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domenica 6 dicembre 2015

Abolire la guerra unica speranza per l'umanità: il discorso di Gino Strada alla cerimonia dei Nobel alternativi




«Io sono un chirurgo. Ho visto i feriti (e i morti) di vari conflitti in Asia, Africa, Medio Oriente, America Latina e Europa. Ho operato migliaia di persone, ferite da proiettili, frammenti di bombe o missili.

A Quetta, la città pakistana vicina al confine afgano, ho incontrato per la prima volta le vittime delle mine antiuomo. Ho operato molti bambini feriti dalle cosiddette "mine giocattolo", piccoli pappagalli verdi di plastica grandi come un pacchetto di sigarette. Sparse nei campi, queste armi aspettano solo che un bambino curioso le prenda e ci giochi per un po', fino a quando esplodono: una o due mani perse, ustioni su petto, viso e occhi. Bambini senza braccia e ciechi. Conservo ancora un vivido ricordo di quelle vittime e l'aver visto tali atrocità mi ha cambiato la vita.

Mi è occorso del tempo per accettare l'idea che una "strategia di guerra" possa includere prassi come quella di inserire, tra gli obiettivi, i bambini e la mutilazione dei bambini del "paese nemico". Armi progettate non per uccidere, ma per infliggere orribili sofferenze a bambini innocenti, ponendo a carico delle famiglie e della società un terribile peso. Ancora oggi quei bambini sono per me il simbolo vivente delle guerre contemporanee, una costante forma di terrorismo nei confronti dei civili.

Alcuni anni fa, a Kabul, ho esaminato le cartelle cliniche di circa 1200 pazienti per scoprire che meno del 10% erano presumibilmente dei militari. Il 90% delle vittime erano civili, un terzo dei quali bambini. È quindi questo "il nemico"? Chi paga il prezzo della guerra?

Nel secolo scorso, la percentuale di civili morti aveva fatto registrare un forte incremento passando dal 15% circa nella prima guerra mondiale a oltre il 60% nella seconda. E nei 160 e più "conflitti rilevanti" che il pianeta ha vissuto dopo la fine della seconda guerra mondiale, con un costo di oltre 25 milioni di vite umane, la percentuale di vittime civili si aggirava costantemente intorno al 90% del totale, livello del tutto simile a quello riscontrato nel conflitto afgano.

Lavorando in regioni devastate dalle guerre da ormai più di 25 anni, ho potuto toccare con mano questa crudele e triste realtà e ho percepito l'entità di questa tragedia sociale, di questa carneficina di civili, che si consuma nella maggior parte dei casi in aree in cui le strutture sanitarie sono praticamente inesistenti.

Negli anni, Emergency ha costruito e gestito ospedali con centri chirurgici per le vittime di guerra in Ruanda, Cambogia, Iraq, Afghanistan, Sierra Leone e in molti altri paesi, ampliando in seguito le proprie attività in ambito medico con l'inclusione di centri pediatrici e reparti maternità, centri di riabilitazione, ambulatori e servizi di pronto soccorso.

L'origine e la fondazione di Emergency, avvenuta nel 1994, non deriva da una serie di principi e dichiarazioni. È stata piuttosto concepita su tavoli operatori e in corsie d'ospedale. Curare i feriti non è né generoso né misericordioso, è semplicemente giusto. Lo si deve fare.

In 21 anni di attività, Emergency ha fornito assistenza medico-chirurgica a oltre 6,5 milioni di persone. Una goccia nell'oceano, si potrebbe dire, ma quella goccia ha fatto la differenza per molti. In qualche modo ha anche cambiato la vita di coloro che, come me, hanno condiviso l'esperienza di Emergency.

Ogni volta, nei vari conflitti nell'ambito dei quali abbiamo lavorato, indipendentemente da chi combattesse contro chi e per quale ragione, il risultato era sempre lo stesso: la guerra non significava altro che l'uccisione di civili, morte, distruzione. La tragedia delle vittime è la sola verità della guerra.

Confrontandoci quotidianamente con questa terribile realtà, abbiamo concepito l'idea di una comunità in cui i rapporti umani fossero fondati sulla solidarietà e il rispetto reciproco.

In realtà, questa era la speranza condivisa in tutto il mondo all'indomani della seconda guerra mondiale. Tale speranza ha condotto all'istituzione delle Nazioni Unite, come dichiarato nella Premessa dello Statuto dell'ONU:
"Salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all'umanità, riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell'uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nell'uguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole"
.

Il legame indissolubile tra diritti umani e pace e il rapporto di reciproca esclusione tra guerra e diritti erano stati inoltre sottolineati nella Dichiarazione universale dei diritti umani, sottoscritta nel 1948.
"Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti" e il "riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo"
.

70 anni dopo, quella Dichiarazione appare provocatoria, offensiva e chiaramente falsa. A oggi, non uno degli stati firmatari ha applicato completamente i diritti universali che si è impegnato a rispettare: il diritto a una vita dignitosa, a un lavoro e a una casa, all'istruzione e alla sanità. In una parola, il diritto alla giustizia sociale. All'inizio del nuovo millennio non vi sono diritti per tutti, ma privilegi per pochi.

La più aberrante in assoluto, diffusa e costante violazione dei diritti umani è la guerra, in tutte le sue forme. Cancellando il diritto di vivere, la guerra nega tutti i diritti umani.

Vorrei sottolineare ancora una volta che, nella maggior parte dei paesi sconvolti dalla violenza, coloro che pagano il prezzo più alto sono uomini e donne come noi, nove volte su dieci. Non dobbiamo mai dimenticarlo.
Solo nel mese di novembre 2015, sono stati uccisi oltre 4000 civili in vari paesi, tra cui Afghanistan, Egitto, Francia, Iraq, Libia, Mali, Nigeria, Siria e Somalia. Molte più persone sono state ferite e mutilate, o costrette a lasciare le loro case.

In qualità di testimone delle atrocità della guerra, ho potuto vedere come la scelta della violenza abbia - nella maggior parte dei casi - portato con sé solo un incremento della violenza e delle sofferenze. La guerra è un atto di terrorismo e il terrorismo è un atto di guerra: il denominatore è comune, l'uso della violenza.

Sessanta anni dopo, ci troviamo ancora davanti al dilemma posto nel 1955 dai più importanti scienziati del mondo nel cosiddetto
Manifesto di Russell-Einstein: "Metteremo fine al genere umano o l'umanità saprà rinunciare alla guerra?"
. È possibile un mondo senza guerra per garantire un futuro al genere umano?

Molti potrebbero eccepire che le guerre sono sempre esistite. È vero, ma ciò non dimostra che il ricorso alla guerra sia inevitabile, né possiamo presumere che un mondo senza guerra sia un traguardo impossibile da raggiungere. Il fatto che la guerra abbia segnato il nostro passato non significa che debba essere parte anche del nostro futuro.

Come le malattie, anche la guerra deve essere considerata un problema da risolvere e non un destino da abbracciare o apprezzare.
Come medico, potrei paragonare la guerra al cancro. Il cancro opprime l'umanità e miete molte vittime: significa forse che tutti gli sforzi compiuti dalla medicina sono inutili? Al contrario, è proprio il persistere di questa devastante malattia che ci spinge a moltiplicare gli sforzi per prevenirla e sconfiggerla.

Concepire un mondo senza guerra è il problema più stimolante al quale il genere umano debba far fronte. È anche il più urgente. Gli scienziati atomici, con il loro Orologio dell'apocalisse, stanno mettendo in guardia gli esseri umani:
"L'orologio ora si trova ad appena tre minuti dalla mezzanotte perché i leader internazionali non stanno eseguendo il loro compito più importante: assicurare e preservare la salute e la vita della civiltà umana"
.

