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sabato 21 novembre 2015

L'urlo contro il regime: gli antifascisti italiani in Tunisia tra le due guerre





L'urlo contro il regime: gli antifascisti italiani in Tunisia tra le due guerre è l'ultimo saggio di Leila el Houssi, docente presso l'Università di Firenze e coordinatrice organizzativa del Master Mediterranean studies presso la Facoltà di Scienze Politiche. In questo suo ultimo lavoro
affronta il tema dell'antifascismo italiano in Tunisia tra le due guerre mondiali e rimette in discussione il luogo comune secondo cui la numerosa collettività italiana presente nel paese nordafricano fosse totalmente schierata col regime fascista. In realtà, contro la dittatura di Mussolini e la sua propaganda sorse una corrente di opposizione i cui protagonisti furono membri dell'élite borghese liberale di appartenenza massonica, militanti del movimento anarchico, esponenti della classe operaia organizzata nei partiti della sinistra socialista e comunista e aderenti a Giustizia e Libertà. Nacque così un dinamico laboratorio politico animato da giovani italo-tunisini che vide nei primi anni Trenta la costituzione della sezione tunisina della Lega italiana dei diritti dell'uomo (LIDU) e, in seguito, l'apporto di personalità politiche come Velio Spano e Giorgio Amendola inviati dal Centro estero del PCI per dare respiro internazionale al movimento antifascista di Tunisia. Le vicende di questo nucleo antifascista sono state ricostruite attraverso l'analisi della stampa, della memorialistica e di una vasta documentazione reperita negli archivi tunisini, italiani e francesi.  
 
 
L'Associazione per i Diritti umani ha intervistato, per voi, Leila el Houssi e la ringrazia molto per queste sue parole.


Lei appartiene a due culture, quella tunisina e quella italiana. Quali sono le differenze e i punti di contatto?

Sono più numerosi i punti di contatto rispetto alle differenze. Sono entrambi Paesi mediterranei, sono vicini geograficamente e la cultura, quindi, è simile. Io non voglio vedere le differenze neanche a livello di popoli, forse sono altri che vogliono coglierle.
 
In che modo la comunità italiana si è integrata in Tunisia nel Passato? E, oggi, qual è il rapporto tra italiani e tunisini?
La comunità italiana si è storicamente inserita nel tessuto sociale tunisino già secoli fa e si tratta di un primo radicamento da parte di una immigrazione regionale (livornesi e siciliani) con delle peculiarità interessanti: i livornesi, ad esempio, erano di origine ebraica-sefardita ed erano una comunità nella comunità, mentre i siciliani – alla fine dell'800, a causa della povertà di un'Italia appena costituita – emigrarono in Nord Africa, in Libia e anche in Tunisia.
Nel corso del 1900 l'integrazione si è verificata anche a livello culturale, non solo territoriale: in molti testi, infatti, si racconta di come alcune comunità di siciliani parlassero una lingua mista di siciliano, arabo e francese.

Bourgiba e Ben Ali: è cambiato qualcosa, in termini di migrazione italiana, sotto questi regimi?

All'indomani dell'indipendenza tunisina, ottenuta nel '56 con Bourgiba, molti italo-tunisini dovettero emgrare verso la Francia. Negli ultimi vent'anni c'è stata un'immigrazione più legata ad aspetti economici: molti italiani, per esempio, hanno investito capitali in aziende tunisine oppure si sono trasferiti nel Paese alla fine della carriera professionale (questo è un fenomeno recente).

Cosa sta cambiando in Tunisia a livello sociale e culturale,a nche a seguito dei due attentati al Museo del Bardo e a Sousse?

Dal 2011 la Tunisia è cambiata molto: il Paese sta ancora percorrendo una transizione democratica perchè si tratta di un processo molto lungo e non facile: il processo è sottoposto a vari tentativi di destabilizzazione, pensiamo anche agli attentati politici del 2013, quando due esponenti sindacalisti sono stati assassinati. Ma è anche vero che la società civile sta lavorando per non essere vittima di queste destabilizzazioni; questo popolo ha vissuto anni e anni di dittatura, repressione e paura e non credo che voglia ritornare a vivere in quella situazione. Ormai la paura è stata spazzata via.

Come commenta l'assegnazione del Nobel per la Pace al quartetto tunisino?

Sono davvero molto felice. Credo che sia un riconoscimento importante perchè questo premio dà al popolo tunisino quella visibilità che merita perchè, per primo, ha rivoluzionato il proprio assetto politico in maniera tranquilla; e poi perchè è anche un riconoscimento, da parte della comunità internazionale, agli sforzi e ai sacrifici fatti per diventare anche un modello per l'intera area nord-africana e preservare tutto quello che è stato ottenuto fino ad ora.






lunedì 19 ottobre 2015

I muri di Tunisi: la Tunisia prima e dopo la rivoluzione



Associazione per i Diritti Umani
PRESENTA

 
il saggio “I MURI DI TUNISI. Scritti e immagini di un Paese che cambia”, di Luce Lacquaniti

ed. Exòrma

 

giovedì 22 OTTOBRE, ore 19

presso

 
CENTRO ASTERIA

(Piazza Carrara 17.1 (ang Via G. da Cermenate,2 MM Romolo) Milano
 

L’Associazione per i Diritti Umani organizza l'incontro nell'ambito della manifestazione “D(I)RITTI AL CENTRO!”.
 

Presentazione del saggio “I MURI DI TUNISI. Scritti e immagini di un Paese che cambia”, di Luce Lacquaniti

ed. Exòrma

Il saggio, a partire dai graffiti realizzati sui muri della città di Tunisi, permette di fare un viaggio in un Paese in grande via di trasformazione politica, culturale e sociale. Si parlerà della Tunisia anche alla luce dell'attacco terroristico e del Premio Nobel per la pace.
 

Coordina: Alessandra Montesanto, Vicepresidente Associazione per i Diritti Umani

giovedì 15 ottobre 2015

I muri di Tunisi: la Tunisia prima e dopo la rivoluzione


Associazione per i Diritti Umani




PRESENTA



il saggio “I MURI DI TUNISI. Scritti e immagini di un Paese che cambia”, di Luce Lacquaniti

ed. Exòrma

 




giovedì 22 OTTOBRE, ore 19

presso



CENTRO ASTERIA

(Piazza Carrara 17.1 (ang Via G. da Cermenate,2 MM Romolo) Milano





L’Associazione per i Diritti Umani organizza l'incontro nell'ambito della manifestazione “D(I)RITTI AL CENTRO!”.



Presentazione del saggio “I MURI DI TUNISI. Scritti e immagini di un Paese che cambia”, di Luce Lacquaniti

ed. Exòrma



Il saggio, a partire dai graffiti realizzati sui muri della città di Tunisi, permette di fare un viaggio in un Paese in grande via di trasformazione politica, culturale e sociale. Si parlerà della Tunisia anche alla luce dell'attacco terroristico e del Premio Nobel per la pace.



Coordina: Alessandra Montesanto, Vicepresidente Associazione per i Diritti Umani



sabato 26 settembre 2015

Rifugiati in Tunisia: tra detenzione e deportazione

Premessa

Negli ultimi mesi abbiamo assistito al tentativo di rilanciare il progetto di esternalizzazione delle frontiere europee. Un piano di esternalizzazione su piú fronti, che sulla carta riguarderebbe sia le politiche di controllo e di intercettazione dei migranti diretti in Europa, -con la firma del processo di Karthoum il 28 novembre 2014 ma già in parte preannunciato nella Task Force per il Mediterraneo partita nel novembre 2013 - sia le politiche di asilo, secondo quanto proposto dal Ministro dell’Interno italiano Angelino Alfano durante il Consiglio “Giustizia e Affari Interni” dell’Unione europea del 12 marzo 2015. La Tunisia, insieme a Egitto, Marocco, Niger e Sudan, viene presentata come uno dei primi “laboratori” in cui dovrebbero venire attivati i progetti di esternalizzazione dell’asilo attraverso l’apertura di campi di “accoglienza” finanziati dall’Unione europea. E la Tunisia sarebbe anche uno dei due paesi, insieme all’Egitto, a cui l’Europa chiederà di impegnarsi in attività di sorveglianza marittima e di Search and rescue. Se così fosse, le imbarcazioni di migranti provenienti dalla Libia verrebbero intercettate dalla Garde Nationale tunisina e i migranti verrebbero trasferiti sul territorio tunisino dove le autorità tunisine verrebbero coadiuvate da OIM e UNHCR nelle procedure di esame delle domande di asilo e nella gestione dei potenziali rifugiati. Obiettivo che, in fondo, l’Unione europea aveva in parte provato a raggiungere nel marzo del 2014, ottenendo la firma della Tunisia sul partenariato di mobilità che tuttavia per il momento resta in fase di negoziazione. Certamente, gli accordi bilaterali tra Tunisia e stati europei, primo tra tutti l’Italia che nel giugno 2014 ha ulteriormente rafforzato i rapporti con la Tunisia in materia di migrazioni, non costuiscono affatto una novità; e, tuttavia, l’attuale progetto di cooperazione con i Paesi terzi sul controllo dell’immigrazione e per l’esternalizzazione dell’asilo, che vede la Tunisia tra i primi stati-laboratorio, sembra indicare un cambio di marcia nella costruzione di uno spazio di pre-frontiere europee. Mentre l’Unione europea sta dunque progettando di rafforzare le proprie pre-frontiere, umanitarie e non, esternalizzando politiche di controllo, campi di detenzione e meccanismi di protezione, alcuni dei rifugiati “diniegati” di Choucha sono ancora al campo, chiuso ufficialmente da UNHCR nel giugno 2013, da ormai quattro anni, chiedendo all’Europa di essere reinstallati in un luogo sicuro.

