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venerdì 21 agosto 2015

Zigulì. La mia vita dolceamara con un figlio disabile





"Metà di quello che ho scritto è uscito in una notte. Il resto sul tram, mentre andavo al lavoro" racconta Massimiliano Verga, padre di Jacopo, Cosimo e Moreno, un bellissimo bambino di otto anni, nato sano e diventato gravemente disabile nel giro di pochi giorni. "Così ho raccolto gli odori, i sapori e le immagini della vita con mio figlio Moreno. Odori per lo più sgradevoli, sapori che mi hanno fatto vomitare, immagini che i miei occhi non avrebbero voluto vedere. Ho perfino pensato che fosse lui ad avere il pallino della fortuna in mano, perché lui non può vedere e ha il cervello grande come una Zigulì. Ma anche ai sapori ci si abitua. E agli odori si impara a non farci più caso. Non posso dire che Moreno sia il mio piatto preferito o che il suo profumo sia il migliore di tutti. Perché, come dico sempre, da zero a dieci, continuo a essere incazzato undici. Però mi piacerebbe riuscire a scattare quella fotografia che non mi abbandona mai, quella che ci ritrae quando ci rotoliamo su un prato, mentre ce ne fottiamo del mondo che se ne fotte di noi." Dalla quarta di copertina del libro Zigulì. La mia vita dolceamara con un figlio disabile, di Massimiliano Verga (Mondadori).




L'Associazione per i Diritti Umani ha intervistato per voi l'autore e lo ringrazia moltissimo per il suo racconto e la sua testimonianza.



Quando siete venuti a conoscenza della disabilità di vostro figlio, come avete iniziato a “prepararvi” alla situazione?


Preparati mai. Moreno ha quasi 12 anni e c'è stato un percorso di conoscenza e, rispetto all'inizio, è tutta un'altra cosa, anche per merito suo.

Di fronte a una disabilità o fragilità, nessuno può avere l'arroganza o la presunzione di sentirsi preparato.

Moreno è nato sano, poi si è ammalato di un “qualcosa” che non so, a un mese di vita: è stato ricoverato in patologia neonatale ed è tornato a casa con gli esiti che ho raccontato nel libro. Non abbiamo una diagnosi e il fatto che Moreno non sarebbe più stato il bambino che ho cominciato a conoscere quando è nato, l'abbiamo saputo il giorno della dimissione e dopo alcuni mesi abbiamo scoperto che Moreno era anche non vedente.


Voi familiari avete fatto un percorso psicologico oppure avete affrontato tutto da soli?


Non abbiamo fatto nulla: io no, ma credo nemmeno la mamma (io e la mamma non viviamo più insieme). Anche i fratelli di Moreno non sono seguiti perchè è una situazione che hanno imparato a gestire con loro stessi in modo relativamente sereno.

Sono contrario ad un percorso che possa etichettarli e farli sentire i “fratelli di” quando, invece, stanno cercando di uscirne per conto loro.


Quali sono i sentimenti che ha provato da quando è nato Moreno e quali quelli che prevalgono?


Sono molto banale in questo, ma uno su tutti è l'amore. Poi, certo, c'è un contorno di rabbia e di frustrazione legato a quell'impreparazione di cui parlavamo prima.



Siete aiutati da servizio sanitario e dalle istituzioni?

Sono abbastanza fortunato rispetto alle altre realtà che conosco di situazioni di abbandono. E' noto che le istituzioni siano molto deficitarie, ma ho avuto fortuna nel senso che, fin dall'inizio, abbiamo trovato una brava fisioterapista che da subito ha seguito Moreno e anche il servizio scolastico è stato buono perchè alla materna ho trovato delle maestre molto attente. Adesso Moreno frequenta una scuola speciale in cui i bambini hanno una disabilità grave e mi trovo benissimo; avrà capito che sono favorevole alle scuole speciali perchè ci sono dei bambini che possono essere accolti solo in luoghi costruiti e pensati per loro.


Stanno aiutando Moreno a diventare più autonomo?


