Visualizzazione post con etichetta colonialismo. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta colonialismo. Mostra tutti i post

sabato 14 novembre 2015

L’ evoluzione della tutela internazionale dei diritti umani in Africa


 
di Veronica Tedeschi




Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.” (Art. 1 Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo)



I diritti umani nascono con la Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo del 1948, momento dal quale nasce la così detta “era moderna” dei diritti umani caratterizzata dalla loro internazionalizzazione.

Gli Stati, recependo con modalità differenti questa dichiarazione, riconoscono gli impegni in essa contenuti di fronte alla comunità internazionale.

Il continente europeo si evolve prima degli altri con la creazione della Convenzione Europea dei Diritti umani nel 1950.

Negli Stati americani, lo sviluppo è stato molto lento e, solo prendendo come esempio la Convenzione Europea, nasce la Convenzione Interamericana dei diritti umani nel 1969.

L’ultimo ad allinearsi alla Dichiarazione del 48 è il continente africano.

L’impulso delle Nazioni Unite stimola i paesi della lega araba a lavorare sui diritti umani e, di conseguenza, si crea la lega degli stati arabi, nata “scimmiottando” il modello delle Nazioni Unite.

Nel 1994 si arriva, a Tunisi, ad adottare la Carta Araba dei diritti dell’uomo, nella quale non si specifica il rispetto della shari’a (come nei progetti precedenti della Carta); viene solo nominata nel preambolo e questo rappresenta un grande passo avanti per paesi così condizionati dal potere della shari’a. La Carta araba è vigente ma non funzionante perché accanto ad essa non è stato creato l’organo per controllare il rispetto della Carta.

Solo nel 2002 nascerà l’altra importante organizzazione regionale: l’Ua (Unione Africana) che rappresenta anch’essa un’evoluzione poiché non distingue i paesi ma abbraccia, per la prima volta, tutti i paesi del continente africano.

Tornando indietro nel tempo, al 1981, è necessario ricordare la nascita del primo importante testo per i diritti umani che, in un certo senso, si può affiancare alle due Convenzioni regionali precedentemente citate: la Carta Africana dei diritti dell’uomo e dei popoli: le fondamenta di questa Carta si basano sul fatto che l’uomo, in quanto singolo, non si sviluppa ma lo fa solo all’interno di una società.

I doveri dell’individuo, così come i diritti dei popoli, sono i due pilastri della Carta, che l’hanno resa originale e diversa dalle altre Convenzioni regionali.



La soggezione dei popoli a una dominazione e a uno sfruttamento straniero costituisce una negazione dei diritti fondamentali dell’uomo”.

La motivazione di una così importante espressione la si può ricondurre alla storia del continente segnata da una forte colonizzazione e sfruttamento. Il diritto dei popoli a disporre di se stessi e di tutti i diritti connessi sono presupposti indispensabili alla garanzia dei diritti dell’uomo, nel senso dei diritti della persona umana; ma essi non costituiscono in sé i diritti dell’uomo.

La Carta africana riafferma l’indivisibilità dei diritti dell’uomo aggregando in un unico documento i diritti di prima, seconda e terza generazione. Nello specifico, per diritti di prima generazione si intende il diritto all’uguaglianza davanti alla legge o il diritto di associazione; per diritti di seconda generazione si intende il diritto al lavoro in condizioni uguali e soddisfacenti o il diritto all’istruzione mentre il diritto ad un ambiente soddisfacente, il diritto alla pace e alla sicurezza internazionale sono diritti di terza generazione. L’introduzione di questi ultimi diritti è strettamente legata ai diritti collettivi dei popoli che, rintracciati in sei articoli della Carta, rappresentano uno dei caratteri più innovativi di questo strumento giuridico.

Bisogna comunque sottolineare il fatto che, nonostante la Carta africana ha la qualità di aver affermato in modo deciso il carattere collettivo di questi diritti, risulta ambigua la titolarità dei medesimi diritti, per esempio la concezione di popolo potrebbe essere strumentalizzata dalle entità statali in quanto non perfettamente specificata nella Carta.

In conclusione, molti sono i lati positivi di questa Carta ma, per completezza è necessario elencare tre importanti lacune: l’omissione di alcuni diritti garantiti dalla Dichiarazione Universale (diritto al matrimonio, diritto di cambiare religione) , l’eccessiva discrezionalità conferita agli Stati africani nella limitazione dei diritti garantiti dalla Carta e l’assenza nella Carta di disposizioni che prevedano e regolamentino la facoltà degli Stati parte di sospendere i diritti in circostanze eccezionali. Si dubita fortemente che i redattori abbiano voluto conferire carattere assoluto ai diritti contenuti nella Carta, quindi l’assenza di indicazioni rende, in ogni caso, invocabile la sospensione dei diritti facendo riferimenti all’art. 62 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati.




martedì 19 maggio 2015

Un angolo di Eritrea a Milano



di Igiaba Scego (da “Internazionale” 5 maggio 2015)




Neoclassica, austera, trionfale, così appare porta Venezia, una delle sei principali porte di Milano, al visitatore. Il quartiere noto per i suoi ristorantini alla moda è tra i più amati dagli under 30 milanesi. Certo gli spritz, gli apericena l’hanno resa trendy e al passo con i tempi, ma porta Venezia è qualcosa di più profondo. Di fatto racchiude in sé una storia complessa fatta di separazioni e ricongiungimenti, una storia che odora di caffè caldo e cardamomo, una storia che la lega all’Africa come nessuna.
Infatti da tempo il quartiere è il ritrovo della comunità eritrea-etiope che dagli anni settanta del secolo scorso ha fatto di questa zona il centro della propria esistenza. Ed è sempre qui che gli eritrei di oggi, in fuga dalla dittatura feroce e insensata di Isaias Afewerki, cercano rifugio dopo essere approdati a Lampedusa con una carretta scassata. Sanno che a porta Venezia una zuppa calda e qualcuno che sa parlare la loro lingua lo troveranno di sicuro. Porta Venezia è Milano, ma è anche Asmara. È Italia, ma anche Eritrea.
Il colonialismo italiano, diceva nel suo bel libro Rifugiati lo scrittore somalo Nuruddin Farah, occupa un territorio coloniale ambiguo nella coscienza degli italiani. Infatti l’Italia spesso non si ricorda di aver avuto un legame storico con Libia, Somalia, Etiopia ed Eritrea. Disconosce il vincolo e quando poi arrivano i rifugiati proprio da quei paesi un tempo colonizzati (e spesso brutalizzati) non riesce a tracciare una linea che la colleghi a quell’intreccio di corpi. È più facile dimenticare. E così si dimenticano non solo le nefandezze del periodo coloniale, ma anche quelle più moderne fatte di affari sporchi con i dittatori di turno e di rifiuti sversati in mare o tombati nelle zone di pascolo. L’Africa, come diceva Ennio Flaiano, rimane ancora lo sgabuzzino delle porcherie e meno se ne parla meglio è.
Ma ormai, per fortuna, fioccano le contronarrazioni. Ed ecco che il docufilm Asmarina di Alan Maglio e Medhin Paolos ci regala una panoramica su una comunità, quella eritrea-etiope, presente nel territorio da decenni di cui però si è sempre parlato molto poco. Il titolo, tratto da una canzone coloniale degli anni trenta, è già di per sé evocativo. Il docufilm nasce per accumulazione. Colpisce, fin dalle prime scene, la presenza ossessiva e permeante delle fotografie dovuta a un grande lavoro di ricerca da parte dei registi.