La maggiore sfida dei prossimi decenni consisterà nell'immaginare, progettare e implementare le condizioni che permettano di ridurre il ricorso alla forza e alla violenza di massa fino alla completa disapplicazione di questi metodi. La guerra, come le malattie letali, deve essere prevenuta e curata. La violenza non è la medicina giusta: non cura la malattia, uccide il paziente.
L'abolizione della guerra è il primo e indispensabile passo in questa direzione.

Possiamo chiamarla "utopia", visto che non è mai accaduto prima. Tuttavia, il termine utopia non indica qualcosa di assurdo, ma piuttosto una possibilità non ancora esplorata e portata a compimento.

Molti anni fa anche l'abolizione della schiavitù sembrava "utopistica". Nel XVII secolo, "possedere degli schiavi" era ritenuto "normale", fisiologico.
Un movimento di massa, che negli anni, nei decenni e nei secoli ha raccolto il consenso di centinaia di migliaia di cittadini, ha cambiato la percezione della schiavitù: oggi l'idea di esseri umani incatenati e ridotti in schiavitù ci repelle. Quell'utopia è divenuta realtà.
Un mondo senza guerra è un'altra utopia che non possiamo attendere oltre a vedere trasformata in realtà.

Dobbiamo convincere milioni di persone del fatto che abolire la guerra è una necessità urgente e un obiettivo realizzabile. Questo concetto deve penetrare in profondità nelle nostre coscienze, fino a che l'idea della guerra divenga un tabù e sia eliminata dalla storia dell'umanità.

Ricevere il Premio Right Livelihood Award, il "Nobel alternativo", incoraggia me personalmente ed Emergency nel suo insieme a moltiplicare gli sforzi: prendersi cura delle vittime e promuovere un movimento culturale per l'abolizione della guerra.
Approfitto di questa occasione per fare appello a voi tutti, alla comunità dei colleghi vincitori del Premio, affinché uniamo le forze a sostegno di questa iniziativa.
Lavorare insieme per un mondo senza guerra è la miglior cosa che possiamo fare per le generazioni future».-- Gino Strada ha pronunciato questo discorso a Stoccolma (Svezia) lunedì 30 novembre, durante la cerimonia di consegna dei Right Livelihood Awards, i "premi Nobel alternativi". Un importante riconoscimento per il lavoro di Emergency contro la ‪guerra‬ e a favore delle vittime, un premio di cui siamo tutti molto orgogliosi e che ci spinge a fare sempre di più, ogni giorno, per raggiungere il nostro obiettivo: un mondo senza guerre in cui non ci sia più bisogno di noi.

 


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lunedì 30 novembre 2015

29 novembre: Giornata Internazionale di solidarietà con il popolo palestinese

di Monica Macchi


Il 29 novembre 1947 con la risoluzione 181, l’Assemblea Generale dell’Onu ha approvato il Piano di partizione della Palestina con cui si stabiliva la creazione di due Stati, uno ebraico e uno arabo, con Gerusalemme sotto regime internazionale speciale….una delle tante risoluzioni mai implementate.





 
Situato a est di Qalqilia, Kufr Qaddum è un villaggio palestinese di circa 4000 abitanti con una superficie di 24.000 donum: in base agli Accordi di Oslo è stato suddiviso in “area B” (circa 8.384 dunum dove l’Autorità Nazionale Palestinese ha il controllo sulle questioni civili, e Israele continua ad avere la responsabilità della sicurezza) e “area C” dove Israele ha il pieno controllo sia sulla sicurezza che sulla gestione amministrativa sia di questa area che degli insediamenti illegali che la circondano (Kedumim, Kedumim Zefon, Jit Mitzpe Yisha, e Giv'at HaMerkaziz che costituiscono la colonia di Ariel Kedumim abitata da circa 3000 coloni).

Attorno al villaggio c’è il muro di Separazione (che Israele chiama “Barriera di Sicurezza) che isola 7.175 dunum (38,2% della superficie totale) e impedisce ai contadini di accedere alle loro terre (il 70% degli abitanti lavorano anzi lavorerebbero nell’agricoltura!) e ci sono molte bypass road (strade costruite dagli israeliani per collegare gli insediamenti in Cisgiordania a Israele). De iure secondo gli accordi di Oslo, i palestinesi avevano il permesso di utilizzare queste strade ma dopo lo scoppio della Seconda Intifada, Israele ne ha chiuso l’accesso ai palestinesi per “ragioni di sicurezza” ossia per proteggere insediamenti e coloni. Questo ha creato moltissimi problemi sia per l’economia (l’agricoltura è in ginocchio) sia per la libertà di movimento per i lavoratori, gli studenti e anche i malati, costretti ad andare all’ ospedale di Darweesh Nazzal a una trentina di chilometri o negli ospedali di Nablus a una ventina… su percorsi alternativi e di fortuna su stradine non asfaltate continuamente interrotte da check-point anche improvvisati.

Così il 1 luglio 2011 è iniziata una resistenza popolare, sotto forma di una marcia pacifica dopo la preghiera del Venerdì per rivendicare il diritto e la libertà di movimento chiedendo la riapertura delle strade che collegano direttamente Kufr Qaddum agli altri villaggi palestinesi. Da allora ogni venerdì tutto il villaggio, compresi attivisti stranieri e pacifisti israeliani marciano non solo perchè le strade sono rimaste chiuse ma anche per denunciare il taglio di acqua ed elettricità che Israele usa come forma di punizione collettiva per fiaccare la resistenza.

 

Ed ecco con le parole di Murad Shtaiwi coordinatore dei movimenti popolari di resistenza non violenta, la situazione di Kufr Qaddum:


 




sabato 14 novembre 2015

L’ evoluzione della tutela internazionale dei diritti umani in Africa


 
di Veronica Tedeschi




Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.” (Art. 1 Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo)



I diritti umani nascono con la Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo del 1948, momento dal quale nasce la così detta “era moderna” dei diritti umani caratterizzata dalla loro internazionalizzazione.

Gli Stati, recependo con modalità differenti questa dichiarazione, riconoscono gli impegni in essa contenuti di fronte alla comunità internazionale.

Il continente europeo si evolve prima degli altri con la creazione della Convenzione Europea dei Diritti umani nel 1950.

Negli Stati americani, lo sviluppo è stato molto lento e, solo prendendo come esempio la Convenzione Europea, nasce la Convenzione Interamericana dei diritti umani nel 1969.

L’ultimo ad allinearsi alla Dichiarazione del 48 è il continente africano.

L’impulso delle Nazioni Unite stimola i paesi della lega araba a lavorare sui diritti umani e, di conseguenza, si crea la lega degli stati arabi, nata “scimmiottando” il modello delle Nazioni Unite.

Nel 1994 si arriva, a Tunisi, ad adottare la Carta Araba dei diritti dell’uomo, nella quale non si specifica il rispetto della shari’a (come nei progetti precedenti della Carta); viene solo nominata nel preambolo e questo rappresenta un grande passo avanti per paesi così condizionati dal potere della shari’a. La Carta araba è vigente ma non funzionante perché accanto ad essa non è stato creato l’organo per controllare il rispetto della Carta.

Solo nel 2002 nascerà l’altra importante organizzazione regionale: l’Ua (Unione Africana) che rappresenta anch’essa un’evoluzione poiché non distingue i paesi ma abbraccia, per la prima volta, tutti i paesi del continente africano.

Tornando indietro nel tempo, al 1981, è necessario ricordare la nascita del primo importante testo per i diritti umani che, in un certo senso, si può affiancare alle due Convenzioni regionali precedentemente citate: la Carta Africana dei diritti dell’uomo e dei popoli: le fondamenta di questa Carta si basano sul fatto che l’uomo, in quanto singolo, non si sviluppa ma lo fa solo all’interno di una società.