Il dossier che presentiamo racconta quanto sta accadendo ai migranti e ai rifugiati in Tunisia, in particolare rispetto a coloro che vengono imprigionati nel Centro di detenzione per stranieri di Al Wardia, in un quartiere della periferia di Tunisi.

Dossier sulla situazione del Centro di detenzione per stranieri a Al Wardia, Tunisi (Glenda Garelli, Federica Sossi, Martina Tazzioli)

La situazione del Centro di detenzione per stranieri di Al Wardia è particolarmente allarmante. Sappiamo che ogni mese vi vengono detenuti centinaia di migranti, senza alcuna possibilità di un sostegno legale e giuridico e, per questo, in totale balia dei poliziotti che gestiscono il Centro. I prigionieri con cui siamo riuscite a entrare in contatto telefonico ci hanno descritto una situazione molto critica, dovuta all’assenza di possibili contatti con il mondo esterno, al sovraffollamento delle celle, alla pressione da parte dei poliziotti e ai ricatti subiti per ogni domanda, alla carenza di vere cure mediche, alla situazione di scarso igiene e allo scarso cibo distribuito. Ma il fatto più preoccupante è l’assenza di ogni forma di assistenza giuridica, di modo che tutto ciò che avviene durante la detenzione e dopo è sul piano dell’illegalità. I migranti detenuti a Wardia hanno due possibilità di uscire. La prima consiste nel pagare loro stessi il biglietto per il loro rimpatrio. Segnaliamo, inoltre, che nel Centro vengono imprigionati anche i rifugiati siriani, che, non potendo evidentemente rientrare nel loro paese, sono obbligati a pagarsi un biglietto per la Turchia. Nel Centro, vengono inoltre detenuti anche rifugiati a cui l’Unhcr ha riconosciuto lo status in altri paesi. La seconda possibilità di uscire dal Centro è quella di essere deportati in Algeria. Ogni settimana, infatti, ci sono delle deportazioni durante la notte o nelle prime ore del mattino: i migranti vengono condotti in un posto di frontiera vicino alla città di Kasserine e lasciati dall’altra parte, in una zona desertica. Spesso ci sono casi di morte, perché i migranti si perdono prima di arrivare in un luogo abitato. Siamo venute noi stesse a conoscenza della morte di due migranti di origine somala, con cui eravamo in contatto durante la loro detenzione a Al Wardia e che in seguito erano stati deportati insieme ad altre persone. I sopravvissuti a questa deportazione ci hanno chiamate da una città algerina per raccontarci di questa vicenda. Vicino alla prigione per gli uomini c’è anche un luogo di detenzione per le donne e i bambini. Con questo Centro non siamo riuscite a stabilire un contatto diretto, ma siamo a conoscenza della sua esistenza attraverso le testimonianze dei rifugiati siriani con cui abbiamo potuto parlare e le cui famiglie erano detenute nei locali di quest’altro Centro. Abbiamo tali informazioni perché durante il mese di novembre 2014 siamo state contattate da un rifugiato diniegato del campo di Choucha che era stato imprigionato a Wardia e che avevamo conosciuto in occasione di una nostra visita al Campo. Abbiamo dunque potuto parlare con lui e con altre persone presenti al Centro a più riprese, sebbene ogni volta, dopo le nostre conversazioni al telefono, i migranti siano stati minacciati dai poliziotti. Abbiamo potuto anche mantenere i contatti dopo i loro rimpatri o le loro deportazioni. Abbiamo così raccolto diverse testimonianze di cui qui pubblichiamo quelle che abbiamo potuto registrare e trascrivere.

Intervista a A. dopo il suo rimpatrio (gennaio 2013)

D : Ci puoi descrivere la prigione di Tunisi in cui sei stato ? Vorremmo cercare di capire se sia possibile fare qualcosa per denunciare la situazione e per le altre persone che vi sono ancora detenute.

R: I poliziotti tunisini arrestano le persone straniere per la strada e poi le obbligano a pagare il biglietto per il loro rimpatrio.

D : Nel Centro di Al Wardia ci sono dunque solo migranti, alcuni che sono stati arrestati per strada e altri che arrivano direttamente dalla prigione?

R: Sì. Ci sono stranieri, perché è un Centro per gli stranieri, ci sono i rifugiati siriani che arrivano in Tunisia e anche alcuni rifugiati di Choucha, come me per esempio. All’interno, devi pagare per ogni cosa, se vuoi avere il cellulare, devi pagare 200 dinari. C’è soprattutto un commissario della polizia di frontiera che lavora con la Garde Nationale, è lui che organizza le cose. Dopo essere state nel Centro, le persone vengono deportate verso l’Algeria e vengono abbandonate verso mezzanotte nel deserto, nei pressi della città di Tebessa.

D : Quanti prigionieri c’erano al Centro quando sei arrivato lì?

R : C’erano continuamente nuovi arrivi, i nuovi arrivano il giovedì e la domenica.

D: Ma dove vengono deportati esattamente, in quale città dell’Algeria?

R : Per quanto riguarda l’Algeria non lo so esattamente, so che per quanto riguarda la Tunisia passano dalla città di Kasserine. So che in Algeria li lasciano vicino a una piccola città, subito dopo la frontiera.

D: Ma c’è un accordo tra la Tunisia e l’Algeria per le deportazioni?

R : No, non c’è un accordo, li lasciano lì clandestinamente. Gli danno una bottiglia d’acqua, una baguette e li abbandonano lì.

D: E’ quello che è successo anche ai somali che erano in prigione con te? E dopo che cosa è successo?

R : Alcuni si sono persi nel deserto e sono morti, mentre i nigeriani che erano con loro hanno camminato molto ma alla fine si sono ritrovati di nuovo in Tunisia, con i poliziotti tunisini. Quanto i somali che erano nella mia stessa cella sono stati deportati, i poliziotti mi hanno fatto molta pressione dicendomi che se non avevo i soldi per comperare il biglietto di rimpatrio mi avrebbero deportato in Algeria come avevano già fatto con i miei compagni di cella.

D: Quanto tempo sei rimasto a Al Wardia?

R: Due mesi. A Al Wardia c’erano circa 100 persone, ma bisogna tener conto anche delle persone che sono negli altri quattro Centri. Non so esattamente dove si trovino, io conosco quello di Alaouina ; e per tutti i Centri c’è un unico medico, così, se sei malato, ti dicono che devi aspettare il tuo turno, perché il medico deve andare anche negli altri Centri.

D : Ma nel Centro è possibile avere contatti con l’esterno ? potete tenere il cellulare?