Ed ecco che lo schermo si riempie di bambine sorridenti, ragazzi con jeans a zampa di elefante, signore con il tradizionale abito bianco. E poi feste, celebrazioni, preparazioni di focacce e caffè, treccine svolazzanti, orecchini arcobaleno. E piano piano una comunità di adulti si popola di bambini. Generazioni si mescolano e quasi si confessano davanti alla telecamera, mai invasiva, di Alan Maglio e Medhin Paolos. E sotto i nostri occhi una comunità si svela nelle sue più intime e delicate sfumature.
C’è la scrittrice Erminia dell’Oro figlia di italiani, di vecchi coloni, nata in Eritrea che si sente africana e non importa se ha la pelle bianca, Eritrea per lei è casa. Il dj Million Seyum, chiamato non a caso il Sindaco, che sa come far ballare i suoi compaesani, ma che in ogni sua parola è profondamente asmarino, ma anche profondamente milanese. La famigliola riunita intorno a un libro di fotografie (Stranieri a Milano di Lalla Golderer e Vito Scifo che diventerà uno degli assi portanti del docufilm) sa come commuoverci con gli antichi ricordi di famiglia.
E poi c’è Michele figlio di un pugliese mai conosciuto e di un’eritrea, cresciuto in un collegio di suore a suon di punizioni corporali, rimpatriato in un’Italia mai veramente sua. Colpisce inoltre la forza di Helen Yohannes, calciatrice/mediatrice culturale che ha dedicato il suo tempo ad aiutare i rifugiati perché guardando quelle facce così simili alla propria sa che quel destino poteva toccare a lei e si rimbocca le maniche per attutire come può quelle sofferenze.
Fotogramma dopo fotogramma scopriamo una comunità molto attiva negli anni settanta-ottanta, organizzata, unita. C’era la lotta per l’indipendenza a dare identità. Ed ecco le riunioni in teatri gremiti, i volantinaggi, le assemblee, le manifestazioni, le storie d’amore nate intorno a tutta quella politica. E poi la gioia immensa di essere un paese. C’è chi pensava di tornare ad Asmara, di ricostruire là il poco di avvenire rimasto. E poi dal paradiso agli inferi di oggi, prima un conflitto insensato con l’Etiopia per un confine senza importanza e poi la dittatura che sta facendo fuggire tanti giovani che preferiscono rischiare la traversata attraverso il Mediterraneo che marcire nelle grinfie di un regime protetto anche da occidente.
Ed ecco che i registi non nascondono le fratture all’interno di una comunità. Una divisione in filogovernativi e oppositori, tra chi si sente eritreo o chi eritreo-etiope. E in mezzo c’è l’Italia, Milano. Una città-casa che a volte sa abbracciare e a volte no. Asmarina racconta tutto questo e molto altro. Racconta l’Italia come recentemente sono riusciti a fare in pochi.


mercoledì 19 novembre 2014

Looking for Kadija: l'Eritrea, il colonialismo, l'amore





Il regista Andrea Patierno, lo sceneggiatore Alessandro Caruso e il regista Francesco Raganato, con l'aiuto di Francesco Sardello, organizzatore sul posto, pianificano i provini per trovare l'attrice principale, poi sistemano i set, chiedono alle maestranze di costruire un carrello per il dolly: questo per girare Looking for Kadija, lavoro girato tra le città di Asmara e Massaua e i villaggi di Agada, Cheren, Cheru, ricostruendo una vicenda poco nota e molto avventurosa (raccontata da Vittorio Dan Segre in "La guerra privata del tenente Guillet. La resistenza italiana in Eritrea durante la seconda guerra mondiale", Corbaccio 2008).
Sono giovani donne che raccontano del servizio militare civile oppure obbligatorio, di amori e di emigrazioni. Si racconta, così, un Paese fortemente militarizzato che fa molta fatica ad ottenere qualche spiraglio di democrazia.
L'Associazione per i Diritti Umani ha posto alcune domande al regista Francesco Raganato e lo ringrazia.



Il suo documentario nasce da una storia lontana: ce la può raccontare?

 

La storia che raccontiamo nel documentario nasce da lontano, sia nel tempo che nello spazio.

Siamo in Eritrea, colonia italiana, alla fine della seconda guerra mondiale. Dopo la resa e la firma dell’armistizio in Europa, un ufficiale di cavalleria italiano di stanza in Eritrea, Amedeo Guillet, si rifiuta di consegnare il paese agli inglesi e organizza la resistenza eritrea, di fatto diventandone il capo carismatico. Al suo fianco Kadija, la bellissima figlia di un capotribù locale.

Dopo oltre mezzo secolo, una troupe italiana, composta da me, dal produttore Andrea Patierno e dallo sceneggiatore Alessandro Caruso, giunge in Eritrea per preparare un film dedicato a questa grande storia di amore ed eroismo.

I casting per trovare la protagonista del film diventano l'occasione per conoscere, attraverso le storie delle giovani aspiranti e delle loro famiglie, la condizione e le speranze di un paese isolato dal resto del mondo da vent'anni di dittatura militare.

Così nasce “Looking for Kadija”.



L'Eritrea, come molti Paesi africani, vede molte persone emigrare verso un futuro migliore e, spesso, però sono gli uomini a farlo. Molte madri, mogli, sorelle restano e aspettano: avete raccolto le storie di queste famiglie spezzate?



Inevitabilmente intervistando le ragazze è venuta fuori la questione dell’emigrazione, soprattutto di quella maschile. In ogni famiglia c’è almeno un caso di emigrazione, è una situazione che tocca davvero tutti.

L’argomento però non è mai approfondito, è sempre accennato, velato, forse per paura, forse per pudore, questo non lo sappiamo.




Qual è la condizione femminile nell'Eritrea di oggi?



E’ una domanda a cui posso rispondere solo parzialmente, poiché il nostro film non è un’inchiesta, ma è un viaggio incentrato sulla ricerca di una attrice.

Quello che posso dire con certezza, perché mi si è palesato davanti agli occhi durante i casting, è che le donne eritree hanno una fierezza ed una dignità invidiabili. Hanno una scintilla nei loro occhi che mette quasi soggezione, hanno voglia di fare, di emergere, di realizzare i loro sogni, ai quali per fortuna non rinunciano. Hanno amore fortissimo per il loro paese e per la loro cultura, un amore sano, oltre a una enorme voglia di riscatto, una voglia reale, che si tocca con mano.





Il film intreccia presente e passato. Una domanda che ci sta sempre molto a cuore è: quanto è importante la memoria storica, anche alla luce degli avvenimenti attuali, nei naufragi nel Mediterraneo?



La memoria storica è sempre di fondamentale importanza, non solo perché banalmente si può imparare a non ripetere gli errori del passato, ma soprattutto perché tutto ciò che è accaduto in passato ci dà una chiave per leggere e interpretare (e migliorare) il presente.

Per essere più concreti, ad un certo punto del film, un signore di Massaua, con un italiano impeccabile, ci racconta di come gli italiani durante gli anni del colonialismo erano arrivati in Eritrea per rimanere, per vivere una vita magari migliore di quella che avevano in Italia. Di conseguenza hanno costruito edifici meravigliosi, strade efficienti, ferrovie all’avanguardia. Hanno dotato il paese di infrastrutture da cui ancora oggi gli Eritrei traggono beneficio.

Ci ha raccontato sostanzialmente un esempio di una sana compenetrazione culturale ed economica, in cui tutte e due le parti traggono beneficio.

