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sabato 27 giugno 2015

Bambini soldato in Sud Sudan



di Veronica Tedeschi





Bambini drogati e imbottiti di stupefacenti per non farli arrendere durante lo scontro.

I più sfortunati nascono già in una delle fazioni ribelli, come se il loro destino fosse segnato, in altri casi, da giovanissimi vengono sottratti alle loro famiglie per essere cresciuti in contesti di guerra e sofferenza.

Questa è la situazione di molti dei bambini che vengono ingaggiati come soldati senza averne la consapevolezza; in alcune rare situazioni, si pensa che alcuni di questi aderiscano come volontari per motivi legati alla sopravvivenza, alla fame o al bisogno di protezione.

I bambini diventano i soldati migliori per diversi motivi: non concepiscono il livello di gravità della situazione, hanno dimensioni piccole e sono veloci, sono in grado di infilarsi in tombini, fori e quant’altro. Infine, non si schiereranno mai per la fazione concorrente, se gli prometti, o minacci, qualcosa faranno quello che gli dici a prescindere. Le bambine, sebbene impiegate in misura minore, spesso sono usate per scopi sessuali, ma anche per cucinare o piazzare esplosivi, non devono essere pagate e non si ribellano.



Lo scorso 22 febbraio è stata la Giornata internazionale contro l’uso dei bambini soldato, una piaga che sta minando psicologicamente intere future generazioni. Il problema non riguarda solo l’Africa, sono 22 i Paesi in tutto il mondo che utilizzano bambini soldato durante le loro guerre, tra questi troviamo il Sud Sudan (Stato indipendente dal 2011) ripiombato nella guerra civile da più di un anno.

Il 21 febbraio, un giorno prima della Giornata internazionale, uomini armati sono entrati nel paese e hanno rapito 89 ragazzini dal campo profughi di Malaki, nella regione settentrionale dell’Alto Nilo.

Secondo la Bbc, i soldati hanno circondato i campi profughi, cercando tenda per tenda, e prelevando con la forza i ragazzi di età superiore ai 12 anni.

Il 10 febbraio, pochi giorni prima, l’Unicef aveva organizzato a Pibor, nel Sud Sudan orientale, la cerimonia di disarmo nella quale furono liberati circa 300 bambini tra gli 11 e i 17 anni. Questo fu il terzo rilascio di bambini a seguito di un accordo di pace tra la fazione e il governo. L’Unicef, il Government's National Disarmament e il Demobilization and Reintegration Commission (NDDRC), ancora oggi, stanno lavorando insieme per prendersi cura dei bambini e reintegrarli di nuovo nelle loro comunità.
Cobra Faction, la fazione di ribelli che rilasciò questi bambini, nel suo gruppo armato detiene ancora fino a 3.000 bambini soldato.


Il rapimento e lo sfruttamento di bambini nell’atto di conflitti è considerato una violazione del diritto umanitario internazionale, che è quella parte di diritto che definisce le norme da rispettare in tempo di conflitto armato e le regole che proteggono le persone che non prendono, o non prendono più, parte alle ostilità e pongono limiti all'impiego di armamenti, mezzi e metodi di guerra.

Non solo, anche lo Statuto della Corte Penale internazionale (il tribunale per i crimini internazionali), include, fra i crimini di guerra nei conflitti armati, l’arruolamento di ragazzi minori di 18 anni o il fatto di farli partecipare attivamente alle ostilità.

Anche nella storia passata i ragazzi sono stati usati come soldati, ma negli ultimi anni questo fenomeno è in netto aumento perché è cambiata la natura della guerra, diventata oggi prevalentemente etnica, religiosa e nazionalista. Chi combatte non si cura delle Convenzioni di Ginevra e spesso considera anche i bambini come nemici. Secondo uno studio dell’Unicef, all’inizio del secolo le vittime civili rappresentavano il 5% delle vittime di guerra, oggi quasi il 90%.



