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giovedì 8 maggio 2014

Il futuro è troppo grande: il futuro dei nuovi cittadini



Giusy Buccheri e Michele Citoni sono i registi del documentario Il futuro è troppo grande realizzato con il patrocinio del Ministero per l'integrazione, l'Assessorato alle Politiche Culturali della Provincia di Roma, OIM-Organizzazione Internazionale delle migrazioni.

Un film che raccontala quotidianità di due ragazzi: Re e Zhanxing. Lo studio, il lavoro, le passioni. Quelle di tanti altri coetanei. Sono di origini cinesi: lui vive ancora con i genitori e la sorella, ama l'arte ed è fidanzato. Lei è già laureata, vive da sola e deciderà di intraprendere un viaggio in cerca delle proprie radici.

Il documentario partecipa al Festival del cinema africano, d'Asia e America latina che si svolge a Milano dal 6 al 12 maggio 2014. In calce le date delle proiezioni.



Abbiamo rivolto alcune domande a Giusy Buccheri che ringraziamo molto.










Re e Zhanxing, i protagonisti, sono due ragazzi di “seconda generazione”: quali sono le loro aspettative in Italia, in tutti i settori (studio, lavoro, esercizio dei loro diritti civili)?



Come tutti i ragazzi della loro età vorrebbero fare la loro vita, poter fare scelte senza avere difficoltà che poi, invece, incontrano. E' diverso per Re che la cittadinanza l'ha già avuta allo scoccare del diciottesimo anno. Invece Zhanxing l'ha chiesta da alcuni anni (credo da tre anni) e non ha ancora ricevuto risposta dallo Stato italiano.
Zhanxing ha studiato Lingue e si è trovata a disagio in diverse occasioni: doveva andare in gita con i compagni di scuola, ma aveva il permesso di soggiorno in scadenza e pr questo ha avuto molte più difficoltà rispetto agli altri. Inoltre, non può accedere ai concorsi pubblici oppure ai bandi universitari, come l'Erasmus ad esempio.



Quali sono i punti di forza e quali, invece, le difficoltà legate all'appartenenza a due culture tanto diverse?



Ognuno di loro vive le difficoltà diversamente. Nel caso di Re, sembra perfettamente integrato nelle due culture in cui vive: nella cultura di origine – con i genitori, i parenti, le tradizioni – e con la cultura italiana. Lui stesso dice che che la doppia cultura è una ricchezza perchè permette un punto di vista più ampio e una sensibilità più spiccata e, essendo un artista, diventa un valore aggiunto, uno strumento in più per l'espressione della propria creatività. Il suo percorso artistico è legato anche alla famiglia: suo padre era il cantante di un gruppo e ora fa l'attore, per cui Re ripercorre alcune passioni del papà e, infatti, nel film dice: “ Impara l'arte e mettila dappertutto”.
Zhanxing, invece, la incontriamo in un momento in cui vive con difficoltà questa sua doppia identità perchè è sempre stata impegnata, anche da un punto di vista politico, per il riconoscimento della cittadinanza, mettendosi in gioco in prima persona, attraverso lettere aperte ai giornali, scrivendo sul suo blog, ma sentiva anche il peso di dover rappresentare un'intera generazione.
Decide, quindi, di fare questo viaggio nel suo luogo d'origine, per studiare il cinese e per vedere come si vive lì. Il suo pensiero era: “ Qui non sono accettata perchè sono considerata cinese, in Cina potrò essere me stessa”. Nel viaggio, invece, scopre che neanche lì è facile perchè gli altri vedono solo la sua italianità e lei stessa si sente italiana. Si sentiva sospesa tra due culture, ma al ritorna con una maggiore consapevolezza rispetto a una comprensione più profonda del sentirsi italiana, di voler vivere in Italia e di voler essere una mediatrice tra le due culture.



Quali sono le differenze (se ci sono) e le similitudini tra i protagonisti e gli altri ragazzi italiani che, fin dalla nascita, sono in possesso della cittadinanza giuridica?