All’opposto, e non dico nulla di nuovo, i naufragi del Mediterraneo in realtà sono l’evidente risultato di una scellerata politica colonialista, un colonialismo da saccheggio, perpetrata da molti governi extra-africani (non è esatto dire “occidentali”) a danni delle fragili democrazie africane (ove ce ne siano). Ma è un discorso lungo e complicato da affrontare in poche battute.





Quando e come è stato realizzato questo suo lavoro?



Nell’ottobre del 2013 siamo stati in Eritrea per circa 20 giorni per fare le riprese. Abbiamo visitato Asmara, poi Massaua e Cheren dove oltre alla ricerca delle location per il fim che vogliamo fare abbiamo organizzato i casting per trovare Kadija. Ci siamo spinti anche verso la piana di Cheru, che fu il teatro della tremenda battaglia in cui morirono molti italiani e ascari eritrei che fianco a fianco combatterono contro gli inglesi.

Poi da gennaio 2014 fino ad aprile c’è stato un lunghissimo lavoro di montaggio con Alice Roffinengo, la nostra editor, e Chiara Laudani, autrice del documentario con Alessandro Caruso.

Rai Cinema ha creduto sin da subito al progetto e ci ha concesso il sostegno finanziario per realizzare questo lavoro.

La vittoria al Festival di Roma è giunta davvero inaspettata, e questo ha messo in moto ciò che speravamo, ovvero la possibilità di pensare davvero di realizzare finalmente un film sulla storia di Amedeo Guillet e Kadija.

giovedì 18 settembre 2014

Profezia. L'Africa di Pasolini


 


Recensione di Monica Macchi che ringraziamo (già su www.formacinema.it)


A cura di: Gianni Borgna

Supervisione artistica: Enrico Menduni

Sceneggiatura: Gianni Borgna, Angelo Libertini

Fotografia: Sergio Salvati

Montaggio: Carlo Balestrieri

Musiche originali: Marco Valerio Antonini

Voci: Dacia Maraini (voce narrante)

Roberto Herlitzka (voce di Pier Paolo Pasolini)

Philippe Leroy (voce di Jean-Paul Sartre)

Durata: 77 minuti

Produzione: Produzione Straordinaria s.r.l., Cinecittà Luce

Distribuzione: Istituto Luce Cinecittà

Premi: Premio “Bisato d’oro” della Critica indipendente

alla 70esima Mostra internazionale di Venezia

Gran premio della Giuria al XVII “Terra di Siena” Film Festival



Film riconosciuto di interesse culturale dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali (Direzione Generale per il Cinema)

Africa, unica mia alternativa!”,

Pier Paolo Pasolini, “Frammento alla morte”



Mai convenzionale, mai pittoresco, ci mostra un'Africa autentica,

per niente esotica e perciò tanto più misteriosa

del mistero proprio dell'esistenza…

Pasolini sente l'Africa nera con la stessa simpatia poetica e originale

con la quale a suo tempo ha sentito

le borgate e il sottoproletariato romano”

Alberto Moravia su “Appunti per un'Orestiade africana”



Si chiama colore la nuova estensione del mondo

Dobbiamo ammettere l’idea di figli neri o marroni

dalla nuca ricciuta

Pier Paolo Pasolini, “La rabbia”



Se fossi stato francese,

avrei girato Il Vangelo secondo Matteo in Algeria

così forse avreste capito che è

un’opera nazional-popolare in senso gramsciano…

Cristo è un sottoproletario che va con i sottoproletari

Pier Paolo Pasolini

 
 


Il documentario, proiettato in anteprima mondiale alla 70esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia nella sezione “Venezia Classici”, racconta il rapporto poetico, intellettuale e politico tra Pasolini e l’Africa, luogo e insieme archetipo di viaggi, ispirazioni e film tra cui La Rabbia (1963), Edipo Re (1967), Appunti per un’orestiade africana (1968-1973) ed altri progetti rimasti irrealizzati come Il padre selvaggio.


Se infatti Pasolini negli anni Cinquanta dedica i suoi romanzi Ragazzi di vita e Una vita violenta al mondo delle borgate romane in cui nasce il suo primo film Accattone, il boom economico e l’industrializzazione degli anni Sessanta stravolge completamente questo microcosmo omologandolo al modello borghese. Pasolini si rivolge così a quell’Africa che si stava liberando dal giogo coloniale delle potenze europee (influenzato anche dal libro di Fanon I dannati della terra che prende coscienza del Terzo mondo come nuovo protagonista della storia) e la rielabora come “concetto che convive anche nelle periferie di Roma e che ha una radice comune nel mondo arcaico contadino” fino a profetizzare Alì dagli Occhi Azzurri (titolo ripreso da un recentissimo film di Claudio Giovannesi in cui Nader in bilico tra la cultura egiziana e quella italiana ha gli occhi neri e lenti a contatto azzurre) insieme speranza nella rivoluzione e profezia delle masse che via via approdano e irrompono nel “nostro” Occidente.


Dedicato a Giuseppe Bertolucci, Profezia si articola così come un film saggio attraverso sequenze di molti film di Pasolini arricchiti da frammenti di cinegiornali, immagini di repertorio, interviste sia dell’epoca che contemporanee (divertente quella a Bernardo Bertolucci che racconta quando, tredicenne, ha pensato che lo sconosciuto dall'aspetto poco raccomandabile che chiedeva del padre Attilio fosse un ladro. Quando molti anni dopo, diventato assistente di Pasolini, gli racconta l’episodio, Pasolini risponde serafico: “Cosa c'è di più bello per uno che ha raccontato dei giovani ladri romani che essere scambiato per uno di loro?”), testi originali letti da Dacia Maraini e poesie recitate da Roberto Herlitzka e una lunga parentesi dedicata al rapporto di Pasolini con Sartre, unico intellettuale laico francese ad avere difeso il Vangelo secondo Matteo dallo sprezzante commento di Michel Cournet, critico del Nouvel Observateur “è un film fatto da un prete per i preti”. Sartre invece, pur ammettendo che spesso i temi religiosi favoriscono idee conservatrici, denuncia l’ambiguità della sinistra francese che dovrebbe avere preso co(no)scenza del sottoproletariato tramite la guerra di Algeria e sostiene che è giunto il momento di porre il problema del Cristo come una fase della storia del proletariato. E anzi Sartre suggerisce a Pasolini di proiettarlo insieme a “La ricotta” (un “film della fame in cui il ladrone buono muore perché finalmente ha mangiato a sazietà”) per meglio mostrare il suo percorso stilistico e per svelare finalmente che il razionalismo francese manca di critica al razionalismo…con l’unica eccezione di Jean-Luc Godard.

Del resto, il fil rouge dipanato dagli autori parte da un’Africa che non è un concetto storico o sociologico ma una rappresentazione mitologica e poetica dell’alterità che porta con sè la “trasformazione delle Erinni in Menadi” cioè il passaggio da una società primitiva, dominata dall’irrazionalità, ad una comunità statale guidata dalla ragione, da leggi e regole. Ma questo processo non deve essere filtrato dai modelli politici e ideologici dell'Occidente, né essere uno sradicamento dal passato ma si sarebbe configurato come la resistenza dei sottoproletari di quella “metà del mondo che non fa la storia, ma la subisce, ma che intanto è alla testa della comune lotta, in quanto resistente e armata”. Mondo arcaico e contadino contrapposto a quello industrializzato, globale e massificato (pur con delle sacche, ad esempio gli sfollati del Polesine o i baraccati romani per cui “società dei consumi è una frase misteriosa ed incomprensibile”) dove Roma diventa lo specchio in cui contemplare l’Africa.


