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lunedì 20 luglio 2015

La lettera della madre di Federico Aldrovandi




L’Associazione “Federico Aldrovandi” nasce come naturale evoluzione del Comitato “Verità per Aldro”, creato nel gennaio del 2006 per chiedere verità e giustizia per Federico Aldrovandi, il diciottenne ferrarese ucciso durante un controllo di polizia il 25 settembre 2005.
In questi anni, dopo una fase iniziale di stallo nelle indagini e numerose omissioni, si è riusciti ad arrivare al processo e nel giugno del 2012 i quattro poliziotti che avevano fermato Federico sono stati condannati definitivamente a 3 anni e 6 mesi di reclusione per eccesso colposo in omicidio colposo.
Ma il “lavoro” non è finito. Abbiamo visto con i nostri occhi come sia difficile vedere applicato un banale principio di giustizia per cui se chi commette un reato indossi o no una divisa dovrebbe essere indifferente ai fini dell’azione giudiziaria.



Per tutto questo crediamo che passaggi fondamentali siano l’approvazione di una legge sulla tortura e la democratizzazione delle forze dell’ordine.
Perché, come recitava lo striscione che apriva il corteo nazionale che organizzammo nel 2006, ad un anno dall’uccisione di Federico…


Verità grido il tuo nome.
Per quello che non doveva succedere.
Per quello che non è ancora successo.
Perché non accada mai più.



Di seguito, pubblihciamo la lettera della mamma di Federico, pubblicata sul sito della loro associazione.



Perché rimetto le querele contro Paolo Forlani, Franco Maccari e Carlo Giovanardi

Ho perso Federico che aveva 18 anni la notte del 25 settembre di dieci anni fa per l’azione scellerata di quattro poliziotti che vestivano una divisa dello stato, e forti di quella divisa hanno infierito su mio figlio fino a farlo morire. Non avrebbero mai più dovuto indossarla.
I giudici hanno riconosciuto l’estrema violenza, l’assurda esigenza di “vincere” Federico, e una mancanza di valutazione – da parte di quei quattro agenti – al di fuori da ogni criterio di senso comune, logico, giuridico e umanitario.
Non dovevano più indossare quella divisa: nessuno può indossare una divisa dello stato se pensa che sia giusto o lecito uccidere.  O se pensa che magari non si dovrebbe, ma ogni tanto può succedere, e allora fa lo stesso, il tutto verrà ben coperto. Con la speranza che il sospetto di una morte insensata, inutile e violenta scivoli via fra la rassicurante verità di carte col timbro dello Stato, di fronte alle quali tutti si dovrebbero rassegnare. E poi con quella stessa divisa si continuerà a chiedere il rispetto di quello stesso Stato: che però sarà inevitabilmente più debole e colpevole. Come un padre ubriaco che ha picchiato e ucciso i suoi figli.
Il delitto è stato accertato, le sentenze per omicidio emesse. Invece le divise restano sulle spalle dei condannati fino alla pensione. Fine del discorso.
L’orrore e gli errori, con la morte e dopo la morte di Federico. La mancanza di provvedimenti non guarda al futuro, non protegge i diritti e la vita: non tutela nemmeno l’onestà delle forze dell’ordine.
Alla fine del percorso giudiziario che ha condannato gli agenti tutto ciò ora mi è ben chiaro: ed è il messaggio che voglio continuare a consegnare alla politica e all’amministrazione del mio Paese.
Dopo la morte di Federico, abbiamo dovuto difendere la sua vita vissuta e la sua dignità assurdamente minacciate. Era pazzesco, sembrava il processo contro Federico.
Ho chiesto risposte alla giustizia e la giustizia ha riconosciuto che Federico non doveva morire così.
Il processo è stato per me, mio marito Lino e mio figlio Stefano una fatica atroce, ma era necessario prendervi parte e lottare ad ogni udienza: ci ha sostenuti l’amore per Federico.
Su quel processo e da quel processo in tanti hanno espresso un’opinione. E’ stato un modo per crescere.
Alcuni hanno colto l’occasione per offendere me, Federico e la nostra famiglia. Qualcuno l’ha fatto per quella che ritengo gratuita sciatteria e volgarità, altri per disegni politici volti a negare o a sminuire la responsabilità per la morte di Federico.
Avevo chiesto alla giustizia di tutelarci ancora. In quel momento era l’unica strada, e non me ne pento.
Sono passati due anni dai fatti per cui ho sporto querela. Ci sono state le reazioni pubbliche e anche quelle politiche. Però poi non è cambiato niente.
Ho riflettuto a lungo e ho maturato la decisione di dismettere questa richiesta alle Procure e ai Tribunali: non perché non mi ritenga offesa da chi ha stoltamente proclamato la falsità delle foto di mio figlio sul lettino di obitorio, di chi ha definito mio figlio un “cucciolo di maiale”, o da chi mi ha insultata, diffamata e definita faccia da culo falsa e avvoltoio.
Non dimenticherò mai le offese che mi ha rivolto Paolo Forlani dopo la sentenza della Cassazione: è stati lui, sconosciuto e violento, ad appropriarsi degli ultimi istanti di vita di mio figlio. Le sue offese pubbliche, arroganti e spavalde le ho vissute come lo sputo sprezzante sul corpo di mio figlio. E lo stesso sapore ha ogni applauso dedicato a quei quattro poliziotti. Applausi compiaciuti, applausi alla morte, applausi di morte. Per me non sono nulla di diverso.
Rappresentano un modo di pensare molto diverso dal mio.
Non sarà una sentenza di condanna per diffamazione a fare la differenza nel loro atteggiamento.
Rifiuto di mantenere questo livello basato su bugie e provocazioni per ferirmi ancora e costringermi a rapportarmi con loro. Io ci sto male, per loro – credo di capire – è un mestiere.
Forlani e i suoi colleghi li lascio con le loro offese e i loro applausi, magari ad interrogare ogni tanto quella loro vecchia divisa, quando sarà messa in un cassetto dopo la pensione, sull’onore e la dignità che essa avrebbe preteso.
Un onore che avrebbero minimamente potuto rivendicare se da uomini, cittadini, pubblici ufficiali e servitori dello Stato, coloro che hanno ucciso mio figlio e coloro che li hanno sostenuti avessero raccontato la verità su cosa era successo quella notte, e non invece le menzogne accertate dietro alle quali si sono nascosti prima, durante e dopo il processo, cercando di negare anche l’esistenza di quella mezzora in cui erano stati a contatto con Federico prima dei suoi ultimi respiri.
Da Forlani e dai suoi colleghi avrei voluto in quest’ultimo processo solo la semplice verità, tutta.
Chi ha ucciso Federico sa perfettamente quale strazio sta dando ad una madre, un padre e un fratello privandoli della piena verità dopo avergli strappato il loro figlio e fratello. Nessun onore di indossare la divisa dello stato, nessun onore.
E nessun onore neanche a chi da dieci anni cerca nella morte di mio figlio l’occasione per dire che in fondo andava bene così: i poliziotti non possono aver sbagliato, in fondo deve essere stata colpa di Federico se è morto in quel modo a 18 anni.
Costruite pure su questo le vostre carriere e la vostra visibilità. Dite pure, da oggi in poi, che il mio silenzio è la vostra vittoria. Muscoli, volantini, telecamere, libri, convegni e applausi. Per dire che non c’è stato nessun problema il 25 settembre 2005. E per convincere voi stessi e il vostro pubblico che il problema l’hanno creato solo Federico Aldrovandi e sua madre Patrizia Moretti.
Vi esorto soltanto, da bravi cattolici quali vi dichiarate, a ricordare il quinto comandamento: non uccidere.
Non spenderò più minuti della mia vita per queste persone e per i loro pensieri. Mi voglio sottrarre a questo stillicidio: una fatica soltanto mia che nulla aggiungerebbe utilmente e concretamente a nessuno se non alla loro ansia di visibilità. Trovo stancante anche pronunciare i loro nomi. Inutile commentare le loro dichiarazioni pubbliche.
A dieci anni dalla morte di Federico per il mio ruolo di madre, ma anche per le mie aspirazioni e per la mia attuale visione del mondo, penso che il dedicare anche solo alcuni minuti a persone che disprezzo sia un’imperdonabile perdita di tempo. Non voglio più doverli vedere né ascoltare o parlare di loro.
Perciò ritirerò le querele ancora in corso.
Non lo faccio perché mi è venuta meno la fiducia nella giustizia, ma dieci anni sono troppi, ed è il momento di dire basta.
Non è il perdono, d’altra parte nessuno mi ha mai chiesto scusa, ma prendere atto che per me andare avanti nelle azioni giudiziarie rappresenta soltanto un doloroso e inutile accanimento.
Ritiro le querele perché sono convinta che una sentenza di condanna non potrebbe cambiare persone che  – da quanto capisco – costruiscono la loro carriera sull’aggressività e sul rancore.
Non ci potrà mai essere un dialogo costruttivo, perciò addio.
Questo non significa che verrà meno il mio impegno di cittadina per contribuire a rendere questo paese un po’ più civile, e questo impegno mi vedrà come sempre a fianco dell’associazione degli amici di Federico per l’introduzione del reato di tortura e ogni altra forma di trasparenza e giustizia.
C’è molta strada da fare: confronti, discussioni, leggi giuste. Bisogna affrontare il problema degli abusi in divisa in modo costruttivo.
Le parole e le espressioni contro Federico, contro me e la nostra famiglia le lascio alla valutazione in coscienza di chi ha avuto il coraggio di dirle. E soprattutto alla valutazione di chi se le ricorda. Io ne conservo solo il disprezzo.
Per me l’onore è un’altra cosa.
L’onore appartiene a chi ha cercato di capire, a chi ha ascoltato la coscienza e a chi ha fatto professionalmente il proprio dovere, a chi ha messo il cuore e l’arte oltre quel muro di gomma costruito attorno all’omicidio di Federico, a tutti coloro che gli dedicano un pensiero, un rimpianto, gli mandano un bacio.
Sono queste le persone che ringrazierò sempre, è grazie a loro che Federico è stato restituito al suo onore di figlio, fratello, amico, ragazzo che voleva vivere, e tornare a casa.
 
