consente di educare con pienezza i figli, non potendo trasmettere loro il sentimento della propria identità. E poichè la questione dell'identità è un problema di non poco conto nel tessuto frammentato, lacerato, interrotto dell'attuale società libanese, ne consegue l'enorme portata del guadagno trasmesso per genealogia femminile di quel senso di identità e radicamento a sé che consente di eludere le spinte a derive identitarie rigidamente arroccate a qualsivoglia ideologia totalitaria.

A seguire, Katkhouda ci ha partecipato il suo impegno non solo nel “soccorso” e nell'accoglienza dei suoi, delle sue connazionali in fuga dalla Siria, ma anche e forse soprattutto, stante il sistema informativo del nostro Paese, nel persevante, instancabile lavoro di presenza-testimonianza in ogni occasione possibile, per ricordare a un pubblico disattento e male informato, la tragedia che nel suo paese d'origine sta continuando a consumarsi e a consumare le vite di un intero popolo. Kathouda, presidente delle donne musulmane in Italia, non ha dissertato su veli, arroccamenti o strumentalizzazioni religiose, ma ha detto di sé, di come sta nel mondo, ci ha testimoniato del suo infaticabile impegno ad aprire sempre più fessure nel silenzio che uccide, anche più delle armi, quello che continua a sentire come il suo popolo e ci ha restituito intera la sua potente autorevolezza.

Per concludere, Mejri nel suo intervento ha con forza sottolineato la realtà, pressochè ignorata dal sistema mediatico italiano, dell'agire positivo delle donne al centro del ritrovato protagonismo dell'intera società civile tunisina. E' stato soprattutto il protagonismo delle donne, ha voluto ribadire Mejri, a sostenere il processo di partecipazione sociale alle ultime tornate elettorali, le parlamentari prima e le presidenziali successivamente. Un impegno che ha consentito l'evoluzione politica di avvicendamento, da Ennhada, il precedente governo di cifra religiosa, al nuovo governo non religiosamente orientato. Non solo la presenza attiva delle donne, ma l'intero processo di alternanza che hanno saputo sostenere, sono stati solo sfiorati dal nostro sistema mediatico, forse troppo allineato alla “dittatura del pensiero occidentale”, parole di Mejri, senza troppi dubbi condivisibili.

Che la positività sia la cifra dell'agire delle donne non è certo sogno, ma costituente del reale, è tuttavia possibile riconoscerla solo se si apre lo sguardo, se oltre l’evidenza si accetta di entrare nel profondo delle vicende dove le donne si giocano, scoprendo da dove nascono e verso dove procedono.

Cogliere la forza e l'eccellenza femminile è possibile a patto di affinare la capacità di ascolto necessario e prepararsi a uno sguardo più attento, di aprire la disponibilità autentica “a guardarci l’una con l’altra, a restituirci vicendevolmente l’immagine della nostra eccellenza, a riconoscere la loro e la nostra”, per dirlo con le parole della filosofa Diana Sartori. E “saper fare da specchio all’altra, lì in quel che sta facendo lei, come noi” pur nelle diversità di eccellenza di donna, consente di riconoscere lei e noi stesse.

Per scostarsi dai luoghi comuni e dai pre-giudizi che le vogliono e vedono unicamente oscure donne schiacciate da guerre maschili e da veli inflitti, e che le rendono di fatto evanescenti, le donne dell'altra sponda del Mediterraneo in questo incontro, per dirsi e dirci di sè hanno scelto di eludere la contrapposizione e preferito offrirci la proposta di esperienze e pratiche concrete di vita. I frammenti di storie, vissute in proprio o incontrate in altre donne, dispiegati all'attenzione delle persone presenti, erano tutti con forza orientati a ribadire che, come già la filosofa Hanna Arendt sosteneva, non si è libere da una condizione data, ma si è libere nell'apertura di senso di quella condizione.

Le considerazioni esposte dalle relatrici, accompagnandone le narrazioni, hanno voluto ricordare come le potenti storie di donne offerte al nostro ascolto, più comuni di quanto si voglia o possa credere in Occidente, ci possono insegnare a spostare la prospettiva di lettura, a non concentrarsi sul dolore ma a proiettare uno sguardo diverso sulla tragedia, per trovarvi comunque la vita.
Coniugando le testimonianze dipanate dalle donne nel corso dell'incontro con le parole della riflessione di Sartori è plausibile concludere che in questa urgenza presente, quando la misura maschile mostra la sua incapacità a fare ordine, e quella femminile in questo passaggio si pone come ordinatrice di realtà e finalmente si pone la questione di quale è la misura in un mondo davvero comune”, si può ri-trovare la vita: nella parola, nello sguardo, nelle pratiche, nella misura di donna.

Ciascuna a partire da sé e tutte indistintamente, sempre usando le sue parole, hanno voluto e potuto ancora una volta ricordarci che “se noi donne non sapremo esporci al mondo come misura, il mondo non avrà misura”.


giovedì 23 ottobre 2014

Il caffè delle donne


Pubblichiamo questa recensione di Raffaele Taddeo (già sulla rivista on-line El Ghibli) che ci presenta il libro intitolato Il caffè delle donne, edito da Mondadori, di Widad Tamimi.




