Dopo un anno di preparativi e una partenza sfumata a Luglio, finalmente il progetto iniziato lo scorso anno del “Festival delle culture tra arte e sport” può continuare e rinnovarsi (da Nenanews.it)
Il 27 dicembre partirà la seconda carovana per Gaza, un programma che avrà molteplici obiettivi: sostenere la resistenza palestinese e la popolazione della Striscia che vive da anni una situazione di assedio perenne e di isolamento internazionale; dare la possibilità ai Gazawi di avere l’occasione di potersi esprimere liberamente e con serenità in contesti differenti rispetto alle condizioni esistenziali che sono costretti a sopportare; essere testimoni di quello che accade sia della fase attuale che del contesto generale; diffondere questa testimonianza per rendere tutti coscienti della realtà dei fatti a fronte di una campagna mediatica che ha dipinto e dipinge Israele come vittima, anziché come paese colonizzatore e oppressore; scambiare competenze nell’ottica di un arricchimento culturale reciproco.
Il progetto è quindi rilevante nell’immediato e nel breve periodo, in quanto coglie la necessità primaria per la popolazione di uscire da una quotidianità caratterizzata dal perenne status di guerra, ma è ancora più fondamentale nel lungo periodo, poiché si tratta di un investimento che si spera continui nel tempo e che sia soprattutto in grado di innestarsi nell’intricata e complessa situazione della resistenza palestinese contro il governo israeliano, che nel corso degli anni si è dimostrato non solo colonizzatore, ma fascista nei modi e xenofobo nell’azione.
L’anno scorso lo scenario era quello del periodo post operazione “Margine Protettivo”, una strategia sanguinaria che aveva messo in ginocchio i Gazawi con una guerra impari che ha portato distruzione ovunque (gli aiuti sono iniziati ad arrivare a settembre di quest’anno), massacri, morti, povertà diffusa, impossibilità di condizioni di vita decenti (taglio dell’energia elettrica; bombardamenti continui lungo il confine e in mare; mancanza di acqua; difficoltà strutturali nelle scuole che hanno impedito per molto tempo lo svolgimento delle lezioni …). Questo si aggiungeva già ad un contesto in cui l’autosufficienza della Striscia versava in condizioni di estrema precarietà: un altissimo tasso di disoccupazione (circa il Il 43 per cento degli 1,8 milioni dei residenti della Striscia sono disoccupati. Tra i giovani è il 60 per cento a non avere un lavoro), una situazione economica al collasso per l’embargo egiziano e israeliano e per le guerre (le esportazioni dal territorio palestinese sono infatti azzerate e il settore manifatturiero è stato abbattuto del 60 per cento), un tasso di povertà altissimo, circa il 40%.
Secondo la Banca Mondiale, la ripresa economica è fortemente ostacolata dall’impossibilità per merci e persone di muoversi.
Quest’anno la situazione che la carovana si troverà ad affrontare non sembra affatto più rosea.
E’ ancora in corso infatti un periodo di tumulti e ribellioni, soffocati dalla forza repressiva israeliana che sta mietendo vittime ogni giorno.
L’hanno chiamata “Intifada dei coltelli”, ma come abbiamo visto, questa terza fase di rivolte si presenta in modo totalmente differente rispetto alle precedenti.
Anzitutto, dietro agli episodi che si sono verificati non c’è alcuna strategia di gruppi organizzati o partiti.
Questo si è potuto rilevare sia dall’assenza di una rappresentanza politica a cui si rifanno gli scontri (a parte Hamas che per un momento ha cavalcato la questione cercando di determinare quella situazione), sia dal carattere di spontaneità che hanno caratterizzato certi episodi, che dalle persone coinvolte: giovani uomini e donne che hanno agito mossi da un sentimento di disperazione e disillusione totale.
Un sentire che pesa per i tre anni di guerra che ha subito la Striscia (2 guerre in 3 anni) e per il grave regime di apartheid che subisce la popolazione palestinese ogni giorni in Cisgiordania e nei territori occupati.
Protagonista di questa Intifada, quindi, è soprattutto la popolazione giovanile, generazioni che sono cresciute sull’eredità del fallimento degli accordi di Oslo e sulla vana speranza di trovare un modo per uscire da una situazione di emarginazione ed oppressione che non permette la realizzazione dei più banali (per noi) obiettivi di vita.
E’ in questa matassa che si inserisce questo festival: per rispondere ad esigenze umane, sociali, politiche della popolazione e per restituire una realtà alterata e falsificata dai media.
Sostenere l’autodeterminazione dei popoli e dei territori, lottare contro i meccanismi di colonizzazione ed imperialismo che strozzano i palestinesi, condannare a gran voce un vero e proprio sistema di apartheid o informarsi ed informare è dovere morale di tutti.
Chi desidera mandare un aiuto economico, ecco l’Iban del Centro Vittorio Arrigoni a Gaza
IT35C0312703241000000051775
INTESTAZIONE: Giovanni Lisi Maria Teresa Bartolucci
Causale: per Gaza, Centro Italiano. Attività festival
BIC: BAECIT2B
- See more at: http://nena-news.it/parte-la-seconda-carovana-per-gaza/#sthash.9Esvv3xa.dpuf

"...Non si potrà avere un globo pulito se gli uomini sporchi restano impuniti. E' un ideale che agli scettici potrà sembrare utopico, ma è su ideali come questo che la civiltà umana ha finora progredito (per quello che poteva). Morte le ideologie che hanno funestato il Novecento, la realizzazione di una giustizia più giusta distribuita agli abitanti di questa Terra è un sogno al quale vale la pena dedicare il nostro stato di veglia".
Visualizzazione post con etichetta arabi. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta arabi. Mostra tutti i post
martedì 29 dicembre 2015
Parte la seconda carovana per Gaza
Etichette:
arabi,
assedio,
associazione,
avvocati,
diritti,
facoltà,
Gaza,
geopolitica,
giornalismo,
informazione,
islam,
Israele,
lavoro,
media,
musulmani,
Palestina,
popolo,
scienze umane,
sociologia
lunedì 30 novembre 2015
29 novembre: Giornata Internazionale di solidarietà con il popolo palestinese
di Monica Macchi
Il
29 novembre 1947 con la risoluzione 181, l’Assemblea Generale
dell’Onu ha approvato il Piano di partizione della Palestina con
cui si stabiliva la creazione di due Stati, uno ebraico e uno arabo,
con Gerusalemme sotto regime internazionale speciale….una delle
tante risoluzioni mai implementate.
Situato
a est di Qalqilia, Kufr Qaddum è un villaggio palestinese di circa
4000 abitanti con una superficie di 24.000 donum: in base agli
Accordi di Oslo è stato suddiviso in “area B” (circa 8.384 dunum
dove l’Autorità Nazionale Palestinese ha il controllo sulle
questioni civili, e Israele continua ad avere la responsabilità
della sicurezza) e “area C” dove Israele ha il pieno controllo
sia sulla sicurezza che sulla gestione amministrativa sia di questa
area che degli insediamenti illegali che la circondano (Kedumim,
Kedumim Zefon, Jit Mitzpe Yisha, e Giv'at HaMerkaziz che
costituiscono la colonia di Ariel Kedumim abitata da circa 3000
coloni).
Attorno
al villaggio c’è il muro di
Separazione (che Israele chiama “Barriera di Sicurezza) che isola
7.175 dunum
(38,2%
della superficie
totale) e impedisce ai contadini di accedere alle loro terre (il 70%
degli abitanti lavorano anzi lavorerebbero nell’agricoltura!) e ci
sono molte bypass
road (strade
costruite dagli
israeliani per
collegare gli
insediamenti in Cisgiordania
a Israele). De
iure secondo
gli accordi di Oslo,
i palestinesi avevano
il permesso
di utilizzare queste
strade ma dopo lo
scoppio della Seconda Intifada, Israele ne ha chiuso l’accesso ai
palestinesi per “ragioni
di sicurezza” ossia per
proteggere insediamenti
e coloni. Questo ha creato moltissimi problemi sia per l’economia
(l’agricoltura è in ginocchio) sia per la libertà di movimento
per i lavoratori, gli studenti e anche i malati, costretti ad andare
all’ ospedale di Darweesh
Nazzal a una
trentina di chilometri o negli ospedali di Nablus a una ventina…
su percorsi alternativi e di
fortuna su stradine non
asfaltate continuamente
interrotte da check-point anche improvvisati.
Così il 1
luglio 2011 è iniziata una resistenza popolare,
sotto forma di una
marcia pacifica dopo
la preghiera del
Venerdì per
rivendicare il diritto
e la libertà di movimento chiedendo la riapertura delle strade che
collegano direttamente Kufr Qaddum agli altri villaggi palestinesi.
Da allora ogni venerdì tutto il villaggio, compresi attivisti
stranieri e pacifisti israeliani marciano non solo perchè le strade
sono rimaste chiuse ma anche per denunciare il taglio di acqua
ed elettricità che Israele usa come forma di punizione collettiva
per fiaccare la resistenza.
Ed
ecco con le parole di Murad Shtaiwi
coordinatore
dei movimenti popolari di resistenza non violenta, la situazione di
Kufr Qaddum:
Etichette:
arabi,
associazione,
diritti,
dittatura,
geopolitica,
giornata,
guerra,
informazione,
internazionale,
Israele,
ONU,
pace,
Palestina,
popolo,
regime,
stampa,
studenti
giovedì 26 novembre 2015
Michele Karaboue commenta i fatti di Parigi e in altri Paesi del mondo
L'Associazione
per i Diritti umani ha raccolto, per voi,anche il commento del Prof.
Karaboue, docente presso la Seconda Università di Napoli e lo
ringrazia molto per la sua disponibilità.
Gli
attentati di Parigi sono atti molto tristi, che lasciano sgomento, ma
che non possono essere ricondotti ad una volontà religiosa, nel
senso che è opportuno distinguere l'atto di terrorismo dalla
religione islamica. E' oggettivamente complesso comprendere questa
dinamiche che hvanno condannate ed è compito nostro cercare di
spiegare e di analizzare i fatti per quello che sono: qui parliamo di
un atto criminale che ha coinvolto un Paese amico come la Francia ed
è un atto da condannare con forza.
C'è un
fenomeno mediatico di manipolazione e di interessi specifici. Ci
siamo accorti della questione francese, ma da sempre tanti Paesi
(Kenya, Congo, Siria, Yemen ad esempio) hanno subìto le stesse
manifestazioni anche con un numero di vittime superiori, però non
hanno la stessa visibilità mediatica in quanto la situazione di
questi Paesi viene vista con minore attenzione e con minore
sensibilità. La stessa attenzione data legittimamente ai francesi
deve essere concessa anche alle altre stragi che il mondo piange
perchè è attraverso questa sensibilizzazione globale che si
potrebbe scuotere le coscienze e far comprendere a tutti quanto sia
universale la drammaticità dei fatti che stanno accadendo.
L'Isis
si sconfigge con la presa di consapevolezza dal punto di vista
culturale: si parla di Stato islamico che, invece, non esiste ma
esiste una realtà - radicata in alcuni territori - che punta a
costituire una territorialità politicamente riconosciuta. L'Isis,
quindi, va combattuta con un sussulto culturale, isolando e
condannando fortemente - a partire dai musulmani - queste attività
che nulla hanno a che fare con l'azione religiosa. Non sentendosi
legittimata e senza propaganda, l'Isis potrà definire le proprie
azioni all'interno di una circoscritta attività che potrebbe anche
risolversi nel nulla.