Nel documentario c'è una parte di riflessione verbale e una parte di osservazione perchè abbiamo seguito i ragazzi nel loro vivere quotidiano: il disagio, in realtà, è più un problema degli adulti che dei ragazzi perchè loro crescono insieme ed è tutto naturale.
I tratti somatici tradiscono una “differenza” e si sono sentiti dire, da alcune persone: “Ma come parli bene italiano!”...ma loro sono nati in Italia e sono italiani.
 
 

Come è nato e come si è sviluppato il progetto di questo documentario?

Il film è una co-regia mia e di Michele Citoni. Io venivo da un film precedente sull'emigrazione italiana e mi interessava ribaltare il punto di vista. Gli argomenti interessavano anche Michele anche perchè non si può raccontare l'Italia senza raccontare gli stranieri e i ragazzi che abitano qui, che crescono qui e che scoprono di non avere gli stessi diritti dei propri coetanei pur avendo fatto lo stesso percorso di vita.




Proiezioni del documentario e incontro nell'ambito del Festival del cinema africano, d'Asia e America latina:


giovedì 8 maggio alle 19 al Cinema Rosetum
venerdì 9 Maggio alle 17.00 allo Spazio Oberdan - Proiezione alla presenza dei registi
sabato 10 maggio alle 19 al Cinema Beltrade
Incontro con il pubblico: il 10 maggio alle 17 nella nostra "ora del Té" alla Casa del Pane




domenica 16 febbraio 2014

Milano verso Expo: Milano, donna e madre



Una sera come tante andiamo al ristornate: nuvole di drago, riso cantonese e pollo con anacardi. Angelo - un nome evocativo e molto italiano - con i suoi piccoli occhi a mandorla si avvicina e ci chiede: “Vi servono dei bicchieri?”. Proprio in quel periodo stavamo facendo un trasloco e, sì, bicchieri nuovi ci potevano essere utili. “Sono quelli dei gelati che ci avanzano”: robusti, di vetro, belli.

Chissà se Angelo, dopo innumerevoli ore chiuso dentro al ristornate di fronte alla chiesa di Via Casoretto, ha mai incrociato lo sguardo di Shady, il ragazzo di origine siriana che da tanto tempo non può entrare nel Paese di suo padre perchè lì, in passato, c'è stata la dittatura e, ora, infuria la guerra civile. Occhi di brace, quelli di Shady, ciglia lunghe che tradiscono dolcezza, ma espressione seria e concentrata quando racconta la durezza del regime e la repressione delle libertà. Forse Shady, qualche volta, attraversa Milano in metropolitana e forse, una volta, si è seduto accanto a Sanja che di solito corre per salire su un vagone che la porta in radio, dove lavora, in zona Garibaldi. Sanja è serba, di Belgrado e, nel 1999, durante i bombardamenti Nato nel quartiere della sua città, per poco viene mancata dalle bombe: il suo nome significa “colei che sogna” e questa giovane donna, forte e tenace, ha deciso di continuare a sognare a Milano, dove le persone hanno modi di dire buffi e abitudini strane, ma ti accolgono spesso con schiettezza e simpatia. Purtroppo non è sempre così: Ahmed è stato aggredito, tempo fa, mentre aspettava l'arrivo di un tram. In una fredda serata lui, abituato al calore anche umano dell'Africa, si è preso addirittura alcune coltellate in pancia, ma ad Ahmed torna il sorriso quando ripensa al Duomo, quel tempio così silenzioso, austero e pieno di pace, che custodisce la spiritualità di tutti.

Vorrei invitare questi amici - e molti altri - alla pasticceria di Via Padova dove spesso incontro Nordin: qui parliamo della sua famiglia e della sua Algeria. Chiacchiere profonde davanti a un buon croissant, per addolcire polemiche e ricordi.