Il romanzo di Widad Tamimi si presta o molteplici piani di lettura. E’ un libro inteso in cui sono presenti molte più problematiche di quelle che forse sono percepibili ad una prima lettura. Spesso il senso ultimo di un romanzo si ricava da descrizioni, comunicazioni del narratore veicolate dai personaggi, in questo caso molti sensi e significati si ricavano con altri strumenti. Il testo per essere compreso fino in fondo deve essere sezionato mediante macro sequenze, la loro successione e giungere così significato che da questa analisi se ne può ricavare.

Una tematica peraltro molto implicita che è possibile rintracciare in più parti è il confronto fra mondo occidentale e mondo arabo. L’attenzione del narratore si accentua molto nel sottolineare che accanto alla diversità fra una cultura e un’altra vi è comunque una complementarietà, vi è comunque un cammino che si sviluppa secondo modi e ritmi diversi, ma entrambi pieni di senso e di valori. “Qamar – dice Leila, cugina di Qamar – non sono mai stata in Occidente, ma non credo che queste cose vadano tanto diversamente. Un uomo e una donna si incontrano e vibrano per un po’, poi si conoscono, si accettano e camminano a lungo l’uno a fianco dell’altra. I problemi stanno ovunque”. Nell’essenza, nella quotidianità, nella vita concreta di ogni giorno, tutto il mondo è paese diremmo noi, e non ci sono differenze fra una cultura ed un’altra.
La protagonista ritrova in sé elementi di arabità che si coniugano assieme alla sua cultura e modalità di vita di donna occidentale. “Ora mi rassicuro che Giacomo indossi la camicia ben stirata, lo inseguo per casa con un rotolo appiccicato per togliere i pelucchi dal suo abito, gli preparo il pranzo al sacco per paura che non mangi. Tracce di un’arabità vissuta in modo del tutto originale, sempre in conflitto con l’emancipazione della donna occidentale, cresciuta a ritmo di marce femministe”.
Tuttavia quasi in netto contrasto con questi intenti conciliativi si sviluppa la storia d’amore fra Qamar e suo cugino Yousef. I due hanno giocato insieme da piccoli, hanno scherzato, riso, e poi arriva il momento dell’adolescenza e Qamar nell’ultima estate che trascorre ad Amman si innamora del cugino. Anche questi è innamorato di lei. Si preannuncia una storia d’amore, che, interrotta da eventi e tempo, sembra ad un certo momento possa riprendere con pieno vigore, quando Yousef, ormai adulto e Iman, arriva in Italia per una serie di conferenze sulla cultura islamica. Questo amore però viene frustrato per il secco rifiuto da parte di Yousef di riprendere anche minimamente una traccia di confidenza e dar adito ad una infinitesima possibilità di riprendere la storia d’amore. Emerge l’impossibilità dell’amore. Sul piano narrativo la storia affettiva fra Yousef e Qamar ha un esito totalmente negativo.
Il senso di questo elemento narrativo è indizio dell’impossibilità di un incontro, di uno sposalizio fra i due mondi culturali, quello arabo e quello occidentale. Proprio il fatto che l’amore nato fra i due non arrivi a concludersi positivamente pone di fatto l’affermazione implicita della incommensurabilità fra le due culture.
Sono indifferenti gli elementi narrativi che sostengono l’impossibilità della perpetuazione dell’amore fra Yousef e Qamar, il dato più significativo e determinante ai fini della comprensione del significato del romanzo è proprio la mancanza della continuazione del rapporto d’amore fra i due.
Strettamente connesso a questo tema vi è quello della dialettica fra mondo della fanciullezza e quello della maturità.
Il romanzo, penso volutamente, pone in strutture parallele l’evoluzione della crescita e del rapporto che Qamar ha col mondo arabo da bambina, con quello del rapporto da adulta con Giacomo, suo convivente e successivamente marito, con il quale cerca di dar luogo ad una generazione nuova, cioè ad avere un figlio, che poi perderà prima che possa nascere e diventerà l’elemento di crisi della protagonista.
Il parallelismo, però poi si risolve in una dialettica fra il tempo della fanciullezza- adolescenza e quello della maturità, della vita adulta. Il primo che è fatto di giochi, di piccole trasgressioni, di sapori, di profumi, di sole, di polvere, si svolge ad Amman e viene contrapposto ad una vita da fanciulla in occidente piena di regole e sotto molti aspetti costrittiva; il secondo fatto di sogni frustrati, di paure, di angosce, di incapacità di riconoscersi, di continue domande, di contorsioni psicologiche.
E’ una dialettica fra i due tempi, e fin qui siamo nella normalità della vita, dell’esistenza dell’uomo, ma poi se si va a riflettere attentamente si constata che il tempo libero della fanciullezza-adolescenza è descritto in uno spazio e quello della maturità in un altro spazio; il primo in una certa cultura e il secondo in un’altra. Allora la dialettica ancora una volta si stabilisce fra i due mondi culturali che confliggono fra di loro, conflitto che viene impersonato da Qamar, la quale per cercare di ritrovare se stessa ha bisogno, adulta, di rimmergersi nel mondo, nello spazio che l’ha vista crescere da bambina. Non avviene una sintesi, perché ancora una volta Qamar decide di riconquistare Giacomo, da cui s’era momentaneamente separata e ritornare allo spazio dell’Occidente. Ancora una volta è la descrizione narrativa ad affermare l’impossibilità di coesistenza fra i due mondi.
Oltre tutto la arabità è strettamente connessa a sogno, a libertà, a giochi, a cibo, sapori, mentre l’occidentalità, pur nella sua emancipazione, è intessuto di regole, di logica, anche se piena di libertà personale, dal muoversi, al vestirsi, al rapportarsi agli altri.
L’impossibilità di una sintesi, ancora sul piano narrativo viene accentuato dall’esito della storia di Aymad.
Questi è figlio piccolo di Leila cugina di Qamar. E’ l’unico maschio avuto dopo molte femmine. Qamar, entra in un rapporto affettivo intenso con lui quando ritorna ad Amman. Leila le fa la proposta di condurlo con sé in Europa per dargli una possibilità di futuro migliore, certamente negato in Giordania date le condizioni economiche della famiglia e di un rapporto difficile con il padre. A Qamar non sembra vero, anche se decide di rinunciare momentaneamente perché è sola e non si sente sicura di poter curare questo ragazzetto.
Una volta sposatosi con Giacomo e condotto quest’ultimo ad Amman perché conosca la famiglia che era stata così importante nella sua crescita, si pone veramente il problema se portar via il ragazzetto in Europa o lasciarlo alla famiglia. Decidono di lasciarlo ad Amman dalla famiglia e di aiutarlo economicamente negli studi.
Indipendentemente ancora dalle ragioni, dalle logiche, dai sentimenti che non permettono che si realizzi il trasferimento di Aymad in Europa, il fatto narrativo denota ancora una volta l’impossibilità di una conciliazione fra i due mondi, che devono procedere separati nel loro percorso e nel loro destino.
Aymad rappresenta emblematicamente la possibilità concreta di meticciare le due culture. L’esito della vicenda nega ogni possibilità di questo genere.
Altri piani di lettura sono possibili come ad esempio, il rapporto d’amore fra Qamar e Giacomo, tutto giocato all’interno della cultura occidentale, ma proprio per questo risoltosi positivamente.
Poi ancora quello della ricerca del figlio, naturale dapprima, ma poi adottivo forse. Ma ce ne possono essere ancora altri come il rapporto fra la protagonista e la madre, quello di Qamar col territorio della metropoli giordana.
Sul piano strutturale per buona metà del libro si assiste ad una sorta di conduzione parallela e binaria, con tempi sfasati, quello delle sue vacanze ad Amman e l’altro di vita con Giacomo e della gravidanza, trasformatosi poi in aborto. Sono posti in parallelo due maturazioni, la prima che sfocia nella frattura della vita di vacanze di Qamar che non ritornerà più per molti anni in Giordania, la seconda che sfocerà nella rottura con Giacomo. Due storie parallele in due spazi diversi, ancora una volta in una sorta di dialettica osservazione, entrambe concluse con fratture e rotture. Ma mentre la prima non porterà a riconciliazione, la seconda invece si risolverà positivamente.
Anche quindi sul piano strutturale, la dicotomia Occidente-mondo arabo continua ad esistere.
La cornice del romanzo è dato dalla ritualità del caffè, tutta femminile e corale, nonchè dai sensi nascosti che essa veicola, dalla possibilità di una predizione. E qui siamo in totale immersione del mondo arabo e islamico perché la realtà sembra quasi già precostituita, l’uomo non farebbe altro che seguire quanto il destino, o meglio Allah, ha già scritto per ciascuno di noi.
E’ indicativo il fatto che il libro si chiude con queste parole: Bismillah arrahman arrahim” che vogliono dire “Nel nome di Allah, Clemente Misericordioso”.
Mi pare che i testi, di qualunque natura siano, prodotti nel mondo islamico in special modo dagli osservanti, dai più pii, partano ancora oggi da un’invocazione ad Allah. Ciò avveniva anche nel mondo occidentale fino all’epoca rinascimentale, quando si ebbe la rottura e totale emancipazione dell’uomo rispetto alla divinità.
La chiusura del romanzo rimarcherebbe con più intensità le tracce di arabismo in questo caso di islamismo presenti nel testo, contraddette però dalle strutture narrative.
Gli elementi di dialettica interna, di contraddizioni e contrasti fanno del romanzo di Widad Tamini un interessante e bel libro segnato anche dalla delicatezza di descrizione delle varie storie che si intrecciano.