Le regole di diritto internazionale, sia umanitario che penale, come si è visto, puniscono duramente questi comportamenti ma, nonostante questo, tali pratiche continueranno fino a quando non saranno duramente imposte sanzioni contro gli Stati sostenitori di queste pratiche, come, per esempio, il Sud Sudan.




venerdì 20 marzo 2015

Chiamata urgente per la solidarietà internazionale: scioperi della fame in UK nei centri di detenzione dei migranti



Centinaia di persone sono in sciopero della fame in più della metà dei centri di detenzione per immigrati del Regno Unito. Questa è la più grande rivolta contro il sistema di detenzione razzista della Gran Bretagna da un decennio.

La gente sta parlando attraverso un blog -
Detenuti Voices https://detainedvoices.wordpress.com/ - e
Standoff Films https://www.facebook.com/standoffilms).

Per fare pressione internazionale sul governo del Regno Unito, abbiamo bisogno di proteste di solidarietà fuori dalel ambasciate britanniche, alti commissariati e consolati nei vostri Paesi, il più presto possibile. Abbiamo anche bisogno di giornalisti stranieri per coprire lo sciopero della fame.

Fateci sapere se ci potete aiutare a fare questo. Le persone all'interno sono estremamente motivate di sapere se la conoscenza della loro protesta si sta diffondendo. Ogni copertura è una vittoria.

Messaggi di supporto / foto possono essere inviate a detainedvoices@riseup.net. Se volete parlare con un portavoce dei detenuti possiamo anche mettervi in contatto.

Le proteste arrivano dopo che un canale TV ha divulgato filmati segreti dall'interno di queste prigioni razziste:

Channel 4
(Http://www.channel4.com/news/harmondsworth-immigration-detention-centre-undercover-video).

Guarda Corporate
http://www.corporatewatch.org/news/2015/mar/04/harmondsworth-immigration-detention-centre-secret-filming-mitie

Ma la copertura mediatica nel Regno Unito è stata quasi interamente limitata ad un unico canale televisivo - Channel 4: http://www.channel4.com/news/harmondsworth-immigration-detention-centre-hunger-strike).
L'unica altra copertura consistente proviene da Russia Today: http://rt.com/uk/240205-detention-center-hunger-strike/).

Le persone detenute e coinvolte nelle proteste chiedono che la loro lotta sia conosciuta da tutti.

Ci sono state azioni di solidarietà: se volete, potete vedere Raids Anti:
https://network23.org/antiraids/2015/03/12/ongoing-resistance-at-harmondsworth-and-colnbrook-detention-centres/

E' stato anche bloccato un autobus che stava portando alcune persone in aereoporto per essere deportate in Afghanistan.


Amore, rabbia e solidarietà

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Urgent call for international solidarity: hunger strikes in UK migrant detention centres



Hundreds of people are on hunger strike in over half of the UK's immigration detention centres. This is the biggest uprising against Britain's racist detention system for a decade.


People are speaking out through a blog -

Detained Voices https://detainedvoices.wordpress.com/ - and

Standoff Films https://www.facebook.com/standoffilms).



To put international pressure on the UK government, we need solidarity protests outside British Embassies, High Commissions and Consulates in your countries, as soon as possible. We also need foreign journalists to cover the hunger strike.



Please let us know if you can help organise this. People inside are hugely motivated to know that knowledge of their protest is spreading. Any coverage is a win.



Supportive messages/photos can be sent to detainedvoices@riseup.net. If you would like to speak to a media spokesperson from those detained we can also put you in contact.



The protests come after a TV channel released secret footage from inside these racist prisons:



Channel 4

(http://www.channel4.com/news/harmondsworth-immigration-detention-centre-undercover-video).



Corporate Watch

http://www.corporatewatch.org/news/2015/mar/04/harmondsworth-immigration-detention-centre-secret-filming-mitie



But media coverage in the UK has been almost entirely restricted to a single TV channel - Channel 4: http://www.channel4.com/news/harmondsworth-immigration-detention-centre-hunger-strike).