Milano: signora capricciosa che accoglie e respinge. Milano: madre severa che educa e nutre. Milano: una donna imperfetta probabilmente, ma capace di dare vita.

venerdì 14 febbraio 2014

Per conoscere meglio la comunità cinese



Pochi giorni fa è iniziato un nuovo anno per i cinesi e per molte altre popolazioni orientali: l'anno del Cavallo. In occasione di questa festività, abbiamo rivolto alcune domande a Sergio Basso, regista del film Giallo a Milano. Un lavoro pluripremiato che aiuta gli spettatori a conoscere più a fondo una comunità considerata troppo chiusa, ma composta da uomini, donne, bambini, ragazzi che, come tutti, hanno paure e coltivano desideri, vivono la fatica della quotidianità e sognano un futuro più roseo.

Ringraziamo molto Sergio Basso per il tempo che ha voluto dedicarci e per le riflessioni suscitate dal suo intervento che riportiamo di seguito.


Quando e perché è nato questo lavoro?


Ho vissuto in Cina. Tra il 1996 e il 2008, a più riprese.

Assistere alla disinformazione mediatica alla quale la comunità cinese in Italia è sottoposta è desolante.

Altrettanto sconfortante è vedere come la società italiana continua a non raccogliere la sfida stimolante di un avvenire multiculturale, ma si arrocca sui temi vuoti dell’identità e della tradizione.

Io credo che noi non siamo chi sono stati i nostri padri, ma gli incontri che vorremmo fare. Il tempo che spendiamo a dare una definizione statica di noi, è tempo che non usiamo per incontrare l’altro.

“Giallo a Milano” non è un réportage, ma un film. Un’opera che scuota le menti, che solletichi i cervelli ma anche diverta la pancia.

Sono stufo di un approccio ai Cinesi “da entomologo”, come se fossero insetti incapaci di comunicare i propri sentimenti. In TV, ai congressi universitari, alle tavole rotonde municipali…si contattano sempre sociologi, antropologi, sinologi per spiegare chi sono i Cinesi. Non si dà mai ai Cinesi stessi l’opportunità di esprimere le proprie speranze, le proprie paure.

Si ventila la scusa che si tratta di una comunità particolarmente chiusa e che non parla la nostra lingua: forse i Friulani e i Siciliani che arrivavano a Brooklyn a fine Ottocento sapevano l’inglese?

Oltre a 150 ore di girato negli ultimi anni, il film si avvale delle foto in bianco e nero dei primi Cinesi in Italia negli anni Venti, i cosiddetti “pionieri”, e gli “home movies”, in super8 e in mini-DV, delle loro famiglie.

Uno di loro, un collaboratore di giustizia, è raccontato in animazione, per tutelarne l’identità e raccontarne la mirabolante odissea che l’ha portato sino in Italia


Ci può anticipare le storie di alcune persone che ha incontrato?   





Posso fare di meglio, rimandare alla piattaforma crossmediale che presenta i personaggi del film, raccontando anche episodi ulteriori, inediti rispetto al documentario, ed è stata creata insieme al Corriere della Sera con lo studio d’animazione La Testuggine:

www.corriere.it/gialloamilano

A che punto è il dialogo tra italiani e cinesi, soprattutto dopo l'episodio di guerriglia che ha visto coinvolti stranieri e Polizia?

Ai lumbard stavano antipatici i terroni perché erano troppo pigri, adesso stanno antipatici i cinesi perché lavorano troppo e puzzano…a nessuno viene il dubbio che il problema siamo noi? È vero che l’afflusso di Cinesi nella zona è aumentato esponenzialmente negli ultimi dieci anni, e la gente ha bisogno di tempo per abituarsi all’Altro; però è anche vero che prima i Cinesi di Paolo Sarpi si sono presi i negozi, e poi il Comune ha cercato di spostarli e ha trasformato una zona di esercizi commerciali in una ZTL, spaccando le gambe ai negozianti, non solo quelli orientali. Come se non bastasse, speculazioni edilizie vorrebbero i Cinesi fuori dai piedi, per far lievitare i costi delle case. Insomma, diciamo che non mancano gli ingredienti per un bel po’ di attrito.

Credo che sotto sotto ci sia un gran misoneismo da parte italiana, cioè siamo terrorizzati dal fatto che il volto dei quartieri ci cambia attorno. Ma è il normale destino di una qualunque città che pulsi, che viva. Le culture si avvicendano.