Ma il film tratta anche del rapporto tra letteratura e cinema; in particolare il documentario parte dalle recensioni ad Accattone definito “una storia scritta con la macchina da presa,un film che non nasce dal cinema ma da un’esperienza poetica” ma soprattutto contiene un’intervista in cui Pasolini spiega la sua scelta di passare dalla letteratura al cinema. Il cinema non è una tecnica ma un linguaggio transnazionale e transclassista immediatamente comprensibile senza bisogno di codici o simboli e si esprime attraverso la realtà stessa. Proprio per questo viene messa in risalto la presenza della macchina da presa, per rendere visibile l'operazione tecnica che genera l'immagine e dunque la realtà. E anzi Bernardo Bertolucci ricorda che quando è stato assistente di Pasolini ne percepiva l’animo da pioniere in modo tale che la prima scena girata da Pasolini per lui “è stato il primo piano della storia del cinema”. La rivoluzione pasoliniana è stata quella di non narrare né le periferie romane nè il terzo Mondo con lo sguardo di un soggetto borghese ma far parlare direttamente le situazioni attraverso la forma del frammento, del documento, della testimonianza decolonizzando l’immaginario per usare l’espressione di Latouche. In questo senso ricorrere ad attori non professionisti esprime ed esalta quell'autenticità che manca alla parola scritta.






PS Particolarmente interessante il contenuto extra nella versione dvd “Pasolini, un ritratto inconsueto” un montaggio di spezzoni dei cinegiornali conservati nell’Istituto Luce che mostrano cosa i benpensanti pensavano di Pasolini.








domenica 30 marzo 2014

Genocidio Rwanda: per parlare alle nostre coscienze



Sono trascorsi vent'anni dal genocidio e da una guerra civile che fece circa un milione di vittime in Rwanda: una corte di Parigi ha emesso la prima sentenza nei confronti dell'ex capo dell'intelligence del governo ruandese dell'epoca e capitano della guardia presidenziale, Pascal Simbikangwa, condannandolo a 25 anni di carcere per complicità in genocidio e crimini contro l'umanità.

Noi vogliamo riportare alla memoria quel genocidio con la recensione di un libro: Nostra Signora del Nilo di Scholastique Mukasonga (uscito in Italia il 20 febbraio per i tipi di 66thand2nd), libro che ha ottenuto il premio Ahmadou Kourouma al Salone del libro di Ginevra e, nel novembre 2012, il premio Renaudot. 

Nostra signora del Nilo è il nome di un istituto scolastico, di un liceo femminile situato non lontano dal Grande fiume dove si erge la statua della Madonna nera. Siamo in Rwanda, negli anni'70, e in quell'istituto studiano allieve, spesso figlie di uomini potenti: avvocati, ministri, uomini d'affari. Intorno a quell'istituto si muovono, le suore, la madre superiora e il cappellano, ma anche il sindaco della città di Nyaminombe e le guardie comunali che insegnano e predicano alle ragazze i valori dell'onestà, della purezza e della castità. Gloriosa, Frida, Goretti, Godelive, Immaculée: questi i nomi di alcune di loro, ma nel gruppo, ci sono anche Virginia e Veronica, due giovani di etnia tutsi, ammesse alla scuola grazie alla quota “concessa” dagli hutu, l'etnia dominante. 


Un anno scolastico è un'occasione di confronto (o di scontro): un'impudenza, infatti, sfocerà nell'odio razziale è sarà uno dei primi segnali che porteranno al genocidio del 1994, nel periodo tra aprile e luglio, quando gli estremisti hutu, per preservare il loro potere, organizzarono l'immenso massacro.

Le ore di religione erano ovviamente affidate a padre Herménégilde. A suon di proverbi, dimostrava che i ruandesi avevano sempre adorato un unico Dio, un Dio che si chiamava Imana e che somigliava come un fratello gemello allo Jahvè degli ebrei della Bibbia. Gli antichi ruandesi erano, senza sapere di esserlo, dei cristiani che aspettavano con impazienza l'arrivo dei missionari per farsi battezzare, ma il diavolo era giunto a corrompere la loro coscienza”: questo è un brano del romanzo, scritto con un linguaggio semplice, ma efficace, che ripercorre la Storia passata e recente di un Paese sempre dilaniato da conflitti interetnici e religiosi e lacerato dal colonialismo.

Un testo che racconta di una terra bellissima su cui gli Uomini hanno seminato razzismo e sopraffazione, rabbia e fanatismo: ma una speranza, nel racconto, c'è e si chiama solidarietà.


venerdì 17 gennaio 2014

Un saggio in forma di film per parlare ancora di colonialismo




Il seguente saggio è di Simone Brioni - ed è già apparso su www.wumingfoudation/giap - e ringraziamo molto l'autore per averci dato il permesso di pubblicarlo anche per voi.

Simone Brioni è Visiting Fellow presso l’institute of Germanic and Romance Studies, Univeristy of London. Si occupa della rappresentazione letteraria e cinematografica del colonialismo e delle migrazioni in Italia.


