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mercoledì 18 febbraio 2015

Dichiarazione di non sottomissione: Islam e laicità




di Monica Macchi



Occorre distinguere non tra credenti e non credenti

ma tra pensanti e non-pensanti”

Cardinal Carlo Maria Martini



La non sottomissione si regge

sul principio della separazione incondizionata

tra fede e diritto”

Fethi Bensalama


Sui principi non bisogna essere prudenti, ma riaffermarli,

per evitare i riflessi di autocensura e il trionfo degli estremisti”.

Malek Chebel, antropologo







Fethi Benslama, di origine tunisina, è psicoanalista ed insegna Psicoanalisi e Psicopatologia all'Università di Parigi VII Jussieu. Ha fondato nel 1990 la rivista Intersignes di cui oggi è Direttore ed è autore di numerosi libri: La nuit brisée (Ramsay, 1988), Une fiction troublante (Editiond de l'Aube, 1994), La psychanalyse à l'épreuve de l'Islam (Aubier, 2004) e Soudain la revolution (Denoel, 2011).



Questo breve testo sviluppa il MANIFESTO DELLE LIBERTA’ firmato il 16 febbraio 2004 a Parigi da un gruppo di intellettuali musulmani che si riconoscono nei valori della laicità e si oppongono all’ideologia dell’islamismo ed è costruito attorno a quattro istanze fondamentali.

La prima istanza sottolinea la polisemia del termine “islam” in quanto la radice trilittera S-L-M significa “guarire salvare, dare un bacio, riconciliare” e solo la decima forma “istaslama” significa “sottomissione”. Da questo derivano due importanti conseguenze: innanzitutto la differenza tra islam (scritto graficamente con la minuscola) inteso come religione e Islam (con la maiuscola) inteso come civiltà con molteplici culture ma soprattutto l’esigenza della liberazione dal paradigma identitario che legittima solo chi è assolutamente uguale a me.


Per questo occorre fare appello alla soggettività dell’individuo contro l’ipertrofia del comunitarismo e così la seconda istanza rivendica l’emancipazione femminile: infatti la donna incarnazione della “fitna”, la seduzione che diventa sedizione, rappresenta un’alterità interna minacciosa rispetto al “fahl” uomo stallone, destinato alla lotta, alla riproduzione e “dunque” alla guida della società ed alimenta l’ideologia della purezza. Secondo i firmatari del manifesto bisogna invece immettere “il disordine nella purezza” cioè il cosmopolitismo inteso come riconoscimento della dignità dell’altro come “non-simile” e come fondamento sia dell’uguaglianza che della libertà a cui sono dedicate la terza e la quarta istanza. E Benslama scrive: “l'avrete capito, se consideriamo che l'emancipazione delle donne è il punto dove si stringe e dove si dispiega il ventaglio dei problemi più cruciali per l'avvenire democratico del mondo musulmano è perchè il complesso religioso che organizza i rapporti di alterità nell'islam ha, più che altrove, inchiodato la posizione del genere femminile, con lo scopo di imporre il potere maschile”.

La terza istanza ammonisce che la libertà non può essere concessa ma deve essere conquistata attraverso l’azione trasformatrice a partire dai propri desideri e dalle proprie convinzioni: per questo sono necessari spazi in cui sperimentarla come ad esempio “l’Università delle libertà”, un’università popolare.

La quarta istanza cita esplicitamente il concetto di laicità per superare definitivamente il mito identitario riappropriandosi degli strumenti culturali, rifacendosi alla filosofia di Ibn Ruchd (Averroè) e Ibn Bajja (Avempace) che distingue tra reato e peccato fino alla teologia del sudanese Mahmoud Taha secondo cui l’atto di nascita dell’uguaglianza è la separazione tra spirituale e legislativo. Laicità questa che non è laicismo e non ha come obiettivo la distruzione dell’istituzione religiosa ma quello di limitare la pulsionalità e di costituire un luogo dove articolare le fratture.


mercoledì 4 febbraio 2015

La beduina Rafea Um Gomar, prima ingegnere solare di Giordania


di Monica Macchi




Nata e cresciuta in una comunità beduina del deserto orientale del Regno di Giordania, ha sfidato i ruoli di genere diventando la prima ingegnere solare del suo Paese e la prima consigliera comunale a Manshiat Al-Ghayath, una zona isolata a circa 260 chilometri dalla capitale Amman. Insieme con la compagna di studi e collega Sahia Um Badr, ha creato 80 impianti solari che non solo hanno illuminato l’intero villaggio ma hanno anche stimolato il ruolo delle donne nell'economia locale, riducendo povertà e dipendenza; il loro prossimo progetto è aprire un centro per formare donne provenienti da altri villaggi e forse addirittura da altri Stati.