In altre parole, i Cinesi non vengono da Vega e non hanno tre polmoni. E ti dirò di più, non c’è alcuna comunità: c’è una somma di persone che cercano con maggiore o minore successo di conquistare un equilibrio, una dignità, una felicità, formando una famiglia, credendo nel futuro. Allora la posta in gioco è: ce ne frega qualcosa di queste persone? Perché è molto facile continuare a tenerli a una certa distanza etichettandola come una “comunità”, che suona un po’ come una massa indistinta, compatta, impenetrabile. Invece sono il vicino di casa. Persone. Sentimenti.


Quali sono le sue conclusioni dopo aver intervistato i ragazzi di "seconda generazione"?

La prima generazione forse si è anche un po’ autoghettizzata. Il problema è innegabile, ma è comune di qualunque comunità migrante nella storia dell’umanità. Una delle squadre di calcio di Istanbul si chiama Galatasaray, dal nome di un quartiere della città, vale a dire è il “Serraglio dei Galati”, ed era il “Ghetto” dei mercanti genovesi, la loro testa di ponte in terra ottomana. Ancora, gii Italiani a Brooklyn non bussavano certo alle porte degli irlandesi per una festa di buon vicinato.

E poi vedo raramente ecuatoriani, nigeriani o egiziani uscire alla sera mescolandosi agli italiani. Lo dico con rammarico; lo dico per sottolineare che non è un problema solo cinese. È tipico delle prime generazioni, “fare gruppo”, per capire come sfangarla. Tra l’altro è tipico perché ogni civiltà ha il sacrosanto diritto di divertirsi come vuole, ha le sue feste comandate, i suoi riti di passaggio e di aggregazione.

Credo che il futuro sia in un meticciamento in cui ciascuno perde un po’ della propria identità e assorbe quella del prossimo.

Però c’è un tempo-ritmo in questo meticciamento; non va forzato; le istituzioni potrebbero però catalizzarlo invece di demonizzarlo come una perdita di identità.

Gli studenti universitari italiani che oggi hanno come compagni di corso dei colleghi cinesi, a Economia, Lingue e Letterature Orientali, Ingegneria non potranno essere razzisti a quarant’anni: daranno per scontato che nel loro orizzonte identitario ci siano anche gli italo-cinesi: “xiangjiao”, cioè “banane”, come essi stessi si chiamano, gialli fuori, ma bianchi dentro.

Molti di questi ragazzi hanno un’intraprendenza ed una solarità stupefacenti: penso a Francesco Wu e a Shi Yang, ad esempio.

Qual è (se c'è) il collegamento tra questo film è un altro suo documentario dal titolo "Cine tempestose"?

In comune hanno l’amore per la Cina. “Cine tempestose” potrebbe essere per così dire il prequel di “Giallo a Milano”, si occupa dei primi italiani che andarono a vivere in Cina sotto Mao. Quindi racconta una piccola ondata migratoria al contrario, dall’Italia alla Cina, a partire da fine anni Cinquanta.

Oggi la Cina è sulla bocca di tutti, ogni grande città italiana ha un dipartimento di cinese e partire per l’Asia non sembra più un viaggio impossibile.

Ma fino a pochi anni fa non era così.

Negli anni Cinquanta un gruppo di pionieri si avventurò nell’Impero di Mezzo per decifrarne un po’ di cultura e riportarne la fiammella in Europa.

Perché mai dei ventenni si lanciarono in esperienze di questo tipo in lande allora così distanti ? Cosa li spingeva?

Ogni orientalista nasconde storie pazzesche - e i sinologi italiani non sono da meno.

Jacques Pimpaneau saltò sull’Orient Express per aprire una galleria d’arte contemporanea francese in piena Beijing, finì per innamorarsi dell’Opera di Pechino e ad acquistare dischi ad Hong Kong. Correva l'anno 1958. Oggi è tra i più grandi sinologi di Francia e la sua collezione è esposta permanentemente in un palazzo di Lisbona.