mercoledì 17 settembre 2014

Everyday Rebellion: cambiamento e non-violenza




E' nelle sale italiane dall' 11 settembre (una data significativa...) e distribuito da Officine Ubu: si tratta del film Everyday Rebellion dei fratelli iraniani Arash e Arman Riahi.

Un documentario che pone al centro la comunicazione come azione di protesta, efficace e, soprattutto, non violenta.

Da Occupy Wall Street, alle rivoluzioni arabe iniziali; dal Movimento spagnolo 15M alle Femen e ancora Otpor! Il movimento studentesco che portò alla caduta di Milošević e il Popolo Viola...Tutte forme di protesta e di ribellione organizzate, sentite, volute e vissute sulla propria pelle dai protagonisti.

A proposito delle Femen ucraine, Arash Rahi ha affermato: “ Come tutti gli altri movimenti non violenti da noi mostrati, anche le Femen partono da bisogni personali, in questo caso il bisogno di un gruppo di studentesse ucraine nate negli anni '80 che si erano smarrite nella propria esistenza. Le Femen hanno avuto un tale impatto sull'opinione pubblica di tutto il mondo perchè hanno usato il corpo come campo di battaglia in una maniera completamente nuova rispetto a quella dei kamikaze alle altre forme di protesta fisica: che cosa c'è di più non violento di un corpo nudo?”.