R : Sì, ma bisogna pagare. Nel periodo in cui ero a Al Wardia un mio amico ha avuto la possibilità di avere un avvocato, quando vi aveva contattato e voi l’avevate messo in contatto con un avvocato. Nessuno prima di lui aveva avuto questa possibilità. Il poliziotto gli ha detto che aveva avuto una grande fortuna perché, appunto, nessuno prima di lui aveva avuto un avvocato. L’avvocato che è entrato al Centro ha fatto delle domande e il direttore gli ha risposto che il paese è di tutti, ma che bisogna rispettare le regole. Hanno minacciato l’avvocato, dicendogli che gli avrebbero potuto creare problemi nel caso in cui avesse continuato ad occuparsi del mio amico. Poi, quando l’avvocato se n’è andato, la polizia è venuta nella cella per minacciare il mio amico proprio perché aveva un avvocato e delle persone in Italia che si occupavano di lui e che lo aiutavano. Non riuscivano a capire, gli hanno fatto un sacco di domande rispetto a ciò, sia rispetto al fatto che conoscesse degli italiani sia rispetto al fatto che avesse un avvocato. L’hanno interrogato varie volte, e infine gli hanno detto che doveva comperare il suo biglietto d’aereo, e di farlo in fretta, perché non volevano che un avvocato e altre persone si occupassero di questa cosa. Gli hanno detto che doveva andarsene il prima possibile, perché altrimenti l’avrebbero deportato in Algeria; è per questo che aveva paura e che vi ha chiesto di aiutarlo a comperare il biglietto.

D: Quante persone sono state deportate in Algeria durante il periodo in cui sei stato lì.

R: 26 persone, perché non avevano assistenza giuridica o i soldi per comperarsi il biglietto per il rimpatrio.

D : Solo uomini ?

R: Per quanto riguarda le donne, non lo so, perché erano in un Centro vicino ma io non riuscivo a vederle. Ma per quanto riguarda gli uomini sono sicuro, la Tunisia non è un paese accogliente.

D: E per quel che concerne i rifugiati siriani, che viaggio fanno per arrivare in Tunisia?

R : Arrivano dalla Turchia con l’aereo.

D: E’ per questo che al Centro di detenzione gli chiedono di ritornare in Turchia?

R: Alcuni arrivano dall’Egitto passando attraverso il Libano, oppure arrivano in Libia con la barca. Qui, in generale, i visti hanno una validità di tre mesi, e quando il tuo visto scade bisogna pagare 100 dinari al mese per avere una carta provvisoria. Se sei al Centro di detenzione, per il rimpatrio ti chiedono di pagare l’intera somma che non hai pagato a partire dalla data di scadenza del tuo visto. Per questo l’Oim non riesce a organizzare i rimpatri, perché anche l’Oim secondo le autorità tunisine deve pagare l’intera somma, non solo quella del biglietto. Per quanto ci riguarda, noi di Choucha, che siamo in Tunisia da molto tempo e che adesso non abbiamo i documenti, siamo quasi obbligati a cercare di prendere la barca per andare in l’Italia. Io ho potuto vedere a Zarzis quanto guadagnano quelli che organizzano i viaggi, ho fatto anche dei video nei luoghi di partenza, e ho potuto rendermi conto di quanti soldi guadagnano. Ho scattato foto e ho fatto dei video, e scrivevo. Sono stato anche a Zwara per vedere i contrabbandieri. Di fatto, i giovani partivano. Ma tutti i miei video e le mie foto, ed anche la mia apparecchiatura, sono rimasti nella mia camera a Tunisi. Ero lì quando c’è stato il naufragio di 250 persone, tra cui molti rifugiati di Choucha. Quando le autorità tunisine hanno dichiarato che il campo di Choucha era stato chiuso e che non esisteva più, mentre noi rifugiati diniegati eravamo ancora lì, l’Unhcr non si è più occupata di noi. Siamo a Choucha dal 2011, ma i documenti che ci sono stati dati dall’Unhcr ci creano problemi se incontriamo la Garde Nationale. Ci ritirano i documenti e ci mettono in prigione.

D : L’Unhcr vi diceva di andare in Libia ?

R : No, non ci dicevano proprio nulla. Ci dicevano solo che non potevamo rimanere lì, e che dovevamo organizzarci per rientrare nei nostri paesi.

D : Hai dei contatti con le persone che sono state deportate in Algeria ?

R: Conosco i somali che sono stati deportati e anche un ragazzo che si chiama T. Lui mi aveva chiamato e mi aveva spiegato che in Algeria i poliziotti li mettono in prigione e dopo sei mesi li portano nel deserto tra l’Algeria e il Niger. Una volta arrivati lì, hanno 15 giorni per lasciare l’Algeria, se non se ne vanno di propria iniziativa e a proprie spese allora vengono deportati. Ma ci sono altre persone che vi possono raccontare meglio di me, due nigeriani che erano a Ben Guerdane. Uno di loro, O., può dirvi quello che succede perché loro due erano stati arrestati dalla polizia tunisina perché non avevano il passaporto e sono stati deportati in Algeria con i somali che erano nella mia stessa cella a Al Wardia. Hanno camminato a lungo, e mentre alcuni dei somali sono morti, loro si sono ritrovati di nuovo in Tunisia. La polizia tunisina li ha presi di nuovo, ma ora penso che siano a Ben Guerdane.

D : Dunque, per ritornare a questo episodio, sappiamo che due persone sono morte, ma in quale modo ?

R : Sono morte di sete nel deserto. Se si va da quelle parti con quelli della Mezzaluna rossa, si può trovare il punto in cui sono morti.

D: Ci sono altre persone, oltre ai somali, che sono morte nel deserto ?

R : Sì, molte. Quello delle deportazioni in Algeria è un sistema in atto da molto tempo, ben prima che io fossi portato in prigione. Prima della guerra, le deportazioni venivano effettuate verso la Libia, ma ora, con i problemi in Libia, deportano verso l’Algeria. Le persone deportate vengono lasciate dalla polizia dalla parti del monte Chaambi, il punto in cui ci sono i salafiti e la polizia che li combatte. Il monte Chaambi è vicino alla città di Kasserine.

D: C’erano dei medici nella prigione?

R: C’era un medico che si occupava delle donne e dei bambini. Se hai qualcosa di grave, ti portano direttamente all’ospedale.

D : E né l’Unhcr né l’Oim sono mai venuti a parlarvi ?

R: Mai. C’erano alcuni giovani che chiamavano continuamente Alessandra dell’Oim, ma quelli dell’Oim dicevano che non avevano soldi e quindi che non potevano aiutarli. Io ho il numero di telefono di Alessandra dell’Oim di Tunisi, sul mio cellulare.

D : E quindi voi eravate in contatto solo con la polizia ? Ma chi era in prigione tra le persone di Choucha?

R : Io avevo i documenti dell’Unhcr, il documento che ci hanno dato a Choucha quando siamo arrivati lì.

D : Che cosa si può fare secondo te per denunciare quello che sta accadendo ?

R : Bisogna denunciare quello che fanno, dire che fanno dei rastrellamenti per la strada, e che, dopo, portano le persone nel deserto e li condannano a morire lì. Questo non è possibile, tutti hanno il diritto a vivere. Ho dato le foto che avevo al giornale “Jeune Afrique”, perché conosco qualcuno che vi lavora e ho domandato di pubblicarle. Ho collaborato con Lorena Lando dell’Oim per cercare di capire come si organizzano le persone che vanno in Libia; ad Alessandra dell’Oim di Tunisi ho raccontato tutti i dettagli dei viaggi verso l’Italia e le morti in mare, e lei mi ha risposto che era troppo complicato.

D : Puoi raccontarci meglio com’è la situazione in prigione ?

R : A volte la polizia era violenta nei nostri confronti. A volte ci davano lo stesso cibo per l’intera giornata, e spesso riso cotto male, oppure fagioli con la carne. Sempre le stesse cose. A mezzogiorno riso e la sera couscous, o viceversa. A volte pasta senza carne. Avevo sempre la mia acqua. Non ci lasciano mangiare, non ci danno il bagnoschiuma o il sapone per la doccia. I bagni sono terribili, non vengono puliti mai e le persone possono prendersi delle malattie.

D : Ma le celle sono diverse nel caso in cui qualcuno paghi ?

R : Le persone che devono essere rimpatriate in settimana pagano i poliziotti per avere condizioni migliori e per poter stare in una cella migliore, come ha fatto, per esempio, il signore del Gambia con cui avete parlato.

D : Queste persone hanno il soldi per poter avere una cella migliore ?

R : Se gli dai dei soldi ti mettono in una cella migliore.

D : Ma sempre nella stessa prigione ?

R: Se hai i soldi puoi andare nelle celle migliori, ma solo per una settimana. Quando acquisti il biglietto d’aereo ti mettono in una di queste celle per due settimane sino al momento della partenza. Le persone che vengono arrestate (per esempio, una persona che aveva una ditta e che quindi aveva un po’ di soldi, o i siriani che hanno un po’ di soldi) possono pagare per avere migliori condizioni di detenzione, e vengono spostate in una caserma vicina.