La parola “autonomo” per Moreno è una parola grossa perchè non lo sarà mai: ha bisogno che ci sia sempre una persona a mezzo metro da lui, ma il fatto che abbia imparato a riconoscere un water, che salga sul camper da solo, che si muova nello spazio in modo più sicuro lo devo alla testa dura mia e di sua madre, alla scuola, alla terapista e a tutti coloro che lo seguono.


Gli altri due fratelli come si rapportano a Moreno?


Chiaro che per loro è molto difficile. Moreno è un “alieno”: non parla, urla, sbatte. E' molto difficile avvicinarsi e interagire con lui.

I fratelli hanno delle modalità differenti legate non tanto all'età (il grande ha 13 anni e il più piccolo ne ha 8), ma perchè il grande ha visto nascere Moreno e ha vissuto insieme a noi e insieme a lui gli anni più duri e, quindi, prova sentimenti diversi rispetto al fratello piccolo che si è trovato un fratello “alieno” senza provare lo shock della scoperta della sua disabilità.



Perchè ha deciso di raccontare la vostra storia pubblicamente?


Zigulì era il mio diario nel quale mi sono sfogato, nel giro di una notte, come è scritto in quarta di copertina. Quando l'ho ripreso in mano ho pensato, forse con un po' di presunzione, che potesse essere utile per qualcun altro.

L'idea che quei sentimenti e quei frammenti potessero essere condivisi da altri genitori mi ha portato a pubblicarlo. Il riscontro è enorme e non me lo aspettavo: ricevo tantissime mail, ho fatto un centinaio di incontri pubblici, mi invitano. Mi sembra di aver raccontato qualcosa che appartiene a tante persone ma io, forse, ho avuto un pizzico di coraggio in più nel raccontare la realtà per quella che è.


Parliamo, infine, del tema dell'accettazione...


L'accettazione non riguarda il bambino, riguarda i genitori: tu devi imparare ad accettare te stesso come genitore di quel bambino.

Il bambino, ovviamente, è accettato, è tuo figlio, ma il genitore deve fare i conti con se stesso e questo è l'aspetto che a volte, purtroppo, crea atteggiamenti di chiusura. Peggio ancora nei casi in cui i genitori sono lasciati da soli per cui per loro è ancora più difficile: su questo dovremmo lavorare come comunità.





mercoledì 10 settembre 2014

Si può essere felici anche se si è speciali




Essere genitore di un figlio affetto dalla sindrome di Down ed essere felici: sembra un messaggio positivo, eppure in Francia questa verità è stata censurata. O meglio, è stato censurato un filmato, dal titolo Dear future mom, in cui alcuni ragazzi con questa particolarità cromosomica raccontano a una futura mamma di un bimbo down che suo figlio potrà studiare, lavorare e abbracciarla...Insomma, potrà condurre un'esistenza soddisfacente.

Il Consiglio superiore per l'audiovisivo (Csa), il massimo organo di sorveglianza francese del settore, lo scorso 26 luglio è intervenuto contro i canali televisivi che hanno messo in onda il documentario con la seguente motivazione: “ Il filmato, benchè diffuso a titolo gratuito, non può essere guardato come un messaggio di interesse generale. Indirizzandosi a una futura madre, sembra avere una finalità ambigua e può non suscitare un'adesione spontanea e consensuale”. Il filmato – premiato a Cannes e diffuso anche dall'Onu – è stato ideato in Italia e realizzato da Coordown, il coordinamento di circa ottanta associazioni impegnate nella valorizzazione delle persone affette dalla sindrome, e ha ricevuto il sostegano anche da parte degli Stati Uniti.

Elisa Orlandini, medico del comitato Coordown, ha affermato: “ La campagna, diffusa anche da associazioni laiche, non ha nessun intento antiabortista. Non siamo contrari alla diagnosi prenatale. Anzi, crediamo debba essere sempre più accurata proprio perchè le persone abbiano la possibilità di fare una scelta più libera possibile”.

Se il filmato, come spesso accade, suscita tante polemiche, resta la domanda della mamma protagonista, Martina: “Loro proteggono soltanto i genitori che hanno fatto altre scelte. Ma perchè non ci permettono di dire che noi stiamo bene?”.