La tesi alla base del lavoro è che rispondere alla violenza con altra violenza è distruttivo e basta: se, invece, si risponde con la creatività, allora si riescono ad ottenere attenzione e solidarietà e questo risulta ancora più importante se si vive in un regime non democratico. E allora via libera a corpi dipinti, palline da ping pong con scritte che rotolano per le vie della città, palloncini colorati e fermagli per capelli per distribuire volantini e documenti, slogan cantati e cartelloni vivaci...Anche questo vuol dire fare “cittadinanza attiva” e dissentire.

Il documentario fa parte di un progetto più ampio crossmediale, composto da varie piattaforme (sito web, app per smartphone) con le quali è possibile condividere contenuti, informazioni e iniziative. E in occasione della distribuzione del film in Italia, Officine Ubu lancia l'hashtag #iomiribello che invita gli utenti a raccontare il proprio gesto di ribellione quotidiana.

martedì 18 febbraio 2014

La questione del velo islamico: una questione ancora aperta




Attorno alla questione del velo infuria un dibattito molto acceso: chi lo indossa vede in esso l'espressione della propria identità religiosa e culturale e, in alcuni casi, politica; chi lo critica lo considera un ritorno al passato, la prova di un islam oscurantista e misogino. Il saggio di Renata Pepicelli (Carocci Editori) affronta questo tema da un punto di vista storico, religioso e sociopolitico in una prospettiva temporale che va dall'alba dell'Islam fino ai giorni nostri.


Abbiamo intervistato per voi Renata Pepicelli, titolare dal 2008 di un assegno di ricerca presso il dipartimento di Politica, Istituzioni e Storia della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bologna Alma Mater Studiorum e Dottore di ricerca in “Geopolitica e culture del Mediterraneo” presso il Sum, Istituto Italiano di Scienze Umane / Università Federico II di Napoli.


Ringraziamo tantissimo l'autrice per la sua disponibilità.





Per le donne che lo indossano, portare il velo è una scelta o un'imposizione? Nel primo caso si tratta di una scelta politica, religiosa o culturale?



Per quella che è la mia esperienza di ricerca in Italia, ma anche nei Paesi a maggioranza musulmana della sponda sud del Mediterraneo, in molti casi il velo è una scelta.

Una scelta che può in alcuni casi anche essere condizionata da fattori sociali come, per fare un esempio, dall'idea che sia più semplice trovare marito perchè velate, in quanto il velo mostra un'immagine di donna più morigerata, pia e casta. Ma la scelta è dettata, soprattutto, da un riposizionamento delle donne, all'interno di un discorso religioso, che non avviene più solamente nella sfera privata, ma anche nella sfera pubblica.

Nel corso del '900 abbiamo visto le donne svelarsi soprattutto nelle grandi città, ma non solo; a partire dalla fine del '900, invece, abbiamo un “ritorno” sempre più significativo delle donne che decidono di indossare il velo che copre la testa e, in alcuni casi, assistiamo anche a forme di velo che coprono il volto, come il niqab. Ci sono casi di imposizione o di violenze familiari che impongono alle donne di velarsi, ma nella maggioranza dei casi si tratta di una scelta.

Sicuramente alla base c'è una scelta di carattere religioso: l'idea che l'Islam e il Corano richiedano alle donne un atto di modestia che è quello di non mostrare troppo il proprio corpo. In realtà il velo dovrebbe essere la punta dell'iceberg di una più ampia idea di modestia dei comportamenti femminili per cui l'hijab, che copre la testa, non significa altro che un modo più generale di comportarsi.



Cosa può dirci della condizione femminile nei Paesi delle rivoluzioni?



Sono da poco tornata dal Marocco dove ho fatto ricerca sulla condizione e sull'attivismo femminile dopo le rivolte del 2011-12 e, in particolare, dopo l'approvazione della Costituzione del 2011.

Il Paese è estremamente diviso, con grandi differenze tra le città e le zone rurali; basti pensare che è un Paese con un altissimo tasso di analfabetismo femminile che arriva fino al 60%. E poi abbiamo, invece, eccellenze femminili in diversi campi: nell'istruzione, nell'educazione, nell'imprenditoria, nell'attivismo sui diritti umani.

Sicuramente, negli ultimi dieci anni, il Marocco ha fatto dei grandi passi nel migliorare la legislazione del Paese in materia dei diritti delle donne, a partire dalla Mudawana, che è il nuovo codice della famiglia approvato nel 2004, poi la legge che permette alle donne di passare la nazionalità ai figli fino alla nuova Costituzione che, nell'articolo 19, sostiene una forte apertura verso l'uguaglianza tra uomo e donna. Quindi, da un punto di vista legislativo, dei passi in avanti, almeno in Marocco, sono stati fatti, però tante nuove leggi fanno fatica ad essere recepite dalla popolazione e ci troviamo ancora con una realtà in cui gli uomini e le donne non godono degli stessi diritti e in cui si registrano molti casi di violenza contro le donne. Un altro significativo passo avanti è ad esempio l’abolizione - avvenuta il il 23 gennaio di quest’anno - della norma in base alla quale il responsabile dello stupro di una minorenne poteva evitare il carcere sposandola. Ma, come ricorda anche Amnesty International, restano ancora molti ostacoli da superare. Nel codice penale marocchino la definizione di stupro è molto restrittiva, non si riconosce lo stupro coniugale come reato, e si fa una differenza tra le vittime di stupro sulla base della loro verginità. Va anche ricordato che il codice penale punisce i rapporti sessuali consensuali tra adulti non sposati.
Il Marocco è un Paese dalle fortissime contraddizioni: con grandi spinte al cambiamento sociale e culturale ma anche con spinte che vanno nella direzione opposta.