I doveri dell’individuo, così come i diritti dei popoli, sono i due pilastri della Carta, che l’hanno resa originale e diversa dalle altre Convenzioni regionali.



La soggezione dei popoli a una dominazione e a uno sfruttamento straniero costituisce una negazione dei diritti fondamentali dell’uomo”.

La motivazione di una così importante espressione la si può ricondurre alla storia del continente segnata da una forte colonizzazione e sfruttamento. Il diritto dei popoli a disporre di se stessi e di tutti i diritti connessi sono presupposti indispensabili alla garanzia dei diritti dell’uomo, nel senso dei diritti della persona umana; ma essi non costituiscono in sé i diritti dell’uomo.

La Carta africana riafferma l’indivisibilità dei diritti dell’uomo aggregando in un unico documento i diritti di prima, seconda e terza generazione. Nello specifico, per diritti di prima generazione si intende il diritto all’uguaglianza davanti alla legge o il diritto di associazione; per diritti di seconda generazione si intende il diritto al lavoro in condizioni uguali e soddisfacenti o il diritto all’istruzione mentre il diritto ad un ambiente soddisfacente, il diritto alla pace e alla sicurezza internazionale sono diritti di terza generazione. L’introduzione di questi ultimi diritti è strettamente legata ai diritti collettivi dei popoli che, rintracciati in sei articoli della Carta, rappresentano uno dei caratteri più innovativi di questo strumento giuridico.

Bisogna comunque sottolineare il fatto che, nonostante la Carta africana ha la qualità di aver affermato in modo deciso il carattere collettivo di questi diritti, risulta ambigua la titolarità dei medesimi diritti, per esempio la concezione di popolo potrebbe essere strumentalizzata dalle entità statali in quanto non perfettamente specificata nella Carta.

In conclusione, molti sono i lati positivi di questa Carta ma, per completezza è necessario elencare tre importanti lacune: l’omissione di alcuni diritti garantiti dalla Dichiarazione Universale (diritto al matrimonio, diritto di cambiare religione) , l’eccessiva discrezionalità conferita agli Stati africani nella limitazione dei diritti garantiti dalla Carta e l’assenza nella Carta di disposizioni che prevedano e regolamentino la facoltà degli Stati parte di sospendere i diritti in circostanze eccezionali. Si dubita fortemente che i redattori abbiano voluto conferire carattere assoluto ai diritti contenuti nella Carta, quindi l’assenza di indicazioni rende, in ogni caso, invocabile la sospensione dei diritti facendo riferimenti all’art. 62 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati.




sabato 10 ottobre 2015

Ministero dell’Economia: stabilito l’importo per il rilascio del nuovo documento elettronico per cittadini stranieri



(da ProgrammaIntegra.it)


Dal 24 settembre 2015 è entrato in vigore il nuovo documento elettronico per cittadini stranieri, apolidi e titolari di protezione internazionale, e il Ministero dell’Economia e delle Finanze, con il decreto ministeriale del 14 settembre 2015, ha determinato il nuovo importo delle spese a carico dei soggetti richiedenti.

Il documento di viaggio viene rilasciato a apolidi, titolari di protezione internazionale e cittadini stranieri, che sono nell’impossibilità di farsi rilasciare un passaporto dalle autorità dei loro Paesi d’origine.

I Regolamenti del Consiglio Europeo hanno imposto l’adeguamento al formato elettronico, al fine di rendere questo documento più sicuro, difficilmente falsificabile.

Il nuovo documento è stampato dall’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, ha 32 pagine, è dotato di microchip e sono memorizzate le immagini del volto e due impronte digitali del titolare.

Il documento di viaggio viene rilasciato dalla Questura territorialmente competente al rilascio del titolo di soggiorno.

Dal 24 settembre non sarà più possibile emettere i precedenti documenti in formato cartaceo.

Il nuovo documento ha un costo di € 42,22 e all’atto di presentazione della richiesta di rilascio deve essere consegnata la ricevuta di versamento su bollettino di conto corrente n.67422808 intestato a: Ministero dell’Economia e delle Finanze – Dipartimento del Tesoro.





Ministero Dell’Economia e delle Finanze_nuovo documento di viaggio_DM 14 settembre 2015

Per saperne di più consulta le schede tematiche sul permesso di soggiorno

Leggi anche:

Sanatoria 2012: l’Avvocatura dello Stato chiarisce quali sono i documenti validi per dimostrare la presenza in Italia


lunedì 28 settembre 2015

Intervista ad Andrea Margelletti, Presidente del Centro Studi Internazionali



L'Associazione per i Diritti Umani ha rivolto, per voi, alcune domande al Dott. Andrea Margelletti, Presidente del Centro Studi Internazionali (Ce.S.I.) e lo ringrazia molto per la sua disponibilità.





E' probabile che tra i migrati che arrivano in Europa ci siano persone “pericolose”? Come combattere la cultura della paura, diffusa da alcune parti politiche?


Bisognerebbe definire cosa vuol dire “pericolose”: una cosa sono i terroristi, un'altra sono i criminali. Sul fatto che arrivino criminali o persone che in poco tempo vanno a delinquere, mi pare evidente perchè è una realtà che accomuna tutte le migrazioni. Chi si sposta in condizioni disperate, in alcuni casi, può essere attratto dai guadagni facili e questo è successo anche agli italiani che sono emigrati all'estero; quindi si tratta di un fenomeno endemico nei grandi numeri.

Altra cosa, invece, è il terrorismo: fino ad ora non ci sono risultati terroristi arrivati con i barconi anche perchè il terrorista è una persona estremamente formata, preziosa per il gruppo terroristico e non si rischia di metterlo su un barcone dove può affondare; è più facile che arrivi in Europa con un visto turistico o, addirittura, che sia cittadino europeo.



Per bloccare il traffico umano è inutile arrestare solo gli scafisti. Quali operazioni sarebbero necessarie allo scopo?


Le operazioni che nessuno si sente in grado di fare: sarebbe opportuno intervenire nelle zone per cui le persone partono (e non mi riferisco soltanto alla Libia, ma anche all'Africa sub-sahariana) con delle politiche di lunghissimo termine ed estremamente costose. Al momento, non mi pare che alcun Paese europeo o occidentale abbia voglia di spendere miliardi di euro per questo tipo di attività che richiedono molti anni per vedere i primi risultati.


Qual è il suo parere, quindi, riguardo alle politiche europee in termini di sicurezza e di immigrazione?


Dal punto di vista della sicurezza interna, c'è grandissima collaborazione tra le forze di polizia e i servizi di informazione-sicurezza. Poi ciascun Paese adotta, sul proprio territorio nazionale, le misure che ritene più efficaci e opportune.

In termini di immigrazione non c'è una reale politica europea: l'Italia è stata lasciata sola ad affrontare il problema. Spesso la Ue, di fronte a problemi grossi, diventa una realtà di singoli e non più un'unione.



La comunità internazionale dovrebbe intervenire in alcune aree del mondo, ad esempio in Siria?


In Siria sono già presenti alcune ONG e sono in atto alcune operazioni – da parte della comunità internazionale – contro l'Isis, ma mi pare che anche in Siria, per l'ennesima volta, non vi sia, a livello di Paesi occidentali, una visione comune su come affrontare il problema.