D : Ma sempre nella stessa struttura?

R: Sempre a Al Wardia, ma non nello stesso edificio. Le celle sono nello stesso complesso, ma in un altro edificio, una caserma. Una parte dell’edificio è per la Garde Nationale, e poi c’è un altro edificio. Inoltre: dal momento che i siriani hanno un po’ di soldi, la polizia aumenta il prezzo e così devono pagare di più, e devono farlo in dollari, non in dinari. Ai siriani gli fanno pagare 300 dollari. Nel periodo in cui sono stato lì ci sono state le seguenti deportazioni: 240 siriani deportati in Algeria e 180 in Turchia; dunque, più di 300 persone in totale – dopo cerco il foglio in cui l’avevo scritto e vi dico esattamente.

Grazie mille e grazie per il tuo aiuto. Cercheremo di fare qualcosa. Comunque, restiamo in contatto.

*** Intervista con D.  (febbraio 2013)

D : Conosci dei rifugiati con lo status che sono stati imprigionati a Wardia ?

R : Sì, certo. C’era anche una persona di Choucha con lo status di rifugiato che, a un certo punto, aveva deciso di andare in Libia per partire per l’Italia perché non c’erano soluzioni per la sua reinstallazione. La barca è stata intercettata dalle autorità italiane e dopo la Garde Nationale ha portato i migranti al porto di Sfax. Poi, questo rifugiato di Choucha, B., è stato messo nella prigione di Al Wardia. D : Quando è successo ? R : Non ricordo con precisione, ma verso marzo o aprile 2014.

D : Sei rimasto in contatto con lui mentre era in prigione ?

R : Sì, ho anche contattato l’Unhcr per chiedergli di aiutarlo, dal momento che era un rifugiato. Ma le persone dell’ufficio dell’Unhcr mi hanno risposto che non potevano fare nulla, dal momento che il mio amico aveva fatto una cosa irregolare (prendere la barca dalla Libia per partire come clandestino) e dunque non potevano aiutarlo. L’Unhcr ci tratta come clandestini, anche se non abbiamo altra scelta che quella di andare in Libia e partire con la barca.

D : E cosa è successo nel suo caso ?

R : Nemmeno l’Oim poteva aiutarlo a lasciare il paese, e allora ha chiesto soldi ai suoi amici e ha comperato il biglietto di ritorno, per poter rientrare nel suo paese. Era un rifugiato e tuttavia l’Unhcr non ha fatto nulla per lui.

D: Conosci altri migranti che sono stati imprigionati a Al Wardia ?

R : Sì, anche dei siriani, perché i miei amici che sono lì in prigione mi hanno detto che ci sono i siriani e anche le loro famiglie. Una volta una donna siriana ha messo su facebook la foto di suo figlio che era anche lui in prigione, poi, verso mezzanotte, è arrivata la polizia e non si sa dove li abbiano portati. Anche noi rifugiati ora abbiamo paura, perché si sa che se si viene fermati dalla polizia e portati a Al Wardia dopo si viene deportati in Algeria. Prima la polizia deportava in Libia, ma ora deporta in Algeria. Qualche giorno fa ero all’ufficio immigrazione di Tunisi e la polizia mi ha chiesto il passaporto; ho mostrato il documento di rifugiato, quello dell’Unhcr, ma mi hanno detto che per la Tunisia quel documento non vale nulla e che potevo gettarlo nella spazzatura. Così, siamo in una situazione di totale insicurezza, possiamo essere arrestati dalla polizia in ogni momento.

Intervista con R., rifugiato eritreo soccorso dalla Garde Nationale tunisina (luglio del 2013)

D : quando sei arrivato in Tunisia?

R: Sono arrivato nel luglio del 2013. Sono partito dalla Libia in barca con altri eritrei, dalla città di Zhwara e poi la nostra imbarcazione dopo qualche ora ha cominciato ad avere dei problemi. Siamo rimasti sette giorni in mare, nessuno è venuto a salvarci. Abbiamo chiamato l’Italia, le autorità italiane ma nessuno è venuto. Il settimo giorno siamo stati salvati dalla Garde Nationale tunisina che ci ha portato a Zarzis.

D : E poi cosa è successo? Quante persone erano con te sulla barca?

R: Eravamo 94 persone, tutti eritrei. Quando siamo arrivati la Garde Nationale ci ha trasferito per qualche ore in un luogo a Zarzis, non mi ricordo dove. E poi, dopo forse un giorno, 60 di noi sono stati trasferiti nella prigione di Ouardia. Q: E gli altri? R: Non so, penso a Medenine. Sì, a Medenine.

D: E perchè ti hanno portato insieme a altri a Ouardia e gli altri in un altro luogo?

R: Non lo so, ci hanno diviso in due gruppi ma non conosco il criterio.

D : Eri già un rifugiato quando sei arrivato in Tunisia?

R: Sì avevo ricevuto lo status di rifugiato in Sudan. E anche altre delle persone sull’imbarcazione erano rifugiati come me.

D : Qunto sei rimasto a Ouardia?

R: Piú o meno un mese. Poi, ho chiamato l’UNHCR dicendo che sono un rifugiato e alla fine, dopo un mese, sono riusciti a liberarmi. Penso che tutti siano stati liberati ma io sono l’unico a essere ancora in Tunisia. Gli altri sono tornati in Libia e alcuni di loro sono adesso in Italia.

D : Che cosa ha fatto la polizia a Zarzis?

R: Mi hanno solo chiesto nome e cognome, tutto qui. E hanno portato le prime 60 persone del gruppo, me incluso, a Ouardia.

D : Quindi adesso hai il certificato di rifugiato rilasciato dall’UNHCR?

R: Sì, guarda, è questo documento. Ma non serve a niente in questo paese. Vivo qui in un quartiere periferico di Tunisi, consapevole che la polizia mi può arrestare in ogni momento. Non hai nessun diritto qui in Tunisia come rifugiato. Quando l’UNHCR mi ha aiutato ad uscire da Ouardia, poi mi hanno detto: è meglio se vai via perchè qui non puoi fare niente. Q: Ti hanno detto di tornare in Libia? R: No, non hanno detto questo. Ma hanno detto che devo costruire la mia vita autonomamente, dal momento che il documento da rifugiato qui non mi dà niente.

domenica 16 agosto 2015

La legge di ferro in Tunisia contro il terrorismo




Introduzione della pena di morte per i reati contro come “l'omicidio dei cittadini stranieri”: questo è uno dei provvedimenti inseriti da pochi giorni del sistema legislativo tunisino a seguito dell'attentato a Sousse e del massacro dei turisti, soprattutto occidentali.

La norma è stata approvata quasi all'unanimità: sia da Nidaa Tounes, il partito che guida il governo, sia da Ennahda (che fa parte dell'esecutivo ed è di impronta islamista), solo 10 astensioni.

La pena di morte è già prevista nel codice per i reati di omicidio e altri venti delitti, ma bisogna riscontrare che l'ultima esecuzione risale al 1991 e che non sia stata mai presa in considerazione nemmeno sotto il regime di Ben Ali, quindi la nuova legge risulta eccezionale. A quanto pare la Tunisia si sente fortemente indebolita di fronte agli attacchi degli jihadisti e il Parlamento ha deciso di prendere questa misura per contrastare il terrorismo.

A questo bisogna aggiungere anche un altro fatto: subito dopo l'attentato nella località di mare e di villeggiatura, il Premier, Habib Essid, ha sostituito il capo della commissione che dirige e monitora i luoghi di culto con Othman Battik, già gran Muftì al servizio di Ben Ali: con questa sostituzione sono state chiuse 83 moschee arbitrariamente, senza un collegamento accertato tra le persone che le frequentavano e i terroristi.

E' vero che in Tunisia siano molto carenti i servizi di sicurezza quali polizia o intelligence, ma questa è davvero una legge emergenziale che rischia di minare i diritti fondamentali come quello di poter professare la religione.

sabato 4 luglio 2015

Isis, il nemico perfetto: una conversazione con Amedeo Ricucci




Anche alla luce degli ultimi attentati in Francia, Tunisia, Kuwait e Somalia l'Associazione per i Diritti Umani vi propone l'intervista che ha realizzato al giornalista Amedeo Ricucci, partendo dal suo reportage dal titolo: Isis, il nemico perfetto, con interviste a Olivier Roy, David Cockburn, Renzo Guolo, Fabio Mini, Marco Minniti, Theo Padnos, Hamza Piccardo, Luca Bauccio, Daniele Raineri e tanti altri. In esclusiva, inoltre, l’intervista a due “pentiti” dell’ISIS ed un reportage sull’“autostrada del jihad”, che dall’aeroporto di Istanbul porta ad Akcahkale, la porta turca di ingresso al neo-Califfato.