Ci può accennare al lavoro a fumetti di Takwa Ben Mohamed?



Takwa Ben Mohamed è una ragazza i cui genitori sono dei tunisini, esiliati in Italia vent’anni fa. Il padre era, ed è a tutt’oggi ,un rappresentante del Partito Islamista an-Nahda. Takwa e la sua famiglia lo hanno poi raggiunto qui in Italia quando lei era molto piccola.
E' cresciuta qui, si è formata qui, vivendo in un mondo fatto anche di stereotipi e razzismi. Quindi Takwa, nei suoi fumetti, parla spesso del problema del razzismo verso ragazzi che non sono figli di genitori italiani, come pure parla del velo che lei stessa indossa.



Quali sono le differenze, ma anche i punti in comune, tra le donne arabo-musulmane e le donne occidentali?



Fare qualunque generalizzazione è fuorviante: non siamo delle categorie uniche.

Sia da una parte sia dall'altra incidono moltissimo l'educazione, l'istruzione, il posizionamento religioso, la professione, gli orientamenti e i gusti personali...

Ad esempio ho fatto interviste a molte ragazze ventenni che hanno fatto parte del Movimento del 20 febbraio - quel movimento marocchino che ha cercato di seguire le orme dei giovani rivoluzionari egiziani e tunisini – e le storie che ho raccolto raccontano che molte di loro hanno lasciato i villaggi dei propri genitori per andare a studiare all'università, vivendo da sole in grandi città. Molte di loro sono attiviste per i diritti umani e/o si definiscono di sinistra, marginalizzano la religione alla sfera privata e non indossano il velo. Quindi, sono ragazze molto simili a quelle che studiano nelle nostre università. Ma poi troviamo ragazze che scelgono percorsi di vita diversi, per ragioni economiche, per mancanza di strumenti culturali o perchè fanno della religione una dimensione centrale della propria esistenza.

Trovare affinità o non affinità tra le donne arabo-musulmane e occidentali ci richiede sempre di posizionarle in base alle categorie che ho esposto e in base a queste categorie le donne possono essere molto simili o molto distanti.


sabato 14 dicembre 2013

Lontano da Mogadiscio: partire dal Passato per capire meglio il Presente





Shirin Fazel Ramzanali è nata a Mogadiscio; ha studiato nelle scuole italiane della Somalia, agli inizi degli anni '70, e poi si è trasferita in Italia, con la sua famiglia, per fuggire dal regime dittatoriale di Siad Barre. Nel 1994 ha scritto un libro, diventato un testo fondamentale per parlare di colonialismo e primo vero esempio di letteratura italiana della migrazione.
Un testo che narra la Storia attraverso uno stile "meticcio": spunti, considerazioni, note biografiche, riflessioni politiche. Un libro diviso in sei parti: la prima incentrata sulla Somalia un Paese che, come scrive l'autrice: "Un tempo era il Paese delle favole"; nella seconda parte predomina l'aspetto autobiografico con la diffidenza, da aprte degli italiani, nei confronti di chi aveva il colore della pelle più scuro; poi la scrittrice racconta i viaggi all'estero a fianco del marito e, nella quarta parte, riporta la brutalità della guerra civile in Somalia per riprendere l'argomento nella sezione successiva in cui spiega come il suo Paese d'origine sia stato sfruttato dalle superpotenze occidentali. La scrittrice, infine, racconta l'inserimento nella società italiana.
Lontano da Mogadiscio torna in versione e-book e in edizione bilingue (italiano e inglese) ed è arricchito da una postfazione di Simone Brioni.


Abbiamo intervistato per voi Shirin Fazel Ramzanali che ringraziamo tantissimo per la sua disponibilità    





Shirin Fazel Ramzanali




Perchè la decisione di far uscire di nuovo il libro, apparso nel 1994, come primo testo di letteratura post-coloniale?

Lontano da Mogadiscio, a distanza di vent’anni è un libro vivo, fa discutere su temi importanti. E’stato usato e lo usano tuttora nella sezione di Italianistica in molte università. Purtroppo il cartaceo, dopo un numero di anni, va fuori stampa e diventa introvabile. La nuova versione è bilingue, italiano-inglese; ed il fatto che è in formato e-book lo rende reperibile ad un’ampia cerchia di lettori internazionali.
E’ una opportunità per i giovani (italiani e somali) che vorranno leggerlo, scoprire che Mogadiscio un tempo poteva sembrare una città di provincia italiana. Si tende a guardare il presente senza riflettere sul passato, dimenticando molto spesso che il fenomeno dell’immigrazione è in parte anche legato ad un passato coloniale di molte nazioni europee.
La versione inglese è tradotta da me. Alcuni brani li ho riscritti, per cercare di trasmettere le emozioni del momento. Questa riscrittura sicuramente darà una nuova chiave di lettura al testo.
Nei capitoli inediti parlo delle mie esperienze degli ultimi decenni maturate durante le mie permanenze in paesi diversi, racconto di luoghi come la città inglese di Birmingham dove risiede una folta comunità di somali. Sono a contatto con la diaspora e consapevole di tutte le problematiche e difficoltà che si trascina dietro. Inoltre, osservo e racconto con distacco questa Italia che sta cambiando volto, ma ahimè attuando anche nuove sottili forme di discriminazione.