Etichette:
Africa,
arabi,
associazione,
attentati,
avvocati,
diritti,
geopolitica,
giornalismo,
informazione,
Isis,
islam,
paura,
politica,
Religione,
stampa,
terrorismo,
università
sabato 21 novembre 2015
L'urlo contro il regime: gli antifascisti italiani in Tunisia tra le due guerre
L'urlo contro il regime: gli
antifascisti italiani in Tunisia tra le due guerre è
l'ultimo saggio di Leila el Houssi, docente presso l'Università
di Firenze e coordinatrice organizzativa del Master Mediterranean
studies presso la Facoltà di Scienze Politiche. In questo suo ultimo
lavoro
affronta il tema dell'antifascismo
italiano in Tunisia tra le due guerre mondiali e rimette in
discussione il luogo comune secondo cui la numerosa collettività
italiana presente nel paese nordafricano fosse totalmente schierata
col regime fascista. In realtà, contro la dittatura di Mussolini e
la sua propaganda sorse una corrente di opposizione i cui
protagonisti furono membri dell'élite borghese liberale di
appartenenza massonica, militanti del movimento anarchico, esponenti
della classe operaia organizzata nei partiti della sinistra
socialista e comunista e aderenti a Giustizia e Libertà. Nacque
così un dinamico laboratorio politico animato da giovani
italo-tunisini che vide nei primi anni Trenta la costituzione della
sezione tunisina della Lega italiana dei diritti dell'uomo (LIDU) e,
in seguito, l'apporto di personalità politiche come Velio Spano e
Giorgio Amendola inviati dal Centro estero del PCI per dare respiro
internazionale al movimento antifascista di Tunisia. Le vicende di
questo nucleo antifascista sono state ricostruite attraverso
l'analisi della stampa, della memorialistica e di una vasta
documentazione reperita negli archivi tunisini, italiani e francesi.
L'Associazione per
i Diritti umani ha intervistato, per voi, Leila el Houssi e la
ringrazia molto per queste sue parole.
Lei appartiene a
due culture, quella tunisina e quella italiana. Quali sono le
differenze e i punti di contatto?
Sono più numerosi
i punti di contatto rispetto alle differenze. Sono entrambi Paesi
mediterranei, sono vicini geograficamente e la cultura, quindi, è
simile. Io non voglio vedere le differenze neanche a livello di
popoli, forse sono altri che vogliono coglierle.
In che modo la
comunità italiana si è integrata in Tunisia nel Passato? E, oggi,
qual è il rapporto tra italiani e tunisini?
La comunità
italiana si è storicamente inserita nel tessuto sociale tunisino già
secoli fa e si tratta di un primo radicamento da parte di una
immigrazione regionale (livornesi e siciliani) con delle peculiarità
interessanti: i livornesi, ad esempio, erano di origine
ebraica-sefardita ed erano una comunità nella comunità, mentre i
siciliani – alla fine dell'800, a causa della povertà di un'Italia
appena costituita – emigrarono in Nord Africa, in Libia e anche in
Tunisia.
Nel corso del 1900
l'integrazione si è verificata anche a livello culturale, non solo
territoriale: in molti testi, infatti, si racconta di come alcune
comunità di siciliani parlassero una lingua mista di siciliano,
arabo e francese.
Bourgiba e Ben Ali:
è cambiato qualcosa, in termini di migrazione italiana, sotto questi
regimi?
All'indomani
dell'indipendenza tunisina, ottenuta nel '56 con Bourgiba, molti
italo-tunisini dovettero emgrare verso la Francia. Negli ultimi
vent'anni c'è stata un'immigrazione più legata ad aspetti
economici: molti italiani, per esempio, hanno investito capitali in
aziende tunisine oppure si sono trasferiti nel Paese alla fine della
carriera professionale (questo è un fenomeno recente).
Cosa sta cambiando
in Tunisia a livello sociale e culturale,a nche a seguito dei due
attentati al Museo del Bardo e a Sousse?
Dal 2011 la Tunisia
è cambiata molto: il Paese sta ancora percorrendo una transizione
democratica perchè si tratta di un processo molto lungo e non
facile: il processo è sottoposto a vari tentativi di
destabilizzazione, pensiamo anche agli attentati politici del 2013,
quando due esponenti sindacalisti sono stati assassinati. Ma è anche
vero che la società civile sta lavorando per non essere vittima di
queste destabilizzazioni; questo popolo ha vissuto anni e anni di
dittatura, repressione e paura e non credo che voglia ritornare a
vivere in quella situazione. Ormai la paura è stata spazzata via.
Come commenta
l'assegnazione del Nobel per la Pace al quartetto tunisino?
Sono davvero molto
felice. Credo che sia un riconoscimento importante perchè questo
premio dà al popolo tunisino quella visibilità che merita perchè,
per primo, ha rivoluzionato il proprio assetto politico in maniera
tranquilla; e poi perchè è anche un riconoscimento, da parte della
comunità internazionale, agli sforzi e ai sacrifici fatti per
diventare anche un modello per l'intera area nord-africana e
preservare tutto quello che è stato ottenuto fino ad ora.
venerdì 20 novembre 2015
PARIGI: CHAOUKI-MANCONI, PIENO SOSTEGNO A MANIFESTAZIONE MUSULMANI A ROMA.
Pieno apprezzamento e sostegno alla manifestazione nazionale promossa dalle comunità islamiche italiane che hanno deciso di scendere in piazza in solidarietà con le vittime di Parigi e contro il terrorismo di Daesh sabato 21 alle ore 15.
La manifestazione nazionale, che si terrà a Roma, vedrà un largo coinvolgimento delle musulmane e musulmani d’Italia, riuniti per ribadire il loro “Not In My Name”.
Sarà importante che tutti i cittadini italiani insieme alle associazioni religiose e laiche siano in piazza insieme ai musulmani italiani per ribadire la nostra piena solidarietà alle vittime del terrorismo di Daesh e per affermare i valori condivisi della nostra società.
Le musulmane e i musulmani d’Italia in questo difficile momento storico sono dunque nostri preziosi alleati in questa sfida al terrore, una sfida che vinceremo tutti uniti e animati dai comuni valori del rispetto della sacralità della vita e dalla netta condanna di qualsiasi forma di radicalismo.
Lo affermano Khalid Chaouki, deputato Pd e coordinatore dell'Intergruppo parlamentare immigrazione e Luigi Manconi, senatore e Presidente della Commissione per i diritti umani.
Etichette:
arabi,
associazione,
Chaouki,
comunità,
diritti,
governo,
islam,
Manconi,
manifestazione,
musulmani,
parlamento,
paura,
politica,
Religione,
Roma,
sicurezza,
terrorismo
11 SETTEMBRE… 13 NOVEMBRE: non ripetiamo gli stessi errori
di Paolo Branca (Casadellacultura)
I
corpi delle numerose e incolpevoli vittime degli attentati di Parigi
sono ancora caldi, ma già si scatenano le varie propagande.
Una riflessione meno emotiva e più razionale, pur nell'assurdità della situazione, invece s'imporrebbe.
Una riflessione meno emotiva e più razionale, pur nell'assurdità della situazione, invece s'imporrebbe.
Dopo
l'11 settembre 2001 si è avuta un'excalation di imprese militaresche
più o meno sgangherate o del tutto sciagurate che hanno portato
gradualmente al buco nero dell'attuale caos mediorientale.
Non tanto in Afghanistan, paese che in buona sostanza non è mai riuscito a controllare nessuno, quanto più a ovest di esso, fino al dissolvimento dell'Iraq e della Siria, non a caso antiche sedi del primo califfato (di Damasco e di Baghdad) e dove oggi si appalesa il 'monstrum' dell'Isis.
La gravità di quanto è accaduto nella capitale francese, unita alle legittime preoccupazioni derivanti dall'attivismo russo nell'area - che molto deve alla lunga inerzia occidentale - fanno supporre un probabile upgrade di interventismo armato euro-americano.
Possibili soluzioni politiche, finora poco effettivamente ricercate, sbiadiscono ancor di più all'orizzonte.
Un simile e reiterato dilettantismo risponde forse a esigenze elettorali di varie parti in causa, ma una vera gestione della crisi che possa riportare stabilità in paesi a noi tanto vicini e per noi così importanti, non può certo avvalersi di mere esibizioni muscolari.
Tanto più che queste ultime non avrebbero altro esito, nell'immediato, che l'aumento di distruzioni e l'annientamento di innumerevoli vite innocenti.
Ci rendiamo conto che la contabilità dei morti ha ben diverso peso quando il colore delle loro pelle (o la lingua che parlano e la religione che professano) sono un po' esotiche, ma nel mondo globalizzato simili ragionamenti ormai non funzionano più, non tanto per sempiterne ragioni morali, ma almeno per calcoli di convenienza che non dovrebbero essere oscuri più a nessuno.
Non tanto in Afghanistan, paese che in buona sostanza non è mai riuscito a controllare nessuno, quanto più a ovest di esso, fino al dissolvimento dell'Iraq e della Siria, non a caso antiche sedi del primo califfato (di Damasco e di Baghdad) e dove oggi si appalesa il 'monstrum' dell'Isis.
La gravità di quanto è accaduto nella capitale francese, unita alle legittime preoccupazioni derivanti dall'attivismo russo nell'area - che molto deve alla lunga inerzia occidentale - fanno supporre un probabile upgrade di interventismo armato euro-americano.
Possibili soluzioni politiche, finora poco effettivamente ricercate, sbiadiscono ancor di più all'orizzonte.
Un simile e reiterato dilettantismo risponde forse a esigenze elettorali di varie parti in causa, ma una vera gestione della crisi che possa riportare stabilità in paesi a noi tanto vicini e per noi così importanti, non può certo avvalersi di mere esibizioni muscolari.
Tanto più che queste ultime non avrebbero altro esito, nell'immediato, che l'aumento di distruzioni e l'annientamento di innumerevoli vite innocenti.
Ci rendiamo conto che la contabilità dei morti ha ben diverso peso quando il colore delle loro pelle (o la lingua che parlano e la religione che professano) sono un po' esotiche, ma nel mondo globalizzato simili ragionamenti ormai non funzionano più, non tanto per sempiterne ragioni morali, ma almeno per calcoli di convenienza che non dovrebbero essere oscuri più a nessuno.
Etichette:
arabi,
associazione,
attentati,
diritti,
Europa,
Francia,
guerra,
Isis,
islam,
Medioriente,
Parigi,
politica,
Religione,
sicurezza,
terrorismo,
vita
domenica 15 novembre 2015
Il Presidente delle comunità arabe in Italia commenta i fatti di Parigi
Foad
Aodi ha rilasciato, per i nostri lettori, un commento sui fatti di
Parigi. Ringraziamo molto Foad Aodi per la sua disponibilità.
A nome
di Co-Mai (Amsi e Uniti per Unire) esprimiamo
solidarietà ai francesi - come abbiamo fatto, purtroppo, in
occasione anche dello scorso attentato, davanti all'Ambasciata - e
con la solidarietà esprimiamo anche la nostra condanna di ogni forma
di violenza e di terrorismo.
Vogliamo
ribadire che l'Islam non c'entra con questi movimenti estremisti;
come musulmani non abbiamo mai visto una violenza come questa, una
violenza cieca contro Paesi civili e democratici.
L'Isis
ha l'obiettivo di prendere il primato del Consorzio del terrore,
combattendo due guerre: una interna – nei confronti di altri
movimenti estremisti nei vari Paesi – e utilizzando anche il
franchising del terrorismo formato da tanti lupi solitari che seguono
la propaganda, senza nemmeno sapere bene cosa vogliono (e questo è
il pericolo maggiore).