Un film saggio che parla dell’eredità del colonialismo, di resistenza, di Lega Nord, di zombi, e della coincidenza per cui Zombi 2 (1979) di Lucio Fulci è uscito proprio quando sono iniziati i primi studi critici sul colonialismo e l’Italia è diventata una delle destinazioni dell’immigrazione africana.
Regia, sceneggiatura e montaggio: Simone Brioni. Soggetto: Fabio Camilletti. Correzione colore: Jennifer Burns, Fabio Camilletti e Giulio Giusti. Assistente al montaggio: James Graham Ballard. Fotografia: Ermanno Guida. Suono: Katherine Louise Clyne. Assistenti di post-produzione: Lidia Mangiavini e Cecilia Brioni. Produzione: Wu Ming 2 e Institute of Advanced Studies, University of Warwick.
Scena 1
Una fotografia, scattata in Etiopia negli anni Trenta, tenuta in una mano. Ritrae alcune donne che salutano romanamente la camera. I loro volti non si distinguono con precisione, ma è certo che hanno la pelle nera. Nell’altra mano il telecomando. Premo il tasto ‘play’ del lettore DVD. Apocalypse Now. Menù. Seleziona scena. Play. Marlon Brando, in chiaroscuro. Parla sottovoce, con la voce spezzata. “L’orrore. L’orrore”.
Come il saggio The Gothic, Postcolonialism and Otherness: Ghosts from Elsewhere di Tabish Khair dimostra brillantemente, buona parte dell’immaginario gotico della letteratura occidentale è abbinato, sin dalle origini, alle colonie e ai loro abitanti. I mostri avevano una pelle diversa e provenivano da posti sconosciuti e ostili. Questa rappresentazione serviva a “giustificare” la conquista di mezzo mondo da parte delle potenze occidentali, con la scusa di civilizzare i barbari, di redimerli dalla loro condizione di mostri per restituirli al genere umano. In altri termini, potremmo dire che l’orrore di cui Kurtz parla al termine di Cuore di tenebra di Joseph Conrad, non si riferisce solamente alle atrocità del colonialismo occidentale in Africa, ma evoca un intero immaginario, costruito sulla paura di un’alterità minacciosa, che ha caratterizzato la conquista europea del resto del mondo e la cui eredità è ancora percepibile. Questo aspetto lo esprime bene Frantz Fanon nelle prime pagine de I dannati della terra, quando afferma che non è tanto la dominazione e lo sfruttamento dei colonizzatori, quanto l’interiorizzazione di stereotipi discriminatori a rendere i colonizzati simili a zombi.
Scena 2
Si sente l’Internazionale in sottofondo. Gli zombi sono tanti, hanno fame. Vederli tutti insieme fa pensare a Il quarto stato di Pellizza da Volpedo, se non fosse per la loro pelle scura. Ma non siamo in Italia, siamo ad Haiti. Fa parte delle convenzioni del genere.
Il riferimento di Fanon agli zombi merita di essere approfondito. Nella tradizione cinematografica gli zombi sono, com’è noto, cadaveri che resuscitano, hanno poteri soprannaturali e un’attitudine ostile nei confronti dei vivi. Hanno fame, non parlano, si muovono in massa, e come ne La lunga notte dell’orrore di John Gilling (1966) si rivoltano contro un padrone malvagio. Non è quindi un caso che spesso essi siano stati identificati con la classe operaia.
Ma per capire come mai Fanon si riferisca agli zombi per parlare dei soggetti colonizzati, occorre risalire alle origini haitiane di questo mostro, riferendosi al primo film del genere: Zombi bianco di Victor Halperin (1932). Perchè gli zombi in questo film risorgono proprio su quest’isola caraibica? Una prima risposta a questa domanda è certamente che Haiti fu destinazione della tratta degli schiavi africani verso il nuovo continente. Le carni scure degli zombi e il loro incedere lento, non possono che ricordare la condizione di questi schiavi. Una seconda risposta, è legata alle relazioni coloniali tra Haiti e gli Stati Uniti, protrattesi dal 1915 al 1934. Zombi bianco fa irrompere ad Hollywood mostri che provengono da Haiti, dà voce alla paura che i colonizzati si possano ribellare contro i colonizzatori statunitensi.
Scena 3
Walking Dead. Serie 1. Episodio 1. Siamo negli Stati Uniti. Arriva uno sceriffo a cavallo in città. Potrebbe essere un film western. Ma non lo è. Lo sceriffo viene attaccato dagli zombi. Si rifugia all’interno di un carro armato. Sembra non avere scampo. Poi viene salvato da un ragazzo asiatico, che assomiglia a Data dei Goonies.
La paura che i colonizzati si ribellino contro i colonizzatori è rintracciabile a tutt’oggi nel genere statunitense dello zombi movie. L’esempio più recente è forse il primo episodio della prima serie di Walking Dead di Frank Darabont. Dopo essersi risvegliato dal coma ed aver scoperto che è esplosa una misteriosa epidemia negli Stati Uniti, lo sceriffo Rick Grimes si muove verso Atlanta a cavallo a in cerca della sua famiglia. Una volta raggiunta la città Rick viene attaccato da un nugolo di zombi, che lo costringe a trovare rifugio in un carroarmato. Questa scena unisce a mio parere due immagini strettamente legate all’immaginario “coloniale” statunitense. In primo luogo, la cavalleria utilizzata durante le guerre per la conquista del West contro gli indiani-americani, che in questo caso non esce vittoriosa dal confronto ma sconfitta. In secondo luogo, il carro armato assediato dagli zombi evoca le operazioni militari condotte dagli Stati Uniti in Iraq e in Afghanistan. La rappresentazione degli zombi, del resto, non differisce di molto dall’immagine dei musulmani offerta dai media internazionali dopo l’undici settembre: una torma di soggetti sub-umani, senza volto né voce, animati da istinti violenti e irrazionali.
Questo non è il solo riferimento alla “rivolta dei colonizzati” o alla resurrezione del colonialismo nella serie. Nel quarto e nel quinto episodio della seconda serie, Daryl Dixon evoca il massacro degli indiani-americani prima che gli zombi confinino gli umani all’interno di una vera e propria riserva. Nel quinto episodio della seconda serie Shawn Green dice che i bombardamenti dell’esercito americano su Atlanta per eliminare gli zombi ricordano le esplosioni di napalm in Vietnam.
Scena 4
Riassunto di Zombi 2. Una nave arriva nel porto di New York. A bordo c’è uno zombi, il cui arrivo propagherà l’apocalisse. Ma non lo sappiamo ancora. Un giornalista, Peter West, e la figlia del proprietario della barca, Anne Bowles, decidono – o meglio, lui decide, lei lo segue – di investigare sul caso e ritrovare il padre della ragazza. Vengono aiutati a raggiungere l’isola da due turisti statunitensi, Brian e Susan. A Matul scoprono che i morti si rianimano e attaccano i vivi. Un dottore, David Menard, cerca di fermare l’epidemia. Non ci riesce, sua moglie Paula viene uccisa, e la situazione precipita rapidamente. Non ci sono superstiti. New York è invasa dagli zombi.
Ricapitoliamo. Gli zombi si muovono da una periferia colonizzata verso un centro (spesso gli Stati Uniti), sono neri, hanno fame, si muovono in gruppo, e resuscitano la memoria di eventi violenti accaduti nel passato. Sono esseri liminali, divisi tra la vita e la morte, tra il passato (un passato coloniale, o comunque in cui la discriminazione razziale sembra occupare un ruolo importante) e il presente. Queste sono, a grandi linee e non senza generalizzazioni, alcune delle caratteristiche del genere.
Seguendo queste coordinate, proviamo ora ad analizzare un film italiano del 1979, Zombi 2 di Lucio Fulci. Questo film riporta in luce alcuni stereotipi legati alla rappresentazione dell’altro come mostro che ha caratterizzato il colonialismo occidentale. In primo luogo, gli zombi hanno la pelle scura e provengono da un’isola caraibica chiamata Matul, mentre i vivi sono bianchi, borghesi, statunitensi. Fulci sottolinea le caratteristiche raccapriccianti degli zombi, per esempio facendo soffermare la telecamera sui vermi che escono dai loro corpi. In una scena significativa uno zombi lotta contro uno squalo e lo uccide, mettendo in luce un’altra caratteristica spesso associata ai colonizzati, vale a dire la loro forza bruta, animalesca. In un’altra scena gli zombi sono rappresentati come cannibali che banchettano sul corpo di un personaggio femminile. Il riferimento al colonialismo è inoltre evidente nell’attacco finale degli zombi, quando i vivi si rifugiano in una chiesa missionaria, uno dei simboli della colonizzazione occidentale del resto del mondo.
Sarebbe però ingeneroso ridurre l’intero film alla rappresentazione dicotomica tra zombi/colonizzati/neri e vivi/bianchi. Per esempio, una delle vittime degli zombi, Susan, è meticcia, e risorgono anche i corpi dei conquistadores nel cimitero spagnolo. Il riferimento ad un immaginario coloniale va inteso a mio parere in senso più ampio, come la paura di un passato con cui non si è fatto i conti e che incombe sul presente.
Scena 5
Un soldato italiano che stringe a sé una ragazza etiope, nuda. Voce di sottofondo. Discorso di Benito Mussolini a Trieste il 19 Settembre 1938: “Nei riguardi della politica interna il problema di scottante attualità è quello razziale. È in relazione con la conquista dell’Impero, poiché la storia ci insegna che gli Imperi si conquistano con le armi, ma si tengono col prestigio. E per il prestigio occorre una chiara, severa coscienza razziale, che stabilisca non soltanto delle differenze, ma delle superiorità nettissime.”
Alcuni riferimenti al passato coloniale in Zombi 2 risultano più chiari in relazione alle leggi fasciste contro le unioni interrazziali del 1937 e le leggi razziali del 1938, che portarono, com’è ormai noto, all’apartheid tra bianchi e neri nelle colonie. Per esempio, l’idea che i colonizzati siano contagiosi, la si ritrova già in Tempo di Uccidere di Ennio Flaiano (1948), uno dei pochi testi a denunciare i crimini italiani in Africa, benché sia influenzato da una retorica e da un immaginario appartenenti ad un periodo precedente. In questo romanzo è presente una donna etiope, spesso descritta come più simile ad un animale che ad un essere umano. Come Giovanna Tomasello nota in L’Africa tra mito e realtà. Storia della letteratura coloniale italiana (2004), questa donna porta un turbante bianco, a significare il fatto che fosse affetta da una malattia. La frequente rappresentazione delle donne africane come contagiose è un lascito delle politiche sulla purezza della razza promosse durante il fascismo.
La paura delle unioni interraziali è inoltre evidente in una scena del film, in cui viene descritta l’aggressione di uno zombi ad una donna bianca, Paula. La camera segue lo zombi alle spalle, mentre guarda la donna, nuda sotto la doccia. Lo zombi cerca quindi di entrare nel bagno e uccide Paula perforandole l’occhio con un’enorme scheggia. La scena è una metafora non troppo sottile di uno stupro ed evoca la minaccia sessuale dei soggetti colonizzati e la paura delle unioni interraziali. Questa paura è inoltre evidende nella causa della resurrezione degli zombi, i riti vudù, che il dottor Menard definisce come il risultato di una mescolanza tra animismo e cristianesimo. Questi elementi sembrano sottolineare un preciso sottotesto del film: la combinazione tra culture e razze diverse può essere pericolosa, perchè può distruggere l’ordine costituito.
Scena 6
Nemesi. L’Africa nella letteratura coloniale è spesso identificata con una donna. La penetrazione dell’occhio della donna in Zombi 2 rappresenta la vendetta dei colonizzati verso i loro antichi padroni, che sono penetrati nella selvaggia Africa, possedendola.