Che cosa è cambiato, a distanza di vent'anni, nel suo Paese d'origine?


Purtroppo in questi ultimi vent’anni la Somalia è stata violentata, sfruttata, calpestata senza avere una voce in capitolo a livello mondiale come stato sovrano. Milioni di rifugiati sparsi nei quattro continenti, hanno faticato per rifarsi una nuova vita. Anche se fisicamente lontani, hanno sempre sostenuto, con le loro rimesse ai parenti, l’economia del paese. Abbiamo una generazione che ha conosciuto solo guerra e continua a cercare all’estero una vita migliore. Sono ancora fresche nella memoria le immagini delle centinaia di persone che hanno perso la vita nel Mediterraneo. I giovani che rappresentano il futuro della nazione purtroppo non hanno prospettive. Penso che la Somalia ha sofferto abbastanza, e ha vissuto sulla propria pelle gli orrori di una guerra civile. Certamente c’è chi ha beneficiato di questa situazione, ma non voglio innescare una polemica. Voglio essere positiva anche perché finalmente per la Somalia si è aperto un nuovo orizzonte. Anche se ci sono elementi che mirano a destabilizzare il paese, si ha la palpabile sensazione di una luce in fondo al tunnel. Oggi c’è un governo stabile, e riconosciuto. A Mogadiscio si stanno riaprendo le ambasciate. Il paese cerca una rinascita in tutti i settori. Questa energia positiva ha innescato nei somali che vivono all’estero la voglia di ritornare in patria e di portare il loro know-how acquisito in questi lunghi anni di forzato esilio.



Ci può raccontare quali sono state le difficoltà durante il suo inserimento nella società italiana?

Io sono arrivata in Italia nei primi anni settanta già come cittadina italiana. Avendo frequentato le scuole italiane, ed essendo bilingue sin da bambina, non ho avuto barriere a livello linguistico. Venendo però da una città multiculturale, mi sono dovuta adattare ad una città provinciale italiana che prima di allora non aveva avuto contatti con persone di provenienza africana. Ho subìto sguardi di gente curiosa, che mi rivolgeva domande imbarazzanti. Non è bello sentirsi osservata come un fenomeno di baraccone.



Qual è il suo rapporto con l'Italia e con gli italiani, oggi?

L’Italia è il mio paese, ho vissuto i cambiamenti politici e sociali degli ultimi quaranta anni. I miei genitori sono sepolti qui. I miei figli e nipoti sono nati in questa terra . Mi sento inserita, vivo e partecipo i problemi che tutti i cittadini affrontano. Il mio rapporto con l’Italia di oggi è quello che vivono un po’ tutti. Anche se vivo all’estero, grazie alla tv satellitare e le varie risorse che la tecnologia ci offre, sono quotidianamente in contatto con la realtà italiana. Sono estremamente delusa da una classe politica che ha portato il paese allo sfascio, nonostante gli enormi sacrifici imposti alle famiglie italiane, nonostante le continue vessazioni subite dai piccoli imprenditori che sono la linfa vitale dell’economia italiana e malgrado il lavoro umile degli immigrati che con i loro sacrifici tengono a galla numerosi settori e contribuiscono fattivamente alla formazione del Pil. Vorrei finalmente al governo delle persone veramente capaci, in sintonia con il popolo e che avessero come priorità il benessere dell’Italia. In altre parole io, tutti noi vogliamo assistere ad un cambiamento positivo nella gestione della cosa pubblica.
Come italiana di origine somala, sono delusa del fatto che il governo italiano ha fatto troppo poco per accogliere i rifugiati somali. Come persona migrante sono indignata che
gli immigrati vengano penalizzati da leggi che non tutelano la loro dignità di persona o di cittadini.
Il mio rapporto vis-à-vis con gli italiani è di vecchia data, gli ho avuti come compagni dai tempi dell’asilo. “Ragazzi” con cui sono a contatto ancora oggi. Tra gli italiani ho amici, conoscenti e persone che stimo moltissimo. Conosco e scambio quattro chiacchiere con le persone che abitano nel mio quartiere. Ho un rapporto di confidenza con i miei vicini, ci beviamo un tè insieme. Io non mi creo barriere mentali.



Secondo lei, gli italiani hanno cambiato mentalità o permangono pregiudizi consolidati nei confronti degli stranieri?