Patrizia Moretti


lunedì 11 maggio 2015

Il nostro sangue è buono solo per le guerre”: i Falasha denunciano il razzismo






di Monica Macchi


La scorsa domenica a Tel Aviv c’è stata una imponente manifestazione (10.000 persone secondo la stampa israeliana, 3000 secondo la polizia) per protestare contro i maltrattamenti inflitti dalla polizia a un soldato di origine etiope: il bilancio è stato di una cinquantina di poliziotti feriti e una trentina di manifestanti arrestati…e importanti strascichi politici. Infatti il Presidente Reuven Rivlin ha ammesso che “i manifestanti hanno rivelato una ferita aperta nel cuore della società israeliana” e ha dovuto riconoscere “gli errori del governo nel modo in cui tratta gli israeliani neri” e le numerose difficoltà di integrazione dei falasha, una delle dieci tribù perdute del regno di Israele (la cui “ebraicità” è stata riconosciuta solo nel 1975). Non solo: pochi giorni dopo l’Università Tafnit Holon ha sospeso un insegnante che, durante un dibattito con gli studenti ha detto: “Gli etiopi si dimenticano da dove vengono: meglio se se ne tornano in Etiopia. Stanno diventando insolenti: pochi anni fa non avrebbero osato neppure aprir bocca! Non capiscono che sono diversi da noi e lo devono accettare”.



Dopo le tre diverse Aliah (ritorno nella terra promessa d’Israele in uno Stato che nega il diritto al ritorno dei Palestinesi…) dell’Operazione Mosè del 1985 (organizzato sotto la supervisione del Mossad), dell’Operazione Salomone del 1991 e dell’Operazione Ali di Rondini del 2010, Israele ha formalmente messo fine a questa politica il 28 agosto 2013 con un comunicato ufficiale del delegato dell'Agenzia Ebraica in Etiopia, Asher Sejum con l’impegno di riorientare le risorse finanziarie per migliorare le condizioni di vita dei Falasha già presenti in Israele e di esaminare caso per caso “ricongiungimenti familiari e questioni umanitarie specifiche”. Si calcola che attualmente ci siano circa 130.000 ebrei di origine etiope che, nonostante beneficino de iure della piena cittadinanza israeliana soffrono di bassi livelli di istruzione, alti livelli di disoccupazione (quasi il 60% delle famiglie dipendono dall'assistenza sociale e vivono al di sotto della soglia di povertà), proporzione di detenuti superiore alla media. Inoltre negli anni 2000, per ottenere il diritto di emigrare in Israele, le donne hanno dovuto sottoporsi a iniezioni di Depo-Provera, un contraccettivo che provoca sterilità “temporanea” con obbligo di ripetere il trattamento in Israele e così il tasso di natalità nella comunità Falasha è sceso del 50% negli ultimi dieci anni ...



Giusto due settimane fa è uscito in inglese “How The World Turned White” (pubblicato in ebraico l’anno scorso vincendo il premio Ramat Gan come miglior opera prima) di Dalia Betolin-Sherman che racconta il viaggio della sua famiglia sotto il regno di Haile Selassie da Ambover, (un villaggio ebraico nel nord dell'Etiopia) verso il Sudan e da lì in Israele.



 
 
 

sabato 18 aprile 2015

Report di un caso di “salvataggio” nel Mediterraneo




Riportiamo, qui di seguito, il report dettagliato di un'operazione di richiesta salvataggio, riportata da Watch the Mediterranean Sea che è una piattaforma online per monitorare le morti e le violazioni dei diritti dei migranti alle frontiere europee. Il report si commenta da solo.


Nome Caso: 2015_04_10-CM10
Situazione:
600-1000 persone in difficoltà al largo delle coste della Libia
Stato del WTM Investigation:
Concluso (ultimo aggiornamento 2015/04/11)
Luogo:
Mar Mediterraneo, al largo della costa della Libia

Venerdì 10 aprile 2015, il team di Alarm Med Phone è stato allertato da padre Mussie Zerai per una nave in difficoltà nel Mar Mediterraneo, al largo delle coste della Libia. Ha detto che la nave aveva lasciato la Libia alle 7.15 di mattina con circa 600 passeggeri a bordo, tra cui molte donne e bambini. Padre Zerai ha trasmesso i dati al team così come al MRCC di Roma, comprese le coordinate della nave e di un numero di telefono satellitare.

Il team si è messo in contatto con i passeggeri a bordo della nave a 13: 04h. La comunicazione è stata difficile a causa delle barriere linguistiche, ma siamo stati in grado di trasmettere le informazioni che Padre Zerai aveva già notificato al MRCC Roma. Abbiamo capito che c'era un problema con l'acqua che entrava in nave e abbiamo assicurato ai passeggeri che ci avrebbero richiamati. Il team di turno ha poi ricontattato il MRCC Roma e trasmesso il numero di telefono satellitare, nonché le coordinate. MRCC Roma non ha indicato chiaramente cosa avrebbero fatto con le informazioni fornite e solo suggerito che sarebbero intervenuti sul caso. Quando la squadra di turno hanno messo mano alla nave, i passeggeri hanno capito che c'era un problema con il motore; sono state trasmesse le nuove coordinate per la guardia costiera italiana e maltese, così come all'UNHCR. In una conversazione telefonica con la guardia costiera maltese è emerso che sapevano del caso. Hanno dichiarato che la nave era vicino alla costa libica e che avrebbero parlato con la guardia costiera italiana. Ma non dicono se avrebbero messo in atto un'operazione di salvataggio.