Da dove nasce la paura di Zombi 2? Nasce dalla perdita di un privilegio che esiste nella società che gli zombi verrebbero a distruggere, per portare ad uno stato di caos ulteriore. Un privilegio di genere, anzitutto. Le donne sono rappresentate nel film come oggetto di uno sguardo voyeristico, o come vittime di violenza. Anne segue le istruzioni di Peter ed è “naturalmente” attratta da lui. Paula è schiaffeggiata violentemente dal marito, che cerca di trovare una soluzione alla resurrezione dei morti. Il ruolo delle donne nel film è secondario e riflette i valori dei loro compagni maschi.
Il privilegio è inoltre esercitato in termini di razza. A Matul, il dottor Menard ha un servitore, Lucas, che non fa altro che obbedire ai suoi ordini. Lucas è superstizioso ed il suo ruolo non è altro che quello di esistere in opposizione a Menard, paladino sconfitto della ragione occidentale. A New York, la situazione non è affatto diversa. In una delle prime scene del film un medico rimprovera con veemenza il lavoro del proprio aiutante africano-americano. Anche la scelta di uomini bianchi come ultimi superstiti del genere umano è problematica (rimando, per uleriori approfondimenti a riguardo, a un bel saggio di Franco Moretti intitolato “La dialettica della paura”), in quanto esclude le minoranze dalla possibilità di poter rappresentare la specie nella lotta contro il mostro. Infine, il privilegio è esercitato grazie alla scelta di utilizzare la nudità e la violenza – il film di Fulci è uno dei primi film splatter – non per far riflettere il proprio pubblico ma per stimolarne gli istinti più immediati come, per l’appunto, la paura. Questa paura in realtà sembra voler mantenere l’ordine costituito così com’è, benché sia (o forse proprio perché lo è?) sessista e razzista.
Scena 7
Estratto da Cabiria. Maciste, l’imbattibile gigante, è incatenato e costretto a girare una macina come animale da soma. Maciste è africano, ma usa la sua forza a servizio dei romani contro i cartaginesi, come gli ascari nelle campagne di Libia e d’Etiopia.
Per continuare questa analisi è importante specificare una cosa. Zombi 2 è un film di genere, e come tale risponde a precisi stilemi e regole. L’ambientazione americana è senz’altro una di queste. Tuttavia se prendiamo seriamente i punti sollevati nella quinta scena del nostro film saggio, non possiamo che interrogarci sul perché il film di Fulci sia stato prodotto ed abbia avuto insperato successo in Italia, e se esista un legame con le circostanze storiche e sociali in cui è stato realizzato.
Verso la fine degli anni settanta avvengono due fatti in Italia che scuotono l’intorpidita coscienza collettiva, e la sua amnesia sul periodo coloniale. In primo luogo, iniziano a diffondersi i primi studi critici sul colonialismo italiano per opera di Angelo Del Boca e altri storici. Questi studi portano in luce una storia di crimini efferati, di sterminio di civili con gas tossici, di campi di concentramento (rimando a un interessante sito a proposito: http://www.campifascisti.it/mappe.php). Il risultato di questi studi non ha finora permeato la società italiana (e sembra confermarlo il mausoleo di Affile in provincia di Roma a Rodolfo Graziani, uno dei peggiori criminali della seconda guerra mondiale, a cui Wu Ming 1 ha dedicato un prezioso articolo), eppure è innegabile che abbia riportato alla luce la memoria di un periodo cruciale nella costruzione dell’identità nazionale italiana.
Il colonialismo infatti va di pari passo con l’unificazione del paese, dato che la prima acquisizione commerciale da parte della compagnia Rubattino sul porto di Massaua in Eritrea, risale al 1869, solo otto anni dopo l’unificazione. Il colonialismo fu fondamentale per unire una giovane nazione contro un nemico comune, e a trasformare gli italiani in un popolo di “bianchi”, cosa che fino ad allora non era affatto scontata. Sono molti gli esempi che si potrebbero portare per dimostrare l’importanza del colonialismo nella costruzione del carattere nazionale (da dove viene il caffè che beviamo, uno dei simboli dell’“Italianità”?). Mi limito solo a segnalare che il primo lungometraggio italiano, Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone, fu realizzato per celebrare la vittoria italiana durante la guerra italo-turca del 1911 che diede inizio all’avventura coloniale italiana in Libia.
Non sorprende quindi che sia proprio un film a riportare in vita questo rimosso storico. E non uso la parola “rimosso” senza una ragione, evocando un’analisi psicoanalitica: il colonialismo è stato rimosso in seguito ad un trauma, vale a dire le sconfitte italiane di Adua (1896) e Dogali (1887). Secondo Fabio Camilletti, è anche alla luce di queste sconfitte, che è possibile spiegare la nevrosi, tipicamente italiana, a voler “far vedere” ciò di cui si è capaci, a voler dimostrare di essere una grande potenza europea, di non essere secondi a nessuno, e al tempo stesso difendersi con il catenaccio quando si gioca a calcio.
In un articolo di tutt’altra natura (intitolato Il passo di Nerina. Memoria, storia e formule di pathos nelle Ricordanze), Camilletti offre invece un’indicazione importante per comprendere il motivo per cui quel trauma e quel rimosso si siano esplicitati proprio in un film dell’orrore. Lo studioso sostiene che il proliferare di storie dell’orrore anticipò e diede una forma fittizia alle ansie che in quel momento serpeggiavano in Europa e sarebbero state portate alla luce qualche anno più tardi dalla psicoanalisi. Similmente, si protrebbe dire che Zombi 2 è uno degli espedienti attraverso il quale si esplicita la relazione perturbante dell’Italia rispetto al suo passato coloniale, un trauma ancora insanato, che gli studi storici coevi riportano in luce proprio negli stessi anni.
Scena 8
Immagini che si susseguono velocemente, una dopo l’altra. La nave all’ inizio di Zombi 2, che porta l’apocalisse a New York. L’arrivo della nave fantasma nel porto di Wisborg, con a bordo topi pestiferi in Nosferatu, eine Symphonie des Grauens (1922) di Wilhelm Murnau. Le immagini di navi e barconi cariche di immigrati, sui manifesti della Lega Nord.
C’è un altro fatto che riporta alla luce la memoria coloniale italiana e un precedente incontro con l’“altro africano”, vale a dire l’inizio dell’immigrazione africana in Italia che raggiunge numeri significativi proprio dalla fine degli anni settanta. Siamo in un periodo che precede l’arrivo dei barconi che verranno utilizzati nei manifesti della Lega Nord per seminare la paura dell’invasione degli immigrati. Eppure è significativo che Zombi 2 si apra proprio con una nave che entra nel porto di New York. Questa scena sembra essere un riferimento al capolavoro di Wilhelm Murnau, Nosferatu, eine Symphonie des Grauens (1922). Siegfried Kracauer, autore di un testo fondamentale sull’espressionismo tedesco Da Caligari a Hitler. Una storia psicologica del cinema tedesco, parla di questa scena come di una rappresentazione metaforica dei sentimenti anti-semiti della Germania degli anni ’30. In Nosferatu, lo “spirito tedesco” è assediato da “presenze minacciose” che arrivano dall’esterno, su una nave fantasma. Kracauer sostiene che non sia un caso se un anno dopo sarebbe avvenuto il putsch di Monaco. Similmente, la nave che porta l’infezione zombi a New York potrebbe essere vista come il barometro delle inquietudini dell’Italia di quegli anni verso l’immigrazione.
Scena 9
Di nuovo, si sovrappongono due immagini. Da un lato il poster di Zombi 2, con i mostri che invadono New York. Dall’altro gli immigrati invadono l’Italia. Li vediamo procedere lentamente alle loro spalle. Non hanno volto, né identità. L’apocalisse è inevitabile.
Zombi 2 attinge da un immaginario coloniale per rappresentare la paura che i colonizzati si ribellino ai loro padroni di un tempo, invadendoli. La paura di questa invasione è chiaramente rappresentata in uno dei poster del film, che assomiglia in maniera impressionante a uno dei manifesti della Lega Lombarda della fine degli anni ottanta. Non so se chi abbia realizzato questo poster si sia ispirato ai film dell’orrore, come sembrerebbe, né m’interessa saperlo. È importante tuttavia sottolineare che entrambi i manifesti invitano a ricercare le cause dell’inquietudine all’esterno (nell’immigrazione) e non all’interno (nella storia coloniale) dell’Italia.
Scena 10
Una massa di uomini e donne affamati, con i vestiti strappati e le carni scure si avvicina lentamente. La protagonista assomiglia a Renata Polverini, e guarda terrorizzata il sindaco di Affile, che sta al suo fianco. Entrambi se la danno a gambe, ma non hanno scampo. Gli zombi li divorano, lacerandogli le carni.
Varrebbe invece la pena ritrovare le cause di questa inquietudine nell’inconscio nazionale, nel fatto che l’Italia non abbia fatto i conti con il suo passato. L’esempio più recente (e forse il più agghiacciante) di mancata decolonizzazione della memoria è il mausoleo dedicato a Rodolfo Graziani, il macellaio di Fezzan, ad Affile. Penso che in Germania non si potrebbe erigere oggi un monumento a Goebbels, solo perché (e cito dal sito del comune di Affile) “figura tra le più amate e più criticate, a torto o a ragione, fu tra i maggiori protagonisti dei burrascosi eventi che caratterizzarono quasi mezzo secolo della storia [tedesca]”. In Italia invece è stato possibile (lo ammetto, ho scelto il paragone con la Germania per dare ulteriore esempio di quella nevrosi tutta italiana di voler dimostrare di essere come le altre nazioni europee, a cui accennavo prima). Un altro modo per non fare i conti con il passato è invece quello di rimuoverne i simboli, senza alcuna discussione pubblica. Nel 2010 il governo Berlusconi restituì tra le polemiche la stele di Axum all’Etiopia riuscendo a vendere l’operazione come un’opera di valorizzazione dell’identità di quel paese invece di una restituzione dovuta di un bottino di guerra. Come sostiene Antonio Morone, il fatto che l’Italia abbia preso parte attiva alla guerra in Libia nel 2011 bombardando una sua ex-colonia senza che questo intervento militare fosse “oggetto di discussione nelle diverse sedi istituzionale né tanto meno nelle piazze italiane”, mostra ancora una volta come il risultato degli studi storici realizzati finora riguardo alla storia coloniale italiana “non si sia riversato in un comune sentire degli italiani” (http://www.linkiesta.it/bombe-italiane-sulla-libia-ritorno-al-colonialismo).
Un film saggio però deve indicare anche strade per il futuro, possibili modi per fare i conti con la memoria. Crogiolarsi nella denuncia dei modi in cui non si sono fatti i conti con il passato coloniale è un interessante quanto inutile autocompiacimento. Come ricorda Wu Ming 2, negli ultimi vent’anni sono state prodotte una serie di opere scritte sia da italiani sia da immigrati provenienti dalle ex-colonie, che hanno contestato la visione unilaterale della storia che ci è stata presentata finora, mettendo in discussione il mito degli “italiani brava gente” (http://www.dinamopress.it/news/la-guerra-razziale-tra-affile-e-il-colonialismo-rimosso). Queste opere sono cruciali per rendere partecipe la società italiana di una pagina di storia colpevolmente dimenticata.
Per quanto mi riguarda, negli scorsi tre anni ho coordinato un gruppo di lavoro che ha cercato di squarciare un velo di silenzio sul nostro colonialismo realizzando due documentari, intitolati La quarta via. Mogadiscio, Pavia e Aulò. Roma post-coloniale (entrambi distribuiti da un editore indipendente di Roma, la Kimerafilm). Queste due opere, che hanno per protagoniste le scrittrici Kaha Mohamed Aden e Ribka Sibhatu, parlano del colonialismo italiano rispettivamente in Somalia e in Eritrea all’interno dello spazio urbano di Pavia e di Roma, cercando di de-zombificare queste città, di de-colonizzarne finalmente la memoria.