The only consistent other coverage comes from Russia Today: http://rt.com/uk/240205-detention-center-hunger-strike/).



People detained and involved in the protests ask that their struggle be known by all.



There have been UK solidarity actions regularly over the last week. See Anti Raids: https://network23.org/antiraids/2015/03/12/ongoing-resistance-at-harmondsworth-and-colnbrook-detention-centres/

A bus taking people to the airport due to be deported to Afghanistan was also blocked.




Love, rage and solidarity


domenica 16 febbraio 2014

Milano verso Expo: Milano, donna e madre



Una sera come tante andiamo al ristornate: nuvole di drago, riso cantonese e pollo con anacardi. Angelo - un nome evocativo e molto italiano - con i suoi piccoli occhi a mandorla si avvicina e ci chiede: “Vi servono dei bicchieri?”. Proprio in quel periodo stavamo facendo un trasloco e, sì, bicchieri nuovi ci potevano essere utili. “Sono quelli dei gelati che ci avanzano”: robusti, di vetro, belli.

Chissà se Angelo, dopo innumerevoli ore chiuso dentro al ristornate di fronte alla chiesa di Via Casoretto, ha mai incrociato lo sguardo di Shady, il ragazzo di origine siriana che da tanto tempo non può entrare nel Paese di suo padre perchè lì, in passato, c'è stata la dittatura e, ora, infuria la guerra civile. Occhi di brace, quelli di Shady, ciglia lunghe che tradiscono dolcezza, ma espressione seria e concentrata quando racconta la durezza del regime e la repressione delle libertà. Forse Shady, qualche volta, attraversa Milano in metropolitana e forse, una volta, si è seduto accanto a Sanja che di solito corre per salire su un vagone che la porta in radio, dove lavora, in zona Garibaldi. Sanja è serba, di Belgrado e, nel 1999, durante i bombardamenti Nato nel quartiere della sua città, per poco viene mancata dalle bombe: il suo nome significa “colei che sogna” e questa giovane donna, forte e tenace, ha deciso di continuare a sognare a Milano, dove le persone hanno modi di dire buffi e abitudini strane, ma ti accolgono spesso con schiettezza e simpatia. Purtroppo non è sempre così: Ahmed è stato aggredito, tempo fa, mentre aspettava l'arrivo di un tram. In una fredda serata lui, abituato al calore anche umano dell'Africa, si è preso addirittura alcune coltellate in pancia, ma ad Ahmed torna il sorriso quando ripensa al Duomo, quel tempio così silenzioso, austero e pieno di pace, che custodisce la spiritualità di tutti.

Vorrei invitare questi amici - e molti altri - alla pasticceria di Via Padova dove spesso incontro Nordin: qui parliamo della sua famiglia e della sua Algeria. Chiacchiere profonde davanti a un buon croissant, per addolcire polemiche e ricordi.

Milano: signora capricciosa che accoglie e respinge. Milano: madre severa che educa e nutre. Milano: una donna imperfetta probabilmente, ma capace di dare vita.

mercoledì 15 gennaio 2014

La malnutrizione delle donne e dei bambini in Madagascar




Le foto che qui pubblichiamo - ringraziando un nostro lettore che ce le ha mandate - ritraggono bambini e ragazzi sani: molti hanno entrambi i genitori, vivono insieme a loro di pesca, sono sereni anche se poveri.

Sono bambini e ragazzi del Madagascar, la quarta isola più grande del mondo dove, invece, tantissimi - tra donne e minori - soffrono di malnutrizione acuta grave.