Non mi piace generalizzare. Sparsi come formiche, per tutto il territorio italiano c’e il lavoro di migliaia di persone che ogni giorno si danno da fare per costruire una società sana e priva di pregiudizi.
Purtroppo sui media vanno a finire soltanto gli episodi di intolleranza e razzismo più eclatanti, ma riportati in una prospettiva che invece di condannarli senza possibilità di appello innescano piuttosto sterili polemiche che si trascinano inutilmente per settimane. Ci sono i politici che usano questo tipo di propaganda per fini elettorali. Di conseguenza l’uomo comune si lascia trascinare in questo vortice che non fa altro che alzare il livello di scontro e aumentare le paure per “l’altro”. Quello che secondo me deve cambiare nella nostra società è di dare spazio alla meritocrazia. Leggi che tutelano gli immigrati facendoli sentire anche politicamente parte del territorio in cui vivono. Non ghettizzarli. Riconoscere come cittadini italiani i ragazzi nati e cresciuti nel nostro paese, che in effetti sono italiani.
Che senso ha dire ad un giovane di pelle scura, nato e cresciuto in Italia di tornare al suo paese?
Solo quando una società dà pari opportunità ai propri cittadini allora cambia il modo di pensare, il modo di percepire l’altro.
Non si può credere di avere dei privilegi solo perché si è bianchi.
Non scordiamoci che la ricchezza dell’ Europa è costruita dallo sfruttamento di risorse primarie che provengono da paesi etichettati “poveri”.

giovedì 10 ottobre 2013

Un taxi fantasma per l'Africa: il romanzo di Massimo Bargna


Jean Pierre, tassista senza licenza, affronta uno stralunato percorso notturno intorno alla città, che è una e insieme tutte le metropoli equatoriali: tra casupole e hotel a cinque stelle, dalle luci invitanti al buio, tra soldati prepotenti come banditi e banditi armati come soldati. Un’avventura sospesa tra magia animistica e modernità selvaggia che ci mostra l’altra faccia dell’Africa, quella dilaniata dai conflitti etnici, dall’illegalità, oppressa dai figli degeneri del colonialismo.
Il taxi fantasma non passa dai paradisi artificiali per turisti. Jean Pierre, questo eroe sognatore maldestro e sfortunato, nel suo girovagare s'imbatte nei campioni di un'umanità degradata, o in cerca di riscatto, e nelle mille presenze enigmatiche, seducenti e minacciose che abitano la notte.
Chi è stato su quel taxi conosce i mali dell'Africa ma,nonostante tutto, conserverà per sempre dentro di sé una sottile malinconia.




Abbiamo intervistato Massimo Bargna che ringraziamo per la sua disponibilità
Massimo Bargna

Quando e come è nato questo romanzo?

E’ un fantasma che aspettava di prendere corpo da troppo tempo. In realtà è sempre stata una mia aspirazione scrivere un’opera letteraria che fosse, sul modello evangelico, un’avventura spirituale ed esistenziale sullo sfondo di fatti storici drammatici. Infatti non mi sono mai ritenuto un fotoreporter prestato alla letteratura ma l’esatto contrario: l’unica forma di scrittura che mi interessa realmente e su cui credo di poter dare un apporto originale è quella del romanzo e della poesia.
Questa esigenza creativa è diventata un imperativo, anche morale, man mano che i ricordi e le esperienze accumulati durante quasi trent’anni di viaggi in Africa hanno reclamato di essere espresse in una forma più pregnante di quella dei fotoreportage che avevo pubblicato per alcune riviste nazionali.
Quando sei testimone di eventi drammatici come quelli a cui ho assistito in Africa, soprattutto in Africa centrorientale, ti senti scosso in tutte le tue certezze e ti poni degli interrogativi sulla natura dell’anima umana che non possono essere risolti (ammesso che ciò sia possibile) nella forma di un articolo di giornale o di una foto.
Convogliare tutto ciò che avevo dentro in un romanzo, rielaborare i ricordi attraverso la narrazione, è stata un modo per esorcizzare i miei fantasmi, quasi un abbozzo di catarsi personale.
Detto questo, risulterà forse meno strano il fatto che la stesura di questo romanzo di media lunghezza abbia richiesto ben tre anni.
Questa lentezza è stata dovuta in parte al fatto che ero al mio primo romanzo e dovevo risolvere una serie di problemi stilistici ma soprattutto alla necessità di cercare di cogliere il senso più profondo di ciò che avevo vissuto.
A mio avviso, ogni opera letteraria dovrebbe essere motivata da un’urgenza interiore: si scrive soltanto quando si ritiene di avere qualcosa di importante da dire. Altrimenti l’opera non merita di esistere e scade nel puro intrattenimento.


Qual è il personaggio a cui è più legato?

Sarebbe scontato dire il protagonista, cioè il giovane taxista Jean Pierre che vaga nella notte magica, tenera e violenta di una capitale africana non meglio identificata incappando in una serie di situazioni enigmatiche, seducenti e minacciose. E’ una specie di Don Chisciotte africano. La mia preferenza, però, va forse a un personaggio secondario: Kurt Weiss, il bianco che incarna non tanto il colonialismo quanto la visione neo-colonialista o, meglio ancora, post-colonialista di quegli occidentali che hanno perso il dominio sull’Africa e sopravvivono ormai come vecchi relitti abbandonati. E’ un personaggio dalla condotta deprecabile ma anche patetico nella sua mitizzazione del passato, un passato che forse non è mai esistito. Odio profondamente Kurt Weiss e tutti quelli come lui ma non riesco a non provare una certa “tenerezza” per chi sta annegando fra i flutti e si rifiuta di tendere la mano.


Quali sono, ancora oggi, i problemi del continente africano?