Prima di tutto dovremmo avere una politica comune, a fonte della quale si fanno scelte comuni che possano essere anche sbagliate, ma che almeno sono condivise da tutti. Il fatto di procedere in maniera disunita ci rende deboli e vulnerabili.

venerdì 25 settembre 2015

Guida sanitaria per espatriati


Con piacere vi informiamo che il progetto Siscos - Guida sanitaria per espatriati - è disponibile online, con un sito web aggiornato e facilmente navigabile. Lo scopo è quello di fornire alcune semplici norme di comportamento per i tanti problemi sanitari che tutti gli operatori delle ONG convenzionate con SISCOS possono dover affrontare nelle missioni all’estero.
“Siamo convinti che partendo dalla prevenzione sanitaria si possa contribuire alla sicurezza degli operatori delle Ong” – ha sottolineato Cinzia Giudici, Presidente della Siscos, in occasione della presentazione della Guida alla conferenza “La sicurezza è una cosa seria”, organizzata dalle tre reti ONG alla Farnesina con la presenza del Ministro degli Affari Esteri Paolo Gentiloni. E’ per questo che la Guida consente di raggiungere i migliori siti internazionali che approfondiscono il tema della protezione del personale impegnato in missioni in paesi tropicali e non, offrendo aggiornamenti costanti
sulle emergenze sanitarie inatto.

La Guida ospita inoltre il dossier “
Suggerimenti per la gestione dei rischi e la sicurezza degli operatori delle Organizzazioni di Cooperazione e Solidarietà Internazionale”, predisposto dalle reti di Ong Aoi, Cini, Link2007 in collaborazione con l’Unità di Crisi del MAECI, con informazioni e suggerimenti utili a fornire una visione d’insieme delle problematiche relative alla sicurezza in contesti potenzialmente pericolosi.


Il sito della guida sanitaria è visitabile al link http://guidasanitaria.siscos.org, oppure raggiungibile dal portale Siscos www.siscos.org

martedì 28 luglio 2015

Centro Astalli: deludente l’esito del Consiglio Europeo in tema di immigrazione





Al termine del Consiglio Europeo riunitosi ieri pomeriggio, il Centro Astalli ribadisce la propria delusione e preoccupazione che si profila rispetto alle decisioni adottate e, soprattutto, rispetto alla prospettiva europea sul tema della protezione internazionale dei migranti, particolarmente urgente in un momento di eccezionale emergenza umanitaria come questo.

In particolare pongono particolari criticità i seguenti punti:

- Il regolamento di
Dublino, uno strumento che già da tempo ha rivelato la sua inadeguatezza e inefficacia, continua a essere riproposto rigidamente come unico approccio possibile al tema dell’accoglienza dei rifugiati.

- L’insistenza sulle
procedure di identificazione, anche coatte, che Italia e Grecia sarebbero tenute a assicurare come condizione per la messa in atto delle misure di redistribuzione previste rivela che non c’è alcuna volontà di lavorare per un nuovo approccio di condivisione effettiva delle responsabilità.

- Il cosiddetto meccanismo di “
hot spot” che consiste nell’identificazione dei migranti mediante una presenza più forte, in Italia e Grecia, di funzionari di EASO, Frontex ed Europol è fonte di grandi perplessità. Difficile immaginarne il funzionamento nel caso in cui le persone si rifiutino sistematicamente di farsi foto segnalare, a meno che non si intenda fare ricorso in maniera quasi sistematica al trattenimento.

- Considerando peraltro i numeri irrisori del piano di “solidarietà” (appena 24.000 trasferimenti dall’Italia in 24 mesi), è facile prevedere, alla luce del trend degli arrivi del 2015, che se tale provvedimento fosse applicato l’Italia si troverebbe a dover far fronte a
un numero di domande più che raddoppiato rispetto alla situazione attuale.

- Un altro strumento su cui il Consiglio Europeo punta per la gestione del fenomeno è una lista dei 
Paesi “sicuri” da cui i migranti non hanno motivo di scappare e in cui possono quindi essere rimandati. Più volte l’UNHCR ha espresso riserve e preoccupazione sull’uso di tale definizione nelle Direttive Europee: designare un paese come “paese terzo sicuro” può comportare infatti che una richiesta di protezione internazionale non venga esaminata nel merito e sia dichiarata inammissibile, o sia esaminata mediante una procedura accelerata con garanzie procedurali ridotte. La compatibilità di questa misura con lo spirito della Convenzione di Ginevra è stata più volte messa in discussione.



P. Camillo Ripamonti, presidente Centro Astalli, commenta così gli esiti del summit di ieri: “Riconosciamo che l’Unione Europea ha compiuto un primo passo per una gestione unitaria e programmata del fenomeno migratorio. Tuttavia ci pare si continui a ragionare su politiche di chiusura dei confini che non consentono un cambio di prospettiva rispetto alle grandi crisi umanitarie che interessano il mondo. Ancora una volta rileviamo che per l'Unione Europea la sicurezza e il controllo delle proprie frontiere sono prioritari rispetto all'accoglienza e alla protezione di chi scappa da guerre e persecuzioni".

venerdì 17 luglio 2015

L'Isis decapita anche le donne



Per la prima volta dall'autoproclamazione del Califfato, l'Isis ha decapitato due donne.

La notizia risale alla fine del mese scorso ed è stata riportata da alcuni portali on-line e dall'Osservatorio per i Diritti Umani di Londra.

Le due donne (e i loro coniugi) provenivano dalla provincia di Deir Ezzor e da al Maydin in Siria del Nord e il fatto ancora più sconcertante è che siano state condannate a morte con l'accusa di “STREGONERIA e atti di magia a uso medico”, secondo le dichiarazioni degli jihadisti.

Francesca Maria Corrao, docente di Studi Mediterranei all'università Luiss “Guido Carli” di Roma ha così commentato l'accaduto: “Siamo di fronte all'ennesima dimostrazione di ignoranza da parte dei miliziani dello Stato Islamico. Non esiste nella storia dell'Islam, a differenza di quella cristiana, la caccia alle streghe. Non è mai esistito il reato di stregoneria. I terroristi, molti dei quali hanno studiato o vissuto in Occidente e hanno una scarsa conoscenza religiosa e giuridica, sanno però che in noi questo termine rievoca anni di paura e persecuzioni. Aumentando la carica emotiva con la decapitazione, lo usano così in maniera strumentale per terrorizzarci”. La Prof.ssa Bruna Graziosi, sempre della Luiss e docente di Istituzioni e Storia dei Paesi islamici aggiunge: “ Molte azioni di Isis sono spesso non giustificate dalla religione o dalla giurisprudenza islamica, ma la decapitazione delle donne viene evitata anche da molti altri gruppi radicali. Ricordo, ad esempio, il caso di una principessa saudita accusata di adulterio: mentre l'amante venne decapitato, la donna fu lapidata. Anche in casi estremi come questo, il taglio della testa della donna è stato evitato”.

Un altro episodio, questo, che conferma l'escalation di violenza e di atrocità messo in atto dai membri dell'Isis per aumentare il livello di allerta in Occidente, per seminare la sensazione di insicurezza e per instillare, sempre più, la paura. Ma non dobbiamo cedere a questo meccanismo, non dobbiamo riprodurre la rappresentazione del Male; bisogna rispondere con lucidità e, prima di tutto, capire fino in fondo cosa sta accadendo.


venerdì 26 giugno 2015

La campagna STOP alla TORTURA







Oggi è la Giornata internazionale per dire STOP alla TORTURA.