La situazione, nell'isola africana è particolarmente grave in quanto - secondo l'ultima Ricerca Demografica e Sanitaria Onu del 2009 e secondo i dati Unicef 2012 - il 76,5% della popolazione vive in condizioni di miseria. Sappiamo che i numeri sono fastidiosi, soprattutto quando si parla di persone, ma in questo caso dobbiamo far parlare le statistiche: il 26% delle donne in gravidanza soffre di ritardo della crescita e il 19% è deperito; solo il 50% dei bambini malgasci viene allattato al seno fino ai sei mesi e molti bambini sotto i cinque anni soffrono di anemia; ogni anno circa 44.000 bambini muoiono a causa di malattie quali: la malaria, la dissenteria, la polmonite e questo accade, soprattutto, nelle aree più a rischio, come sugli altopiani e nelle zone meridionali e sud-orientali dell'isola. 


La fase critica della vita in cui si può agire per combattere la malnutrizione va dall'inizio della gravidanza ai due anni per cui la maggior parte degli investimenti dovrebbe essere destinata a questo periodo per ottenere un risultato di lunga durata che possa aiutare sia le madri sia i figli.

Dal 2012 l'UNICEF Italia ha partecipato al progetto intitolato “Ridurre la malnutrizione materna e infantile in 30 distretti”, un progetto che prevede la fornitura alle strutture periferiche di alimenti terapeutici, farmaci e attrezzature utili per il monitoraggio e la cura dei casi di malnutrizione cronica; l'assistenza tecnica ai medici del posto; campagne di sensibilizzazione e formazione di operatori sanitari. In particolare - nei 30 distretti urbani delle 12 regioni a rischio - l'intervento capillare dell'organizzazione ha portato ad alcuni risultati positivi: l'allattamento al seno entro la prima ora del parto e proseguito fino ai 24 mesi di vita dei neonati; l'alimentazione integrativa adeguata a partire dai sei mesi con l'uso dei micronutrienti; la riduzione del tasso di mortalità infantile.


Interessante notare, infine, che i progetti formativi sul tema della malnutrizione sono rivolti anche agli stessi capi-villaggio per una maggiore consapevolezza e autonomia nel gestire il problema e, magari col tempo, risolverlo.

mercoledì 18 dicembre 2013

Apre a Milano la Casa dei diritti


Venerdì scorso è stata inaugurata a Milano la Casa dei diritti, in Via De Amicis 10, uno spazio annunciato dal palco del Pride lo scorso giugno e che secondo le parole di Pierfrancesco Majorino, assessore alle politiche sociali, “rappresenta il racconto di quello che stiamo facendo e che vogliamo continuare a fare per la promozione della persona”.
Questo luogo di proprietà del Comune segna il patto tra l’amministrazione, l’associazionismo ed il terzo settore con lo scopo esplicito di declinare la parola diritto in varie accezioni e sarà la sede permanente di alcuni servizi: dai centri anti-violenza al testamento biologico, dalla task force contro la discriminazione sull’orientamento sessuale alle attivita’ di 2G, dalle esperienze legate al forum città-mondo (in attesa dell’apertura del museo delle culture) ai percorsi laboratoriali per le scuole milanesi sui diritti umani nel mondo con Survival.
In particolar modo poi, l’intervento del sindaco Pisapia ha sottolineato il fatto che sia l’istituzione ad aprire una casa dei diritti ma che poi la gestirà insieme ai cittadini con due effetti: parlare al Paese, in particolare a Roma per combattere tutte le discriminazioni e parlare al mondo intero, tramite la vetrina di Expo2015 come dimostra l’esempio della Cascina Triulza, struttura che si occupa del tema della fame nel mondo e che nel post-Expo diventerà la Casa delle ong. Il sindaco ha, infatti, illustrato il progetto della Casa dei diritti con queste parole: “Un luogo che riafferma Milano come capitale dei diritti e dell’innovazione sociale. Un luogo da cui far partire anche un’azione di stimolo al Governo e al Parlamento su temi ormai centrali per riallineare il diritto e la politica alla realtà sociale. Mi riferisco alla lotta contro la discriminazione sessuale, al contrasto all’omofobia, alla tutela della donna, tutti temi che non devono più aspettare di diventare emergenze sociali, ma devono far parte dell’agenda ordinaria della politica”.
Nella seconda metà di gennaio si terrà un Forum in cui verrà spiegato alle associazioni come partecipare a questo progetto. E noi attendiamo fiduciosi che venga spiegato a tutte le associazioni che operano a Milano come si può farne parte e qual'è l'iter per proporre le iniziative. 
 