Negli anni sessanta, quando le nazioni africane raggiunsero l’indipendenza affrancandosi dal colonialismo, si visse un periodo di entusiasmo in cui tutto pareva possibile. La democrazia, la libertà di parola, il benessere e l’istruzione erano obiettivi a portata di mano. Visto che la miseria dell’Africa era dovuta ai bianchi, ora che i bianchi non c’erano più tutti i problemi erano automaticamente risolti. Purtroppo non è andata così. Da una parte le ex potenze coloniali hanno mantenuto l’Africa in schiavitù attraverso una strategia di ingerenza politica ed economica. Dall’altra le nazioni africane sono state governate da una classe politica locale corrotta che (con rare eccezioni) è la caricatura di quella del periodo coloniale. Non solo rubano la ricchezza del paese come facevano i bianchi ma, spesso e volentieri, rivelano una totale impreparazione a governare, mandano a pezzi l’economia nazionale e trascinano il popolo in guerre disastrose la cui unica ragion d’essere è di non far perdere i propri privilegi al dittatore di turno.
Non sono un analista della politica africana. Credo però che, fondamentalmente, il problema sia che gli africani devono smetterla di dare agli altri la colpa dei propri problemi e prendere in mano il proprio destino.
Invece la tendenza è a cercarsi nuovi padroni, nella fattispecie i cinesi che stanno rimpiazzando i bianchi in tutta l’Africa.
Non voglio essere pessimista. ll quadro della situazione è a macchia di leopardo: in alcune aree del continente è stato fatto un passo avanti sia sul piano economico che dei diritti dell’uomo; in altre, però, ne sono stati fatti due indietro.

Quali sono gli stereotipi negativi sugli africani, confermati in Occidente?

Gli stereotipi sono sempre gli stessi. Si oscilla tra il buonismo e il razzismo e in entrambi i casi non si considera lo straniero per quello che è: una persona. Ovviamente tra buonismo e razzismo, a fare maggiori danni è il secondo. Mi spiace dirlo ma in Italia, parlo per esperienza personale, il razzismo esiste eccome. In parte è dovuto all’ignoranza e a un provincialismo tipicamente italico dovuto, forse, al fatto che la nostra avventura coloniale in Africa (diversamente da quella inglese e francese) è stata di breve durata e non ha lasciato il segno. E di conseguenza l’afflusso di emigranti africani nel nostro paese è iniziato molto tardi. Ricordo che molta gente negli anni ottanta non aveva mai visto una persona di pelle scura tranne che in televisione, un po’ come in certi villaggi sperduti della foresta africana dove i bambini non hanno mai visto un bianco. Chi fa un paragone con la Francia e l’Inghilterra, sostenendo che questi paesi sono molto più accoglienti con gli stranieri, dovrebbe prendere atto di questa realtà storica.
E poi ci sono gli idioti. Quelli che non hanno attenuanti perché rifiutano a priori di conoscere l’altro. E’ gente che vive nel proprio mondo ristretto, fatto di piccole abitudini e privilegi e che non sopporta di confrontarsi col nuovo. A volte hanno ruoli di potere e scelgono al posto nostro ma appartengono a un passato che, loro malgrado, non potrà più tornare e quindi il loro controllo della realtà è illusorio. Sono sorpassati dagli eventi e nemmeno se ne accorgono.

Come si riesce a conciliare la tradizione con la modernità?

Ciò che accade in Africa è accaduto da noi durante il brusco passaggio dalla cultura contadina a quella industriale. In un primo tempo si rifiuta in blocco la tradizione, la si butta nel porta immondizia, ma poi, piano piano, si acquisisce un giudizio più equilibrato e si va alla ricerca delle proprie radici. Il problema è che bisogna metabolizzare la modernità e ciò richiede un certo tempo. Poi si sviluppano gli anticorpi e si impara a difendersi. Anche in Africa questo processo è iniziato. La gente si è accorta che il progresso inarrestabile della modernità è solo un mito. E riscopre la propria cultura.

Che cosa si aspettano le popolazioni africane dai paesi “ricchi” e cosa noi abbiamo da imparare ?

Noi dovremmo farla finita con questa continua ansia del “dare” e cominciare ad apprezzare ciò che possiamo ricevere. Ovviamente non parlo di cose materiali. L’Africa, nonostante un parziale crollo della tradizione, è ancora depositaria di un ricco patrimonio di valori umani. In alcune zone, quelle dove più sono state preservate le strutture sociali tradizionali, c’è un forte senso dell’unità famigliare e della solidarietà, il rispetto degli anziani, il valore della maternità e della vita e il senso del divino. In generale c’è un’attenzione per i valori più essenziali dell’essere umano e un amore per la semplicità di vita. Ma come dicevo stiamo parlando di una cultura africana agricola e di allevatori i cui valori sono stati indeboliti, talvolta snaturati, dall’urbanizzazione.
Riguardo agli africani, non so cosa debbano ancora imparare da noi che non abbiano già imparato, vizi compresi. La rivendicazione dei diritti umani, in particolare della donna, è ormai abbastanza diffusa in tutta l’Africa anche se, in questo caso, la tradizione può essere d’intralcio.
Credo però che, tornando al tema del razzismo, il cambiamento di mentalità non debba essere a senso unico. Anche gli africani dovrebbero superare i propri pregiudizi nei confronti degli occidentali. Questo è molto più facile per chi è venuto a vivere qui e ha perso la visione mitizzata dell’Europa che ha la maggior parte degli africani che vivono nella propria terra.