L'Associazione per i Diritti Umani ha realizzato due interviste alle protagoniste/scrittrici che, se volete, potete cercare in questo sito...

sabato 14 dicembre 2013

Lontano da Mogadiscio: partire dal Passato per capire meglio il Presente





Shirin Fazel Ramzanali è nata a Mogadiscio; ha studiato nelle scuole italiane della Somalia, agli inizi degli anni '70, e poi si è trasferita in Italia, con la sua famiglia, per fuggire dal regime dittatoriale di Siad Barre. Nel 1994 ha scritto un libro, diventato un testo fondamentale per parlare di colonialismo e primo vero esempio di letteratura italiana della migrazione.
Un testo che narra la Storia attraverso uno stile "meticcio": spunti, considerazioni, note biografiche, riflessioni politiche. Un libro diviso in sei parti: la prima incentrata sulla Somalia un Paese che, come scrive l'autrice: "Un tempo era il Paese delle favole"; nella seconda parte predomina l'aspetto autobiografico con la diffidenza, da aprte degli italiani, nei confronti di chi aveva il colore della pelle più scuro; poi la scrittrice racconta i viaggi all'estero a fianco del marito e, nella quarta parte, riporta la brutalità della guerra civile in Somalia per riprendere l'argomento nella sezione successiva in cui spiega come il suo Paese d'origine sia stato sfruttato dalle superpotenze occidentali. La scrittrice, infine, racconta l'inserimento nella società italiana.
Lontano da Mogadiscio torna in versione e-book e in edizione bilingue (italiano e inglese) ed è arricchito da una postfazione di Simone Brioni.