Ringraziamo molto Amedeo Ricucci.





Da Isis a Is: il nome è cambiato e questo cosa significa?



E' stato un cambiamento che si è costruito nel tempo, anche nel silenzio dell'Occidente, quando lo Stato islamico di Iraq e del Levante (cioè la grande Siria) si è costituito nel 2013: lo ricordo bene perchè, in quel momento, ero sequestrato in Siria da un gruppo armato che aveva dichiarato la propria affiliazione all'Isis quel giorno.

L'Isis, per un anno, si è confuso in mezzo agli altri gruppi che si sono ribellati al regime di Assad e poi ha svelato la sua vera natura, ovvero quella di voler creare uno Stato islamico ispirato a una visione particolarmente conservatrice dell'Islam, in Iraq e in Siria. Il passo successivo in questa direzione è stata la dichiarazione di costituzione del Califfato islamico (che è la prima forma di organizzazione statale che l'Islam combattente si è data): il Califfato è stato dichiarato a giugno, dopo che le milizie dell'Isis di al Baghdadi hanno attaccato la provincia frontaliera tra Iraq e Siria - la provincia dell'Anbar - e a giugno sono riusciti a conquistare Mosul, che è la seconda città dell'Iraq. E non dimentichiamo, infine, che il Califfato per sua natura ha un progetto espansionistico.


Quali sono gli argomenti principali che non vengono trattati nella maniera corretta dalla stampa italiana e internazionale?


Nel documentario pongo l'accento sul fatto che l'Isis è il frutto dei nostri errori politici e militari.

Se non ci fosse stata la guerra in Afghanistan prima e dopo la guerra in Iraq - con tutti i danni collaterali e cioè con l'idea da parte dei musulmani integralisti che noi siamo truppe di infedeli che hanno calpestato la terra sacra - probabilmente non ci sarebbe stata questa recrudescenza dell'Islam radicale. Il Califfato è l'ultima delle aberrazioni dell'Islam radicale e, per Islam radicale, intendo l'Islam che si dà una strutturazione politica e che intende diventare un attore fra gli attori internazionali.

La seconda cosa che si dice nel documentario è che l'Isis (o Stato islamico) è anche lo specchio delle nostre psicosi: l'uso dell'arma del terrore fatto dal Califfato ha scatenato le paure dell'Occidente. Questa paura è stata molto amplificata dai mass-media, è stata confusa con un'altra paura che è quella degli immigrati che potrebbero invaderci e il risultato sono state situazioni ridicole come, ad esempio, il fatto che a Porto Recanati, lo scorso febbraio, siano state allertate le forze dell'ordine perchè c'era una bandiera dell'Isis in uno stabile per poi scoprire che si trattava di uno straccio nero...L'Isis rappresenta un pericolo, ma va affrontato con intelligenza e lucidità.

Un altro elemento importante a cui ho dedicato molto tempo nel film, è l'uso perverso che l'Isis fa della comunicazione e gli errori che i media, europei e occidentali, fanno nel diventarne il megafono.

A partire dall'agosto del 2014, l'Isis ha cominciato ad usare l'arma del terrore in modo sempre più perverso: decapitazioni di giornalisti, decapitazioni di massa in Iraq, in Siria e tutte quelle esecuzioni sono state sceneggiate ad arte, secondo un copione ben preciso. Tute arancioni, passamontagna, coltelli e messaggi. I media occidentali hanno ripreso questi video e li hanno trasmessi senza capire che, così facendo, li avrebbero moltiplicati. In questo modo l'Isis è riuscita a intrufolarsi nelle nostre coscienze perchè noi l'abbiamo rappresentata più volte come un'entità invincibile, terribilmente capace di cose atroci e dotata di un potere di vita e di morte su tutti noi. Invece dobbiamo smontare questo mito.



Il nemico perfetto” è un titolo provocatorio...



Sì, è provocatorio nel senso che è un nemico che di fatto ci fa comodo. E' un nemico che mette a fuoco una serie di nostri difetti. Sul piano delle forze militari, il pericolo dell'Isis è un pericolo “irrisorio” perchè stiamo parlando di 40/50mila miliziani che, se i Paesi occidentali mettessero insieme gli eserciti, potrebbero essere sconfitti facilmente. Ma non lo si fa perchè, quella dell'Isis, è una guerra asimmetrica, di guerriglia ed è complicato bombardare i posti dove si è arroccata perchè ci sono i civili. Ma il problema di fondo è un altro: non è chiudendo la partita con l'Isis che risolveremo il problema del radicalismo islamico.

Nel documentario c'è un'intervista al politologo francese, Olivier Roy (che si occupa da trent'anni di Islam radicale) il quale dà dell'Isis una versione particolare: secondo Roy, il jihad (la guerra santa) corrisponde al mito della rivoluzione degli anni '60-'70 in Italia e in Francia. Buona parte della gioventù italiana credeva nel mito della rivoluzione e, in nome di quel mito, alcuni di loro hanno impugnato anche le armi e da questo sono nate le Brigate Rosse. Il radicalismo islamico non ha nulla a che vedere con l'Islam tradizionale, ma è una scelta militante; è gente che spesso si è convertita all'Islam (il 25% sono foreign fighters), sono cittadini europei e occidentali che, nel giro di tre o quattro mesi, vanno a combattere. Non è una scelta religiosa, è una scelta che matura in rete e che, come detto, ha altre basi.



Per vedere il documentario: http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-a5448a35-e393-4a2c-8d8f-a28a5e3c0621.html

martedì 30 giugno 2015

I muri di Tunisi: quando anche le pietre parlano di cambiamento





Pubblicato grazie ad un'operazione riuscita di crowfunding, I muri di Tunisi. Segni di rivolta (per Exòrma Edizioni con la prefazione di Laura Guazzone) rappresenta una lettura originale del complesso periodo di “transizione” della Tunisia tra la rivoluzione del 2011 e le elezioni del 2014.
L’autrice, Luce Lacquaniti, traduce e commenta le scritte e le immagini nelle piazze e nelle strade della città di Tunisi i cui contenuti sono gli stessi che vengono discussi nelle case, a scuola, nell’assemblea costituente, sui giornali, nei negozi e nei caffè.



L'Associazione per i Diritti Umani ha intervistato Luce Lacquaniti e la ringrazia molto per la sua disponibilità.




Perché la scelta di parlare della Tunisia di oggi attraverso le scritte e le immagini sui muri?



La scelta deriva in parte dalla mia formazione e in parte dalla straordinarietà del materiale stesso in questione. Mi spiego. Sono laureata in Lingue e civiltà orientali e sto per prendere una seconda laurea in Interpretariato e traduzione. Quindi, di base, sono un'arabista, con un percorso di studi soprattutto linguistico. Però sono anche appassionata di fumetto, illustrazione e arti visive in generale (sono diplomata alla Scuola romana dei fumetti) e, da diversi anni, ho il pallino di leggere e fotografare le scritte sui muri di qualsiasi città, a partire dalla mia, Roma. Infine, mi interessa la politica in quanto cittadina del mondo, e mi interessa la politica del mondo arabo in quanto l'ho studiato e ci ho vissuto.

In Tunisia, in particolare, ho vissuto stabilmente nel 2012-2013 per approfondire lo studio dell'arabo. Ma ci ero già stata nel 2010, prima della rivoluzione (che è avvenuta tra dicembre 2010 e gennaio 2011), e ci sono tornata un'infinità di volte dal 2013 a oggi. È stato un periodo di particolare fermento, che si è esplicato anche sui muri – prima della rivoluzione, essenzialmente bianchi. Il nuovo mezzo d'espressione, quindi, ha attirato la mia attenzione sotto più punti di vista: linguistico, artistico, politico. In particolare, una volta tornata in Italia, riesaminando il materiale fotografato a Tunisi, mi sono resa conto di come vi si rintracciassero tutte le tappe della travagliata vita politica tunisina di questi ultimi anni. Eventi, fazioni, problemi sollevati, contraddizioni. Sono convinta che il periodo 2011-2014 in Tunisia interessi il mondo intero, perché si tratta della cosiddetta “transizione” dopo una rivoluzione che ha scatenato trasformazioni in un'intera area del mondo e perché, allo stesso tempo, vi sono istanze, rappresentate in quei segni, che sono universali. Per di più, quella che avevo tra le mani era una documentazione dal basso, anti-istituzionale e anti-mediatica, cosa che la rendeva, a mio parere, ancora più preziosa. Specie in un periodo in cui sul mondo arabo-islamico si chiacchiera tanto, senza preoccuparsi di ascoltare la voce dei diretti interessati. Tantomeno nella loro lingua. È così che ho pensato di corredare le foto di traduzioni e commenti e di raccogliere tutto in un libro.  
 