Pubblichiamo, per questa occasione, materiali e una riflessione importante (dal sito di Amensty International)


Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamenti o punizioni crudeli, disumani e degradanti” (Dichiarazione universale dei diritti umani, articolo 5)
Il diritto a essere liberi dalla tortura e da altri trattamenti o punizioni crudeli, disumani e degradanti è tra i diritti umani più saldamente protetti dal diritto internazionale. Affermato nella Dichiarazione universale dei diritti umani, ribadito in strumenti internazionali – come il Patto internazionale per i diritti civili e politici – e regionali, il divieto di tortura viene sancito in una Convenzione ad hoc nel 1984: la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani e degradanti (Convenzione).
Il divieto di tortura è assoluto: questo significa che mai un pubblico ufficiale o una persona che agisca a titolo ufficiale può infliggere intenzionalmente dolore o sofferenze gravi a un’altra persona anche in situazioni di emergenza, quali una guerra, una catastrofe naturale o creata dall’uomo.

Nonostante l’obbligo per gli stati parte della Convenzione di considerare reato la tortura, indagare in modo approfondito e imparziale su qualsiasi denuncia e perseguire i responsabili, la tortura è ancora oggi molto diffusa; in alcuni di questi paesi è sistematica, in altri è un fenomeno isolato ed eccezionale.




Perché la campagna "Stop alla tortura"?



A 30 anni dalla storica adozione della Convenzione, i governi hanno tradito l'impegno a porre fine a questa pratica che comporta la perdita definitiva dell'umanità, che è il segnale di una crisi collettiva fatta di barbarie, fallimenti e paura.

In questi tre decenni, i governi spesso hanno vietato la tortura per legge ma l'hanno permessa nella pratica. Hanno pestato, frustato, soffocato, semiannegato, stuprato, privato del sonno nel buio delle carceri e nelle stanze degli interrogatori; hanno colpito presunti criminali comuni, persone sospettate di costituire una minaccia alla sicurezza nazionale, dissidenti, rivali politici per estorcere loro confessioni, per punirli, intimorirli, per privarli della loro dignità.
Tra il 2009 e il 2014, Amnesty International ha registrato torture e altri maltrattamenti in 141 paesi ma, dato il contesto di segretezza nel quale la tortura viene praticata, è probabile che il numero effettivo sia più alto. Nel 2014, 79 paesi hanno praticato la tortura.

Questa campagna porta avanti un lavoro iniziato nel 1972 e che ha contribuito all'adozione, nel 1984, della Convenzione. Quest'anno, 30esimo anniversario della Convenzione, ci concentriamo su tutti i contesti di custodia statale di alcuni paesi in cui pensiamo di poter cambiare significativamente la situazione. In Italia lavoreremo per porre fine alla tortura in
Messico, Uzbekistan e Marocco/Sahara Occidentale; a livello internazionale anche su Filippine e Nigeria.

La nostra campagna si rivolge anche all'
Italia, affinché sia introdotto nel codice penale il reato di tortura e si colmi pertanto il ritardo di oltre 25 anni trascorsi dalla ratifica della Convezione contro la tortura.
Scarica il briefing "La tortura oggi: 30 anni di impegni non mantenuti"
Sostieni la nostra campagna!
Scarica il briefing "Comincia qui, comincia ora"


sabato 6 giugno 2015

Un protocollo internazionale per il diritto umano all'acqua


 



Il Comitato Italiano per il Contratto Mondiale sull’Acqua lancia un sito e un trattato per il diritto umano all’acqua.

Al via la campagna per il riconoscimento dell'acqua come diritto umano: è online il nuovo sito WaterHumanRightTreaty.org.

Il Comitato Italiano per il Contratto Mondiale sull'Acqua si fa portavoce di un nuovo importante obiettivo:

garantire, entro il 2020, il diritto umano all'acqua e ai servizi igienici per tutti e l'attuazione del riconoscimento del diritto umano all'acqua della risoluzione delle Nazioni Unite del luglio 2010. Lo strumento necessario per garantire questo diritto essenziale è un trattato di diritto internazionale, firmato dagli Stati, che definisca a livello sostanziale e procedurale, come raggiungere questo diritto.

L'obiettivo della campagna, sostenuta anche da Mani Tese, Ce.Vi. e Cospe è quello di individuare,attraverso la mobilitazione dei cittadini, delle reti internazionali, dei movimenti sociali, ONG e associazioni, un gruppo di Stati e istituzioni disposti ad avviare negoziati per un secondo protocollo al Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e culturali che definisca le modalità di realizzazione di un "diritto umano all'acqua e ai servizi igienico‐sanitari".

E' necessario chiedere ‐afferma Rosario Lembo Presidente di Cicma‐ alla comunità internazionale distabilire norme giuridicamente vincolanti per il diritto all'acqua per realizzare la risoluzione (64/292 luglio 2010), che ha sancito che ‘il diritto all'acqua potabile e ai servizi igienici è un diritto umano essenziale per la qualità della la vita e l'esercizio di tutti i diritti umani’. Si è susseguita poi la risoluzione del Consiglio per i Diritti Umani (15/09 settembre 2010), che afferma che ‘il diritto fondamentale all'acqua e ai servizi igienicosanitari è associata al diritto ad un adeguato standard di vita ed è indissolubilmente legata al miglioramento della salute fisica e mentale e dei servizi igienico‐sanitari come un diritto alla vita e alla dignità’ e sancisce (art. 8, comma a) che spetta agli Stati in prima istanza, la responsabilità di garantire il pieno esercizio di tutti i diritti dell’uomo. Dopo cinque anni non vi è ancora stata alcuna attuazione concreta, mentre l'urgenza di sancire i diritti umani attraverso strumenti giuridici internazionali, nell'attuale processo di globalizzazione, è una priorità”.

In questo momento la campagna è anche uno strumento importante per difendere un diritto fondamentalecome quello all’acqua e contrastare le minacce ai diritti umani provenienti da trattati internazionali, come TTIP, CETA, l'EPA, che mirano ad influenzare la sovranità degli Stati e limitare le restrizioni imposte dalle leggi nazionali, anche costituzionali, in difesa dei diritti umani sanciti la Dichiarazione delle Nazioni Unite.

La campagna WaterHumanRightTreaty è quindi una proposta di azioni aperte al contributo e alla condivisione di movimenti, reti, comitati impegnati nella difesa dell'acqua e dei diritti umani che vogliono contrastare il processo di accaparramento e la finanziarizzazione dei beni comuni e vogliono sottrarre alle multinazionali e al libero mercato, la “governance” dei beni comuni del nostro pianeta.



Maggiori informazioni su: www.waterhumanrighttreaty.org


martedì 19 maggio 2015

Un angolo di Eritrea a Milano



di Igiaba Scego (da “Internazionale” 5 maggio 2015)