Il team di passaggio ha parlato ai passeggeri di nuovo e ha recuperto nuove coordinate. I passeggeri hanno chiesto ripetutamente aiuto. Con le coordinate si sarebbe potuto creare una traiettoria della nave, mostrando che la nave si muoveva verso nord. I passeggeri allora hanno chiamato uno dei membri del team del cambio, hanno chiesto di nuovo aiuto, affermando di aver visto un aereo. Il team di turno li ha informati di aver preso contatto sia la guardia costiera maltese sia con quella italiana. In un'altra conversazione telefonica con il MRCC Roma, nuove coordinate sono stati trasmesse. Prima erano riluttanti a informarci se un'operazione di salvataggio era in corso e in seguito hanno dichiarato che un elicottero e un soccorso navi erano sulla in partenza. Abbiamo trasmesso il numero del MRCC Roma alle persone in difficoltà.

Nel pomeriggio, Padre Zerai ha comunicato alla squadra che era stato contattato dai passeggeri, ancora una volta. Gli avevano detto che non si era verificato alcun salvataggio, nessun elicottero era stato visto e che la situazione stava diventando sempre più pericolosa anche pechè una gran parte della nave era danneggiata. Padre Zerai ha inviato un'altra e-mail a MRCC Roma, invitandoli ad intervenire; ha anche chiesto agli operatori telefonici di allarme di fare lo stesso per i servizi di soccorso pronti ad impegnarsi. Uno dei membri del team di turno è stato contattato nuovamente dalle persone in difficoltà, ma a causa di forti rumori in sottofondo, la comunicazione non era possibile.

Gli operatori telefonici di allarme hanno fatto una notifica pubblica, attraverso i social media, per contattare MRCC Roma e richiedere una missione di salvataggio. Al 18:00 l'UNHCR ha inviato una mail al telefono allarme, affermando che MRCC Roma aveva confermato un'operazione di salvataggio. Padre Zerai ha trasmesso le nuove coordinate che aveva ottenuto dai passeggeri che sono stati poi trasferiti ai MRCC Roma. Intorno 07:00 il MRCC Roma ha risposto a coloro che avevano inviato e-mail, affermando che la nave in questione fosse in territorio libico e al di fuori della ricerca italiana e di salvataggio della zona (SAR). Hanno suggerito che un'operazione SAR era in corso e che le numerose e-mail inviate erano inutili e che avrebbero bloccato l'indirizzo di posta elettronica operativo MRCC Roma,interferendo con l'operazione SAR. In risposta, l'allarme del telefono ha accettato la conferma ufficiale delle operazioni di soccorso e ha chiesto, attraverso i social media, di cessare l'invio di email a MRCC Roma.

Sabato scorso 11 aprile, la guardia costiera italiana ha poi rilasciato una dichiarazione affermando di aver condotto tre operazioni di soccorso il venerdì con il salvataggio di quasi un migliaio di persone in difficoltà. Ha detto che la nave si trovava a circa 30 miglia dalla costa della Libia e di aver inviato diverse navi mercantili e una motovedetta . A seguito del comunicato stampa, anche la nautica italiana ha partecipato all'operazione di salvataggio e ha preso a bordo 222 migranti, tra cui una persona deceduta. Le persone soccorse sono state portate al porto di Augusta e a Porto Empedocle, in Italia.

venerdì 30 gennaio 2015

Giustizia: lavoro, pena e reinserimento sociale: gestire condannati non è un affare privato



di Milena Gabanelli

(dal Corriere della Sera, 25 gennaio 2015)
 

"I detenuti bisogna farli lavorare", dice la legge, perché nell'occupazione c'è la miglior garanzia di riabilitazione, e infatti le statistiche dimostrano che quando nel periodo di detenzione si è svolta una regolare attività, le recidive calano drasticamente. Dentro le carceri italiane di lavoro da fare ce n'è, ma siccome - sempre per legge - il lavoro deve essere stipendiato e di soldi non ce n'è per tutti, quasi l'80% dei detenuti guarda il soffitto.

La proposta che avevo lanciato, attraverso Report e le pagine del Corriere (14 gennaio 2014), era di cambiare la norma ispirandosi agli esempi del Nord Europa o ad alcune felici esperienze del Nord America, dove l'amministrazione penitenziaria calcola lo stipendio, ma lo trattiene a compensazione delle spese di mantenimento, lasciandogli 50 euro mensili per le piccole necessità e concedendo benefici e sconti di pena. Un sistema che incentiva il detenuto a darsi da fare, favorisce il reintegro attraverso l'apprendimento di un mestiere, e consente al sistema carcerario di non gravare sulle casse dello Stato.

Poi ci sono gli affidati in prova al servizio sociale, che invece scontano la pena svolgendo attività a titolo gratuito presso enti pubblici, parrocchie, associazioni di volontariato. Significa che, se io sono un privato e ho un'impresa edile, non posso prendermi un condannato a una misura alternativa e farlo lavorare gratis. Nella realtà italiana però i controlli sono pochi, mancano i progetti e alla fine il condannato autocertifica la propria "attività riparatrice".

Inoltre, a differenza degli esempi stranieri, dove, anche in questi casi ad occuparsi del problema è l'amministrazione penitenziaria, che decide e organizza i lavori di pubblica utilità, in Italia abbiamo preferito coinvolgere le cooperative sociali, tra cui anche quelle finite nell'inchiesta mafia capitale. Partendo dalla mia proposta, Letizia Moratti, persona sensibile al mondo del volontariato, ma anche attenta imprenditrice, ha lanciato la sua (19 gennaio scorso), citando l'esperienza della comunità di San Patrignano.

Esempio improprio poiché il tossicodipendente e il condannato non possono essere messi sullo stesso piano: il primo entra volontariamente in comunità e volontariamente ne esce, il secondo no. La sua proposta è quella di sollecitare il ministero della Giustizia ad accogliere il progetto che ha presentato insieme a Banca Prossima, del gruppo Intesa San Paolo, e ad altre realtà del mondo non profit. Il progetto si propone di accogliere mille detenuti in regime di esecuzione esterna della pena, e garantirebbe, secondo l'ex sindaco di Milano, il reinserimento lavorativo, facendo risparmiare allo Stato 200 milioni di euro.

Ora, il reinserimento è una promessa, e non una garanzia, mentre il risparmio di 200 milioni non si capisce da dove salti fuori, visto che, in questo caso, il condannato in carcere non ci andrebbe comunque. La Moratti intende forse sostituirsi ai servizi sociali? L'operazione si finanzierebbe con l'emissione di Sib (Social Impact Bond): una specie di obbligazione che ha un rendimento solo quando vengono raggiunti specifici risultati sociali.
Ma il Sib è considerato un prodotto finanziario altamente speculativo, dove il risparmiatore che investe rischia di rimetterci i suoi soldi perché i risultati potrebbero anche non esserci. E come si misurano i risultati? Attraverso un accordo fra le parti (ovvero lo Stato e la "Moratti Holding") nel quale è definito il criterio di "impatto sociale" positivo delle attività del progetto, a date scadenze. Intenderebbe quindi riunire altre cooperative sociali, finanziarsi con i Sib, per gestire i condannati non pericolosi, farli lavorare gratis e rientrare dei costi vendendo il prodotto del loro lavoro? Se la sostanza è questa, si aprirebbe la strada alla privatizzazione del disagio sociale, con inevitabile speculazione privata del lavoro del condannato. Una pericolosa deriva, dove lo Stato, per incapacità organizzativa, abdica al proprio ruolo.
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L'Associazione per i Diritti Umani segnala lo spettacolo "Questa immensa notte" di Clohe Moss per la regia di Laura Sicignano,  in scena al Teatro Filodrammatici di Milano fino all'8 febbraio. 02 367227550

Hanno condiviso la cella, ma quando escono di prigione non sanno come sostenere l'amicizia al cospetto della nuova, fragile libertà ottenuta. Una storia al femminile sul carcere e su come, una volta entrati, sia impossibile uscirne. anche quando la galera è alle nostre spalle. In scena: Orietta Notari e Raffaella Tagliabue.

domenica 23 novembre 2014

Comunicato sui rom e per i rom







Roma, tre presunti ordigni esplosivi in una struttura che ospita i rom. Artificieri dei carabinieri intervenuti per rimuoverli. Associazione 21 luglio: «Gesto grave per creare panico e intimidazione»






Roma, 17 novembre 2014 – Tre presunti ordigni esplosivi sono stati rinvenuti nel primo pomeriggio di oggi nel cortile esterno del “Centro di raccolta rom” di via Salaria, a Roma. A denunciarlo sono stati gli stessi abitanti del centro, dove vivono 380 rom, tra cui circa 200 minori.