Concordo
con Papa Francesco che si tratti di una terza guerra mondiale e credo
che si debba agire in fretta su due binari: da una parte le comunità
del mondo arabo, le comunità musulmane, ebree e cristiane devono
unirsi per promuovere il dialogo interreligioso e, dall'altra, sono
importanti anche le azioni diplomatiche e delle forze politiche che
devono agire subito per fermare l'avanzamento dell'Isis, anche perchè
tutti noi non sappiamo ancora rispondere a tre domande: Com'è nato?
Chi lo sponsorizza? Dove vuole arrivare?
Etichette:
arabi,
associazione,
cristiani,
democrazia,
diritti,
ebrei,
fede,
Francesco,
francesi,
Francia,
giornalisti,
guerra,
Isis,
islam,
islamici,
Papa,
Parigi,
Religione,
terrorismo,
violenza
Lo scontro di civiltà: i dolori della pace
Cari amici,
continuiamo a proporvi un'altra riflessione sullo scontro di civiltà attraverso il video di un incontro organizzato dall'Associazione per i Diritti umani.
Vi ringraziamo sempre per l'interesse che ci state dimostrando e vi ricordiamo che i nostri video sono disponibili sul canale Youtube dell'associazione stessa.
continuiamo a proporvi un'altra riflessione sullo scontro di civiltà attraverso il video di un incontro organizzato dall'Associazione per i Diritti umani.
Vi ringraziamo sempre per l'interesse che ci state dimostrando e vi ricordiamo che i nostri video sono disponibili sul canale Youtube dell'associazione stessa.
Etichette:
arabi,
associazione,
avvocati,
civiltà,
diritti,
giornalismo,
giustizia,
guerra,
islam,
jihad,
libro,
Medioriente,
musulmani,
pace,
Parigi,
stampa,
studenti,
terrorismo
Farid Adly commenta la strage di Parigi
L'Associazione per i Diritti umani ringrazia molto il giornalista Farid Adly per questo suo commento alla strage di Parigi.
La strage di Parigi è un crimine orrendo, che dimostra la lontananza abissale di questi terroristi dalla vera fede islamica. E' stata presa di mira gente innocente che stava godendosi la vita. Sono stati colpiti i simboli della cultura, dello sport e dell'intrattenimento sociale. Gli jihadisti esprimono così il loro odio per la vita, in un macabro scenario di morte e distruzione. Sono una minoranza nel mondo arabo e islamico, ma una minoranza rumorosa che trova amplificazione in Occidente presso i sostenitori dello scontro tra civiltà. Certi sciacalli per un pugno di consensi sono capaci di addossare le responsabilità di ciò che è accaduto a Parigi sulle spalle degli immigrati di origine araba e islamica. Non è un'operazione nuova. La scena politica Italiana non è nuova a simili operazioni. E' stata già tentata negli anni ottanta, ma fallì miseramente.
La nostra condanna al terrorismo, noi maggioranza degli arabi e dei musulmani, cittadini e residenti in questo Paese, non è dettata né da un senso di colpa, né dal timore di essere additati, ma dal nostro credo democratico e progressista. Già ho espresso questo mio convincimento in un appello del Novembre 2003, in occasione del dialogo cristiano islamico e lo ripeto oggi: "Ora basta! Ogni nostro ulteriore silenzio è complice" e a questo appello vorrei ricordarne un altro, lanciato nel 2001, "OCCIDENTALI, NON VENDETECI PIU' ARMI!". La crisi che attanaglia la nostra regione è originata dalla presenza di ingenti risorse energetiche; ricchezze che si sono rivelate una catastrofe e hanno destabilizzato la regione, che è la prima mondiale per l'import di armamenti.
sabato 14 novembre 2015
L’ evoluzione della tutela internazionale dei diritti umani in Africa
di
Veronica Tedeschi
“Tutti
gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Sono
dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli
altri in spirito di fratellanza.”
(Art. 1 Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo)
I
diritti umani nascono con la Dichiarazione Universale dei diritti
dell’Uomo del 1948, momento dal quale nasce la così detta “era
moderna” dei diritti umani caratterizzata dalla loro
internazionalizzazione.
Gli
Stati, recependo con modalità differenti questa dichiarazione,
riconoscono gli impegni in essa contenuti di fronte alla comunità
internazionale.
Il
continente europeo si evolve prima degli altri con la creazione della
Convenzione
Europea dei Diritti umani nel
1950.
Negli
Stati americani, lo sviluppo è stato molto lento e, solo prendendo
come esempio la Convenzione Europea, nasce la Convenzione
Interamericana dei diritti umani nel
1969.
L’ultimo
ad allinearsi alla Dichiarazione del 48 è il continente africano.
L’impulso
delle Nazioni Unite stimola i paesi della lega araba a lavorare sui
diritti umani e, di conseguenza, si crea la lega degli stati arabi,
nata “scimmiottando” il modello delle Nazioni Unite.
Nel
1994 si arriva, a Tunisi, ad adottare la Carta
Araba dei diritti dell’uomo,
nella quale non si specifica il rispetto della shari’a (come nei
progetti precedenti della Carta); viene solo nominata nel preambolo e
questo rappresenta un grande passo avanti per paesi così
condizionati dal potere della shari’a. La Carta araba è vigente ma
non funzionante perché accanto ad essa non è stato creato l’organo
per controllare il rispetto della Carta.
Solo
nel 2002 nascerà l’altra importante organizzazione regionale: l’Ua
(Unione Africana) che rappresenta anch’essa un’evoluzione poiché
non distingue i paesi ma abbraccia, per la prima volta, tutti i paesi
del continente africano.
Tornando
indietro nel tempo, al 1981, è necessario ricordare la nascita del
primo importante testo per i diritti umani che, in un certo senso, si
può affiancare alle due Convenzioni regionali precedentemente
citate: la Carta
Africana dei diritti dell’uomo e dei popoli:
le fondamenta di questa Carta si basano sul fatto che l’uomo, in
quanto singolo, non si sviluppa ma lo fa solo all’interno di una
società.
I
doveri dell’individuo, così come i diritti dei popoli, sono i due
pilastri della Carta, che l’hanno resa originale e diversa dalle
altre Convenzioni regionali.
“La
soggezione dei popoli a una dominazione e a uno sfruttamento
straniero costituisce una negazione dei diritti fondamentali
dell’uomo”.
La
motivazione di una così importante espressione la si può
ricondurre alla storia del continente segnata da una forte
colonizzazione e sfruttamento. Il diritto dei popoli a disporre di se
stessi e di tutti i diritti connessi sono presupposti indispensabili
alla garanzia dei diritti dell’uomo, nel senso dei diritti della
persona umana; ma essi non costituiscono in sé i diritti dell’uomo.
La
Carta africana riafferma l’indivisibilità dei diritti dell’uomo
aggregando in un unico documento i diritti di prima, seconda e terza
generazione. Nello specifico, per diritti di prima generazione si
intende il diritto all’uguaglianza davanti alla legge o il diritto
di associazione; per diritti di seconda generazione si intende il
diritto al lavoro in condizioni uguali e soddisfacenti o il diritto
all’istruzione mentre il diritto ad un ambiente soddisfacente, il
diritto alla pace e alla sicurezza internazionale sono diritti di
terza generazione. L’introduzione di questi ultimi diritti è
strettamente legata ai diritti collettivi dei popoli che,
rintracciati in sei articoli della Carta, rappresentano uno dei
caratteri più innovativi di questo strumento giuridico.
Bisogna
comunque sottolineare il fatto che, nonostante la Carta africana ha
la qualità di aver affermato in modo deciso il carattere collettivo
di questi diritti, risulta ambigua la titolarità dei medesimi
diritti, per esempio la concezione di popolo potrebbe essere
strumentalizzata dalle entità statali in quanto non perfettamente
specificata nella Carta.
In
conclusione, molti sono i lati positivi di questa Carta ma, per
completezza è necessario elencare tre importanti lacune: l’omissione
di alcuni diritti garantiti dalla Dichiarazione Universale (diritto
al matrimonio, diritto di cambiare religione) , l’eccessiva
discrezionalità conferita agli Stati africani nella limitazione dei
diritti garantiti dalla Carta e l’assenza nella Carta di
disposizioni che prevedano e regolamentino la facoltà degli Stati
parte di sospendere i diritti in circostanze eccezionali. Si dubita
fortemente che i redattori abbiano voluto conferire carattere
assoluto ai diritti contenuti nella Carta, quindi l’assenza di
indicazioni rende, in ogni caso, invocabile la sospensione dei
diritti facendo riferimenti all’art. 62 della Convenzione di Vienna
sul diritto dei trattati.
Etichette:
arabi,
avvocati,
colonialismo,
convenzione,
Corano,
diritti,
Diritti umani,
giornalisti,
informazione,
internazionale,
islam,
legge,
pace,
politica,
sicurezza
mercoledì 11 novembre 2015
Niente sesso, siamo egiziani!
di Monica Macchi
Per tutto il tempo che vivi o ti muovi dentro al Cairo,
Una Cairo post-moderna sporca, inquinata, sovraffollata, piegata alle leggi del consumismo: qui Bassàm, il protagonista di استخدام الحياة (Istikhdam al-Hayat -“L’uso della vita”- Il Cairo, Dar al-Tanwir, 2014) si barcamena tra sesso, droghe e alcol cercando di sfuggire dalle grinfie dei bauab. i portinai che lo bloccano quando cerca di salire a casa delle amiche. In particolare in un capitolo (che gli arabofoni possono gustare online a questo indirizzo http://ahmednaje.net/2014/07/fiv/) c’è una descrizione molto esplicita di un rapporto sessuale con una donna più grande. Ebbene per questo il 14 novembre lo scrittore, giornalista di Akbar el Adab (prestigioso settimanale letterario diretto da Gamàl al-Ghitàni) e blogger egiziano Ahmed Naji (ecco il suo blog وسع خيالك “Allarga la tua immaginazione” http://ahmednaje.net/category/english/) ed il suo editore Tareq al-Taher dovranno difendere loro ed il libro dall’accusa di offesa alla morale per il suo “contenuto sessuale osceno”. In base all’articolo 187 della legge 59 del 1937 rischiano due anni di carcere e una multa tra le 5000 e le 10000 ghinee (tra i 600 e i 1000 €).
Questo libro è un lavoro ibrido: in parte prosa, in parte graphic novel di Ayman El-Zorkany le cui tavole sono state esposte in gallerie d’arte sia ad Alessandria che al Cairo senza alcun problema. E’ stato stampato in Libano da Dar al-Tanweer e quindi ha già ottenuto un visto per essere pubblicato in Egitto ma questo non lo protegge dall’essere portato in tribunale….qualora ci sia una denuncia formale. Joe Rizk di Dar al-Tanweer, ha scritto che si segue uno schema comune: “un libro è disponibile per un certo periodo finchè arriva un reclamo e poi una denuncia per il contenuto offensivo”…come del resto è successo nel 2008 per “Metro” di Magdy al-Shafee con multa e confisca di tutte le copie e ci sono voluti ben cinque anni e il successo e le traduzioni internazionali (per l’Italia è disponibile alla casa editrice “Il Sirente” acquistabile qui http://www.sirente.it/prodotto/metro-magdy-el-shafee/) per trovarlo anche in Egitto.
Per tutto il tempo che vivi o ti muovi dentro al Cairo,
sei costantemente denigrato. Sei destinato a incazzarti.