Ci può illustrare i temi principali che vengono espressi da quei muri? E cosa indicano le scritte a proposito delle aspettative della società civile?



Il libro si struttura proprio secondo i diversi temi discussi sui muri. Il primo capitolo, ad esempio, affronta il concetto di rivoluzione e la sua evoluzione nel discorso pubblico dei tunisini: dall'esultanza, agli scontri ideologici, alla disillusione, alla chiamata a una nuova rivoluzione. Una foto del 2012 che cattura scritte di diverse mani, ad esempio, è particolarmente emblematica: a qualcuno che esclama “Viva la Tunisia libera e democratica”, qualcun altro risponde “I rivoluzionari dicono: non potete prenderci in giro”, mentre un terzo chiosa “Non c'è altro dio all'infuori di Dio e Maometto è il suo profeta”. In una sola immagine troviamo l'entusiasta, lo scettico-antagonista e l'islamista, che inizia ad affermare la propria presenza sulla scena politica. Altri capitoli passano in rassegna i principali slogan del periodo e le dichiarazioni di affiliazione politica. Un capitolo è dedicato alla questione femminile e un altro all'islamismo, con i suoi fautori e i suoi oppositori – e qui va ricordato che la maggior parte del periodo di transizione del paese ha visto la guida del partito islamista moderato Ennahdha. Altri capitoli ancora trattano i rapporti tra la Tunisia e il resto del mondo arabo (e non arabo), e i diversi volti della repressione: dall'odiata polizia, alla censura, al cyberattivismo, al ruolo degli ultras nelle rivolte, alla legge-paravento che criminalizza il consumo di marijuana per colpire i dissidenti. Infine, i capitoli finali presentano alcuni collettivi di writer che hanno segnato i muri di Tunisi, ciascuno dandosi uno scopo e uno statuto ben preciso. C'è perfino chi ha scritto un manifesto artistico, come il gruppo Ahl al-Kahf. La nascita di questi movimenti mi sembrava qualcosa da indagare in maniera specifica.  


Da tutto questo emerge, nel complesso, una grande vitalità culturale e la voglia di dire la propria, da parte di tutte le componenti della società civile, nessuna esclusa. I tunisini chiedono a gran voce la fine dell'odiosa repressione – si va dalla scritta che denuncia il tale episodio di violenza durante una manifestazione, a quella che chiede la verità sugli omicidi politici di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi del 2013; denunciano la mancanza di trasparenza delle istituzioni – e qui si apre il discorso sulla scrittura della nuova costituzione, nonché sulla cosiddetta “giustizia di transizione”, legata ai processi dei martiri e feriti della rivoluzione e tema ricorrente del gruppo di writer Molotov; infine, i tunisini chiedono anche e soprattutto giustizia sociale, lavoro e lotta alla povertà: il gruppo che si firma Zwewla (“i poveri, i miserabili”), ha fatto di quest'ultimo punto la sua bandiera. Il quadro che ne esce è quello di una rivoluzione incompiuta, ben sintetizzato dal tormentone degli stessi Zwewla “Il povero è arrivato alla fonte ma non ha potuto bere”. Un quadro che, in parte, si discosta dal mito a cui ci hanno abituato, quello per cui la Tunisia sarebbe “l'unico paese in cui la primavera araba è riuscita”.



Quali sono i segni e le parole ricorrenti e quali sono quelle che l'hanno colpita di più?



Tra le parole più frequenti c'è sicuramente “il popolo”: “il popolo vuole questo, il popolo vuole quest'altro”. Il famoso slogan “Il popolo vuole...”, poi rimbalzato negli altri paesi arabi, richiama un verso del poeta nazionale tunisino Aboul Qacem Echebbi. Ma la cosa magnifica è che, sui muri di Tunisi, chiunque può scrivere “Il popolo vuole” seguito da qualsiasi cosa e il suo contrario. Sintomo di sano confronto: l'importante è che il popolo continui a volere qualcosa, e soprattutto che lo dica.

A colpire a prima vista è l'uso ricorrente di sofisticati giochi di parole, ironia tagliente, metafore, citazioni poetiche e veri e propri punti di riferimento estetici e filosofici, a volte esplicitati, a volte no. Spesso scritte e disegni sono tutt'altro che improvvisati e stupiscono per ricerca stilistica e concettuale. Tra le frasi che mi hanno più colpito ce n'è una, scritta evidentemente da un cittadino elettore e rivolta ai parlamentari scalatori di poltrone: “Noi non siamo ponti da attraversare”. Indimenticabile anche la domanda “Ci avete visti?” posta, attraverso un fumetto, da una sagoma di manifestante in rivolta con la benda sull'occhio, proprio sulla sede del sindacato. Si riferisce al giorno in cui la polizia sparò sulle teste dei manifestanti inermi della città di Siliana con munizioni da caccia, togliendo la vista per sempre a decine di persone. Ma, in una metafora che ribalta il concetto di cecità, qui i veri ciechi, messi sotto accusa, sono i vertici dello Stato. E poi uno stencil del gruppo Ahl al-Kahf riferito all'attuale, ottantottenne, presidente della Repubblica tunisino, Béji Caïd Essebsi, seppure realizzato profeticamente nel 2011: “Non posso sognare con mio nonno”.



Cosa è cambiato nel Paese tra il 2011 e il 2014?



Come viene anche riflesso sui muri, la Tunisia nel 2011 e nel 2012 è stata un'esplosione di voci, un luogo di dibattiti tra fazioni opposte, spesso trasformatisi in accesi scontri, una fucina di associazioni, progetti autogestiti, gruppi artistici, iniziative culturali. Un inno alla libertà d'espressione che sarebbe stato impensabile prima della rivoluzione, quando vigevano il partito unico e il controllo statale su qualsiasi spazio d'azione, fisico o virtuale. Da fine 2012 – inizio 2013 ho visto farsi strada la frustrazione e la disillusione. Il 2013 è stato l'anno della crisi, l'anno che ha visto, tra le altre cose, l'ascesa del terrorismo islamico, due omicidi politici con le conseguenti crisi di governo, e la crescente stanchezza dei tunisini nei confronti di un governo sempre più incapace di far fronte ai problemi socioeconomici del paese – che, nel frattempo, aveva contratto un debito miliardario col FMI. Il 2014 è proseguito su una scia di depressione generale e progressiva stagnazione del dibattito pubblico. Alla paura del fanatismo religioso e dei gruppi armati a esso connessi si è affiancata la paura che lo stato rispondesse con la logica della sicurezza o addirittura con una nuova svolta autoritaria. Le elezioni del dicembre 2014 sono state boicottate dai giovani, e hanno visto confrontarsi gli islamisti di Ennahdha con il “nuovo” partito Nidaa Tounes, che raggruppa anche membri dell'ex-regime, e che è attualmente al governo. Il fermento culturale degli inizi è andato scemando. Perfino i muri stanno tornando bianchi. Come se non bastasse, l'attentato del Bardo del marzo 2015 ha inferto un duro colpo all'economia tunisina, che tentava timidamente di riprendersi, contando sul ritorno della stabilità politica. I problemi che avevano scatenato la rivoluzione, ovvero la povertà, la disparità di trattamento delle regioni interne della Tunisia (ricche di risorse ma escluse dagli investimenti dello Stato, e non a caso teatro della rivoluzione), la disoccupazione e la corruzione generalizzata, non sono stati superati, anzi si sono, se possibile, aggravati, complice la crisi finanziaria globale. In compenso, si è acquisito un grado di libertà d'espressione mai visto prima (pur con tutte le riserve del caso). La mia speranza è che di questo periodo di apertura e di fermento possano fare tesoro i tunisini, per portare avanti un cambiamento all'interno della società dal basso, a lungo termine, e forse al di fuori delle istituzioni.

martedì 16 giugno 2015

Riscatto mediterraneo. Voci e luoghi di dignità e resistenza






E' giunto alla sua seconda edizione il saggio di Gianluca Solera, dal titolo Riscatto mediterraneo. Voci e luoghi di dignità e resistenza (Nuovadimensione Editrice) mostra e approfondisce come, in quest'area del mondo, sia in atto un grande cambiamento, con il tentativo di affermare un nuovo progetto culturale, sociale e politico. Ma per capire bene di cosa si tratti, abbiamo rivolto alcune domande all'autore e lo ringraziamo per le sue parole.