I tre presunti ordigni sono stati individuati da uno dei residenti all’interno e nei pressi di un cassone adibito alla raccolta dei rifiuti che si trova nei pressi della recinzione esterna della struttura. In seguito alla segnalazione, uomini della polizia e dei carabinieri sono intervenuti sul posto e hanno immediatamente presidiato e chiuso l’accesso alla porzione di cortile dove sono stati ritrovati i presunti ordigni, che sono stati quindi rimossi dagli artificieri dei carabinieri.

Secondo gli osservatori dell’Associazione 21 luglio, che si sono subito recati nel centro di via Salaria e hanno assistito all’intervento di rimozione da parte delle forze dell’ordine, gli oggetti presentavano effettivamente l’aspetto di “bombe a mano”, come denunciato dai rom residenti nella struttura, pur non essendovi ancora la certezza se si trattasse di ordigni veri o di manufatti finti con lo scopo di intimidire.

«I rom che vivono nel centro di via Salaria erano tutti molto spaventati da quanto accaduto – afferma l’Associazione 21 luglio -. A prescindere dalla veridicità o meno degli ordigni, siamo di fronte a un gesto grave e inaccettabile che sembra assumere i contorni di un crimine motivato dall’odio e volto a creare panico e intimidazione».

Secondo l’Associazione 21 luglio, il ritrovamento dei presunti ordigni in una struttura abitata da rom non fa che aggiungere ulteriore tensione al clima difficile che la periferia della Capitale sta vivendo in questi giorni, in seguito ai ben noti fatti di Tor Sapienza.

«Auspichiamo una immediata e ferma condanna, da parte delle istituzioni locali e nazionali, rispetto a quanto accaduto questo pomeriggio e rispetto al panico e alla paura che la presenza dei tre presunti ordigni è riuscita a creare soprattutto nelle donne e nei bambini che vivono nel centro di via Salaria – conclude l’Associazione 21 luglio -. È quanto mai opportuno evitare, prodigando ogni sforzo possibile, che la tensione che in questi giorni ha riguardato rifugiati, immigrati e rom nel quartiere di Tor Sapienza si sposti in altre zone della città alimentato da un pericoloso spirito di emulazione».

sabato 15 novembre 2014

Per i 43 studenti uccisi in Messico



L'Associazione per i Diritti Umani vi invita a leggere e poi a firmare il seguente appello, per la memoria di quei 43 studenti ammazzati in Messico e per i loro familiari. Ricordiamo cosa è accaduto: la notte del 26 settembre un gruppo di studenti si sono impossessati di tre autobus per protestare, la polizia locale ha aperto il fuoco contro i manifestanti e ha ucciso uno studente. Nelle ore successive, mentre gli studenti denunciavano l’accaduto, un gruppo armato li ha attaccati. Allo stesso tempo un altro gruppo ha aperto il fuoco contro un autobus che trasportava una squadra di calcio, uccidendo un giocatore. È stato dimostrato che le armi usate dal commando erano della polizia.



L'iniziativa è stata lanciata da Amnesty: www.amnesty.it



Dopo la conferma che i 43 studenti dell'istituto per maestri di Ayotzinapa scomparsi il 26 settembre a Iguala sono stati uccisi e bruciati e i loro resti gettati in un fiume, Amnesty International ha accusato il procuratore generale del Messico, Jesus Murillo Karam, di non aver evidenziato le complicità del governo in questa tragedia.
Le indagini sono state limitate e incomplete e non hanno messo in luce la radicata collusione tra lo stato e la criminalità organizzata, che spiega le gravi violazioni dei diritti umani che hanno luogo in Messico.

Il sindaco di Iguala, il principale imputato per la sparizione dei 43 studenti, è stato a lungo sospettato di corruzione e gravi crimini. Nel giugno 2013 un sopravvissuto a un attacco contro otto attivisti aveva accusato il sindaco di aver preso direttamente parte all'azione, nel corso della quale tre degli attivisti furono uccisi. Il sopravvissuto fornì un resoconto dettagliato, che fu consegnato a un notaio per paura della corruzione della polizia. Il procuratore dello stato di Guerrero non indagò sulla sua denuncia e, nonostante le schiaccianti prove contro il sindaco, l'indagine è stata chiusa nel maggio 2014.

Nel corso delle ricerche sui 43 studenti scomparsi il 26 settembre a Iguala, nella zona sono state rinvenute 19 fosse comuni. Finora sono state arrestate 74 persone. Durante l'attacco agli studenti, sono state uccise sei persone.

Quarantatré studenti scomparsi risultano ancora dispersi dopo che la polizia ha aperto il fuoco contro di loro e dopo essere stati attaccati da sconosciuti a Iguala, stato di Guerrero. Ventotto corpi, non identificati, sono stati ritrovati in una fossa comune vicino a Iguala; la ricerca delle persone scomparse continua.

I 43 studenti non sono stati ritrovati dalla loro sparizione, il 26 settembre nella città di Iguala, nello stato di Guerrero, nel Messico meridionale. Circa 25 di loro erano stati arrestati dalla polizia municipale, mentre gli altri sono stati rapiti da uomini armati non identificati che hanno operato con l'acquiescenza delle autorità locali, poche ore dopo. Tutti gli studenti scomparsi sono vittime di sparizione forzata.

Il 5 ottobre funzionari dello stato di Guerrero hanno ritrovano sei fosse comuni nei pressi di Iguala, a quanto pare a seguito di informazioni fornite da alcuni dei 22 agenti della polizia municipale attualmente in stato di arresto. Almeno 28 corpi sono stati esumati, ma devono  essere effettuati esami medico-legali per identificare i cadaveri. Non è ancora chiaro se si tratta  degli studenti rapiti. Sulla base di una petizione dei rappresentanti di parenti delle vittime, esperti forensi internazionali indipendenti stanno aiutando nel processo di identificazione.

L'Ufficio del procuratore generale federale (Procuraduria General de la República, Pgr) si è assunto l'incarico di gestire l'indagine sulle fosse comuni e l'identificazione dei cadaveri. Tuttavia, l'indagine sulle sparizioni e sugli omicidi di altre sei persone, il 26 settembre - tra l'altro funzionale a determinare dove siano i 43 studenti - rimane all'Ufficio del procuratore generale dello stato di Guerrero, nonostante le accuse di possibili legami con gruppi criminali e la sua ripetuta incapacità di svolgere indagini efficaci su gravi violazioni dei diritti umani.

La gravità di queste sparizioni forzate e omicidi, associata al coinvolgimento del crimine organizzato, è sufficiente perché la Pgr rivendichi la competenza su questi casi, ma finora non è riuscita a farlo.



lunedì 22 settembre 2014

Un'esecuzione si trasforma in semplice rissa




Pochi giorni fa. Quartiere di Torpignattara, Roma.

Intorno a mezzanotte un ragazzo pakistano di 28 anni, ubriaco, ha molestato alcuni passanti, tra cui un altro giovane che gli si è scagliato contro e lo ha riempito di pugni, uccidendolo.

L'assassino è un italiano minorenne, 17 anni, che ora è stato arrestato con l'accusa di omicidio preterintenzionale. Il problema sta nel fatto che alcune testate giornalistiche hanno liquidato l'episodio come una semplice rissa tra facinorosi, finita male.

