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mercoledì 17 settembre 2014

Everyday Rebellion: cambiamento e non-violenza




E' nelle sale italiane dall' 11 settembre (una data significativa...) e distribuito da Officine Ubu: si tratta del film Everyday Rebellion dei fratelli iraniani Arash e Arman Riahi.

Un documentario che pone al centro la comunicazione come azione di protesta, efficace e, soprattutto, non violenta.

Da Occupy Wall Street, alle rivoluzioni arabe iniziali; dal Movimento spagnolo 15M alle Femen e ancora Otpor! Il movimento studentesco che portò alla caduta di Milošević e il Popolo Viola...Tutte forme di protesta e di ribellione organizzate, sentite, volute e vissute sulla propria pelle dai protagonisti.

A proposito delle Femen ucraine, Arash Rahi ha affermato: “ Come tutti gli altri movimenti non violenti da noi mostrati, anche le Femen partono da bisogni personali, in questo caso il bisogno di un gruppo di studentesse ucraine nate negli anni '80 che si erano smarrite nella propria esistenza. Le Femen hanno avuto un tale impatto sull'opinione pubblica di tutto il mondo perchè hanno usato il corpo come campo di battaglia in una maniera completamente nuova rispetto a quella dei kamikaze alle altre forme di protesta fisica: che cosa c'è di più non violento di un corpo nudo?”.

La tesi alla base del lavoro è che rispondere alla violenza con altra violenza è distruttivo e basta: se, invece, si risponde con la creatività, allora si riescono ad ottenere attenzione e solidarietà e questo risulta ancora più importante se si vive in un regime non democratico. E allora via libera a corpi dipinti, palline da ping pong con scritte che rotolano per le vie della città, palloncini colorati e fermagli per capelli per distribuire volantini e documenti, slogan cantati e cartelloni vivaci...Anche questo vuol dire fare “cittadinanza attiva” e dissentire.

Il documentario fa parte di un progetto più ampio crossmediale, composto da varie piattaforme (sito web, app per smartphone) con le quali è possibile condividere contenuti, informazioni e iniziative. E in occasione della distribuzione del film in Italia, Officine Ubu lancia l'hashtag #iomiribello che invita gli utenti a raccontare il proprio gesto di ribellione quotidiana.

venerdì 30 maggio 2014

Residenza negata ai rifugiati



E' stato da poco approvato, in Italia, il decreto legge denominato “Piano Casa” secondo il quale è vietato l'accesso alla registrazione della residenza per coloro che occupano illegalmente un edificio.

Secondo l'UNHCR (L'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) questo comporterebbe un ostacolo maggiore nell'inclusione dei rifugiati in Italia che causarebbe anche una spirale di isolamento: sarebbe difficile, per i richiedenti asilo, accedere alle cure sanitarie, iscrivere i bambini a scuola, trovare un lavoro legale.

L'UNHCR ricorda quante migliaia di persone siano costrette a sopravvivere in palazzi abbandonati nelle più grandi città (Milano, Torino, Roma ad esempio), sia per una mancanza di attenzione nei loro riguardi sia per le contraddizioni burocratiche: senza la resindenza, infatti, non è possibile ottenere una carta di identità e senza questo documento è, ovviamente, impossibile accedere ai servizi socio-sanitari di base con una conseguente privazione dei diritti fondamentali.

Dall'Italia alla Turchia.         


www.baruda.net
L' Alto commissariato delle Nazioni Unite è protagonsita anche ad Ankara, ma in un altro senso: oltre 45 giorni di una resistenza tenace che si sta svolgendo in un parcheggio, in Via Tiflis, proprio davanti alla sede dell'UNHCR. Si tratta di rifugiati afghani - donne, uomini e anche bambini - che protestatno per i gravi ritardi nelle risposte alle loro richieste di asilo politico.  