Su quali basi si potrebbe ipotizzare un nuovo percorso politico e sociale nei Paesi mediterranei delle rivoluzioni?



Credo che dobbiamo pensarci in termini transmediterranei, per costruire un percorso politico e sociale comune verso una cittadinanza mediterranea. Non pensiamoci come «Paesi delle rivoluzioni», da un lato, e «Paesi della stabilità», d’altro lato; pensiamoci come «Paesi in transizione», interessati da una crisi di Sistema diffusa, e che hanno un’opportunità storica di costruire uno spazio e un destino comuni, rimettendo in discussione le nostre rispettive perifericità. Più periferie che si guardano negli occhi e lavorano insieme ridiventano un centro. Parlare oggi di integrazione mediterranea è purtroppo ancora politicamente scorretto, per questo abbiamo bisogno di partire «dal basso», attraverso iniziative cittadine che lavorano per un Mediterraneo quale spazio di pace, sviluppo, giustizia sociale e convivenza. Abbiamo bisogno di accordare una tabella di marcia politica e culturale, nella quale integrare quegli organismi e quelle iniziative associative che credono nella visione del Mediterraneo come «casa comune». Il processo è advocacy - oriented, mira a coltivare una cultura di pensiero e azione comuni a tutti i cittadini del Mediterraneo, e persegue l’obiettivo di creare una rete della società civile trans-mediterranea, con le sue strategie e i suoi strumenti di azione.



Qual è il suo concetto di «dialogo»?



Per me «dialogo» significa relativizzare le nostre identità e cercare ciò che ci accomuna nel bene (valori comuni, buone pratiche, buone politiche) e nel male (cause strutturali di instabilità, ingiustizie, mali sociali atavici). Cosa voglio dire con questo? Che un dialogo interculturale che pone al centro dell’attenzione le nostre identità non fa altro che legittimare l’utilizzo manipolativo delle stesse. Con la Primavera araba ci siamo resi conto che il problema, la sorgente delle tensioni e delle divisioni non era il fatto che fossimo diversi, con identità religiose e culturali diverse; il problema erano gli squilibri nelle garanzie cittadine, le differenze nell’accesso ai diritti sociali, economici, politici e ambientali. Ovvero, la rabbia popolare delle masse arabe e le proteste dei giovani europei che puntavano il dito sulla crisi di legittimità del Sistema nei loro Paesi hanno mostrato che lo scontro vero non è tra cristiani o musulmani, secolari o religiosi, bensì tra ricchi e poveri, potenti e oppressi. Mentre si brandiva l’arma del dialogo tra le culture, non ci si accorgeva che la cultura si era già decomposta. Il sociologo francese Alain Touraine lo spiega bene, denunciando il fatto che la cultura ha perso la sua qualità di sistema di interpretazione della realtà perché la globalizzazione si è appropriata dello spazio tecno-economico, contribuendo a frammentare il mondo in identità. Le culture non interferiscono più nei termini della produzione, del consumo e della razionalizzazione sociale, anzi, questi ultimi sembrano essere diventati la chiave esclusiva del progresso umano. È tra «culture» che interpretano la realtà che dobbiamo costruire il dialogo.



In quali Paesi si riscontra un nuovo accesso ai diritti?




Sicuramente nella Tunisia attuale, o nella Libia e nell’Egitto pre-scontro secolari – islamici, in cui si moltiplicò l’associazionismo e la stampa libera. Preferirei però parlare di affermazione di una nuova «cultura diffusa dei diritti», più che di acquisizione di un riconoscimento giuridico-politico degli stessi, che conosce avanzamenti e regressioni. L’idea che legalità e giustizia non sempre coincidano ha alimentato l’affermazione di questa cultura diffusa dei diritti, che in alcuni alcuni paesi si limita ai diritti politici e di espressione, in altri coniuga questi con i diritti sociali, economici e ambientali. Perfino in Siria vi è stato questo salto di qualità, e nelle zone liberate dal regime di Damasco e non cadute sotto l’influenza dello Stato Islamico si moltiplicano le iniziative associative, di solidarietà e di riorganizzazione della comunità, anche con elezioni amministrative locali. E poi la Grecia, la Spagna, la Bosnia. Se prendiamo il partito Syriza, ad esempio, questo è il prodotto di un tessuto di numerosissime pratiche della solidarietà, della resistenza civile e della partecipazione dal basso che si è diffuso negli ultimi anni in Grecia, e che ha cercato di preservare o allargare spazi di diritto sempre più compressi dagli imperativi dell’austerità finanziaria e della governance verticale.



Nel suo libro si occupa anche del tema delle migrazioni: ci può anticipare la sua opinione ?



Sono per l’integrazione mediterranea, e dunque per una graduale abolizione degli ostacoli politico-amministrativi alla mobilità delle persone nella regione. Oggi, l’Europa ha bisogno degli immigrati per difendere l’idea originale di integrazione per un futuro di libertà e solidarietà condiviso. Chiudendo le sue frontiere e confondendo mezzi con fini (si vogliono distruggere i barconi senza voler legalizzare i flussi migratori), l’Europa uccide il sogno stesso che ha portato le sue nazioni a superare le divisioni e ad abbattere le frontiere. Abbiamo bisogno degli immigrati per dimostrare che il sogno europeo è capace di vincere paure ed egoismi, che siamo tutti pronti ad un patto di solidarietà come quello sottoscritto, dopo la caduta della Repubblica democratica tedesca, da un popolo tedesco che era stato diviso dal Dopoguerra. E l’Italia, questo patto di solidarietà, deve proporlo, esigerlo e costruirlo, se vuole dimostrare di conoscere la sua storia, fatta di migranti e viaggiatori, e di ambire a guidare una ritrovata centralità politica, economica e culturale mediterranea, da cui il nostro Paese non potrà che trarre motivi di riscatto dalla crisi attuale. È questa la vera risposta da dare all’instabilità libica, alla mafia dei barconi, alla crisi economica e alla ricerca di una vita migliore da parte di siriani, nigeriani o subsahariani. Come gli italiani cercarono fortuna in altri continenti partendo alla ricerca di un lavoro, così dobbiamo noi non solo offrire corridoi sicuri per chi fugge dal proprio paese per ragioni politiche, ma anche opportunità di sperimentarsi nel mondo del lavoro e dell’impresa.



Al centro del dibattito si pone, per motivi che conosciamo, la Libia: qual è la situazione, oggi, nel Paese e quali sono le ripercussioni per l'Europa?



Le informazioni che ho sulla situazione locale sono spezzettate, l’ultima volta che sono stato fisicamente in Libia è stato nel dicembre del 2012, ma gli amici attivisti di Bengasi o Tripoli chiedono unità e riconciliazione al di là degli interessi politici delle parti. Sebbene il parlamento di Tobruk sia quello legittimamente eletto alle elezioni del 25 giugno 2014, e che la diatriba giuridica seguente attorno alla legittimità delle elezioni è stata alimentata dalla parte perdente, i partiti di ispirazione religiosa, non credo che riconoscere e sostenere unilateralmente a livello internazionale una parte «laica» (l’autorità di Tobruk) aiuti alla riconciliazione. D’altronde, alle elezioni del giugno 2014 votarono solo il 18% degli aventi diritto, dato che denotava un generale disgusto per l’incapacità delle forze politiche di soddisfare le aspirazioni della rivoluzione. Il ruolo di mediazione giocato attualmente dalle Nazioni unite è essenziale. Ho l’impressione un certo appoggio incondizionato all’autorità di Tobruk risponda a vecchie logiche, le stesse che hanno significato in passato cooperazione rafforzata con i dittatori arabi per proteggere l’Europa da profughi e terroristi. Islam politico non significa necessariamente Stato islamico o al-Qāʿeda (il Consiglio nazionale che ha sede a Tripoli, che include i Fratelli musulmani e non riconosce l’autorità di Tobruk, combatte contro le postazioni libiche dello Stato Islamico); dobbiamo saper distinguere e valorizzare il riavvicinamento tra parti politiche non legate al regime precedente, se vogliamo assicurare un futuro democratico al Paese e la stabilità regionale - che vuol dire anche controllo del traffico delle armi, rispetto dei diritti umani e naturalmente gestione razionale e condivisa dei flussi migratori. Non possiamo capire il fenomeno dei profughi senza analizzare la decomposizione degli Stati del pourtour mediterraneo a causa dei violenti regimi precedenti, che hanno lasciato in eredità società svuotate dei suoi corpi intermedi, l’erosione strisciante della classe media, una povertà spaventosa, lo sfacelo del sistema educativo e il fanatismo religioso.

venerdì 22 maggio 2015

25 anni di mondo dagli schermi di Milano


di Ivana Trevisani, da 25 anni con piacere fedele al Festival


 

Il “Festival del Cinema Africano d'Asia e America Latina” anche quest'anno si è riaffacciato agli schermi milanesi e si è presentato con un compleanno speciale, venticinque anni, un quarto di secolo, di vita sua e di quella del pubblico che con affetto lo ha seguito lungo tutto questo periodo e ancora lo segue.