Anche se impieghi tutte le forze della Terra
non puoi cambiare questo destino.
Questo libro è un lavoro ibrido: in parte prosa, in parte graphic novel di Ayman El-Zorkany le cui tavole sono state esposte in gallerie d’arte sia ad Alessandria che al Cairo senza alcun problema. E’ stato stampato in Libano da Dar al-Tanweer e quindi ha già ottenuto un visto per essere pubblicato in Egitto ma questo non lo protegge dall’essere portato in tribunale….qualora ci sia una denuncia formale. Joe Rizk di Dar al-Tanweer, ha scritto che si segue uno schema comune: “un libro è disponibile per un certo periodo finchè arriva un reclamo e poi una denuncia per il contenuto offensivo”…come del resto è successo nel 2008 per “Metro” di Magdy al-Shafee con multa e confisca di tutte le copie e ci sono voluti ben cinque anni e il successo e le traduzioni internazionali (per l’Italia è disponibile alla casa editrice “Il Sirente” acquistabile qui http://www.sirente.it/prodotto/metro-magdy-el-shafee/) per trovarlo anche in Egitto.
Etichette:
arabi,
arte,
associazione,
avvocato,
Cairo,
carcere,
democrazia,
diritti,
donne,
Egitto,
egiziani,
giornalismo,
giustizia,
informazione,
islam,
legge,
Libano,
libro,
stampa
giovedì 5 novembre 2015
Una lettura psicoanalitica di Alla Ricerca di Fatima: Una Storia palestinese, memoir di Ghada Karmi
"Alla ricerca di Fatima: una storia palestinese" narra la vita di Ghada Karmi, medico palestinese, che trascorre l'infanzia in un sobborgo benestante di Gerusalemme con due fratelli, i genitori e il cane Rex, affidata alle cure della domestica Fatima. Quando la famiglia è costretta a fuggire in Inghilterra a causa delle crescenti violenze degli ebrei nei confronti della popolazione araba, Ghada deve imparare a convivere con la perdita progressiva e definitiva del paese in cui è nata, sostituito da Israele. L'impatto con l'Inghilterra non è troppo traumatico: la scelta di privilegiare l'identità inglese è naturale e all'inizio risolutiva. Quando, ormai laureata in medicina, sceglie di sposare un inglese, Ghada difende il suo matrimonio agli occhi della famiglia tradizionalista e giudicante, difendendo allo stesso tempo la fittizia identità inglese che ha attribuito a se stessa e rifiutando in toto quella araba. Ma ben presto le contraddizioni di una tale decisione esplodono in tutta la loro violenza: durante la guerra dei Sei giorni Ghada farà i conti con l'indifferenza, o addirittura l'ostilità, di tutti quelli che credeva vicini, marito incluso. Consapevole di non potersi più nascondere e convinta di dover cercare se stessa scavando nel passato, Ghada si getta anima e corpo nell'impegno politico, quasi cercasse un'assoluzione per aver trascurato la storia del suo popolo: negli anni Settanta inizia a lottare per far sentire la voce dimenticata degli esuli palestinesi, si reca nei campi...
Una
lettura psicoanalitica di Alla Ricerca di Fatima: Una Storia
palestinese, memoir di Ghada Karmi
di
Flavia Donati
La vita di Ghada Karmi ha attraversato gli snodi drammatici della storia del suo popolo ed è stata attraversata e travolta insieme alla sua famiglia e alla sua comunità.
Parlo di una donna. Parlo di una storica.
Historia, nel suo significato originale usato da Erodoto, vuole dire "conoscenza".
Ghada Karmi ha attraversato il trauma della catastrofe del suo popolo, superando, come mostrerò, il diniego transgenerazionale ed arrivando con la sua scrittura a rendere testimonianza dell'orrore che è accaduto "là e allora".
I disastri causati dall'uomo e dalla mano dell'uomo, le guerre, le persecuzioni politiche ed etniche, mirano all'annichilimento dell'esistenza sociale e individuale dell'essere umano. Questa è la de-umanizzazione cui il lavoro paziente dello storico si oppone. Lo storico integra le esperienze traumatiche in un atto narrativo.
Questo ha fatto, questa donna-studiosa, Ghada, di cui vi parlerò.
Il mio scriverne è un rendergliene grazia.
Lo storico Walid Khalidi ha dovuto scrivere “All That Remains: The Palestinian Villages Occupied and Depopulated by Israel in 1948”, pubblicato nel 1992, per salvare alla memoria ciò che il sionismo e, poi, lo stato israeliano hanno rubato (case, terre, acqua, alberi, ulivi millenari) hanno distrutto (vite umane, villaggi popolati e inermi) hanno espulso (centinaia di migliaia di abitanti resi profughi o esuli come Ghada) per costruirci sopra cancellandone i nomi arabi per azzerarne anche il ricordo. Per negarne l’ esistenza.
La vita di Ghada inizia come una bimbetta riflessiva, con tanti legami affettivi ben radicati nella comunità di appartenenza, con una nutrice che è per lei una vera àncora di accoglienza e sicurezza e con un cane, Rex, compagno di giochi e di intesa. Parlerò della sua famiglia e dell’intreccio con le complessità di lutti e della loro impossibile elaborazione.
Questa bimbetta un giorno perde tutto. Messa di fretta in un taxi, lasciando Gerusalemme senza il tempo per capire e per un vero addio, vede per l’ ultima volta, una mattina all’alba, Fatima, la nutrice e Rex; li vede figure sempre più piccole in lontananza finché si perdono. Non le vedrà mai più e non saprà nemmeno mai quale fu il loro destino (pag. 113). Era l’ aprile del 1948. La nakba, la catastrofe. Confusi, storditi, ammassati, annegati nel dolore e nella paura, prima tappa Damasco, poi Londra.
Il libro intreccia la grande storia e la storia personale. Ghada Karmi è medico e storica accurata, dallo sguardo ampio ed è mossa da una dolorosa sincerità personale sui suoi percorsi, ingenuità, errori, illusioni, fallimenti e ritrovamenti della strada perduta.
La cornice della grande storia: La Dichiarazione di Balfour novembre 1917, in merito alla spartizione dell’ impero ottomano, venne mandata dall’allora Ministro degli Esteri inglese Balfour a Lord Rothschild inteso come rappresentante della comunità ebraica inglese e referente del movimento sionista. In questo documento ufficiale il governo inglese guardava con favore alla creazione di un focolaio ebraico in Palestina. Dice Ghada Karmi: ”con quella dichiarazione il governo inglese aveva promesso ad un popolo la terra di un altro, benché non potesse rivendicare alcun diritto di proprietà su quella terra” (pag. 71). La Dichiarazione di Balfour fu inserita nel trattato di Sevres del 1920 che stabiliva la fine delle ostilità con la Turchia e assegnava la Palestina al Regno Unito, successivo titolare del Mandato della Palestina. Nei primi capitoli del libro si seguono le vicende prima della trasformazione di Gerusalemme nel XIX secolo: “quando si stabilirono le prime missioni cristiane…in appena cinquant’anni costruirono centinaia di chiese, scuole, ospedali…” (pag. 31) . La ferrea occupazione del mandato inglese, attivamente contrastata da movimenti di resistenza palestinese “dal 1936 al 1939 la protesta palestinese contro la linea politica seguita dalle autorità del mandato britannico che governavano il paese era inarrestabile…ma i capi della rivolta non riuscirono ad accordarsi su una strategia comune per sconfiggere l’ avanzata ebraica né tantomeno gli inglesi...” (pag. 10-11) “i due partiti pro Husseini e pro Nashashibi, ai ferri corti, stavano conducendo la resistenza palestinese alla disfatta, lasciando il campo agli ebrei immigrati, ogni giorno più decisi a prendere il potere” (pag. 44). La progressiva migrazione ebraica in Palestina: “Prima dell’ inizio dell’immigrazione ebraica in Palestina nel 1880 la comunità (ebraica ndr) contava circa 3.000 persone, su un totale di 350.000 abitanti nel paese” (pag. 37). Quella piccola comunità che Ghada Karmi chiama “i nostri ebrei” era indistinguibile dagli arabi, perché ne parlava la lingua ed era fisicamente indistinguibile. Ma si ingrossò il fiume della migrazione ebraica sotto gli occhi dell’ occupazione militare del mandato inglese. Ebrei poveri degli anni ’20-’30…ma anche ebrei benestanti “ricevevano sostanziosi aiuti economici dal governo britannico” (pag. 13) diventavano sempre più possidenti. Ghada dice: “lasciati a se stessi, i popoli si mescolano. Matrimoni misti, amicizie tra i vicini di casa …..” ( pag. 45)…..
Ma i sionisti avevano un altro piano. Il JNF (il Fondo Nazionale Ebraico) fondato nel 1901 al congresso sionista di Basilea, mappò la terrà e pianificò la sua espropriazione. Le strutture politiche e militari sioniste, inizialmente addestrate ed armate dall’esercito inglese, progressivamente diventarono il braccio armato (Haganah, esercito clandestino, Irgun, Banda Stern) contro la popolazione palestinese e contro l’esercito inglese che divenne obbiettivo di attacchi sanguinari (ad es King David Hotel quartier generale del governo britannico in Palestina fu devastato da una bomba nel luglio 1946 (pag. 54), o per es la Goldsmith House sede degli ufficiali britannici (pag. 61). Dice Ghada Karmi: “Le autorità inglesi sembravano sopraffatte dalla ferocia delle aggressioni degli ebrei”.
La popolazione palestinese, la comunità intorno a Ghada, la sua famiglia divennero sempre più terrorizzate dagli attacchi delle milizie sioniste (ai mezzi pubblici ad Haifa, alla folla alla Porta di Damasco, ai cinema, ai caffè, agli Hotel ritenuti sedi delle deboli organizzazioni palestinesi di resistenza, divise e malamente organizzate e dirette, il massacro di Deir Yassin il 9 aprile 1948…) fino a quel giorno di aprile del 1948 quando per non morire, lasciarono la loro terra.
Lascio alle pagine di Ghada la storia della fine del Mandato britannico e la Dichiarazione Onu e il dramma della popolazione palestinese, di quella che rimase nel territorio e di quella che diventò esule, 800.000 donne, uomini e bambini e dei 531 villaggi distrutti.
Io mi devo occupare della storia piccola, della storia personale che si dipana in questa grande storia. Vorrei proporvi 4 aree di lettura di questa storia per entrare nei suoi aspetti psicologici, per come io ho cercato di comprenderli. Spero che Ghada senta il mio rispetto per lei e per l’onestà del suo racconto, lo senta anche se devo concentrare in pochi paragrafi l’ entrare in grandi complessità e in intense emozionalità e ciò lo sento rischioso.
1)Aree
di fragilità pre-nakba
2) Il trauma ed i suoi fattori PRE-disponenti l’impossibilità di una elaborazione compiuta
3) I tentativi difensivi (per es: pseudo-integrazione post-migratoria)
4) La riconnessione con la propria storia
2) Il trauma ed i suoi fattori PRE-disponenti l’impossibilità di una elaborazione compiuta
3) I tentativi difensivi (per es: pseudo-integrazione post-migratoria)
4) La riconnessione con la propria storia
La bambina Ghada viveva nella sua famiglia con il papà, la mamma, una sorella nata nel ‘32 ed un fratello nato nel ’36 più grandi di lei nata nel nov ’39 . Immersa, radicata in una comunità ricca di scambi umani e di attività commerciali.