A cura della nostra redazione



mercoledì 28 agosto 2013

Il lato amaro del the

Il lato amaro del the


Questa storia ci è stata segnalata da Giulia Doriguzzi, che ringraziamo


L'India è il paese multiculturale per eccellenza: con i suoi 1 miliardo e 270 milioni di abitanti racchiude all'interno del suo vasto territorio un vero e proprio crogiolo di popoli con lingue, culture, religioni e tradizioni completamente diverse l'una dall'altra. L'8% della variegata popolazione indiana è costituita dai cosiddetti adivasi, i discendenti delle antiche popolazioni tribali che abitavano l'India più di 3.000 anni fa. Sebbene racchiusi sotto un'unica etichetta linguistica, gli adivasi non costituiscono affatto una realtà culturalmente ed etnicamente omogenea: sono suddivisi in circa 450 gruppi, sparsi su tutto il territorio indiano, ognuno dei quali possiede una sua specifica identità ed è caratterizzato da particolari usi e costumi. Sono popoli che hanno sempre vissuto in stretta simbiosi con la natura, per la quale nutrono un profondo rispetto e da cui ricavano tutto il necessario per sopravvivere.
L'Assam è uno stato situato nell'estremo Nord-Est dell'India che, assieme al vicino Arunachal Pradesh, ospita il 7,5% di tutta la popolazione adivasi indiana. Dal momento che i due stati si trovano in una posizione geograficamente isolata rispetto al resto del paese, gli adivasi originari dell'Assam sono riusciti a mantenere abbastanza intatta la propria cultura. Tuttavia, una parte degli adivasi che vive in questo territorio è costituita da tribù provenienti da diverse zone dell'India, che si sono stabilite in Assam a partire dalla seconda metà dell'800. La storia di questi popoli è strettamente connessa a quella dell'industria indiana del té.

L'Assam, grazie alle caratteristiche del suo territorio e alle sue condizioni climatiche, costituisce una zona ideale per la coltivazione del té, che viene prodotto principalmente nella grande pianura alluvionale del fiume Brahmaputra. Con le sue numerosissime piantagioni, l'Assam produce oggi il 65% di tutto il té prodotto in India.
La Camelia Assamica è la pianta di té tipica dell'Assam. Anche prima che venissero create le grandi piantagioni, questa pianta cresceva già spontaneamente in diverse zone della stato. In natura la pianta può raggiungere i 20 metri di altezza ma, quando viene coltivata, si fa in modo che non cresca più di un metro e mezzo, in modo da rendere più agevole la raccolta. Quando la pianta inizia a germogliare, le sue foglie sono pronte per essere raccolte. A seconda della frequenza con cui una pianta germoglia, la raccolta può venire effettuata diverse volte in un anno. L'operazione dura circa 15 giorni e viene svolta interamente a mano, quasi esclusivamente dalle donne. Vengono raccolte in media da 2.000 a 3.000 foglie di té, che vengono subito portate nelle fabbriche accanto alle piantagioni per essere lavorate. A seconda della qualità di té che si desidera ottenere, le fasi che compongono il processo di lavorazione risultano differenti. Il famoso Té Assam è una qualità di té nero dal gusto forte e deciso, la cui lavorazione richiede diverse fasi. Le foglie vengono fatte essiccare e, mentre sono ancora morbide, vengono arrotolate su loro stesse. In seguito vengono essiccate per una seconda volta e poi macerate. Infine vengono sottoposte ad un processo di fermentazione, che verrà poi fermato attraverso un'ultima essiccazione, mediante la somministrazione di calore. Seppur in minor quantità, in Assam vengono anche prodotti té verdi e té bianchi, ottenuti senza sottoporre le foglie ad alcun processo di fermentazione.