Non è proprio così: una provocazione (come in questo caso, pare, uno sputo) non può giustificare una violenza cieca e sproporzionata fino a far perdere la vita a qualcuno.

Khan Muhammad Shantad, questo il nome della vittima, era un senzatetto, ma regolare in Italia; secondo la ricostruzione effettuata dalle forze dell'ordine, era ubriaco e infastidiva con urla e schiamazzi (quindi soltanto a parole) i passanti, fino a quando si è imbattuto nel diciassettenne che era in compagnia di un amico. A quel punto, forse, il ragazzo pakistano ha sputato e questo ha scatenato la reazione dell'italiano che poi ha affermato: “ Gli ho dato solo un pugno”. Alcuni testimoni e il corpo della vittima, invece, parlano chiaramente di pugni ripetuti e di calci tanto che l'Autorità Giudiziaria ha predisposto l'autopsia. Se questa confermasse l'ipotesi, il reato verrebbe trasformato in omicidio volontario.

Questo è accaduto a pochi giorni da un altro triste fatto di cronaca avvenuto nello stesso quartiere: un romeno di 52 anni è stato accoltellato da un suo connazionale a seguito di una lite. Ma troppo spesso e ancora tanti pensano: “Finchè si ammazzano tra loro...”

venerdì 23 maggio 2014

Falcone, Borsellino e l'amore della signora Agnese






Era il 23 maggio 1992 quando un bomba fece saltare in aria l'auto su cui viaggiavano il giudice Giovanni Falcone, sua moglie, Francesca Morvillo, e i ragazzi della scorta. Dopo poche setimane, il 19 luglio, il destino era segnato anche per il giudice Paolo Borsellino e altri poliziotti che cercavano di proteggerlo.



Il nostro impegno deve essere costante nel ricordare il sacrificio di tutti coloro che hanno lottato contro la crminialità organizzata – ciascuno a suo modo – perchè queste persone hanno lottato anche per noi. Il loro impegno, quindi, deve essere anche il nostro per ripristinare la cultura della legalità, dell'onestà e della giustizia.



Ecco, quindi, che vogliamo onorare la memoria di Borsellino e di sua moglie, la Signora Agnese Piraino Leto che ci ha lasciati da poco, suggerendo la lettura del libro Ti racconterò tutte le storie che potrò, scritto dal giornalista Salvo Palazzolo con la signora Agnese, edito da Feltrinelli. Un testo importante e intimo che racconta l'etica di un uomo, ma anche l'amore di una coppia e il calore di una famiglia.

 



Abbiamo rivolto alcune domande a Salvo Palazzolo che ringraziamo di cuore per averci concesso l'intervista.


Perchè la signora Leto Borsellino ha deciso di regalare ai lettori una storia così personale?


La signora Agnese sapeva di avere un terribile male, sapeva di non avere più molti giorni da vivere. Eppure, non rinunciava a partecipare alla vita del paese. E si arrabbiava quando sentiva che i magistrati di Palermo e Caltanissetta erano minacciati con delle pesanti lettere anonime. “Non arrivano dalle celle dei mafiosi – mi disse il giorno in cui ci incontrammo, nel febbraio dell’anno scorso – ma da uomini infedeli delle istituzioni”. Ecco perché Agnese aveva deciso di scrivere, per accendere i riflettori su una situazione drammatica: “Quelle minacce puntano a creare un clima di tensione – mi disse ancora - è lo stesso clima che ho vissuto prima della morte di Paolo”. Così, iniziò il suo racconto, “il racconto delle tante vite che ho vissuto” ripeteva lei: “E’ un racconto che dovrà dare forza e speranza, perché non si ripeta più l’incubo delle stragi mafiose”.


Un romanzo, un saggio, una denuncia. Come sono stati gli anni successivi a quel tragico 19 luglio 1992?


Per Agnese Borsellino sono stati anni di grande impegno civile, per chiedere verità sui delitti di mafia rimasti impuniti. Diceva: “La verità appartiene a tutti gli italiani, ecco perché non possono essere solo i magistrati a cercarla”. Dopo quel drammatico 1992, tanto si è fatto per arrivare alla verità, ma tanto è stato ostacolato, proprio sulla morte di Paolo Borsellino e dei suoi agenti di scorta: non sappiamo ancora chi ha messo in atto quel terribile depistaggio del falso pentito Scarantino, di certo un depistaggio istituzionale che nasconde ancora alcuni degli autori della strage di via d’Amelio.


La signora parla apertamente di una telefonata di Francesco Cossiga in cui si fa riferimento ad un colpo di Stato: ci può spiegare meglio quel momento e il senso di quella telefonata?


E’ uno dei misteri che Francesco Cossiga si è portato nella tomba. Se lo chiedeva anche Agnese, e l’ha scritto nel libro: “Cosa volesse dirmi esattamente con quelle parole non lo so”. E ha aggiunto: “Però, la voce di Cossiga non la dimenticherò mai: via d’Amelio è stata da colpo di Stato, così disse. Evidentemente, voleva togliersi un peso. Dunque, qualcuno sa”. Scrive proprio così la signora Borsellino: “Qualcuno ha sempre saputo, e non parla. È un silenzio diventato assordante da quando i magistrati di Caltanissetta e di Palermo hanno scoperto ciò che Paolo aveva capito: in quella terribile estate del 1992 c’era un dialogo fra la mafia e lo Stato. Ma ancora non sappiamo in che termini, e soprattutto non conosciamo tutti i protagonisti”.


Lucia, Manfredi e Fiammetta sono i figli della signora Agnese e di Paolo Borsellino: quale il rapporto con un padre diventato, suo malgrado, un eroe civile?

Loro portano nel cuore e nella mente il ricordo di un papà premuroso, sensibile, un papà giocherellone, che amava raccontare storie sempre divertenti. Nel suo libro, Agnese ha voluto lasciarci il ritratto di una famiglia normale, che ha saputo sempre trovare dentro di sé la forza di reagire ai momenti difficili: all’inizio degli anni Ottanta, Paolo Borsellino aveva iniziato la sua vita blindata, per istruire con Giovanni Falcone e con gli altri colleghi del pool il primo maxiprocesso alle cosche. Erano gli anni in cui Cosa nostra avviava la grande mattanza a Palermo. Paolo Borsellino trovava una grande forza proprio nella sua famiglia.



Qual è l'appello che la signora Leto Borsellino ha voluto lanciare con questo libro?


Agnese ha lasciato a tutti noi un incarico importante: quello di raccontare le storie della nostra terra. Storie, come quella di Paolo Borsellino, che ha fronteggiato l’organizzazione Cosa nostra sforzandosi innanzitutto di capire le ragioni del fenomeno, che è così subdolo per le sue complicità all’interno delle istituzioni e della società civile. Agnese ci invita a raccontare le tante storie di ribellione e riscatto che ci sono nelle nostre città, storie spesso sconosciute o dimenticate. Credo che questo ci abbia voluto dire lasciandoci un grande racconto di speranza.




mercoledì 7 maggio 2014

Un calcio alle favelas

Foto di Ohrem-Leclef

Meno quaranta, meno trentanove, meno trentotto...gli appassionati di calcio stanno sicuramente facendo il conto alla rovescia: mancano meno di 40 giorni all'inizio dei mondiali di calcio 2014 in Brasile. Ma il campionato e le Olimpiadi del 2016 rischiano di far perdere di vista i problemi seri che tengono sotto scacco milioni di persone, in particolare quelle che vivono nelle favelas arroccate vicino alle magalopoli.