La comunità afghana in Turchia si è riunita grazie a Internet e a Skype per poi radunarsi nel parcheggio, con tendopoli e cartelli scritti in persiano, turco e inglese. Tutti chiedono che venga dato risalto alla protesta perchè temono di essere deportati di nuovo in Afghanistan e di dover tornare sotto l'incubo del regime talebano, ma nello stesso tempo, sono stremati dal fatto di dover rimanere bloccati in un “limbo”, senza destinazione, senza lavoro, senza casa e senza nessun tipo di assistenza, anche perchè per molti di loro, privi della cittadinanza UE, la Turchia può essere soltanto un Paese di transito.

C'è chi ha iniziato lo sciopero della fame e c'è chi si è cucito le labbra: ma siamo noi a dover dare voce a chi ha provato a chiedere più volte e poco è stato ascoltato.

martedì 4 giugno 2013

Cosa succede in Turchia?


Cosa sta succedendo in Turchia in questi ultimi giorni?
Succede che il Comune di Istanbul ha deciso di cancellare il Gezi Parki, l'unica zona verde nel centro cittadino, per costrure un gigantesco shopping-mall, un centro commerciale, un “non-luogo” come Gilles Deleuze definiva questi edifici dedicati allo shopping sfrenato. Succede che il progetto sia già stato approvato ma - per paradosso - non sia ancora arrivato, invece , il permesso per l'abbattimento degli alberi e così, abusivamente, gli operai abbiamo iniziato a raderli al suolo lo stesso. Succede che, venerdì 31 maggio, cinquantamila manifestanti si siano rovesciati in piazza Taksim e dintorni per contestare questo progetto urbanistico e che siano stati attaccati dalla polizia.
Comitati di cittadini, singoli, personalità politiche, sindacati, esponeneti della cultura e dello spettacolo, forze di sinistra e correnti vicine all''islamismo: per la prima volta, tutti, tanti uniti per dichiarare il proprio dissenso nei confronti di questa decisione, che riguarda un bene pubblico e, più in generale, nei confronti delle politiche conservatrici del primo Ministro Recep Tayyip Erdogan, tra le quali si annoverano: la legge contro la vendita di alcolici dopo le 22 nei supermercati e la campagna di moralizzazione dei comportamenti pubblici.
La manifestazione contro la realizzazione del centro commerciale è iniziata con concerti improvvisati, danze, discorsi: un modo pacifico e democratico di esprimere, da parte dei cittadini, un parere su una decisione istituzionale. Molti hanno pronunciato frasi del tipo: “ Che il governo di dimetta”, sventolando bandiere e ritratti di Ataturk, padre della Repubblica laica moderna. Ma questa battaglia civile sta diventando sempre più politica (e manifestazioni antigovernative si stanno espandendo anche in altre città, quali Ankara e Smirne, anche grazie alla convocazione tramite i social network che erdogan ha definito “una minaccia per la società”.
La polizia ha attaccato i manifestanti di istanbul con manganelli, idranti e lacrimogeni; secondo Amnesty International ci sono stati oltre mille feriti, due morti e altri sono in pericolo di vita per ferite alla testa. Il portavoce della Ong, Riccardo Noury, ha infatti affermato: “ Pretendiamo dal Ministero della Sanità turco informazioni precise sul numero di persone rimaste ferite negli scontri e lanciamo un appello perchè ci sia uno stop nell'uso di gas lacrimogeni che sono la causa principale delle ferite riportate dai manifestanti”.
Da domenica la protesta ha cambiato registro: è diventata una protesta sonora. Le piazze e le strade di Istanbul, Ankara e Smirne sono state invase da automobilisti che hanno suonato il calcson ripetutamente, mentre sui balconi delle case le persone sbattevano pentole e coperchi. Suoni, parole, ma non la violenza. 