Chi non ha seguito con i figli almeno una puntata della saga animata di Dragon Ball? Il cartone è giapponese, ma affonda le proprie radici in un romanzo cinese, tradotto negli anni Trenta da Arthur Waley, grande sinologo inglese nonché bibliotecario del British Museum. Waley però non andò mai in Cina: i suoi rimasero viaggi solo della mente. Tornò comunque utile ai servizi segreti per decifrare i messaggi dei Giapponesi durante la seconda guerra mondiale.

Proprio così: gran parte degli orientalisti del Novecento furono anche spie per i rispettivi Paesi, una specie di Lawrence d'Arabia...d'Oriente.

Robert van Gulik venne spedito nella Cina fra le due guerre dal governo olandese. Il raggio dei suoi interessi è stupefacente: si occupò di storia dell'arte orientale, di allevamento dei gibboni, di storia della sessualità in Cina e trovò pure il tempo di fare la spia in Egitto. Cultore del teatro delle ombre indonesiano, a Chongqing avreste potuto incrociarlo con una scimmia abbarbicata sulla spalla. Molti lo conoscono però come l'autore dei gialli del giudice Di, divenuti recentemente anche caso cinematografico.

E gli orientalisti italiani? Non sono certo da meno:

Renata Pisu diede a suo fratello Silverio l'idea di sceneggiare l'adattamento per il fumetto de Lo scimmiotto per le matite fatate di Milo Manara; Magda Abbiati mollò Venezia in pieno Sessantotto inseguendo il sogno maoista.

Alessandra Lavagnino si innamorò della Cina perché il padre era il compositore delle musiche del primo documentario italiano sulla Repubblica popolare. Ben prima di Antonioni: il regista era Carlo Lizzani, che dalla Cina portava alla bambina Alessandra giochi e storie che la facevano sognare. Oggi Alessandra Lavagnino è la sinologa di punta dell'Università di Milano.

E così Bertuccioli e sua moglie; Enrica Collotti Pischel, Edoarda Masi e Cristina Pisciotta.

Tra gli anni Cinquanta e i Sessanta una manciata di Europei ogni anno riusciva ad entrare nella Cina comunista come studente universitario. Vivevano in campus, a stretto contatto con i coetanei cinesi, condividendone la vita di ogni giorno.

Un baule di storie, fotografie, souvenir, romanzi, poesie, per raccontare, attraverso il prisma di un viaggio verso il Far East, un'Italia che non c’è più. O che c'è ancora?

Nella convinzione che ascoltare la loro esperienza possa aiutarci a capire meglio anche la Cina di oggi.

Giallo a Milano ha riscosso molto successo...

“GAM” è uscito nelle sale italiane il 19 febbraio 2010, rimanendo in distribuzione fino a maggio dello stesso anno, in diverse città italiane.

Ha poi proseguito il suo cammino vincendo come Meuilleur film de commande” all’ Annecy Animation Film Festival 2010, “Best documentary director” al

China International Youth Film Festival 2010, Miglior film a carattere educativo e sociale “Cartoons on the bay” 2010, Nomination Globo d’Oro Miglior Documentario 2010, Finalista “Doc/It Professional Award” 2010. È stato presentato al Torino Film Festival 2009, Nyon Film Festival 2010, e all’estero a Oxford, in Ungheria, a Auckland (New Zealand), a Chongqing, a Beijing, a Shanghai, a Guangzhou, fino ad approdare alla messa in onda sulla RAI nel 2011. Altri festival:


2010 Ischia Film Festival

2010 Bolzano 4FF

2010 Bellaria Film Festival

2010 Up (stairs): una Notte sui Tetti, Lingotto, Torino

2010 Divercity Doc

2010 Festival "Histoires d'It. Le Nouveau Documentaire Italien", Parigi

2010 Sulle Tracce del Documentario

2010 Terra di Cinema - Festival de Tremblay-en-France

2010 Terra di Cinema - Festival du Cinéma Italien, Parigi, Istituto Italiano di Cultura

2010 Italia DOC

2010 BIF&ST – Bari International Film&Tv Festival

2010 Il Cinema Italiano Visto da Milano

2009 Filmmaker Doc Film Festival

2009 MI-Cine: Cine Italiano de Milan, Buenos Aires

domenica 2 febbraio 2014

E' capodanno! Per i cinesi

Da "Panorama"

Grandi preparativi e grandi festeggiamenti per il capodanno della comunità cinese che il 31 gennaio viene traghettata nell'anno del cavallo.