La massiccia coltivazione del té nei territori dell'Assam fu avviata dalla Compagnia Britannica delle Indie Orientali, una delle più potenti compagnie commerciali europee, nel tentativo di sottrarre alla Cina il monopolio mondiale sulla produzione del té. La Compagnia arrivò in Assam nel 1826 e, nel 1837, rese operativa la prima piantagione di té. Dal 1850 l'industria del té vide una rapidissima espansione, con un enorme aumento della produzione. Vaste aree furono disboscate per creare nuove piantagioni e, ai primi del '900, l'Assam divenne la principale regione produttrice di té al mondo.
Per poter coltivare tutte queste piantagioni era necessario l'impiego di un grandissimo numero di persone. Poiché in Assam non c'era sufficiente forza lavoro da poter sfruttare, gli inglesi cominciarono a reclutare adivasi provenienti da diverse regioni dell'India. Questi erano tutte persone i cui territori erano stati utilizzati dai colonizzatori per la costruzione di fabbriche, la creazione di piantagioni, lo sfruttamento di risorse naturali. Per portare avanti il processo di industrializzazione del paese gli inglesi si appropriarono indebitamente delle terre degli adivasi, privandoli della loro unica fonte di sostentamento e condannandoli ad una vita di povertà. Per gli inglesi non fu difficile reclutare forza lavoro fra i membri di queste tribù, incapaci di adattarsi ad una società a cui non appartenevano e di trovare nuovi mezzi di sussistenza. In molti casi, tuttavia, i reclutamenti avvennero con l'uso dell'inganno e della violenza. Gli adivasi erano analfabeti e gli inglesi riuscirono facilmente a far loro firmare contratti di lavoro che prevedevano terribili condizioni di sfruttamento. Oltre alle frodi e ai reclutamenti forzati, vi furono anche diversi casi di rapimenti e di costrizione tramite tortura. Gli adivasi furono privati di ogni diritto e costretti a lavorare nei campi in condizioni di semi-schiavitù, senza nessuna possibilità di opporsi. All'inizio del '900, il numero di adivasi strappati con la forza alle loro terre raggiunse le 110.000 persone.
Solo nel 1951, dopo che l'India ottenne l'indipendenza, il governo emise il Plantation Labour Act, una raccolta di leggi che tutelavano gli interessi degli adivasi impiegati nelle piantagioni di té. Nonostante questo, la scarsità dei controlli favorisce ancora oggi il proliferare di violazioni legislative di ogni genere da parte dei proprietari terrieri e, di conseguenza, le condizioni dei lavoratori sono lungi dall'essere regolamentate in maniera equa. Gli adivasi lavorano tutto il giorno nelle piantagioni, ricevendo paghe irrisorie, appena sufficienti a consentir loro di sopravvivere. Perciò, lontani dalle loro terre originarie, senza possibilità di farvi ritorno e senza l'istruzione necessaria per trovare un lavoro migliore, il più delle volte gli adivasi sono costretti ad accettare una vita di povertà estrema, senza intravedere alcuna possibilità di cambiamento.

Ma le persone che più di ogni altra pagano le conseguenze di questa situazione sono i bambini. I loro genitori sono impegnati tutto il giorno nelle piantagioni e, pertanto, anche i bambini più piccoli sono, per la maggior parte del tempo, abbandonati a loro stessi. Molti si ammalano di malattie comuni e facilmente curabili, che vengono però trascurate a causa della difficoltà di accesso ai servizi sanitari e, aggravandosi, possono portare anche alla morte. I genitori, inoltre, spesso non possiedono un'adeguata educazione sanitaria e non conoscono le principali norme di igiene e di prevenzione delle malattie.
I bambini non hanno la possibilità di frequentare la scuola: senza un'istruzione, non potranno far altro che rimanere a lavorare nelle piantagioni come i loro genitori.
E' difficile immaginare che una bevanda dolce come il té possa avere un lato tanto amaro...!