Neoclassica, austera, trionfale, così appare porta Venezia, una delle sei principali porte di Milano, al visitatore. Il quartiere noto per i suoi ristorantini alla moda è tra i più amati dagli under 30 milanesi. Certo gli spritz, gli apericena l’hanno resa trendy e al passo con i tempi, ma porta Venezia è qualcosa di più profondo. Di fatto racchiude in sé una storia complessa fatta di separazioni e ricongiungimenti, una storia che odora di caffè caldo e cardamomo, una storia che la lega all’Africa come nessuna.
Infatti da tempo il quartiere è il ritrovo della comunità eritrea-etiope che dagli anni settanta del secolo scorso ha fatto di questa zona il centro della propria esistenza. Ed è sempre qui che gli eritrei di oggi, in fuga dalla dittatura feroce e insensata di Isaias Afewerki, cercano rifugio dopo essere approdati a Lampedusa con una carretta scassata. Sanno che a porta Venezia una zuppa calda e qualcuno che sa parlare la loro lingua lo troveranno di sicuro. Porta Venezia è Milano, ma è anche Asmara. È Italia, ma anche Eritrea.
Il colonialismo italiano, diceva nel suo bel libro Rifugiati lo scrittore somalo Nuruddin Farah, occupa un territorio coloniale ambiguo nella coscienza degli italiani. Infatti l’Italia spesso non si ricorda di aver avuto un legame storico con Libia, Somalia, Etiopia ed Eritrea. Disconosce il vincolo e quando poi arrivano i rifugiati proprio da quei paesi un tempo colonizzati (e spesso brutalizzati) non riesce a tracciare una linea che la colleghi a quell’intreccio di corpi. È più facile dimenticare. E così si dimenticano non solo le nefandezze del periodo coloniale, ma anche quelle più moderne fatte di affari sporchi con i dittatori di turno e di rifiuti sversati in mare o tombati nelle zone di pascolo. L’Africa, come diceva Ennio Flaiano, rimane ancora lo sgabuzzino delle porcherie e meno se ne parla meglio è.
Ma ormai, per fortuna, fioccano le contronarrazioni. Ed ecco che il docufilm Asmarina di Alan Maglio e Medhin Paolos ci regala una panoramica su una comunità, quella eritrea-etiope, presente nel territorio da decenni di cui però si è sempre parlato molto poco. Il titolo, tratto da una canzone coloniale degli anni trenta, è già di per sé evocativo. Il docufilm nasce per accumulazione. Colpisce, fin dalle prime scene, la presenza ossessiva e permeante delle fotografie dovuta a un grande lavoro di ricerca da parte dei registi.



Ed ecco che lo schermo si riempie di bambine sorridenti, ragazzi con jeans a zampa di elefante, signore con il tradizionale abito bianco. E poi feste, celebrazioni, preparazioni di focacce e caffè, treccine svolazzanti, orecchini arcobaleno. E piano piano una comunità di adulti si popola di bambini. Generazioni si mescolano e quasi si confessano davanti alla telecamera, mai invasiva, di Alan Maglio e Medhin Paolos. E sotto i nostri occhi una comunità si svela nelle sue più intime e delicate sfumature.
C’è la scrittrice Erminia dell’Oro figlia di italiani, di vecchi coloni, nata in Eritrea che si sente africana e non importa se ha la pelle bianca, Eritrea per lei è casa. Il dj Million Seyum, chiamato non a caso il Sindaco, che sa come far ballare i suoi compaesani, ma che in ogni sua parola è profondamente asmarino, ma anche profondamente milanese. La famigliola riunita intorno a un libro di fotografie (Stranieri a Milano di Lalla Golderer e Vito Scifo che diventerà uno degli assi portanti del docufilm) sa come commuoverci con gli antichi ricordi di famiglia.
E poi c’è Michele figlio di un pugliese mai conosciuto e di un’eritrea, cresciuto in un collegio di suore a suon di punizioni corporali, rimpatriato in un’Italia mai veramente sua. Colpisce inoltre la forza di Helen Yohannes, calciatrice/mediatrice culturale che ha dedicato il suo tempo ad aiutare i rifugiati perché guardando quelle facce così simili alla propria sa che quel destino poteva toccare a lei e si rimbocca le maniche per attutire come può quelle sofferenze.
Fotogramma dopo fotogramma scopriamo una comunità molto attiva negli anni settanta-ottanta, organizzata, unita. C’era la lotta per l’indipendenza a dare identità. Ed ecco le riunioni in teatri gremiti, i volantinaggi, le assemblee, le manifestazioni, le storie d’amore nate intorno a tutta quella politica. E poi la gioia immensa di essere un paese. C’è chi pensava di tornare ad Asmara, di ricostruire là il poco di avvenire rimasto. E poi dal paradiso agli inferi di oggi, prima un conflitto insensato con l’Etiopia per un confine senza importanza e poi la dittatura che sta facendo fuggire tanti giovani che preferiscono rischiare la traversata attraverso il Mediterraneo che marcire nelle grinfie di un regime protetto anche da occidente.
Ed ecco che i registi non nascondono le fratture all’interno di una comunità. Una divisione in filogovernativi e oppositori, tra chi si sente eritreo o chi eritreo-etiope. E in mezzo c’è l’Italia, Milano. Una città-casa che a volte sa abbracciare e a volte no. Asmarina racconta tutto questo e molto altro. Racconta l’Italia come recentemente sono riusciti a fare in pochi.


lunedì 27 aprile 2015

Quei ragazzi divorati in mezzo al mare dalla nostra indifferenza


di Igiaba Scego    (da Internazionale, 20-04-2015)


 
 

Mio padre e mia madre sono venuti in Italia in aereo.

Non hanno preso un barcone, ma un comodo aeroplano di linea.

Negli anni settanta del secolo scorso c’era, per chi veniva dal sud del mondo come i miei genitori, la possibilità di viaggiare come qualunque altro essere umano. Niente carrette, scafisti, naufragi, niente squali pronti a farti a pezzi. I miei genitori avevano perso tutti i loro averi in un giorno e mezzo. Il regime di Siad Barre, nel 1969, aveva preso il controllo della Somalia e senza pensarci due volte mio padre e poi mia madre decisero di cercare rifugio in Italia per salvarsi la pelle e cominciare qui una nuova vita.

Mio padre era un uomo benestante, con una carriera politica alle spalle, ma dopo il colpo di stato non aveva nemmeno uno scellino in tasca. Gli avevano tolto tutto. Era diventato povero.

Oggi mio padre avrebbe dovuto prendere un barcone dalla Libia, perché dall’Africa se non sei dell’élite non c’è altro modo di venire in Europa. Ma gli anni settanta del secolo scorso erano diversi. Ho ricordi di genitori e parenti che andavano e venivano. Avevo alcuni cugini che lavoravano nelle piattaforme petrolifere in Libia e uno dei miei fratelli, Ibrahim, che studiava in quella che un tempo si chiamava Cecoslovacchia. Ricordo che Ibrahim a volte si caricava di jeans comprati nei mercati rionali in Italia e li vendeva sottobanco a Praga per mantenersi agli studi. Poi passava di nuovo da noi a Roma e quando era chiusa l’università tornava in Somalia, dove parte della famiglia aveva continuato a vivere nonostante la dittatura.

Se dovessi disegnare i viaggi di mio fratello Ibrahim su un foglio farei un mucchio di scarabocchi. Linee che uniscono Mogadiscio a Praga passando per Roma, alle quali dovrei aggiungere però delle deviazioni, delle curve. Mio fratello infatti aveva una moglie iraniana e viaggiavano insieme. Quindi c’era anche Teheran nel loro orizzonte e tanti luoghi in cui sono stati ma che ora non ricordo con precisione.

Mio fratello, da somalo, poteva spostarsi. Come qualsiasi ragazzo o ragazza europea. Se dovessi disegnare i viaggi di un Marco che vive a Venezia o di una Charlotte che vive a Düsseldorf dovrei fare uno scarabocchio più fitto di quello che ho fatto per mio fratello Ibrahim. Ed ecco che dovrei disegnare le gite scolastiche, quella volta che il suo gruppo musicale preferito ha suonato a Londra, le partite di calcio del Manchester United, poi le vacanze a Parigi con la ragazza o il ragazzo, le visite al fratello più grande che si è trasferito in Norvegia a lavorare. E poi non vai una volta a vedere New York e l’Empire State Building?

Per un europeo i viaggi sono una costellazione e i mezzi di trasporto cambiano secondo l’esigenza: si prende il treno, l’aereo, la macchina, la nave da crociera e c’è chi decide di girare l’Olanda in bicicletta. Le possibilità sono infinite. Lo erano anche per Ibrahim, nonostante la cortina di ferro, anche nel 1970. Certo non poteva andare ovunque. Ma c’era la possibilità di viaggiare anche per lui con un sistema di visti che non considerava il passaporto somalo come carta igienica.