 

lunedì 2 settembre 2013

Dalla letteratura al teatro: il conflitto israelo-palestinese


L'edizione 2013 del Festival di Todi (23 agosto -1 settembre) ha aperto con uno spettacolo importante e di attualità: Ritorno ad Haifa, tratto dall'omonimo romanzo breve di Ghassan Kanafani.
Siamo nel 1948, quando la città di Haifa viene occupata dall'esercito israeliano. La maggior parte della popolazione palestinese è costretta ad abbandonare le proprie case che saranno abitate da famiglie ebree. Vent'anni dopo le frontiere verranno aperte, per un breve periodo, e questo permetterà ad una coppia palestinese di tornare ad Haifa in quella che, una volta, era la propria quotidianità, la propria vita.
Shalom” ha tanti significati, ma quello principale è “pace”: è “shalom” è la parola con cui inizia lo spettacolo, per la regia di Patrick Rossi Gastaldi, che mantiene sul palco una narrazione semplice e diretta che si fa poetica nello scivolare delle parole quando il confronto tra uomini e donne - che appartengono a due mondi diversi, ma provano gli stessi sentimenti - si fa intenso. Sentimenti di rabbia e di amarezza, di rassegnazione e di tristezza.
La coppia di ebrei non esita ad accogliere in casa la coppia di palestinesi, ma presto gli uomini cominciano a discutere sulla possibilità di scelta: resistere di fronte all'imposizione di lasciare la propria terra oppure andarsene? Miriam, la donna ebrea, ha cresciuto Khaldun, il figlio degli altri coniugi, come se fosse suo. Khaldun non prova alcun affetto per Said e Safiya, i suoi genitori naturali: è arruolato nell'esercito sionista e li accusa di essere solo dei codardi. Inoltre, ha un fratello, Khaled, che milita invece tra i Fedayyn e, un giorno, potrebbe ritrovarsi a combattere contro di lui.
E' un gioco di specchi, quello che si viene a creare nell'intreccio dei personaggi e delle loro vicende in questa pièce di Kanafani, uno dei più grandi esponenti della letteratura araba contemporanea, assassinato dai servizi segreti israeliani, insieme a una nipote, nel 1972.
L'autore ha sempre avvicinato l'attività artistica a quella politica e fu il primo a parlare di “letteratura della resistenza”. Con questo suo lavoro lo scrittore palestinese parla di due diaspore: quella palestinese e quella ebraica. Sì, perchè Miriam, la donna ebrea, e suo marito sono scampati ad Auschwitz e, durante la fuga, sono stati costretti ad abbandonare il loro unico figlio. Madri e padri, uomini e donne che hanno perso tutto, a causa della violenza e dell'ottusità di altri: hanno perso la propria terra, la propria casa, i propri cari e anche, in fondo, la propria identità. Ma è possibile il perdono? E' possibile riconoscersi gli uni negli altri?
E i figli della guerra, nati e cresciuti in un clima di sopraffazione e di odio, perpetuano gli errori...La quarta parete della scenografia scompare mentre la voce narrante recita: “ Che cos'è la patria? Sono queste due sedie rimaste per vent'anni in questa stanza, il tavolo, le rose di stoffa? Khaldun, le nostre illusioni sul suo conto, essere padre, essere figlio. Che cos'è la patria, me lo domando ancora...”.

lunedì 5 agosto 2013

Un'interessante novità letteraria: Nessun requiem per mia madre



Claudiléia Lemes Dias - nata a Rio Brilhante, nel cuore del Brasile - dopo essersi laureata in Legge si trasferisce in Italia dove consegue il Master in Mediazione Familiare e in Tutela Internazionale dei Diritti Umani e oggi è al suo esordio letterario con il romanzo intitolato “Nessun requiem per mia madre”, per Fazi Editore.
Marta è arrivata in Italia dal Brasile. Non è una ragazza in fuga, non ha un passato da dimenticare. Marta ha soltanto un futuro da costruire: qui studia, si innamora e si sposa. È felice della propria vita. Ma allora perché è l’unica grande assente al funerale di sua suocera, Genuflessa De Benedictis? La madre di suo marito Franco, salutata ora con commozione dall’intero quartiere Parioli in cui viveva, è stata in realtà la più terribile e distruttiva delle suocere. Possessiva e pronta a tutto pur di non lasciare il figlio prediletto nelle grinfie dell’“approfittatrice straniera”.