La Fondazione Fratelli Dimenticati Onlus, nel 1999, ha aiutato i Salesiani a costruire una scuola nel villaggio di Rangajan, nell'Assam orientale, in modo da dare ai bambini la possibilità di ricevere quell'istruzione che i loro genitori non hanno mai potuto avere. La scuola accoglie 631 studenti provenienti dai 31 villaggi circostanti, e il loro numero è in continuo aumento. La scuola di Rangajan costituisce per tutti i bambini adivasi della zona l'unica opportunità per imparare a leggere e a scrivere, l'unica speranza di cambiare la propria vita.
Recentemente è stato inoltre avviato un progetto di sostegno alimentare per poter garantire ai bambini dei pasti giornalieri, in modo da scongiurare il pericolo della malnutrizione. I periodi più critici sono i mesi di agosto, settembre e ottobre, in cui la disponibilità di cibo è più scarsa. In questo periodo, i piccoli adivasi arrivano a scuola fisicamente spossati, pieni di mal di testa e con una fame costante.


Per informazioni sul sostegno a distanza: http://www.fratellidimenticati.it/sostegno-a-distanza

mercoledì 6 marzo 2013

La storia di Samer Issawi: un altro detenuto palestinese nelle carceri israeliane



Trentaquattro anni, Samer Issawi era stato arrestato nel 2002 per partecipazione alle attività di un gruppo militare palestinese ed era, poi, stato rilasciato nel 2011 nell'ambito dello scambio di prigionieri tra Hamas e Israele (secondo l'accordo di Shalit). Dopo qualche mese, però, viene di nuovo imprigionato con l'accusa di aver violato i termini dell'accordo in quanto,forse, sarebbe uscito dai confini di Gerusalemme.
Issawi - dal 1 agosto scorso, di fronte al rifiuto da parte delle autorità israeliane di comunicare, con precisione, i motivi dell'arresto - ha iniziato uno sciopero della fame e della sete (quest'ultimo interrotto solo grazie all'intervento della Croce Rossa) che lo ha portato a pesare, oggi, 47 chili, a dover rimanere seduto su una sedia a rotelle e ad essere tenuto in vita da una flebo di glucosio e sali minerali.
Perchè questa protesta? L'uomo ha deciso di mettere in atto lo sciopero della fame per denunciare le condizioni di vita dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane, per ribellarsi alla cosiddetta “detenzione amministrativa” che lo stesso Rapporteur delle Nazioni Unite per i diritti umani, Richiard Falk, ha definito “detenzione disumana”. Il detenuto, infatti (come molti altri) al momento dell'arresto non ha avuto la possibilità di essere assistito da un avvocato e, ancora oggi, restano segrete le condizioni alla base dell'accordo di Shalit e, quindi, né Issawi né il suo attuale avvocato possono capire in che modo siano state violate.
A tutto questo si aggiunge che: quando, durante il processo di primo grado, l'uomo ha cercato di salutare la madre e la sorella, gli agenti lo hanno colpito al collo, al torace e allo stomaco; le autorità hanno, inoltre, tagliato il collegamento idrico alle abitazioni dei suoi parenti e hanno arrestato altri due fratelli.
In rete si moltiplicano gli appelli per salvare la vita di Issawi e per la messa in atto di un giusto processo. Si è mossa anche l'Anp: il presidente, Abu Mazen, ha chiesto alla comunità internazionale di intervenire e a lui si è aggiunto Mahamoud Abbas che ha scritto una lettera al segretario generale Ban Ki-moon.