 

martedì 30 aprile 2013

Strage di operai in Bangladesh: è rivolta





Più di 340 persone decedute, più di mille ferite e tantissime sotto le macerie. Solo 40 i superstiti. Questi sono i numeri della strage avvenuta a Savar, nel sobborgo della città di Dacca, in Bangladesh, a causa del crollo di un edificio di otto piani che ospitava cinque aziende di abbigliamento per l'esportazione.
In un primo momento, sui muri del palazzo - poi accartocciatosi su se stesso - si erano venute a creare delle crepe e i 3000 dipendenti delle ditte erano stati fatti evacuare, ma successivamente era giunto dai dirigenti l'ordine di tornare al proprio posto di lavoro: e si è verificata la strage. Una strage annunciata dato che l'edificio era in condizioni di sicurezza assolutamente precarie e un ingegnere aveva dato parere contrario al rientro dei lavoratori.
E' esplosa, così, una rivolta messa in atto da parte di cittadini e operai dell'industria tessile che sono scesi in piazza, chiedendo addirittura la pena di morte per i responsabili delle vittime del “Rana Plaza”: armati di bastoni e di spranghe, hanno bloccato un'autostrada, danneggiato automezzi, incendiato negozi e bancarelle e dato alle fiamme dei pneumatici. La polizia ha dovuto ricorrere a gas lacrimogeni e e a proiettili di gomma per disperdere i manifestanti. Si tratta dell'esasperazione e della paura di persone che, secondo il comunicato di Human Rights Watch, vedono i propri diritti continuamente calpestati nel Paese asiatico: in particolare i lavoratori del settore tessile che sono sottoposti a turni faticosissimi e percepiscono uno stipendio mensile medio pari a soli 28 euro. E a questo si aggiunge il rischio giornaliero per la propria salute e per la propria incolumità.
A seguito del crollo del palazzo e della strage di lavoratori sono state arrestate otto persone tra cui il proprietario, il direttore amministrativo di due delle cinque fabbriche e due funzionari municipali che, il giorno precedente, avevano assicurato che non c'era alcun pericolo.

mercoledì 27 marzo 2013

Il diritto del dissenso




Si può discutere sulle modalità di dissentire o di protestare, ma non del diritto di farlo.
Inna Shevchenko, Oksana Shachko, Anna Hutsol sono le cofondatrici dell'Ong femminista Femen, fondata nel 2008 in Ucraina e che oggi vede attiviste anche in Italia, Germania, Olanda, Francia, Brasile, Stati Uniti e Canada. Le donne, giovani e meno giovani, organizzano dei blitz, si mostrano a seno nudo e con scritte rosse sul corpo e gridano slogan.
Il loro nome - “femen”, appunto - significa, in latino, “coscia” e proprio il corpo è la loro unica arma per combattere la mercificazione e la denigrazione della donna in tutte le società, il turismo sessuale e ogni forma di sessismo.
La protesta delle Femen è arrivata anche in Tunisia. Ma per poco.
Perchè l'attivista che voleva lanciare il movimento anche nel Paese nordafricano, Amina, è stata raggiunta da una fatwa, ovvero è stata minacciata di morte.
19 anni, studentessa liceale, Amina aveva pubblicato sulla propria pagina Facebook alcune sue fotografie a seno scoperto con le scritte, in arabo e in inglese, “ Il mio corpo mi appartiene e non è di nessuno” mentre fuma una sigaretta, oppure “Fanculo la tua moralità”. La pagina del social-network ha raccolto 3700 amici, ma anche tantissimi insulti. Anche la sua famiglia non ha accettato l'atto di rivolta della ragazza, atto che in Tunisia è passibile, dal punto di vista penale, di una condanna a sei mesi di reclusione per l'accusa di “offesa al pudore”. Ma non è finita qui.
Da martedì scorso non si hanno più notizie di Amina: il cellulare è spento e risultano disattivati i suoi profili Facebook e Skype. La situazione è preoccupante se si considera che la ragazza è stata minacciata da un gruppo di salafiti i quali - tramite una dichiarazione ufficiale del predicatore integralista Adel Almi - hanno richiesto, per lei, la quarantena, la fustigazione e,infine, la lapidazione.