A Rocinha, una delle più grandi bidonville di Rio de Janeiro, una notte della settimana scorsa, si è verificata una sparatoria violentissima tra poliziotti e narcotrafficanti che ha causato la morte di un criminale e il ferimento di altre persone; nel complesso di favelas di Alemao, occupato dalla polizia nel 2011, si sono verificati altri scontri che hanno avuto come conseguenza il ferimento di quattro agenti. Gli scontri vedono protagoniste anche le favelas che fanno parte del progetto dell' Unità di Policìa Pacificadora (UPP) adottato nel 2007 dal segretario della Sicurezza pubblica di Rio per espellere i narcotrafficanti ma questo, evidentemente, non è bastato e, inoltre, sono tantissime le vittime innocenti degli scontri tra polizia e trafficanti.
Foto di Oherem-Leclef

Risulta difficile scardinare il potere della criminalità, soprattutto all'interno delle aree più disagiate, nel momento in cui i poliziotti non sono riusciti a creare una relazione di fiducia con gli abitanti delle comunità e il governo non ha messo in piedi progetti di recupero sociale rivolti sia ai luoghi sia alle persone. Ecco, le persone appunto.

Per ospitare altre migliaia e migliaia di turisti - che andranno in Brasile per assistere alle manifestazioni sportive - si stanno sistemando strade, alberghi, edifici, ma tutto questo viene pagato, giorno dopo giorno, dai brasiliani più poveri. E' stata costruita, ad esempio, la “TransOlympic Highway” al posto di piccole case con giardino che sono state rase al suolo: lo sfratto degli inquilini è avvenuto con la forza e senza preavviso. Gli stadi “usa e getta” , che saranno usati solo per i due eventi sportivi, sono stati costruiti sulle aree di molte favelas i cui abitanti sono stati cacciati senza preoccuparsi di dare loro un alloggio alternativo.

Da una parte si stanno verificando, quindi, casi sempre più numerosi e gravi di violenza, dall'altra molti cittadini stanno mettendo in atto una vera e propria resistenza, innalzando una torcia olimpica davanti alle loro baracche per dire “Io da qui non mi muovo”. Il fotografo Oherem-Leclef ha ritratto queste persone nel bel libro Olympic favela, pubblicato da Damiani.

E intanto sui muri delle baracche degli sfrattati la polizia scrive con lo spray “Vai com deus”.


lunedì 5 maggio 2014

Quando i poveri rovinano il decoro



Verona non è razzista, Verona non è escludente: è vero che non si deve mai generalizzare. Infatti a Verona c'è chi aiuta un senzatetto con cibo caldo e coperte e chi, invece, dice che non si fa. E questo lo afferma proprio chi dovrebbe dare l'esempio, ovvero il sindaco, il primo cittadino, nel caso specifico Flavio Tosi. E' anche vero che l'elemosina non ha mai risolto i problemi alla radice, ma qui si discute il messaggio che è stato mandato, nei giorni scorsi, dall'Amministrazione comunale.

Con un'ordinanza che rimarrà in vigore fino al prossimo 31 ottobre, infatti, è stato proibita: “ogni attività di distribuzione di alimenti e bevande nelle aree di piazza Viviani, piazza Indipendenza (compresa l'area dei giardini), cortile del Mercato Vecchio, cortile del Tribunale e piazza dei Signori” pena una multa che va da un minimo di 25 euro a un massimo di 500.

La motivazione sarebbe la seguente: “ Come rilevato dalle relazioni della Polizia municipale e da numerose segnalazioni anche fotografiche dei residenti di queste aree erano diventate negli ultimi mesi ritrovo e zona di bivacco permanente di numerose persone senza fissa dimora, alcune note alle forze dell'ordine e già colpite da da provvedimenti di espulsione dal territorio nazionale. Nella zona è, quindi, aumentato in modo preoccupante il degrado urbano, con veri e propri accampamenti formati da materassi, resti di cibo, sporcizia ed un crescente pericolo igienico-sanitario dovuto ai bisogni fisiologici di coloro che bivaccano nelle ore serali e notturne”.

La questione fondamentale, quindi, non è che, anche in una delle città più ricche d'Italia, vi sia un certo numero di persone senza lavoro, senza casa e in gravi difficoltà, ma che queste persone siano visibili e, per di più, nella zona centrale, magari quella abitata dai benestanti e visitata dai turisti. Certo, un povero è sempre brutto, sporco e cattivo: meglio non guardare e non sapere. Anzi, la soluzione giusta è sanzionare ed escludere.

venerdì 2 maggio 2014

Il documento è violento e illegale



Il documento è violento e illegale”: questa la dichiarazione di un funzionario di polizia francese quando si è visto arrivare una nota interna del commissariato in cui era scritto che, secondo le direttive della sede centrale, bisognasse localizzare le famiglie Rom che vivono in strada, identificarle ed espellerle sistematicamente.

Questo è accaduto qualche giorno fa a Parigi, nel VI arrondissement, il quartiere di San Germein des Pres, uno dei più ricchi della città. La notizia è uscita sul quotidiano Le parisien, per poi essere riportata su molte testate nazionali e internazionali, e ha contribuito a scatenare un'ulteriore bufera sul Ministro dell'Interno francese, il socialista Manuel Valls. La Francia non si conferma come la patria dei diritti dell'uomo e del cittadino e, infatti, la Commissione europea minaccia sanzioni, ricordando che: “...I Rom sono cittadini europei e che, come tali, hanno il diritto di circolare liberamente in tutti gli Stati membri”.

Intanto, in Italia, all'inizio del mese di aprile si è tenuto, a Roma, un convegno dal titolo: “Italiaromanì. L'inclusione dei rom e dei sinti in Italia. Quale strategia?”, organizzato dall'Associazione 21 luglio.

In apertura dei lavori, la Presidente della Camera dei deputati, Laura Boldrini, ha dichiarato che: “ I diritti dei Rom e dei Sinti non sono in contraddizione con i diritti di altri cittadini italiani, come vogliono far credere coloro che soffiano sul fuoco della divisione, puntando a trarne benefici elettorali”. La Presidente non ha potuto partecipare al convegno a causa di un infortunio, ma nel suo messaggio, ha continuato dicendo: “ I diritti sono indivisibili e chi calpesta i diritti dei rom e Sinti - una minoranza che ha contribuito enormemente al patrimonio culturale europeo - ha in mente una società in cui i diritti di tutti, inclusi i suoi, siano meno tutelati.

Quali i diritti da tutelare, in particolare per Rom e Sinti? “Il diritto ad una vita dignitosa, reso difficile da politiche basate sul presupposto - molto spesso errato - che i Rom siano tuttora un popolo nomade e che, dunque, debbano vivere in strutture transitorie, precarie,inadeguate. Il diritto all'istruzione e al lavoro, ostacolati dalla lontananza dei campi dalle scuole e dai luoghi di impiego, dalla repentina chiusura degli insediamenti come dagli sgomberi forzati. Il diritto ad una vita libera dalle discriminazioni, leso dai discorsi d'odio che trovano nei rom uno dei bersagli prediletti, on e off-line, di cui sono un esempio recente le frasi pubblicate sulla pagina Facebook promossa da alcuni abitanti di un quartiere centrale di Roma, nonché i cartelli che vietano l'ingresso ai rom negli esercizi pubblici o in determinate zone della città, che vengono affissi al Nord come nel Sud d'Italia”.