Abbiamo intervistato per voi Shirin Fazel Ramzanali che ringraziamo tantissimo per la sua disponibilità    





Shirin Fazel Ramzanali




Perchè la decisione di far uscire di nuovo il libro, apparso nel 1994, come primo testo di letteratura post-coloniale?

Lontano da Mogadiscio, a distanza di vent’anni è un libro vivo, fa discutere su temi importanti. E’stato usato e lo usano tuttora nella sezione di Italianistica in molte università. Purtroppo il cartaceo, dopo un numero di anni, va fuori stampa e diventa introvabile. La nuova versione è bilingue, italiano-inglese; ed il fatto che è in formato e-book lo rende reperibile ad un’ampia cerchia di lettori internazionali.
E’ una opportunità per i giovani (italiani e somali) che vorranno leggerlo, scoprire che Mogadiscio un tempo poteva sembrare una città di provincia italiana. Si tende a guardare il presente senza riflettere sul passato, dimenticando molto spesso che il fenomeno dell’immigrazione è in parte anche legato ad un passato coloniale di molte nazioni europee.
La versione inglese è tradotta da me. Alcuni brani li ho riscritti, per cercare di trasmettere le emozioni del momento. Questa riscrittura sicuramente darà una nuova chiave di lettura al testo.
Nei capitoli inediti parlo delle mie esperienze degli ultimi decenni maturate durante le mie permanenze in paesi diversi, racconto di luoghi come la città inglese di Birmingham dove risiede una folta comunità di somali. Sono a contatto con la diaspora e consapevole di tutte le problematiche e difficoltà che si trascina dietro. Inoltre, osservo e racconto con distacco questa Italia che sta cambiando volto, ma ahimè attuando anche nuove sottili forme di discriminazione.





Che cosa è cambiato, a distanza di vent'anni, nel suo Paese d'origine?


Purtroppo in questi ultimi vent’anni la Somalia è stata violentata, sfruttata, calpestata senza avere una voce in capitolo a livello mondiale come stato sovrano. Milioni di rifugiati sparsi nei quattro continenti, hanno faticato per rifarsi una nuova vita. Anche se fisicamente lontani, hanno sempre sostenuto, con le loro rimesse ai parenti, l’economia del paese. Abbiamo una generazione che ha conosciuto solo guerra e continua a cercare all’estero una vita migliore. Sono ancora fresche nella memoria le immagini delle centinaia di persone che hanno perso la vita nel Mediterraneo. I giovani che rappresentano il futuro della nazione purtroppo non hanno prospettive. Penso che la Somalia ha sofferto abbastanza, e ha vissuto sulla propria pelle gli orrori di una guerra civile. Certamente c’è chi ha beneficiato di questa situazione, ma non voglio innescare una polemica. Voglio essere positiva anche perché finalmente per la Somalia si è aperto un nuovo orizzonte. Anche se ci sono elementi che mirano a destabilizzare il paese, si ha la palpabile sensazione di una luce in fondo al tunnel. Oggi c’è un governo stabile, e riconosciuto. A Mogadiscio si stanno riaprendo le ambasciate. Il paese cerca una rinascita in tutti i settori. Questa energia positiva ha innescato nei somali che vivono all’estero la voglia di ritornare in patria e di portare il loro know-how acquisito in questi lunghi anni di forzato esilio.



Ci può raccontare quali sono state le difficoltà durante il suo inserimento nella società italiana?

Io sono arrivata in Italia nei primi anni settanta già come cittadina italiana. Avendo frequentato le scuole italiane, ed essendo bilingue sin da bambina, non ho avuto barriere a livello linguistico. Venendo però da una città multiculturale, mi sono dovuta adattare ad una città provinciale italiana che prima di allora non aveva avuto contatti con persone di provenienza africana. Ho subìto sguardi di gente curiosa, che mi rivolgeva domande imbarazzanti. Non è bello sentirsi osservata come un fenomeno di baraccone.



Qual è il suo rapporto con l'Italia e con gli italiani, oggi?

L’Italia è il mio paese, ho vissuto i cambiamenti politici e sociali degli ultimi quaranta anni. I miei genitori sono sepolti qui. I miei figli e nipoti sono nati in questa terra . Mi sento inserita, vivo e partecipo i problemi che tutti i cittadini affrontano. Il mio rapporto con l’Italia di oggi è quello che vivono un po’ tutti. Anche se vivo all’estero, grazie alla tv satellitare e le varie risorse che la tecnologia ci offre, sono quotidianamente in contatto con la realtà italiana. Sono estremamente delusa da una classe politica che ha portato il paese allo sfascio, nonostante gli enormi sacrifici imposti alle famiglie italiane, nonostante le continue vessazioni subite dai piccoli imprenditori che sono la linfa vitale dell’economia italiana e malgrado il lavoro umile degli immigrati che con i loro sacrifici tengono a galla numerosi settori e contribuiscono fattivamente alla formazione del Pil. Vorrei finalmente al governo delle persone veramente capaci, in sintonia con il popolo e che avessero come priorità il benessere dell’Italia. In altre parole io, tutti noi vogliamo assistere ad un cambiamento positivo nella gestione della cosa pubblica.
Come italiana di origine somala, sono delusa del fatto che il governo italiano ha fatto troppo poco per accogliere i rifugiati somali. Come persona migrante sono indignata che
gli immigrati vengano penalizzati da leggi che non tutelano la loro dignità di persona o di cittadini.
Il mio rapporto vis-à-vis con gli italiani è di vecchia data, gli ho avuti come compagni dai tempi dell’asilo. “Ragazzi” con cui sono a contatto ancora oggi. Tra gli italiani ho amici, conoscenti e persone che stimo moltissimo. Conosco e scambio quattro chiacchiere con le persone che abitano nel mio quartiere. Ho un rapporto di confidenza con i miei vicini, ci beviamo un tè insieme. Io non mi creo barriere mentali.



Secondo lei, gli italiani hanno cambiato mentalità o permangono pregiudizi consolidati nei confronti degli stranieri?

Non mi piace generalizzare. Sparsi come formiche, per tutto il territorio italiano c’e il lavoro di migliaia di persone che ogni giorno si danno da fare per costruire una società sana e priva di pregiudizi.
Purtroppo sui media vanno a finire soltanto gli episodi di intolleranza e razzismo più eclatanti, ma riportati in una prospettiva che invece di condannarli senza possibilità di appello innescano piuttosto sterili polemiche che si trascinano inutilmente per settimane. Ci sono i politici che usano questo tipo di propaganda per fini elettorali. Di conseguenza l’uomo comune si lascia trascinare in questo vortice che non fa altro che alzare il livello di scontro e aumentare le paure per “l’altro”. Quello che secondo me deve cambiare nella nostra società è di dare spazio alla meritocrazia. Leggi che tutelano gli immigrati facendoli sentire anche politicamente parte del territorio in cui vivono. Non ghettizzarli. Riconoscere come cittadini italiani i ragazzi nati e cresciuti nel nostro paese, che in effetti sono italiani.
Che senso ha dire ad un giovane di pelle scura, nato e cresciuto in Italia di tornare al suo paese?
Solo quando una società dà pari opportunità ai propri cittadini allora cambia il modo di pensare, il modo di percepire l’altro.
Non si può credere di avere dei privilegi solo perché si è bianchi.
Non scordiamoci che la ricchezza dell’ Europa è costruita dallo sfruttamento di risorse primarie che provengono da paesi etichettati “poveri”.