Ma la storia di Rafea ha anche rotto il tabù sociale in base al quale in una comunità rurale beduina, le donne non hanno alcun ruolo da potersi ritagliare se non stare a casa a prendersi cura di marito e bambini. E anche lei sembrava destinata a percorrere la stessa strada: sposata a 15 anni per la prima volta e divorziata dopo solo un anno, torna a stare dai genitori per un anno e mezzo dopo di che si è sposata con il suo secondo marito, diventando la sua terza moglie e avendo quattro figli. La sua vita è cambiata quando, con il supporto di UN Women ha avuto la possibilità di frequentare il Barefoot College in India, dove donne, spesso con poca o nessuna istruzione, arrivano da tutto il mondo per diventare ingegneri solari. E in tutte le interviste rilasciate, ripete che “Il messaggio più importante che posso lanciare a tutti i giovani è che l’istruzione è la cosa più importante nella vita”. Ma Rafea ha anche ricevuto un altro supporto fondamentale quello del padre, un leader tribale di alto rango del villaggio. Se infatti da un lato il marito ha ripetutamente minacciato di portarle via i figli se non avesse aderito ai costumi culturali tradizionali, il padre, anche se titubante all’inizio, ha sostenuto pubblicamente di fronte all’intera comunità le aspirazioni della figlia.

Ennesima conferma dell’importanza del ruolo e del sostegno degli uomini nell’emancipazione femminile.


sabato 24 gennaio 2015

La forza delle donne arabe per il cambiamento




L'Associazione per i Diritti Umani vi propone il video dell'incontro con Ivana Trevisani e Monica Macchi sulle conseguenze delle rivoluzioni arabe e sull'apporto delle donne, a partire dal saggio Donne arabe in rivoluzione, Poiesis editrice. Tanti gli argomenti, importanti anche alla luce degli atti di terrorismo accaduti in Francia. Ricordando tutte le vittime.
 








Ricordiamo, cari lettori, che l'associazione propone questi incontri anche nelle scuole/università e in biblioteche. Per informazioni: peridirittiumani@gmail.com



I nostri video sono disponibili anche sul canale Youtube dell'Associazione per i Diritti Umani.




martedì 14 ottobre 2014

Il romanzo arabo al cinema





Uscito per Carocci editore, il nuovo lavoro di Aldo Nicosia si intitola Il romanzo arabo al cinema e propone un'analisi del rapporto tra cinema e letteratura attraverso quattro best-sellers, scritti tra gli anni '60 e l'inizio del nuovo millennio in Egitto e Palestina. Dalla parola scritta alle immagini filmiche per entrare nella cultura e nella Storia di alcuni Paesi al centro anche dell'attualità.








Abbiamo rivolto, per voi, alcune domande ad Aldo Nicosia che ringraziamo per la sua disponibilità.




Nel suo saggio prende in considerazione alcuni dei testi classici della letteratura araba, Uomini sotto il sole, di Kanafani, Miramar, del premio Nobel Mahfuz, L’airone, di Aslan e Palazzo Yacoubian, trasposti in opere cinematografiche: in che misura e perchè, quesi testi, sono ancora attuali?


I testi che analizzo sono stati scelti secondo vari criteri. Il primo è quello cronologico, per cui ho cercato di coprire un periodo abbastanza vasto della storia letteraria, nonché sociale e politica, del paese più importante del Medioriente, l’Egitto. Il 1967, anno di pubblicazione di Miramar, può esser considerato,a più livelli,una data spartiacque per il destino del Medioriente: è la naksa, letteralmente la ricaduta, la seconda sconfitta degli eserciti arabi contro Israele. Per il mondo arabo essa si è scolpita nella memoria come il Trauma, lo shock da cui non si è mai ripreso. La sconfitta non può esser attribuita solo alla potenza bellica del nemico, ma è figlia di un sistema politico dittatoriale e corrotto. L’atmosfera di Miramar, pubblicato poco prima della naksa è malinconica e prelude alla tempesta che si sta profilando all’orizzonte. Uomini sotto il sole, del 1963, trasporta il lettore al primo shock arabo, rappresentato dalla nakba, la catastrofe del 1948, con le sue conseguenze per il popolo palestinese. Anche qui la tragedia vissuta dai tre protagonisti, che rappresentano tre diverse generazioni di palestinesi, viene accentuata dall’assenza di prospettive future. Stavolta però a remare contro i palestinesi sono i Paesi cosiddetti “fratelli”. Si tratta quindi di una lettura del conflitto sempre di tremenda attualità, se si considera come il mondo arabo, in particolare le potenze petrolifere del Golfo alleate degli Stati Uniti, ha gestito il conflitto con Israele e con l’occidente che avalla incondizionatamente, da più di mezzo secolo, il colonialismo sionista.