Ghada guarda alla sua storia da adulta e la pietà per i dolori della vita dei suoi genitori le permette di ricordare con tenerezza aspetti della dinamica intra-famigliare che avrebbero potuto essere ricordati con venature critiche che si permette solo in alcune pagine, dimostrando la sua profonda consapevolezza e sincerità.
Ma non solo questo: questo sguardo pietoso è un primo movimento di elaborazione del lutto che le permette di attingere alla memoria sia della sua storia individuale sia alla grande storia.
Ghada chiede a Fatima “dimmi cosa succede?” (pag. 107) quando l’angoscia nella comunità cresce. Non lo chiede alla madre, non lo chiede al padre. Per lei l’àncora è Fatima. La madre è una donna volitiva e intelligente ma sembra distratta dalla sua intensa necessità di interazioni sociali che inseriscono la famiglia in un tessuto affettivo sociale stretto ma lasciano Ghada un po’ solitaria. Ghada dice: “io non venivo notata da nessuno, mi vedevo pelle ed ossa, mi sentivo brutta ed ero gelosa marcia” dei cuginetti coccolati dalla madre e dei maschi che avevano diritto a trattamenti speciali (pag. 22)...“dai bambini, come dagli adulti ci si aspettava che se la cavassero da soli”….”la vita senza Rex e Fatima era impensabile” (pag. 76).
Queste frasi danno l’ immagine di una bambina che non trovava sufficiente accoglimento e attenzione e che non si sentiva vista dagli occhi della madre. E quindi poteva trovare difficoltà nella formazione dell’immagine di sé. Un vissuto di svalutazione, di insufficiente rispecchiamento e rassicurante conferma che può rendere il bambino più esposto a inquietudini-insicurezza-autocriticità nel suo senso di sé stesso e all’ ansia di rifiuto nella relazione con il mondo esterno. L’ancoraggio a Fatima è di tipo affettivo-protettivo, una grande tenerezza calda. Fatima era una donna saggia ma nella società palestinese del tempo la posizione di Fatima era svalutata: “Anche se ero piccola avevo già assimilato la tripartizione usuale della società palestinese: in fondo alla scala c’era la gente di campagna, poi i proprietari terrieri e in cima gli abitanti delle città” (pag. 17)… “fin dall’ inizio considerai Fatima come mia madre…sapevo che lei non era la mia vera madre ma nutrivo un affetto così profondo che i miei fratelli mi canzonavano: Non sei mica nostra sorella…Ti abbiamo trovata in giardino…i tuoi genitori sono contadini come Fatima…prima o poi ti rimandiamo da loro...”… “piangevo disperata”...”mia madre li rimproverava”…”Ma il mio strazio era solo in parte dovuto al fatto di non voler essere considerata una reietta nella mia stessa famiglia. In maggior misura mi turbava l’ idea di essere associata ai contadini”...( pag. 16). Quindi già da allora il modellamento sull’immagine della figura femminile di riferimento era complessa. Complessa la formazione dell’ immagine di sé. Da una parte Ghada trovava la sicurezza, pace, tenerezza e accoglienza incondizionata con Fatima, dall’altra era in conflitto con quell’ immagine di riferimento da introiettare in quanto svalutata e che l’avrebbe messa fuori dalla famiglia.
Il rapporto con il padre è tenero. Siede sulle sue ginocchia quando la madre esce e lui legge, gli parla anche se lui non si sa quanto ascolti. E’ un uomo responsabile con aspirazioni intellettuali e lavora all’interno dell’ entourage inglese cosa che gli crea forti imbarazzi per la sua forte collocazione leale dentro la sua comunità. Una complicazione che lo accompagnerà anche dopo la migrazione in Inghilterra perché troverà lavoro nella divisione araba della BBC. Ghada dice: “i padri hanno un’importanza cruciale nella nostra cultura. Rappresentano la principale figura di riferimento, l’ autorità, sono gli artefici della reputazione della famiglia, l’ unico suo mezzo di sostentamento economico e la base della sua identità” (pag. 76). Ma il padre, lui stesso vittima della grande storia che si abbatte sulla sua terra dice: “non andremo da nessuna parte e nessuno farà nulla ai miei libri” (pag. 83). E quindi che cosa succede alla bambina Ghada verso questa autorità che doveva essere, per lei ancora piccola, guida autorevole nella lettura della realtà ed efficace protezione consapevole? Lo si perdona in quanto vittima ma: che ferita lascia? Quanto traumatica è la perdita improvvisa dell’aura di onnipotenza che i nostri genitori dovrebbero perdere un po’ alla volta nel corso della nostra adolescenza mentre ci attrezziamo a navigare da soli la realtà?
Queste considerazioni ci aiutano a capire meglio il senso di fragilità e di dubbio identitario che sarà parte della fase successiva, post-migratoria.
Sia la mamma che il papà di Ghada hanno difficoltà a parlare delle esperienze e di ciò che succede a loro e nei loro figli sia prima della nakba che negli anni del post-migrazione. Ghada ne parla con stupore, con tristezza, a volte con dolore arrabbiato. “nessuno dei due sembrava interessato alle nostre vite” (pag. 205) “non riesco a perdonare i miei genitori per averci gettato con tanta noncuranza in simili sabbie mobili culturali e politiche” (pag. 191) “lacrime di papà per che cosa? Era impossibile dirlo perché papà non parlava mai dei suoi sentimenti” (pag. 144). Noi lettori possiamo cercare di immaginare lo stato di angoscia continua e sotterranea nel quale i genitori vivevano intuendo, forse non a livello conscio, che il loro mondo era minacciato e sarebbe stato distrutto. Forse non erano in grado di ascoltare perché non potevano dare risposte. Non potevano avvicinarsi al lutto che stavano per vivere, stavano vivendo, avevano vissuto e avrebbero continuato a vivere. Ma se guardiamo l’esperienza dalla parte di Ghada possiamo sentirci vicini alla sua esperienza interiore. I bambini hanno bisogno di essere aiutati a mettere in parole le loro esperienze perché vengano accolte senza reprimerne le emozioni, anzi per aiutarli a capirle e collegarle, per validare le loro risorse per poter affrontare le sfide, per non vergognarsi della paura, per non dover far finta di…. e per consolidare il senso della propria identità. Gli attacchi di panico di cui Ghada ci racconta soffrirà a Londra per molti anni (pag. 186) iniziati al museo delle cere di Madame Tussauds (forse non per caso: tutti come morti, come un cimitero) rimandano forse a questa scissione tra forti emozioni e un insufficiente tentativo di contenimento negli anni formativi attraverso l’ascolto-rassicurazione attraverso la sintonizzazione dell’ adulto-affidabilità della parola dell’ altro.
Gli impatti forti della nostra vita vanno a mettere in evidenza le nostre aree deboli e poi, come Ghada arriverà a fare nel suo percorso, se riusciamo a riconnetterci con le nostre risorse e le correnti dinamiche autentiche della nostra identità abbiamo l’opportunità di riparare, di occuparci in modo curativo di quelle aree friabili.
2)
Il trauma: Palestina Damasco Londra
Perdita del mondo che è la sua vita. Affetti, legami identitari, comunità di riferimento. Odori. Suoni. Paesaggi. Fisionomie. Arriva l’ Aprile 1948.
Prima il montare di una paura che impregna tutti. I genitori erano terrorizzati (pag. 104) i bambini non possono contare su alcuna rassicurazione, conforto, spiegazione su ciò che sta avvenendo e potrà essere di loro: “nemmeno il tempo di dire addio alla nostra casa, al nostro paese a tutto ciò che avevamo amato un tempo” (pag. 113). La fuga a Damasco dove c’erano i nonni.
C’è un dolore che tutto pervade ma un meccanismo difensivo, la negazione, che illusoriamente protegge dal dolore ma ne complica enormemente la possibilità di elaborarlo senza eccessive scissioni che invece congelano parti del proprio mondo interno con conseguenze complesse emotive-cognitive-relazionali: “dopo il nostro arrivo a Damasco, nessuno accennò più alla vita di prima. I nostri genitori non parlavano più né di Fatima….nè della casa o di Gerusalemme. Mi sembrava di essere l’ unica a serbarne il ricordo…così stordita e confusa decisi di seguire il loro esempio e tenni per me la confusione. La mia devozione a Fatima, alla nostra casa e alla mia infanzia divennero una questione privata, un segreto da custodire e proteggere.” (pag. 126)…”i ricordi congelati nel tempo” (pag. 161).
“Scappare è fare il gioco degli ebrei, rimanere è esporre i figli alla morte” (pag. 82). Fuggiti lasciando gli anziani indietro per salvare i bambini: come si può elaborare o convivere con una tale colpa? Come affiorerà o si cercherà di non farla affiorare?
Poi, dopo varie traversie, e “una temporanea follia dei genitori” (pag. 145) la famiglia arriva a Londra. A Londra la famiglia Karmi tiene una stretta routine araba; la infelicissima mamma entra in una vera fase depressiva (pag. 167): isolata, rifiuta per anni di attrezzare con il riscaldamento la casa gelida e umida; rifiuta di considerare quella casa, quel luogo come destinazione permanente, definitivo, finale. Non imparerà mai l’inglese, e non stringerà mai amicizie con gli inglesi. Molto diversamente da come aveva fatto in Palestina dove le porte di casa erano sempre aperte e i vicini di casa erano amici al di là di appartenenze e caratteri. Mai mise piede nella scuola dei figli (pag. 179) e spegneva la musica classica che sempre aveva allietato la casa in Palestina (pag. 183).
Come si può elaborare una perdita così globale e drammatica? Il fallimento della migrazione nella generazione adulta si appoggia su una prevalenze di un dolore che eccede la proprie capacità di sopportarlo, sulla negazione come mezzo difensivo
prevalente, sulla natura obbligata dell’esilio, sulla globalità della perdita di ciò che ancora esiste ma è stato devastato e rubato. Gli invasori vivono nella loro casa. Il presente viene congelato perché non è più il passato e perché non deve diventare quel futuro. Congelamento dell’oggetto perduto insieme a ciò che di noi si esprimeva nella relazione con esso.
Idealizzazione del mondo perduto-estraniazione e denigrazione del mondo presente sono oscillazioni che rendono difficile la vita anche ai ragazzi che invece escono da casa, vanno a scuola, devono imparare la lingua e devono negoziare il loro inserimento in una nuova cultura, con nuovi valori, abitudini, validazioni.
Infatti come scrive Faimberg (2006) una negazione trasmessa di generazione in generazione impedisce il più delle volte di elaborare il lutto delle varie catastrofi del ‘900. La cripta di questo lutto incistato, chiusa quasi irrimediabilmente, dà luogo ad uno spazio intra-soggettivo e inter-soggettivo dove ciò che è negato ritorna nella forma di una mutilazione, in senso stretto ed in senso lato. Ma non sono solo i bambini ad essere “mutilati” della possibilità di affidarsi ai genitori: i genitori sono a loro volta “mutilati” non solo della loro patria ma della possibilità di essere per i loro figli punti di riferimento forti. Il terrore li fissa nella negazione. Gli adulti, si sa, sono meno plastici dei bambini, incistano il trauma in una cripta irrevocabilmente.
Quali operazioni mentali Ghada deve fare per poter continuare a vivere?
Perdita del mondo che è la sua vita. Affetti, legami identitari, comunità di riferimento. Odori. Suoni. Paesaggi. Fisionomie. Arriva l’ Aprile 1948.