Oggi invece per chi viene dal sud del mondo il viaggio è una linea retta. Una linea che ti costringe ad andare avanti e mai indietro. Si deve raggiungere la meta come nel rugby. Non ci sono visti, non ci sono corridoi umanitari, sono affari tuoi se nel tuo paese c’è la dittatura o c’è una guerra, l’Europa non ti guarda in faccia, sei solo una seccatura. Ed ecco che da Mogadiscio, da Kabul, da Damasco l’unica possibilità è di andare avanti, passo dopo passo, inesorabilmente, inevitabilmente.

Una linea retta in cui, ormai lo sappiamo, si incontra di tutto: scafisti, schiavisti, poliziotti corrotti, terroristi, stupratori. Sei alla mercé di un destino nefasto che ti condanna per la tua geografia e non per qualcosa che hai commesso.

Viaggiare è un diritto esclusivo del nord, di questo occidente sempre più isolato e sordo. Se sei nato dalla parte sbagliata del globo niente ti sarà concesso. Oggi mentre riflettevo sull’ennesima strage nel canale di Sicilia, in questo Mediterraneo che ormai è in putrefazione per i troppi cadaveri che contiene, mi chiedevo ad alta voce quando è cominciato questo incubo, e guardando la mia amica giornalista-scrittrice Katia Ippaso ci siamo chieste perché non ce ne siamo rese conto.

È dal 1988 che si muore così nel Mediterraneo. Dal 1988 donne e uomini vengono inghiottiti dalle acque. Un anno dopo a Berlino sarebbe caduto il muro, eravamo felici e quasi non ci siamo accorti di quell’altro muro che pian piano cresceva nelle acque del nostro mare.

Ho capito quello che stava succedendo solo nel 2003. Lavoravo in un negozio di dischi. Erano stati trovati nel canale di Sicilia 13 corpi. Erano 13 ragazzi somali che scappavano dalla guerra scoppiata nel 1990 e che si stava mangiando il paese. Quel numero ci sembrò subito un monito. Ricordo che la città di Roma si strinse alla comunità somala e venne celebrato a piazza del Campidoglio dal sindaco di allora, Walter Veltroni, un funerale laico. Una comunità divisa dall’odio clanico quel giorno, era un giorno nuvoloso di ottobre, si ritrovò unita intorno a quei corpi. Piangevano i somali accorsi in quella piazza, piangevano i romani che sentivano quel dolore come proprio.

Ora è tutto diverso.

Potrei dire che c’è solo indifferenza in giro.

Ma temo che ci sia qualcosa di più atroce che ci ha divorato l’anima.

L’ho sperimentato sulla mia pelle quest’estate ad Hargeisa, una città nel nord della Somalia.

Una signora molto dignitosa mi ha confessato, quasi con vergogna, che suo nipote era morto facendo il tahrib, ovvero il viaggio verso l’Europa.

“Se l’è mangiato la barca”, mi ha detto. La signora era sconsolata e mi continuava a ripetere: “Quando partono i ragazzi non ci dicono niente. Io quella sera gli avevo preparato la cena, non l’ha mai mangiata”. Da quel giorno spesso sogno barche con i denti che afferrano i ragazzi per le caviglie e li divorano come un tempo Crono faceva con i suoi figli. Sogno quella barca, quei denti enormi, grossi come zanne di elefante. Mi sento impotente. Anzi, peggio: mi sento un’assassina perché il continente, l’Europa, di cui sono cittadina non sta alzando un dito per costruire una politica comune che affronti queste tragedie del mare in modo sistematico.

Anche la parola “tragedia” forse è fuori luogo, ormai dopo venticinque anni possiamo parlare di omicidio colposo e non più di tragedie; soprattutto ora dopo il blocco da parte dell’Unione Europea dell’operazione Mare Nostrum. Una scelta precisa del nostro continente che ha deciso di controllare i confini e di ignorare le vite umane.

Nessuno di noi è sceso in piazza per chiedere che Mare Nostrum fosse ripresa. Non abbiamo chiesto una soluzione strutturale del problema. Siamo colpevoli quanto i nostri governi. Non a caso Enrico Calamai, ex viceconsole in Argentina ai tempi della dittatura, l’uomo che salvò molte persone dalle grinfie del regime di Videla, sui migranti che muoiono nel Mediterraneo ha detto: “Sono i nuovi desaparecidos. E il riferimento non è retorico e nemmeno polemico, è tecnico e fattuale perché la desaparición è una modalità di sterminio di massa, gestita in modo che l’opinione pubblica non riesca a prenderne coscienza, o possa almeno dire di non sapere”.



venerdì 27 marzo 2015

L'ultimo inganno per i migranti



di Stefano Liberti  (da internazionale.it)


L’idea di istituire in alcuni paesi africani dei campi dove esaminare le richieste d’asilo verso l’Unione europea è sempre più dibattuta a Bruxelles e nelle varie capitali. Lanciata dal governo italiano durante il suo semestre di presidenza nel 2014 con il nome di “processo di Khartoum”, la proposta ha raccolto l’adesione del ministro dell’interno tedesco Thomas de Maizière e dei governi francese e austriaco. In linea teorica, tale idea avrebbe alcuni risvolti positivi: come ha sottolineato Luigi Manconi, presidente della commissione diritti umani del senato, che ne è un sostenitore, essa “permetterebbe di evitare l’attraversamento illegale del Mediterraneo, con i rischi che comporta, e distribuire i richiedenti asilo in Europa secondo quote equilibrate di accoglienza”. Ma siamo sicuri che questo sia l’obiettivo principale di chi l’ha lanciata? E, soprattutto, siamo sicuri che sia praticabile?
Basta guardare al precedente più vicino alla proposta italiana, nel tempo e nella sostanza, per avanzare qualche perplessità: nel 2011, quando scoppiò la guerra in Libia, migliaia di profughi fuggirono in Tunisia, dove fu allestito il campo di Choucha, a poca distanza dalla frontiera libica. Questo campo era un esempio ante litteram di quelli che oggi si discutono a livello europeo: le domande dei richiedenti asilo erano esaminate alla presenza dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati e dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni. E chi aveva diritto alla protezione otteneva un via libera per il “reinsediamento” in paesi terzi. Nella vicina Europa? Non proprio. Delle 3.167 persone alle quali era stato riconosciuto il diritto di asilo, circa 2.600 sono state accettate dagli Stati Uniti, e solo qualche decina da Svezia, Norvegia e Germania (unici stati europei a dare il proprio assenso).
L’Italia, che aveva ricevuto la richiesta di cinque casi di ricongiungimento familiare (cioè di profughi con famiglia nel nostro paese), ha impiegato più di un anno a rilasciare i visti necessari – che pure, secondo le nostre leggi e le convenzioni internazionali, spettavano di diritto ai richiedenti. I numeri poi ci dicono anche altro: a Choucha, dopo lo scoppio della guerra, vivevano 18mila persone. Che fine hanno fatto? Molte di loro, stanche di aspettare che la loro richiesta fosse esaminata, sono rientrate in Libia e hanno preso un barcone per l’Italia.
Cosa fa pensare che, una volta realizzati, questi campi non diventeranno parcheggi a tempo indeterminato come fu Choucha? E perché, se si vuole evitare l’attraversamento del mare, non prevedere da subito la possibilità di chiedere asilo presso le ambasciate nei paesi di transito piuttosto che in megacampi allestiti ad hoc? Tutto lascia presagire che il processo di Khartoum non sia tanto un modo per bloccare il business del trasporto clandestino e distribuire più equamente i rifugiati tra i vari stati membri, ma piuttosto uno stratagemma per delegare ancora una volta la gestione dei flussi migratori a paesi terzi che hanno delle dubbie credenziali democratiche.


domenica 28 settembre 2014

I conflitti raccontati dalle donne



di Monica Macchi

 

E’ un dato innegabile che le donne abbiano raccontato la guerra, sia come giornaliste che come fotografe, a partire dalla secessione americana, ma come? Portando le loro specificità consolidando così un’ottica di genere oppure no? Questo è stato il tema di una tavola rotonda che si è tenuta il 24 settembre scorso, a Milano, presso l'Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) dedicata, appunto, ai conflitti raccontati dalle donne.