Pasti luculliani e buste rosse con denaro, come dono di buon auspicio e per scacciare gli spiriti maligni vengono donate, in particolare, dalle coppie sposate a quelle ancora non legate dal vincolo del matrimonio: una festività importante non solo per i cinesi, ma anche per altre popolazioni asiatiche, che viene onorata in tutto il mondo.
Da "Panorama"

A Milano, oggi domenica 2 febbraio, anche la città si tingerà di rosso, in particolare le zone con maggior presenza di persone immigrate dalla Cina e delle loro attività: in Via Paolo Sarpi si terrà, alle ore 15.00, la parata dei draghi e dei leoni di carta e, più di 200 figuranti indosseranno gli abiti tradizionali. E poi ancora: danze, musica e giocolieri.

Alle 17.00 partirà, dalla Fabbrica del Vapore, la “Chinatown New Year Run”, una corsa a passo libero e non competitiva che si snoderà tra Via Sarpi, Canonica e Montello: Sempre presso la Fabbrica del Vapore di Via Procaccini saranno organizzati spettacoli e sessioni di djset, arti marziali e varie esibizioni.

Un'occasione per conoscere meglio la più grande comunità di stranieri presenti sul territorio meneghino e per colorare una città, in questi giorni, sempre più grigia.


lunedì 9 dicembre 2013

Morire di lavoro




Prato, 2013: un capannone-dormitorio per un gruppo di persone di nazionalità cinese si è trasformato in un inferno.
Il capannone era adibito a fabbrica tessile, in cui non veniva osservata alcuna misura di sicurezza: “una tragedia annunciata”, come ha sostenuto il sindaco della città, Roberto Cenni.
Restano pezzi di macchine da cucire e tessuti bruciati, stendini e vetri rotti. Ma resta, soprattutto, la vergogna e l'indignazione per quei sette operai che hanno perso la vita nel rogo, sette persone, emblema degli schiavi contemporanei, vittime di un sistema economico e di un mercato sempre più aggressivi che pretendono produttività e non concedono tutele.
A distanza di pochi giorni dal dramma, l'unico corpo identificato è quello di un irregolare e anche questo mette in luce un problema irrisolto e complesso, la questione che riguarda il lagame tra la possibilità, per gli immigrati, di ottenere un permesso di soggiorno e un lavoro in regola.
Le parole del Procuratore che sta seguendo l'inchiesta, Piero Tony, sottolineano la gravità e le criticità che stanno alla base dell'accaduto: “ La maggior parte delle aziende sono organizzate così: è il far west. I controlli sulla sicurezza e su ciò che è collegabile al lavoro, nonostante l'impegno delle amministrazioni e delle forze dell'ordine, sono insufficienti. Siamo sottodimensionati: noi come struttura burocatica siamo tarati su una città che non esiste più, una città di 30 anni fa”.
I reati contestati al proprietario italiano della fabbrica abusiva, ad oggi, sono: disastro colposo, omicidio colposo plurimo, omissione di norme di sicurezza e sfruttamento di manodopera clandestina. Gli operai lavoravano, ovviamente sottopagati, nel capannone, ma ci vivevano anche: ammassati in un soppalco, suddiviso in piccole stanze con pareti in cartongesso. E qui c'era anche un bambino di quattro anni che è riuscito a fuggire insieme ai genitori. Se questo è il modo di tutelare la dignità della vita, se questo è il modo di accogliere i migranti, se questo vuol dire essere un Paese civile, come tante, troppe volte è stato scritto...