Prima il montare di una paura che impregna tutti. I genitori erano terrorizzati (pag. 104) i bambini non possono contare su alcuna rassicurazione, conforto, spiegazione su ciò che sta avvenendo e potrà essere di loro: “nemmeno il tempo di dire addio alla nostra casa, al nostro paese a tutto ciò che avevamo amato un tempo” (pag. 113). La fuga a Damasco dove c’erano i nonni.
C’è un dolore che tutto pervade ma un meccanismo difensivo, la negazione, che illusoriamente protegge dal dolore ma ne complica enormemente la possibilità di elaborarlo senza eccessive scissioni che invece congelano parti del proprio mondo interno con conseguenze complesse emotive-cognitive-relazionali: “dopo il nostro arrivo a Damasco, nessuno accennò più alla vita di prima. I nostri genitori non parlavano più né di Fatima….nè della casa o di Gerusalemme. Mi sembrava di essere l’ unica a serbarne il ricordo…così stordita e confusa decisi di seguire il loro esempio e tenni per me la confusione. La mia devozione a Fatima, alla nostra casa e alla mia infanzia divennero una questione privata, un segreto da custodire e proteggere.” (pag. 126)…”i ricordi congelati nel tempo” (pag. 161).
“Scappare è fare il gioco degli ebrei, rimanere è esporre i figli alla morte” (pag. 82). Fuggiti lasciando gli anziani indietro per salvare i bambini: come si può elaborare o convivere con una tale colpa? Come affiorerà o si cercherà di non farla affiorare?
Poi, dopo varie traversie, e “una temporanea follia dei genitori” (pag. 145) la famiglia arriva a Londra. A Londra la famiglia Karmi tiene una stretta routine araba; la infelicissima mamma entra in una vera fase depressiva (pag. 167): isolata, rifiuta per anni di attrezzare con il riscaldamento la casa gelida e umida; rifiuta di considerare quella casa, quel luogo come destinazione permanente, definitivo, finale. Non imparerà mai l’inglese, e non stringerà mai amicizie con gli inglesi. Molto diversamente da come aveva fatto in Palestina dove le porte di casa erano sempre aperte e i vicini di casa erano amici al di là di appartenenze e caratteri. Mai mise piede nella scuola dei figli (pag. 179) e spegneva la musica classica che sempre aveva allietato la casa in Palestina (pag. 183).
Come si può elaborare una perdita così globale e drammatica? Il fallimento della migrazione nella generazione adulta si appoggia su una prevalenze di un dolore che eccede la proprie capacità di sopportarlo, sulla negazione come mezzo difensivo
prevalente, sulla natura obbligata dell’esilio, sulla globalità della perdita di ciò che ancora esiste ma è stato devastato e rubato. Gli invasori vivono nella loro casa. Il presente viene congelato perché non è più il passato e perché non deve diventare quel futuro. Congelamento dell’oggetto perduto insieme a ciò che di noi si esprimeva nella relazione con esso.
Idealizzazione del mondo perduto-estraniazione e denigrazione del mondo presente sono oscillazioni che rendono difficile la vita anche ai ragazzi che invece escono da casa, vanno a scuola, devono imparare la lingua e devono negoziare il loro inserimento in una nuova cultura, con nuovi valori, abitudini, validazioni.
Infatti come scrive Faimberg (2006) una negazione trasmessa di generazione in generazione impedisce il più delle volte di elaborare il lutto delle varie catastrofi del ‘900. La cripta di questo lutto incistato, chiusa quasi irrimediabilmente, dà luogo ad uno spazio intra-soggettivo e inter-soggettivo dove ciò che è negato ritorna nella forma di una mutilazione, in senso stretto ed in senso lato. Ma non sono solo i bambini ad essere “mutilati” della possibilità di affidarsi ai genitori: i genitori sono a loro volta “mutilati” non solo della loro patria ma della possibilità di essere per i loro figli punti di riferimento forti. Il terrore li fissa nella negazione. Gli adulti, si sa, sono meno plastici dei bambini, incistano il trauma in una cripta irrevocabilmente.
Quali operazioni mentali Ghada deve fare per poter continuare a vivere?
3)
La pseudo-integrazione post-migratoria
Non può accettare la denigrazione del presente se vuole vivere, congela ricordi e perdite e gli elementi fondanti la sua identità culturale. “iniziai a cancellare il passato come se non fosse mai esistito...mi chiedo se i nostri genitori stessero cercando di favorire quella cancellazione un po’ per non rivivere il dolore e il trauma e un po’ forse, per una ragione più oscura e diversa. Magari a spingerli era la vergogna per aver disertato la madre patria, per averla lasciata, indifesa, nelle mani dell’invasore” (pag. 193). Verso chi era stato abbandonato, lasciato là. Inizia per Ghada un lungo processo di adattamento che potremmo chiamare camaleontico, facilitato dalla sua frequenza in una scuola cattolica dove le suore la trattavano con una certa dolcezza, un gusto di accoglienza femminile quasi un’associazione a Fatima. La sua migliore amica è Leslie e viene ben accolta dalla sua famiglia ebrea.
“Mi ero fatta l’ idea che tutto quello che era arabo…era mediocre e non meritava il mio interesse” (pag. 208). La svalorizzazione è tra i sintomi del lutto patologico. “avevo fatto mio il risentimento verso gli immigrati, come se io e la mia famiglia appartenessimo alla popolazione indigena…secondo lo stesso principio volevo confondermi con gli inglesi, imitare il loro comportamento, il loro modo di vivere….non mi sfiorò mai il pensiero di essere io stessa oggetto di quel disprezzo che gli inglesi provavano per i miei compagni immigrati e nemmeno che, in quanto palestinese, era proprio a loro che dovevo la perdita recente del mio paese…(208-209).
Qui va messo in luce il doppio livello della scissione e della negazione: una negazione della perdita da parte dei genitori e una negazione della storia del popolo palestinese da parte degli inglesi, nei media e nell’insegnamento scolastico, che volevano dimenticare il loro ruolo pre-nakba e stavano sempre di più promuovendo, per associazione coloniale, Israele a paese amico dimenticando tutta la storia del mandato britannico in Palestina finita con il loro sangue oltre a quello palestinese. Infatti i due momenti cruciali di rottura del suo percorso “adattativo” dal ’49 al ‘67 sono legati alla guerra per lo stretto di Suez del ottobre-novembre 1956 e alla cosiddetta guerra dei 6 giorni del 1967. Queste crisi internazionali vedono emergere nell’ambiente sociale e scolastico intorno a Ghada forti spinte di alleanza tra gli ebrei inglesi e Israele in aperta ostilità anti-araba e contro l’Egitto di Nasser, e una chiara collocazione inglese in alleanza anti-araba insieme agli altri stati post e neo-coloniali. “gli ebrei inglesi iniziarono con il ‘67 il loro coming out per appartenenza religiosa e per i loro legami con Israele (pag. 351). Ghada subisce penose esperienze di bullismo a scuola (pag. 262) e raffreddamenti nelle sue relazioni sociali: si sente dire “ti sembra giusto quello che ha fatto il vostro Nasser?” (pag. 252). Scrive: “Mi ci sarebbero voluti un altro decennio e un’altra crisi profondissima perché quell’edifico alla fine crollasse. Ma, senza che lo sapessi, a seguito della guerra di Suez, le prime crepe si erano già aperte.” (pag. 268).
Ghada per un po’ non aveva avuto scampo: aveva cercato di inserirsi per assimilazione. Ha la cittadinanza nel ’52. Vive come se avesse una doppia vita. Si accentua un distacco affettivo dai suoi genitori che vivono in un mondo a parte, soprattutto la madre. Ad un certo punto viene accolta con affetto e calore dalla famiglia di John che la vuole sposare. Ghada tentenna perché “sa” che John per lei è la casa inglese che le dà un senso di appartenenza ma, credo, sentisse la voragine che sottostava al suo rapporto. Quel senso di appartenenza si basava sulla negazione della sua storia - di cui non si parlava - della sua identità araba originaria e delle ragioni storiche della sua forzata migrazione delle quali non si parlava (pag. 332).
Ghada sceglie inconsapevolmente come data per le nozze il 15 maggio: la data della nakba. La data della perdita della sua terra ora diventa anche la data del distacco dalla sua famiglia che non riesce ad accettare la sua scelta. Forse il sovrapporre le date è nella scia della negazione. O all’ opposto accendere i riflettori sulla storia.
Ma la grande storia entra di nuovo nella sua vita questa volta ridandole una nuova possibilità di elaborazione e di integrazione personale. È la guerra delle 3 ore…chiamata dei 6 giorni con la disfatta araba e il trionfo di Israele. Nel 1967. Si afferma nel mondo la saldatura tra i colonialismi in funzione anti-araba con la possibilità di oscurare la responsabilità europea nell’olocausto passando agli arabi il ruolo di minaccia agli ebrei.
Momento cruciale con John che le dice: “non posso non ammirare Israele” . Il matrimonio viene travolto ma Ghada fa soprattutto precipitare dentro di sé una crisi profonda, difficile: “adesso mi sentivo doppiamente sola. Era come se quella settimana di guerra mi avesse smascherata. Mi chiedevo chi fossi in realtà”, (pag. 344). Pagine dolorose, turbolente ma che indicano quel lavoro di riconnessione interna alla realtà della propria storia e ai propri legami culturali sotterrati.
Le aree di ambiguità che dobbiamo mantenere - per permettere un adattamento che viene associato alla sopravvivenza, scindendo e sopprimendo aree importanti della nostra identità - è proporzionale alla fragilità della nostra identità, alla quota di vergogna e di autodenigrazione che la minaccia, alle dinamiche collusive dell’ambiente circostante (nella negazione, nella denigrazione, nell’ amnesia) alla violenza dell’esclusione sociale e della punizione in caso di manifestata diversità o critica.
L’integrazione interna (eredità, appartenenza, modelli identificatori, transgenerazionali, la nostra individuazione=creazione della nostra originalità nella fase infantile, i suoi dilemmi…) è l’ unico presupposto per un‘integrazione esterna che non sia basata sulla perdita di parti importanti di noi stessi e su un camaleontismo superficiale.
Israele riuscì attraverso un’articolata e abilissima strategia politico-mediatica a trasformare l’immagine del popolo palestinese, la vittima che era stato espulsa dalla sua terra, nell'immagine di una presenza senza diritti, intrusoria, aggressiva, che andava annullata e distrutta in quanto minacciosa. Gli stati arabi, divisi, con poteri autocratici miopi e disorganizzati, non ebbero mai, dopo Nasser, alcun ruolo nello scacchiere geo-politico dell’area medio-orientale e mediterranea. Ora in Israele con la legge del marzo 2011 lo Stato toglie i fondi statali a quelle istituzioni che commemorino il giorno della fondazione dello stato di Israele come giorno di un loro lutto. Parlare della nakba è proibito a scuola. Cioè i migliaia di palestinesi che sono rimasti in quello che è diventato lo Stato ebraico, non possono ricordare il giorno in cui hanno perso la loro coesione comunitaria e migliaia di loro amici e parenti sono diventati profughi permanenti, alcuni esuli sparsi per il mondo (come la famiglia di Ghada), molti altri, milioni di altri ora vivono ancora in campi profughi senza diritti e senza identità nazionale. Il vero “negazionismo” impedisce alla vittime di essere riconosciute: Ghada scrive “compresi amareggiata che non avevo solamente perso la mia patria ma anche il diritto di piangerla e di volerne a qualcuno perché se ne era appropriato” (pag. 354).