Il Presidente dell'Associazione 21 luglio, Carlo Stasolla, ha affermato che il 2020 – anno entro cui si muoveranno le azioni delle Strategie Nazionali sarà un anno importantissimo, anzi “epocale” perchè entro quella data saranno superati tutti gli insediamenti formali, non ci saranno più sgomberi forzati e, finalmente, ai Rom apolidi verrà riconosciuto uno status giuridico: un sogno, forse, che però potrebbe diventare realtà se tutti contribuissimo ad abbattere i pregiudizi: gli amministratori locali e nazionali, i cittadini comuni, le associazioni, le comunità rom e sinti.

martedì 16 luglio 2013

L' arresto del bambino di cinque anni



Si chiama Wadi 'Maswadeh ed è nato il 24 settembre 2007: ha cinque anni e nove mesi. Vive in Cisgordania, con la sua famiglia, e ha lanciato una pietra. Un gesto, ormai, ripetuto dai bambini e ragazzi che sono cresciuti in una situazione di guerra e circondati da un muro, gesto alimentato dalla cultura dell'odio e dall'esasperazione.
E Wadi, per quell'azione, è stato arrestato.
Fermato per quasi due ore presso la Tomba dei patriarchi a Hebron dai militari dell'esercito israeliano, viene fatto salire su una jeep e portato a casa dove si è nascosto dietro ad alcuni materassi per poi essere arrestato insieme a suo padre, Karam.
La vicenda è stata filmata e resa pubblica dal gruppo umanitario israeliano, B'Tselem, che ha denunciato il fatto anche a mezzo stampa in quanto l'età minima per la responsabilità penale, in Israele e nei Territori, è di 12 anni.
Nel video si vede il bambino circondato dai militari che si consultano via radio con altre persone; Wadi ha paura, piange, batte i piedi per terra. Un passante palestinese lo accompagna e lo convince a salire sull'auto delle autorià. Una volta a casa, però, l'incubo non è finito: i soldati continuano a sostenere che la vicenda venga sottoposta all'attenzione della polizia palestinese, bendano e ammanettano Karam e portano lui e il figlio in un posto di blocco. Ma le autorità palestinesi li dovranno rilasciare immediatamente.
Interessante notare che, nel filmato, un tenente colonnello israeliano rimprovera duramente i suoi sottoposti per aver fermato padre e figlio a telecamere accese. Le sue parole sono significative: “ Si sta danneggiando la nostra immagine pubblica. I detenuti vanno trattati bene quando ci sono le telecamere in giro”.
In questo caso Internet, le riprese video, i mezzi di informazioni sono stati utili per aprire, ancora una volta, una finestra su quell'area di mondo dove lo stallo geopolitico non risparmia nemmeno i più piccoli.

venerdì 14 giugno 2013

La Turchia e il diritto di espressione



La notte tra, martedì e mercoledì scorso, è stata ancora una notte di scontri in Turchia.
I manifestanti sono per lo più giovani sotto i trent'anni e anche intellettuali che, in un primo momento, avevano speranto che Erdogan potesse rappresentare un buon compromesso tra le forze religiose e conservatrici e quelle laiche e filoccidentali. Ma ora si sono uniti alle voci del dissenso, soprattutto dopo che il Premier ha ribadito che il progetto urbanistico di Piazza Taksim - da cui è partita la rivolta - andrà avanti lo stesso. Linea dura confermata anche dal sindaco della città di istanbul, Huseyin Avni Mutlu, che ha affermato: “Continueremo ininterrottamente con le nostre misure, fino a quando elementi marginali saranno resi inoffensivi”. E le misure, fino alle tre dell'altra notte, sono state ancora i lanci di lacrimogeni, mentre, all'alba, i bulldozer hanno portato via i detriti e scardinato le barricate.Intanto la protesta continua anche ad Ankara e, come a Istanbul, la polizia ha reagito con lanci di gas e cannoni ad acqua.
Dall'inizio di questa situazione, il 31 maggio, si contano quattro persone decedute, centinaia di feriti e oltre 70 arresti, tra cui avvocati-attivisti che Erdogan ha definito “vandali” e “terroristi”.
Ma tutto questo ancora non è sufficiente. Il Consiglio Supremo della Radio e della Televisione (Rtuk) turco - un organismo di controllo nominato dal governo - ha deciso di multare le piccole tv che hanno trasmesso in diretta le manifestazioni, adducendo come motivazione, il fatto che: “Hanno danneggiato lo sviluppo fisico, morale e mentale di bimbi e giovani”.
Come sta reagendo, q tutto ciò, la comunità internazionale?
Gli Stati Uniti hanno espresso preoccupazione ed esigono il rispetto della libertà di espressione, di assemblea e di associazione, oltre ad di avere una stampa libera ed indipendente.
Il portavoce del Cancelliere tedesco, Steffen Seibert, ha affermato che: “Solo il dialogo può servire a calmare la situazione in modo duraturo”.
In Italia, il Ministro degli Affari esteri, Emma Bonino, ha sostenuto che Piazza Taksim non è come Piazza Tahrir, in Egitto, e che il nostro Paese vuole una Turchia pienamente democratica in Europa. Ha, inoltre, aggiunto: “ L'adesione della Turchia all'UE può avere un effetto benefico per il Paese. Nelle piazze e nelle strade si sta svolgendo un esame di maturità del governo turco” e sottolineato che, da parte della polizia turca, c'è stata una reazione sproporzionata alle manifestazioni in Gezi Park.

martedì 11 giugno 2013

Il caso di Stefano Cucchi

La morte di mio fratello non è un caso di malasanità: Stefano non sarebbe mai arrivato in ospedale se non fosse stato massacrato”. E i medici, “indegni di indossare il camice”, “hanno le loro responsabilità, loro lo hanno lasciato morire”. Queste sono state le prime parole pronunciate da Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, che si è sempre battuta per far emergere la verità sulla morte del fratello e che continuerà a farlo, anche dopo la sentenza di primo grado.
Ma ripercorriamo, brevemente, la vicenda, premettendo che, nella maggior parte dei casi, i poliziotti e i medici, in Italia, lavorano bene, proteggono, salvano, tutelano e curano i cittadini ma, qualche volta, si verificano delle eccezioni. Che fanno paura, che fanno rabbia.
Stefano aveva 31 anni, era un geometra, appassionato di boxe. Ma soffriva anche di epilessia ed era tossicodipendente e, per questo, era stato in cura presso alcune comunità terapeutiche.
Il 15 ottobre 2009 viene trovato in possesso di 21 grammi di hashish e il giudice decide per la custodia cautelare. Una settimana dopo, Stefano Cucchi muore.
Al momento dell'arresto pesava 43 kg (per 176 cm di altezza) magro sì, ma in buone condizioni fisiche. Il giorno successivo, durante il processo - avvenuto per direttissima - il ragazzo presenta difficoltà a camminare e a parlare e ha evidenti ematomi agli occhi; ancora una volta, il giudice stabilisce, per lui, la custodia cautelare. Le condizioni di Stefano continuano a peggiorare: la visita presso l'ospedale Fatebenefratelli accerta lesioni ed ecchimosi alle gambe, la frattura di una mascella e alla colonna vertebrale e un'emorragia alla vescica: il 22 ottobre, Stefano muore all'ospedale Sandro Pertini.
Cosa è successo dopo il decesso?
Il personale carcerario nega di aver picchiato Stefano e sostiene che il ragazzo sia morto a causa della tossicodipendenza oppure per condizioni fisiche già precarie oppure ancora per aver rifiutato il ricovero al Fatebenefratelli; il sottosegretario di Stato, Carlo Giovanardi, insiste col dire che sia morto sempre per abuso di sostanze stupefacenti o per anoressia, aggiungendo anche che fosse sieropositivo (in seguito si è dovuto scusare con i familiari di Cucchi per queste sue dichiarazioni); i medici sostengono che il giovane rifiutava il cibo e le cure. Con le indagini preliminari si riesce a dimostrare che, a causare la morte, sarebbero stati i traumi causati dalla violenza subita in carcere e dall'ipoglicemia causata dal digiuno per la mancata assistenza sia da parte degli operatori sanitari sia da parte degli agenti penitenziari.
Le indagini procedono, dal 2009 al 2013, e il 13 dicembre 2012 i periti incaricati anche dalla Corte stabiliscono che le lesioni riscontrate sul corpo del ragazzo potrebbero essere state causate da un pestaggio o da una caduta accidentale e che “non vi sono elementi che facciano propendere per l'una piuttosto che per l'altra dinamica lesiva”, nonostante le testimonianze di alcuni detenuti che fanno chiari riferimenti all'uso della violenza da parte dei secondini.
Il 5 giugno scorso, la III Corte d'Assise condanna in primo grado sei medici dell'ospedale Sandro Pertini a due anni di reclusione per omicidio colposo (con pena sospesa) e assolve sei persone, tra infermieri e guardie penitenziarie, per non aver commesso alcuna azione che abbia contribuito al decesso di Stefano Cucchi o, per dirla con precisione, per “mancanza di prove”.
La lettura della sentenza ha suscitato lo sdegno da parte del pubblico in aula e le lacrime di Ilaria, la sorella di Stefano che continuerà a combattere per affermare la verità e la giustizia.
Molti gli omaggi, le dediche e anche gli approfondimenti culturali su questa vicenda: ricordiamo, ad esempio, il documentario 148 Stefano, mostri dell'inerzia, realizzato da Maurizio Cartolano e sponsorizzato da Amnesty e Articolo 21 e anche la canzone Fermi con le mani di Fabrizio Moro, un modo diretto per veicolare un messaggio sul diritto alla vita e per avvicinare anche i più giovani a questa storia e alle necessarie riflessioni che essa fa scaturire.







martedì 4 giugno 2013

Cosa succede in Turchia?