Non a caso il termine Vita, perchè di questo si tratta e ogni anno puntualmente si ripete: incrocio di vite, delle organizzatrici e degli organizzatori, delle persone sedute davanti allo schermo o davanti alle registe ai registi negli incontri aperti, e quelle restituite dallo schermo, più o meno lontane nello spazio e a volte nel tempo, ma riconsegnate nel presente dal loro dipanarsi nelle trame di film, lunghi o corti, e documentari.

Già dall'apertura si poteva intuire la scelta, anche per quest'anno, di condurci nella storia delle quotidianità, argomento poco visitato, anzi spesso ignorato dall'informazione formale. Ha aperto il festival il lungometraggio “Taxi Teheran” dell'iraniano Jafar Panahi, Orso d'oro all'ultima Berlinale; il regista che non può lasciare il suo Paese per vent'anni a causa del suo impegno di dissenso politico, diventando lo stesso taxista- personaggio del film, riesce attraverso i variegati passeggeri che si susseguono e dei loro squarci di storie comuni, a darci conto delle storture di un regime soffocante.

Immagini inattese della Tunisia, nel quotidiano pressochè sconosciuto in cui non sono i fantasmi del terrorismo ad agitare le vite, quanto problemi ordinari, ma non meno difficili da reggere, sono state offerte da “Le challat de Tunis” della regista Kaouther Ben Hania, che con sarcasmo e ironia, attraverso la ricostruzione della vicenda dell'aggressore seriale “lametta” (challat, appunto) restituisce i conflitti di genere nella società tunisina. Immagini inattese sono state date anche dal regista Lofti Achour, che con il cortometraggio “Père” affronta il tema della paternità, vera o presunta, una questione difficile da affrontare e gestire non solo nella cultura e società arabe, del resto.    



Restando nel vicino scenario di un'altra delle rivoluzioni che nella primavera del 2011 hanno scosso parte del mondo arabo mediorientale, il giovanissimo cineasta egiziano Yasser Shafie grazie al suo corto ma incisivo “The dream of a scene (Il sogno di una scena)”, rende con uno sguardo maschile di apprezzabile sensibilità, il forte radicamento - più culturale che religioso nel mondo arabo - come un nodo più stretto del nodo dei capelli femminili e del loro significato profondo nelle stesse donne. E non è tuttavia mancato il richiamo all'ironia che anima la cultura egiziana, affidato ai tredici minuti del cortometraggio del cairota Khaled Khella “130 km to Heaven (A 130 km dal paradiso), che riesce con umorismo solo velatamente amaro a sbugiardare l'abbaglio di stili di vita dorata veicolato da certo turismo occidentale.

Passage à niveau (Passaggio a livello)ci sposta poco più in là, sia geograficamente che tematicamente: l'algerino Anis Djaad infatti ci cala nel dramma della perdita di un lavoro più che trentennale e accomuna i due personaggi del cortometraggio nella scala socioeconomica, come ultimo e penultimo.

Restando nella stessa area geografica, ancora grandi traversie che sfiorano e a volte intrecciano la tragedia, in piccole comuni storie di vita nella realtà sia rurale che urbana del Marocco odierno: ce le hanno presentate la regista Tala Hadid con il suo The narrow frame of midnight (La cornice stretta della mezzanotte)che affrontando un dramma dilagante nel paese, patito da molte adolescenti, riesce ad incuneare nel racconto la connivenza e la responsabilità di deprecabili trafficanti europei. E “L'homme au chien (L'uomo con il cane)del regista Kamal Lazraq che mostra la crudeltà umana alimentata dal degrado sociale di ghetti ai margini nientemeno che della capitale Casablanca.

Ci spostiamo in una dimensione geografica molto lontana, nel Sudafrica del cortometraggio “Lazy Susan (Vassoio girevole)di Stephen Abbott, ma in una dimensione di difficoltà umana tra l'arroganza di un cliente e un meschino furto degli spiccioli di mance quotidiane. Sempre nel sud dell'Africa, in Angola, il cortometraggio “Excuse Me I Disappear (Scusatemi se sparisco)di Michael Mac Garry, già nel titolo anticipa la cifra di assurdità della non esistenza di un anonimo spazzino comunale, che scompare nell'anonimia e sperequazione socio economica del quartiere irreale in cui il lavoro lo porta ogni giorno.

I dodici minuti di “Discipline (Disciplina) dello svizzero-egiziano Christophe M. Saber, riportandoci appena oltre il nostro confine verso nord, rendono con straordinaria efficacia la babele non solo linguistica nel microcosmo svizzero di un supermercato, dove le incomprensioni linguistico-culturali generano fraintendimenti che alimentano una rissa dall'evoluzione esponenziale.

The Monk (Il monaco)del birmano The Maw Naing, sembra spostarci in una dimensione quasi irreale di ascetismo, ma le vicende umane oltre che spirituali del monastero nel cuore della foresta birmana e l'inatteso, breve incontro con la realtà urbana, lo rendono più concreto.

E per concludere, lasciandoci aperti al proseguo delle vite, i film hanno mostrato l'irrisolto di tragedie, troppo spesso archiviate o mal-trattate dal sistema mediatico, restando ferite non riemarginate e pronte a riaprirsi, seppure in forme diverse, attraverso l'intero mondo: dalla Haiti di “Meurtre à Pacot (Omicidio a Pacot)di Raoul Peck che scavando nelle macerie e nei sentimenti dei personaggi, ci rammenta di come le catastrofi ambientali, il terremoto nella fattispecie, colpiscano non solo nel momento dello scoppio, ma si insinuino tra le crepe dei muri e delle vite che vi si aggirano, mettendo a nudo i risvolti peggiori delle persone. Alle zone dell'Africa subsahariana già attraversate da sanguinosi conflitti interni ormai dimenticati dall'attenzione mediatica, in cui il cortometraggio “Umudugudu! Rwanda 20 ans après Umudugudu! Rwanda 20 anni dopo)dell'italiano Giordano Cossu ci conduce nell'esplorazione delle situazioni latenti e non concluse di un paese uscito dalla tragedia ma non dal rischio del suo riesplodere. O il lungometraggio del burkinabé Sékou Traoré “L'oeil du cyclone (L'occhio del ciclone), presentato in prima europea, che ci ricorda le bombe ad orologeria degli ex bambini soldato, diventati adulti mai recuperati dal danno del condizionamento che hanno subìto. Per arrivare, infine, purtroppo ancora nel presente, con le dolorose immagini delle “Letters from Al Yarmouk (Lettere da Al Yarmouk)del palestinese Rashid Masharawi, che ci accompgnano “oltre il disumano” ,come affermato lo scorso aprile dall'UNHCR, in quel tragico quotidiano della situazione tutt'ora aperta nel campo profughi palestinese dell'omonimo quartiere di Damasco, assediato da fame, da bombe e dalla morte ancor prima che dai criminali di Daesh.

L'augurio quindi che possiamo fare e farci, in questo significativo compleanno, è che il Festival Cinema Africano d'Asia e America Latina di Milano, possa continuare a regalarci per molti altri compleanni, oltre al valore artistico delle opere scelte, anche quello del suo impegno politico nel restituirci, come anche quest'anno ha fatto, un quotidiano che va oltre confini, muri, barriere geografiche, culturali o mentali e rende simile e vicina, in questo difficile passaggio della storia, tutta la comune umanità.