Non può accettare la denigrazione del presente se vuole vivere, congela ricordi e perdite e gli elementi fondanti la sua identità culturale. “iniziai a cancellare il passato come se non fosse mai esistito...mi chiedo se i nostri genitori stessero cercando di favorire quella cancellazione un po’ per non rivivere il dolore e il trauma e un po’ forse, per una ragione più oscura e diversa. Magari a spingerli era la vergogna per aver disertato la madre patria, per averla lasciata, indifesa, nelle mani dell’invasore” (pag. 193). Verso chi era stato abbandonato, lasciato là. Inizia per Ghada un lungo processo di adattamento che potremmo chiamare camaleontico, facilitato dalla sua frequenza in una scuola cattolica dove le suore la trattavano con una certa dolcezza, un gusto di accoglienza femminile quasi un’associazione a Fatima. La sua migliore amica è Leslie e viene ben accolta dalla sua famiglia ebrea.
“Mi ero fatta l’ idea che tutto quello che era arabo…era mediocre e non meritava il mio interesse” (pag. 208). La svalorizzazione è tra i sintomi del lutto patologico. “avevo fatto mio il risentimento verso gli immigrati, come se io e la mia famiglia appartenessimo alla popolazione indigena…secondo lo stesso principio volevo confondermi con gli inglesi, imitare il loro comportamento, il loro modo di vivere….non mi sfiorò mai il pensiero di essere io stessa oggetto di quel disprezzo che gli inglesi provavano per i miei compagni immigrati e nemmeno che, in quanto palestinese, era proprio a loro che dovevo la perdita recente del mio paese…(208-209).
Qui va messo in luce il doppio livello della scissione e della negazione: una negazione della perdita da parte dei genitori e una negazione della storia del popolo palestinese da parte degli inglesi, nei media e nell’insegnamento scolastico, che volevano dimenticare il loro ruolo pre-nakba e stavano sempre di più promuovendo, per associazione coloniale, Israele a paese amico dimenticando tutta la storia del mandato britannico in Palestina finita con il loro sangue oltre a quello palestinese. Infatti i due momenti cruciali di rottura del suo percorso “adattativo” dal ’49 al ‘67 sono legati alla guerra per lo stretto di Suez del ottobre-novembre 1956 e alla cosiddetta guerra dei 6 giorni del 1967. Queste crisi internazionali vedono emergere nell’ambiente sociale e scolastico intorno a Ghada forti spinte di alleanza tra gli ebrei inglesi e Israele in aperta ostilità anti-araba e contro l’Egitto di Nasser, e una chiara collocazione inglese in alleanza anti-araba insieme agli altri stati post e neo-coloniali. “gli ebrei inglesi iniziarono con il ‘67 il loro coming out per appartenenza religiosa e per i loro legami con Israele (pag. 351). Ghada subisce penose esperienze di bullismo a scuola (pag. 262) e raffreddamenti nelle sue relazioni sociali: si sente dire “ti sembra giusto quello che ha fatto il vostro Nasser?” (pag. 252). Scrive: “Mi ci sarebbero voluti un altro decennio e un’altra crisi profondissima perché quell’edifico alla fine crollasse. Ma, senza che lo sapessi, a seguito della guerra di Suez, le prime crepe si erano già aperte.” (pag. 268).
Ghada per un po’ non aveva avuto scampo: aveva cercato di inserirsi per assimilazione. Ha la cittadinanza nel ’52. Vive come se avesse una doppia vita. Si accentua un distacco affettivo dai suoi genitori che vivono in un mondo a parte, soprattutto la madre. Ad un certo punto viene accolta con affetto e calore dalla famiglia di John che la vuole sposare. Ghada tentenna perché “sa” che John per lei è la casa inglese che le dà un senso di appartenenza ma, credo, sentisse la voragine che sottostava al suo rapporto. Quel senso di appartenenza si basava sulla negazione della sua storia - di cui non si parlava - della sua identità araba originaria e delle ragioni storiche della sua forzata migrazione delle quali non si parlava (pag. 332).
Ghada sceglie inconsapevolmente come data per le nozze il 15 maggio: la data della nakba. La data della perdita della sua terra ora diventa anche la data del distacco dalla sua famiglia che non riesce ad accettare la sua scelta. Forse il sovrapporre le date è nella scia della negazione. O all’ opposto accendere i riflettori sulla storia.
Ma la grande storia entra di nuovo nella sua vita questa volta ridandole una nuova possibilità di elaborazione e di integrazione personale. È la guerra delle 3 ore…chiamata dei 6 giorni con la disfatta araba e il trionfo di Israele. Nel 1967. Si afferma nel mondo la saldatura tra i colonialismi in funzione anti-araba con la possibilità di oscurare la responsabilità europea nell’olocausto passando agli arabi il ruolo di minaccia agli ebrei.
Momento cruciale con John che le dice: “non posso non ammirare Israele” . Il matrimonio viene travolto ma Ghada fa soprattutto precipitare dentro di sé una crisi profonda, difficile: “adesso mi sentivo doppiamente sola. Era come se quella settimana di guerra mi avesse smascherata. Mi chiedevo chi fossi in realtà”, (pag. 344). Pagine dolorose, turbolente ma che indicano quel lavoro di riconnessione interna alla realtà della propria storia e ai propri legami culturali sotterrati.
Le aree di ambiguità che dobbiamo mantenere - per permettere un adattamento che viene associato alla sopravvivenza, scindendo e sopprimendo aree importanti della nostra identità - è proporzionale alla fragilità della nostra identità, alla quota di vergogna e di autodenigrazione che la minaccia, alle dinamiche collusive dell’ambiente circostante (nella negazione, nella denigrazione, nell’ amnesia) alla violenza dell’esclusione sociale e della punizione in caso di manifestata diversità o critica.
L’integrazione interna (eredità, appartenenza, modelli identificatori, transgenerazionali, la nostra individuazione=creazione della nostra originalità nella fase infantile, i suoi dilemmi…) è l’ unico presupposto per un‘integrazione esterna che non sia basata sulla perdita di parti importanti di noi stessi e su un camaleontismo superficiale.
Israele riuscì attraverso un’articolata e abilissima strategia politico-mediatica a trasformare l’immagine del popolo palestinese, la vittima che era stato espulsa dalla sua terra, nell'immagine di una presenza senza diritti, intrusoria, aggressiva, che andava annullata e distrutta in quanto minacciosa. Gli stati arabi, divisi, con poteri autocratici miopi e disorganizzati, non ebbero mai, dopo Nasser, alcun ruolo nello scacchiere geo-politico dell’area medio-orientale e mediterranea. Ora in Israele con la legge del marzo 2011 lo Stato toglie i fondi statali a quelle istituzioni che commemorino il giorno della fondazione dello stato di Israele come giorno di un loro lutto. Parlare della nakba è proibito a scuola. Cioè i migliaia di palestinesi che sono rimasti in quello che è diventato lo Stato ebraico, non possono ricordare il giorno in cui hanno perso la loro coesione comunitaria e migliaia di loro amici e parenti sono diventati profughi permanenti, alcuni esuli sparsi per il mondo (come la famiglia di Ghada), molti altri, milioni di altri ora vivono ancora in campi profughi senza diritti e senza identità nazionale. Il vero “negazionismo” impedisce alla vittime di essere riconosciute: Ghada scrive “compresi amareggiata che non avevo solamente perso la mia patria ma anche il diritto di piangerla e di volerne a qualcuno perché se ne era appropriato” (pag. 354).
4) Riconnessione alla propria storia
Ghada inizia un’attività politica che non è più terminata a tutt’oggi. E da medico diventa una storica e una studiosa. Questa parte della sua vita ci è più nota. La porta ad un certo punto a pensare di voler vivere e lavorare come medico in Siria, rientrando in un mondo culturale arabo. Sperimenta come sa chi vive, attraversa e studia la complessità del processo migratorio, che l’ individuo diventa un individuo originale che deve accettare di non collocarsi perfettamente né nella cultura di origine né in quella di arrivo. E lei è mossa da necessità di restituire alla storia la storia.
La enorme fatica elaborativa che ha fatto sul piano personale dà le radici ad un suo pensiero coraggioso ed originale, una sua proposta strategica che è stata espressa nel suo libro “Sposata ad un Altro Uomo” (così fu descritta la Palestina dai due inviati dal primo congresso sionista del 1897 di Basilea, cioè che era una terra già abitata, rivendicata da una popolazione nativa arabo-palestinese della quale era madrepatria) che Ghada venne a presentare in Italia 4 anni fa. Ghada dice: “Sono consapevole che l’ipotesi di uno Stato unico non sia un argomento del quale scrivere facilmente. Si finisce immediatamente per far parte di una minoranza marginale e si è oggetto di accuse di utopismo, antisemitismo, e persino di tradimento. Si tratta di pregiudizi per evitare di pensare idee in contrasto con quelle divenute familiari, convenzionali, o che servono interessi costituiti. Al contrario, l’ipotesi di uno Stato unico, laico e democratico nella Palestina storica, è da affrontare con un dibattito onesto perché, come spero, di dimostrare è l’unica strada possibile tanto per i palestinesi quanto per gli israeliani”.
Grazie Ghada e grazie Fatima che, credo, Ghada abbia ritrovato dentro di sé come un nucleo caldo e amorevole grazie al quale è riuscita, nonostante la sua terra sia stata distrutta e lei ripetutamente ferita, a portare al suo popolo un messaggio costruttivo e di speranza.
…… Cesare Pavese “ Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”
“La Luna e i Falò” Einaudi 1950
Flavia Donati , psichiatra e psicoanalista SPI-IPA
Roma, 5 maggio 2014
Relazione richiesta da ISM-Italia e presentata in occasione del tour in Italia del maggio 2014 per la presentazione del libro memoir di Ghada Karmi “Alla Ricerca di Fatima - Una Storia Palestinese”, Atmosphere Libri 2013.
Etichette:
arabi,
associazione,
diritti,
famiglia,
geopolitica,
giornalisti,
guerra,
immigrazione,
islam,
Israele,
letteratura,
libro,
Palestina,
palestinesi,
politica,
psicologia,
scuola,
studenti,
violenza
domenica 18 ottobre 2015
Intervista ad Amedeo Ricucci su “La lunga marcia”, il viaggio insieme ai profughi siriani
La
lunga marcia: questo il
titolo del reportage e dello Speciale del Tg1 mandato in onda su Rai
1 lunedì 12 ottobre 2015. Un giornalista, un cameraman e una
studiosa arabista hanno viaggiato insieme ai profughi siriani nel
loro lungo, estenuante e pericoloso viaggio dal Paese in guerra al
continente della presunta salvezza.
L'Associazione
per i Diritti umani ha intervistato per voi Amedeo Ricucci e lo
ringrazia sempre per la sua disponibilità.
Il
giorno successivo alla messa in onda sulla RAI. Come si sente?
Mi sento
stanco perchè è stato un lavoro lungo, faticoso e fatto in tempi
record perchè abbiamo montato in 10 giorni, appena rientrati dal
viaggio. Ma sono anche molto felice perchè gli Speciali del TG1
hanno vinto la seconda serata con quasi un milione di spettatori.
Sono soprattutto contento del fatto che siamo riusciti nell'intento,
credo, di comunicare al pubblico le forti emozioni vissute in questo
viaggio, unico nel suo genere.
Qual è
stato il tragitto de La
lunga marcia e quali le
peculiarità di questa esperienza?