Da un punto di vista storico, come sottolineato da Valeria Palumbo, la partecipazione delle donne alla Prima Guerra Mondiale ha portato a un enorme cambiamento in quanto si è smesso di declinare il concetto di violenza in termini eroici. Attualmente, invece, la presenza delle donne permette una maggiore accessibilità alla componente femminile: per esempio, Lucia Goracci ha raccontato un episodio accaduto a Misurata, in Libia, in cui era l’unica giornalista e l’unica che ha potuto realizzare interviste perché gli uomini hanno concesso l’autorizzazione a parlare solo auna giornalista donna con un'altra donna. Tra donne, infatti, è sicuramente più facile entrare in confidenza e raccogliere storie.

Ma il vero discrimine sta nella scelta delle all-news perché gli aggiornamenti costanti portano a inseguire la cronaca e a non approfondire le conseguenze e l’impatto sulla quotidianità dei civili e sui diritti acquisiti; e del resto quando la crisi si cronicizza i media italiani latitano...forse perchè mentre sempre più donne vanno sui fronti di guerra, a capo delle redazioni ci sono sempre e comunque uomini ?!?



giovedì 7 agosto 2014

Convenzione per l'istituzione della Corte penale internazionale e altro



Cari lettori, su www.change.org è possibile firmare la petizione (e la lettera) che potete leggere qui di seguito. Noi dell'Associazione per i Diritti Umani lo abbiamo fatto. Fatela girare, grazie.


Gentile Presidente Renzi,

nel Suo discorso post primarie del dicembre 2013 Lei ha ricordato le tragedie del Rwanda e di Srebrenica. Ne fui colpito, positivamente, perché  finalmente un politico italiano dava importanza a quei fatti sempre lasciati ai margini delle cronache. Ma ricordare quelle tragedie ha delle conseguenze, quale il riconoscere il valore della giustizia. Per noi italiani, la giustizia internazionale è davvero molto importante. È stato il nostro Paese, nel 1998, a ospitare la convenzione per l'istituzione della Corte penale internazionale. In quell'occasione fu ribadito che nulla, neppure durante una guerra, può giustificare l'uccisione deliberata o indiscriminata di civili. Anche per questo motivo, credo Lei debba impegnarsi per riaffermare la giustizia internazionale. Le chiedo quindi se ha intenzione di convocare i rappresentanti diplomatici di Israele, Palestina e Siria, e chieder loro cosa stanno facendo per portare di fronte alla giustizia i responsabili di bombardamenti che hanno causato la morte di donne, bambini, malati. E, in mancanza di risposte convincenti, Le chiedo se è disposto a trarne le conseguenze politiche, cioè a protestare con decisione, richiamando – laddove ci sono – i nostri ambasciatori ed espellendo i rappresentanti di Paesi che non intendono perseguire i responsabili di crimini odiosi come l'uccisione di bambini. Può darsi che Lei non sia d'accordo, può darsi che, come tanti rappresentanti del governo italiano che l'hanno preceduta, Lei ritenga che la diplomazia debba muoversi in altri modi. Nel caso, però, La pregherei di evitare in futuro di riferirsi ancora alle vicende del Rwanda e di Srebrenica. Perché prima di condannare il solito immobilismo delle Nazioni Unite, credo sarebbe opportuno pensare alle proprie responsabilità.

1. Daniele Scaglione, scrittore

2. Ascanio Celestini, attore

3. Luca Leone, scrittore

4. Laura Caputo, giornalista

5. Maria Cecilia Castagna, editore

6. Laura Silvia Battaglia, giornalista

7. Isa Ferraguti, già senatrice X Legislatura

8. Enzo Barnabà, scrittore

9. Nadia Ravioli, cittadina

10. Silvia Gaiba, architetto del Ministero Beni Culturali e Ambientali

11. Rocco Cipriano, grafico

12. Marco Mainardi, giornalista

13. Gioacchino Allasia, maestro di Shiatsu e Craniosacrale

14. Michela Iorio, giornalista

15. Roberto Di Giovanbattista, operatore culturale

16. Sandro Ferri, editore

17. Silvia Fabbi, giornalista

18. Stefano Landucci, consigliere comunale di Pisa

19. Maria Frega, sociologa

20. Massimo Ceresa, scrittore

21. Françoise Kankindi, presidente di Bene Rwanda

22. Maurizio Dell’Orso, promotore culturale

23. Stefania Sarallo, giornalista

24. Ada Scalchi, ex sindaco di Albano Laziale (RM)

25. Silvia Cavicchioli, storica

26. Edoardo Montenegro, blogger

27. Giovanni Verga, giornalista

28. Elisabetta Falcioni, editor

29. Matteo Pagliani, cooperante

30. Marina Scaglione, insegnante


A:
Matteo Renzi, Presidente del Consiglio


Palestina, Rwanda, Srebrenica: appello per la giustizia internazionale

Gentile Presidente Renzi,

nel Suo discorso post primarie del dicembre 2013 Lei ha ricordato le tragedie del Rwanda e di Srebrenica. Ne fui colpito, positivamente, perché finalmente un politico italiano dava importanza a quei fatti sempre lasciati ai margini delle cronache. Ma ricordare quelle tragedie ha delle...

Palestina, Rwanda, Srebrenica: appello per la giustizia internazionale

Gentile Presidente Renzi,

nel Suo discorso post primarie del dicembre 2013 Lei ha ricordato le tragedie del Rwanda e di Srebrenica. Ne fui colpito, positivamente, perché finalmente un politico italiano dava importanza a quei fatti sempre lasciati ai margini delle cronache. Ma ricordare quelle tragedie ha delle conseguenze, quale il riconoscere il valore della giustizia. Per noi italiani, la giustizia internazionale è davvero molto importante. È stato il nostro Paese, nel 1998, a ospitare la convenzione per l'istituzione della Corte penale internazionale. In quell'occasione fu ribadito che nulla, neppure durante una guerra, può giustificare l'uccisione deliberata o indiscriminata di civili. Anche per questo motivo, credo Lei debba impegnarsi per riaffermare la giustizia internazionale. Le chiedo quindi se ha intenzione di convocare i rappresentanti diplomatici di Israele, Palestina e Siria, e chieder loro cosa stanno facendo per portare di fronte alla giustizia i responsabili di bombardamenti che hanno causato la morte di donne, bambini, malati. E, in mancanza di risposte convincenti, Le chiedo se è disposto a trarne le conseguenze politiche, cioè a protestare con decisione, richiamando – laddove ci sono – i nostri ambasciatori ed espellendo i rappresentanti di Paesi che non intendono perseguire i responsabili di crimini odiosi come l'uccisione di bambini. Può darsi che Lei non sia d'accordo, può darsi che, come tanti rappresentanti del governo italiano che l'hanno preceduta, Lei ritenga che la diplomazia debba muoversi in altri modi. Nel caso, però, La pregherei di evitare in futuro di riferirsi ancora alle vicende del Rwanda e di Srebrenica. Perché prima di condannare il solito immobilismo delle Nazioni Unite, credo sarebbe opportuno pensare alle proprie responsabilità.


Cordiali saluti,
[Il tuo nome]