Abbiamo intervistato l'autrice


Nel suo romanzo fa un ritratto feroce della famiglia italiana - borghese e cattolica - a contatto con lo straniero: possiamo chiederle se è una storia di fantasia o, in parte, autobiografica?

Le suocere e le nuore hanno spesso tratti comuni un po’ in tutto il mondo. Sono arrivata in Italia per approfondire gli studi con un Master in Mediazione Familiare, che pensavo, sarebbe stato il campo del mio futuro lavorativo. Molti degli avvenimenti provengono da testimonianze ascoltate in quegli anni di studio. Certamente l’atmosfera ricreata nel libro proviene dalle storie più estreme e patologiche che hanno modificato e segnato, fino a devastare, matrimoni basati su affinità che sembravano solide. Il mio tentativo è stato quello di immedesimarmi, sia nella madre che nel figlio, ed essere voce narrante di una asfissiante simbiosi in cui la madre non ammette che venga sottratto “il suo bastone della vecchiaia”. Non penso però sia solo una storia italiana dello stereotipato “mammone” o ultimamente politicizzato “bamboccione”. Le dinamiche dell’accettazione dello straniero sono quasi in secondo piano rispetto al rifiuto di una separazione fisica, che agli occhi della madre è vista come un tradimento. Poco importa che Marta, la nuora, sia straniera o autoctona. È la possibilità di aprirsi al mondo e di abbandonare le vecchie morbose abitudini a spaventare Genuflessa.

Cosa rappresenta Genuflessa De Benedictis, la “madre”, la “suocera”, al di là del suo ruolo familiare? E il suo è vero amore nei confronti dei figli o c'è dell'altro?

Genuflessa De Benedictis è madre e nella sua personale religione è Dio. Non ha solo procreato, ma creato i propri figli, uomini che vengono descritti nel romanzo come una sua propaggine inalienabile, cellule omozigote...Essendo ermeticamente chiusa in sé stessa, solo di sé (e quindi dei figli), Genuflessa crede di potersi fidare. Direi che non è amore ma spietato narcisismo.

Quali sono gli stereotipi da demolire quando si parla di brasiliani, sudamericani e di immigrati in genere?

Ridurre con le parole un popolo è il modo più semplice per odiarlo o per provarne simpatia. Se parlo dei romeni si pensa immediatamente alle badanti o ai pirati della strada, se dico peruviano o filippino la mente si sposta su bravi domestici, al brasiliano invece si associa alla trans della Cassia o della Cristoforo Colombo, al calcio e alle mulatte che camminano sulle spiagge bianche di Ipanema. Quanto di più fuorviante ci può essere, se con sei termini ho sintetizzato circa 350 milioni di persone? Gli stereotipi sono molti e cambiano spesso sulla base della volontà politica di strumentalizzare determinate situazioni o momenti storici.

L'Italia è un Paese razzista?

L’Italia ha una storia complessa. Non va capita ma psicanalizzata come un’affascinante donna profondamente insicura e impaurita che ha bisogno di eterne conferme sulla propria identità. Un Paese andrebbe misurato non attraverso lo spread o i rating delle banche, ma attraverso l’umanità e cultura che ha sviluppato nei secoli di storia. Da questo punto di vista definire l’Italia un Paese razzista sarebbe storicamente sbagliato, si pensi solamente alla globalità dell’impero Romano con il suo straordinario Diritto, ma anche alla storia più recente come la Carta dei Diritti dell’Uomo (Carta di Roma). Atteggiamenti incivili di pochi non possono condizionare un quadro generale che si presenta positivo e in costante evoluzione, anche se non voglio tuttavia minimizzare una certa inquietudine recente verso atteggiamenti sessisti e di fanatismo religioso.

Ci può rivelare il significato del titolo del romanzo?

È l’incapacità di perdonare le debolezze di chi ci ha generato. È l’eterno risentimento che si ha quando i genitori affidano nei figli il proprio riscatto.


Claudiléia Lemes Dias