Cosa sta succedendo in Turchia in questi ultimi giorni?
Succede che il Comune di Istanbul ha deciso di cancellare il Gezi Parki, l'unica zona verde nel centro cittadino, per costrure un gigantesco shopping-mall, un centro commerciale, un “non-luogo” come Gilles Deleuze definiva questi edifici dedicati allo shopping sfrenato. Succede che il progetto sia già stato approvato ma - per paradosso - non sia ancora arrivato, invece , il permesso per l'abbattimento degli alberi e così, abusivamente, gli operai abbiamo iniziato a raderli al suolo lo stesso. Succede che, venerdì 31 maggio, cinquantamila manifestanti si siano rovesciati in piazza Taksim e dintorni per contestare questo progetto urbanistico e che siano stati attaccati dalla polizia.
Comitati di cittadini, singoli, personalità politiche, sindacati, esponeneti della cultura e dello spettacolo, forze di sinistra e correnti vicine all''islamismo: per la prima volta, tutti, tanti uniti per dichiarare il proprio dissenso nei confronti di questa decisione, che riguarda un bene pubblico e, più in generale, nei confronti delle politiche conservatrici del primo Ministro Recep Tayyip Erdogan, tra le quali si annoverano: la legge contro la vendita di alcolici dopo le 22 nei supermercati e la campagna di moralizzazione dei comportamenti pubblici.
La manifestazione contro la realizzazione del centro commerciale è iniziata con concerti improvvisati, danze, discorsi: un modo pacifico e democratico di esprimere, da parte dei cittadini, un parere su una decisione istituzionale. Molti hanno pronunciato frasi del tipo: “ Che il governo di dimetta”, sventolando bandiere e ritratti di Ataturk, padre della Repubblica laica moderna. Ma questa battaglia civile sta diventando sempre più politica (e manifestazioni antigovernative si stanno espandendo anche in altre città, quali Ankara e Smirne, anche grazie alla convocazione tramite i social network che erdogan ha definito “una minaccia per la società”.
La polizia ha attaccato i manifestanti di istanbul con manganelli, idranti e lacrimogeni; secondo Amnesty International ci sono stati oltre mille feriti, due morti e altri sono in pericolo di vita per ferite alla testa. Il portavoce della Ong, Riccardo Noury, ha infatti affermato: “ Pretendiamo dal Ministero della Sanità turco informazioni precise sul numero di persone rimaste ferite negli scontri e lanciamo un appello perchè ci sia uno stop nell'uso di gas lacrimogeni che sono la causa principale delle ferite riportate dai manifestanti”.
Da domenica la protesta ha cambiato registro: è diventata una protesta sonora. Le piazze e le strade di Istanbul, Ankara e Smirne sono state invase da automobilisti che hanno suonato il calcson ripetutamente, mentre sui balconi delle case le persone sbattevano pentole e coperchi. Suoni, parole, ma non la violenza. 

 

martedì 21 maggio 2013

Tunisia nel caos, Amina Tyler arrestata


Da due giorni la Tunisia è tornata nel caos: duri confronti tra la Polizia e i salafiti.
E' stato arrestato il portavoce del gruppo salafita, Sefeddine Rais, che - durante alcune sue partecipazioni a trasmissioni radio e televisive in merito al raduno nazionale che il gruppo Ansar al Sharia doveva tenere a Kairouan, ma che poi è stato vietato dal Ministero dell'Interno - aveva fatto dichiarazioni molto violente contro lo Stato e le forze di sicurezza. Secondo una fonte citata da Radio Shems, Rais aveva anche incitato ad uccidere poliziotti e giornalisti; il sindacato giornalisti tunisini ha, quindi, invitato i cronisti che si trovano a Kairouan ad indossare pettorine con la scritta “Press”, a muoversi in gruppo e, in caso di problemi, a chiedere aiuto alla Polizia.
A Kairouan è stata arrestata anche l'attivista del movimento “Femen”, Amina Tyler.
Amina aveva raccontato di essere stata “sequestrata” da alcuni parenti dopo la pubblicazione delle sue fotografie di protesta in topless su Facebook: poi è ritornata in pubblico - con capelli biondi e corti - per recarsi in piazza con l'intenzione di “affrontare i salafiti”. Come riferisce il sito Tunisie Numerique, la ragazza si era denudata davanti alla moschea Okba Ibn Nafaa in cui erano arressagliati numerosi salafiti, per sfidarli. Alcuni abitanti della città hanno voluto denunciare l'attivista che, insieme ad altre giovani donne del movimento, si mostra a seno nudo e scrive sul corpo frasi ad effetto per lottare contro il turismo sessuale, il sessismo e le discriminazioni sociali. 

 

mercoledì 20 febbraio 2013

Un nigeriano si oppone al decreto di espulsione: a ferro e fuoco il CIE di Ponte Galeria


Alle porte di Roma, il centro di identificazione ed espulsione (CIE) di Ponte Galeria è stato messo a ferro e fuoco da alcuni detenuti nigeriani dopo che uno di loro, Victor di 29 anni, si è opposto al decreto di espulsione emesso nei suoi confronti. Alcuni immigrati, suoi connazionali, hanno dato alle fiamme materassi e suppellettili, altri sono saliti sui tetti dell'istituto. Durante la rivolta è stata ferita alla mano una poliziotta e sono dovute intervenire tre squadre dei vigili del fuoco.
La rappresentanza nigeriana è la più numerosa, all'interno di questa struttura, con circa il 40% della popolazione maschile ospite (43 su 132 persone). L'immigrato nigeriano non è stato rimpatriato, altri otto sono in stato di fermo giudiziario, mentre gli altri immigrati (non nigeriani) sono rimasti indifferenti all'accaduto.
Ma il gesto di Victor e dei suoi connazionali non è l'unico Nei giorni scorsi un cittadino ivoriano si è dato fuoco all'aeroporto di Fiumicino dopo il respingimento della sua richiesta di asilo: piuttosto che entrare in un CIE o tornare in patria, ha preferito tentare di togliersi la vita. E, sempre di recente, un altro cittadino africano si è gettato sotto la metropolitana romana.
Il Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, sostiene che le condizioni nei CIE italiani siano proprie di un lager e che le persone “ospiti” al loro interno, in realtà, si vengano a trovare in una condizione di vera e propria tortura psicologica perchè i CIE sono luoghi di privazione della libertà personale e di sistematica violazione dei diritti umani: persone che non hanno commesso alcun reato sono, infatti, private della libertà e dei diritti solo perchè si trovano nel nostro Paese senza un permesso di soggiorno.
Anche questi ultimi episodi dimostrano che si debba continuare a parlare dei CIE per rivedere le condizioni di vita dei migranti al loro interno e che si debba varare una radicale riforma delle leggi sull'immigrazione.