Questo
progetto è nato dal fastidio che provavo nel vedere tutti i giorni -
nei Tg, sui giornali, sui media tradizionali – news e reportage sui
migranti che arrivavano alle frontiere, e causavano problemi ai vari
Stati. L'immagine che a me restava fissa in testa era quella del
giornalista che stava in primo piano e dietro, sullo sfondo, un fiume
di profughi: i profughi erano l'oggetto della narrazione, non il
soggetto. Quindi l'idea è stata: proviamo a vedere se facendoli
diventare il soggetto, cambia il tipo di narrazione giornalistica e
se scopriamo aspetti inediti di questo fenomeno epocale. L'approccio
è stato quello di raccontarlo, per la prima volta in Italia, da
dentro, lungo un percorso iniziato dall'isola di Lesbo, seguendo il
fiume e la rotta dei Balcani, direzione Germania.
Questo
documentario può essere un'”alternativa” alle forme di
informazione tradizionali?
Grazie
alla rete, oggi, c'è una moltiplicazione delle fonti e questo ci
obbliga - come lettori, cittadini, spettatori – a confrontare più
atti di giornalismo. Il nostro è stato una forma di giornalismo
partecipativo, un punto di vista che non esaurisce il problema, ma
offre un aspetto interessante.
In che
modo avete organizzato il viaggio e come vi siete spostati da un
Paese all'altro?
Mi
riferisco proprio a questo quando parlo di giornalismo partecipativo.
Eravamo: io, Simone Bianchi (cameraman) e Silvia Di Cesare
(arabista). Attorno a noi si è mossa una serie di persone che hanno
dato un contributo in tempo reale, parlo dell'UNHCR (nella persona di
Carlotta Zami) che ci ha fornito indirizzi uitli e, in Grecia,
Alessandra Morelli che ci ha seguito con decine di telefonate al
giorno. Oltre agli aiuti istituzionali, c'è stata tutta la rete
della comunità italo-siriana alla quale attingo spesso perchè sono
persone straordinarie e di grane generosità, che mi hanno fornito
contatti e informazioni sui corridoi umanitari da seguire o da non
seguire. Una delle cose più commoventi del viaggio è che i profughi
volevano stare con noi a tutti i costi perchè avere vicino dei
giornalisti dà loro una sorta di garanzia contro i soprusi della
Polizia.
Mi fa
capire, quindi, che i soprusi ci sono?
Ho visto
abusi solo nel campo di Opatovach in Croazia, ma non metterei sotto
accusa le forze dell'ordine.
Il
problema è che il flusso migratorio è molto consistente, si parla
di migliaia e migliaia di persone che tutti i giorni attraversano le
frontiere e gli Stati, per cecità e menefreghismo, non vogliono
attrezzarsi per aiutarli. Gli Stati provano ad arginare il flusso di
profughi, a dirottarlo su strade secondarie, trattandolo come un
problema di ordine pubblico quindi, se in un campo arrivano 6.000
persone da gestire e si è in pochi, la situazione diventa difficile.
A questo si aggiunge un atteggiamento che non sempre è amichevole da
parte delle forze dell'ordine...
Come
commenta l'intervento della Russia in Siria?
Da
giornalista cerco di attenermi ai fatti: tutti coloro che hanno
vissuto il dramma della Siria fin dall'inizio, andando sul posto,
avevano subito detto che la Siria era la madre di tutti i problemi
del Medioriente, che ci fosse un risiko, un “great game” fra le
grandi potenze e che questo avrebbe provocato, in Siria,
sconvolgimenti molto più gravi di quelli che già c'erano. Purtroppo
siamo stati bravi profeti.
Il
problema della Siria poteva essere risolto 4/5 anni fa, all'epoca
delle prime manifestazioni anti-regime; ci siamo ostinati, invece, a
non intervenire, lasciando intervenire l'Iran e gli hezbollah
libanesi e adesso siamo quasi ad una terza guerra mondiale.
L'intervento
della Russia accelera la situazione ed è il segno evidente della
debolezza di Assad che, proprio dal punto di vista militare, non ce
la faceva più, sconfitto sia dai ribelli sia dagli jihadisti.
L'intervento russo dà fiato ad Assad e anche all'Isis perchè stanno
bombardando le formazioni combattenti non legate all'Isis e i
terroristi, così, possono arrivare fino ad Aleppo, come sta
accadendo.
La
lunga marcia è
servito a ribadire che i siriani non stanno scappando solo dall'Isis,
ma principalmente dal regime di Assad.
Etichette:
arabi,
geopolitica,
giornalismo,
giurisprudenza,
guerra,
informazione,
Isis,
La lunga marcia,
profughi,
rai,
reportage,
Ricucci,
rifugiati,
Siria,
siriani,
studenti,
terrorismo,
viaggio
giovedì 15 ottobre 2015
I muri di Tunisi: la Tunisia prima e dopo la rivoluzione
Associazione
per i Diritti Umani
PRESENTA
il
saggio “I MURI DI TUNISI. Scritti e immagini di un Paese che
cambia”, di Luce Lacquaniti
ed.
Exòrma
giovedì
22 OTTOBRE, ore 19
presso
CENTRO
ASTERIA
(Piazza
Carrara 17.1 (ang Via G. da Cermenate,2 MM Romolo) Milano
L’Associazione
per i Diritti Umani organizza l'incontro nell'ambito
della manifestazione “D(I)RITTI AL CENTRO!”.
Presentazione
del saggio “I
MURI DI TUNISI. Scritti e immagini di un Paese che cambia”, di Luce
Lacquaniti
ed.
Exòrma
Il saggio, a partire dai
graffiti realizzati sui muri della città di Tunisi, permette di fare
un viaggio in un Paese in grande via di trasformazione politica,
culturale e sociale. Si parlerà della Tunisia anche alla luce
dell'attacco terroristico e del Premio Nobel per la pace.
Coordina:
Alessandra Montesanto, Vicepresidente Associazione per i Diritti
Umani
Etichette:
arabi,
democrazia,
fotografia,
geopolitica,
giurisprudenza,
giustizia,
legge,
libro,
Nobel,
pace,
popolo,
regime,
Religione,
rivoluzione,
studenti,
Tunisi,
Tunisia,
università
martedì 13 ottobre 2015
L’ ISLAM NUDO: verso una “Umma dei consumatori”?
di Monica Macchi
Nel libro di Lorenzo Declich, L'Islam nudo (edito da Jouvence), l’Islam inserito nella globalizzazione si trova a convivere con le regole dell’economia di mercato che spingono per orientarlo verso fattori identitari. Si cercano di cancellare differenze inevitabilmente insite in un universo che conta più di 1 miliardo e 600.000 persone creando un nuovo immaginario in cui viene meno la tradizionale dimensione comunitaria a favore dell’individualismo capitalista. Dall’etichettatura halal, ai cosmetici, alle app islamiche con gli orari delle preghiere o le parti del Corano da leggere durante il Ramadan, fino alla finanza islamica e all’architettura (interessante la parte sulla Mecca dove è stato costruito il secondo grattacielo più alto al mondo o sulle “meraviglie” di Dubai) l’identità islamica viene ridefinita in una individualizzazione dell’esperienza religiosa. Ma mentre la guerra fredda era caratterizzata dalla lontananza dicotomica “noi/loro” separati addirittura da una “cortina di ferro”, la separazione tra mondo islamico e non-islamico segue linee più complesse. Tradizionalmente la cultura islamica distingue tra dar al-Islam (i territori che sono sottoposti all'imperio politico e giuridico dell'Islam), e dar al-harb (tutti gli altri). Ma già da tempo le migrazioni, e in misura minore, le conversioni hanno fatto venir meno questa dicotomia ed è stata proposta la categoria intermedia di dar al-amn, cioè un territorio in cui i musulmani, si ritrovano ad essere minoranza. E se da un punto di vista teologico-giuridico si stanno rivisitando le fonti scritte per restare fedeli alla propria coscienza religiosa in un contesto legislativo laico (è stata creata la categoria di “islam europeo” di cui Tariq Ramadan è considerato il più autorevole esperto, ancora più ascoltato e considerato controverso in quanto nipote di Hasan al Banna, il fondatore dei Fratelli Musulmani in Egitto. Per chi volesse approfondire queste tematiche ecco il link al sito personale di Ramadan in costante aggiornamento http://www.tariqramadan.com/) da un punto di vista economico vivere l’Islam in una terra non islamica va a cambiare gli stili di vita dei singoli musulmani ma anche dei convertiti che spesso non hanno un profondo background religioso. Ecco quindi che i musulmani diventano il target dell’emergente mercato borghese globale che da un lato corrode la dimensione religiosa mistificandola in sterili e pericolosi stereotipi che identificano arabi-musulmani-terroristi come fossero sinonimi, dall’altro li blandisce rendendoli docili consumatori facilmente manipolabili.
Nel libro di Lorenzo Declich, L'Islam nudo (edito da Jouvence), l’Islam inserito nella globalizzazione si trova a convivere con le regole dell’economia di mercato che spingono per orientarlo verso fattori identitari. Si cercano di cancellare differenze inevitabilmente insite in un universo che conta più di 1 miliardo e 600.000 persone creando un nuovo immaginario in cui viene meno la tradizionale dimensione comunitaria a favore dell’individualismo capitalista. Dall’etichettatura halal, ai cosmetici, alle app islamiche con gli orari delle preghiere o le parti del Corano da leggere durante il Ramadan, fino alla finanza islamica e all’architettura (interessante la parte sulla Mecca dove è stato costruito il secondo grattacielo più alto al mondo o sulle “meraviglie” di Dubai) l’identità islamica viene ridefinita in una individualizzazione dell’esperienza religiosa. Ma mentre la guerra fredda era caratterizzata dalla lontananza dicotomica “noi/loro” separati addirittura da una “cortina di ferro”, la separazione tra mondo islamico e non-islamico segue linee più complesse. Tradizionalmente la cultura islamica distingue tra dar al-Islam (i territori che sono sottoposti all'imperio politico e giuridico dell'Islam), e dar al-harb (tutti gli altri). Ma già da tempo le migrazioni, e in misura minore, le conversioni hanno fatto venir meno questa dicotomia ed è stata proposta la categoria intermedia di dar al-amn, cioè un territorio in cui i musulmani, si ritrovano ad essere minoranza. E se da un punto di vista teologico-giuridico si stanno rivisitando le fonti scritte per restare fedeli alla propria coscienza religiosa in un contesto legislativo laico (è stata creata la categoria di “islam europeo” di cui Tariq Ramadan è considerato il più autorevole esperto, ancora più ascoltato e considerato controverso in quanto nipote di Hasan al Banna, il fondatore dei Fratelli Musulmani in Egitto. Per chi volesse approfondire queste tematiche ecco il link al sito personale di Ramadan in costante aggiornamento http://www.tariqramadan.com/) da un punto di vista economico vivere l’Islam in una terra non islamica va a cambiare gli stili di vita dei singoli musulmani ma anche dei convertiti che spesso non hanno un profondo background religioso. Ecco quindi che i musulmani diventano il target dell’emergente mercato borghese globale che da un lato corrode la dimensione religiosa mistificandola in sterili e pericolosi stereotipi che identificano arabi-musulmani-terroristi come fossero sinonimi, dall’altro li blandisce rendendoli docili consumatori facilmente manipolabili.
Etichette:
arabi,
associazione,
avvocati,
diritti,
economia,
geopolitica,
giurisprudenza,
halal,
immigrazione,
informazione,
islam,
letteratura,
libro,
migranti,
migrazioni,
minoranza,
politica,
Religione,
stampa,
terrorismo
Iscriviti a:
Post (Atom)