L’airone, di Aslan (unico romanzo dei quattro a non esser stato tradotto in italiano), ci fa affacciare sugli anni settanta in Egitto e sull’impatto tremendo che le politiche neoliberiste di Sadat hanno avuto su un Paese che usciva da una fase socialista nasseriana, con alterni risultati, e da due guerre fallimentari con Israele, quella del 1967 e quella dell’ottobre 1973. Poco dopo quella data l’Egitto viene traghettato da Sadat verso un sistema capitalistico, basato per lo più sulle importazioni e sull’apertura al capitale straniero, che scuoterà dalle fondamenta lo stato egiziano e trasformerà il Paese in una giungla di speculatori, affaristi, da cui il cittadino non riuscirà a difendersi. Il romanzo, a livello diegetico, si focalizza sui moti del 1977, che potrebbero esser considerati i più importanti movimenti di rivolta contro un sistema politico sempre più ingiusto e corrotto, prima della rivoluzione del 2011. Anche qui prevale lo stesso sentimento di impotenza, di disfatta contro un sistema dittatoriale alleato degli Stati Uniti.



Il cerchio si chiude con Palazzo Yacoubian che rappresenta il tassello successivo delle conseguenze delle scelte scellerate di un regime, quello di Mubarak, che continua sullo stesso solco del precedente. Siamo adesso all’inizio degli anni novanta, alla vigilia della Guerra del Golfo contro l’Iraq di Saddam Hussein. Il regime egiziano si trova allora a dover contrastare un mostro che lui stesso ha contribuito a far nascere e sviluppare (ovviamente per dividere il fronte dell’opposizione e separarla da quella di ispirazione religiosa, come i Fratelli Musulmani): l’integralismo islamico. Tale movimento riesce anche a nutrirsi dell’odio popolare in seguito alla scelta di Mubarak di unirsi alla coalizione occidentale contro l’invasore iracheno. L’atmosfera che al-Aswani regala al lettore è sempre quella di una decadenza morale, sociale, culturale, diffusa in tutti gli strati e categorie sociali. La rivoluzione del 2011 appare quindi esser figlia di un malessere che colpisce i vari protagonisti del romanzo e la stessa involuzione autoritaria cui si assiste oggi, con il generale Sisi, a me appare come la conseguenza ineluttabile di un sistema sociale ed economico iniquo, fatto di compartimenti stagni che non comunicano, esattamente come i personaggi del romanzo. Ovviamente il lieto fine è l’unica nota stonata e melò che stravolge i dati di una realtà ancora assai distopica. Il mercato editoriale egiziano è ancora vittima di una visione melodrammatica della vita, da cui le nuove generazioni sembrano sia stiano, sia pur lentamente, affrancando.





Quali sono i temi principali di cui si parla in queste opere e come sono stati affrontati dai loro autori?




Ho accennato poco prima alle tematiche prevalenti di tali testi, solo per cercare di giustificare la mia scelta dei quattro romanzi e dei loro rispettivi adattamenti. Ovviamente le tematiche dipendono anche dal momento storico in cui un’opera viene composta.



In Miramar il microcosmo della pensione alessandrina è uno stratagemma per far parlare rappresentanti e simboli dei vari strati sociali, alla vigilia della guerra del 1967. Tale pluralità di voci diventa interessante e ancor più “democratica” grazie alla tecnica del romanziere di raccontare la stessa vicenda declinata in quattro versioni, che offrono angoli visuali interessanti per qualsiasi lettore. La pensione è così arena di scontri di istanze sociali differenti che comunque non riescono a traviare il percorso di vita della protagonista femminile, la giovane contadina Zohra, simbolo di un Egitto alla ricerca di un suo spazio e di un futuro incerto, ma sicuramente positivo.



Ne L’airone rimane sempre l’esigenza di fornire un microcosmo dell’Egitto, ma stavolta più coriaceo rispetto a quello della pensione, perché rappresentato dagli abitanti di un quartiere popolare situato alla periferia del Cairo. Il senso di unità di scopo è dato dalla loro battaglia contro le scelte economiche del regime sadatiano, che stanno per distruggere per sempre un mondo semplice di condivisione, a causa degli squali della speculazione edilizia.



In Palazzo Yacoubian vivono i protagonisti delle varie vicende parallele del romanzo di al-Aswani. È uno strano microcosmo, forse poco realistico, perché essi non comunicano mai tra di loro, non si incrociano nella loro quotidianità, con una sola eccezione, verso la fine. Per questo parlavo, poco fa, di una società di monadi, divisa in compartimenti stagni, frammentata e per niente coesa al suo interno. Lo stratagemma del palazzo serve solo a far emergere aspetti di corruzione presenti dei personaggi delle varie classi, mossi solo dalla sete di sesso o di potere.



Quando fu pubblicato nel 2002, il romanzo scosse la società egiziana per il coraggio del romanziere nell’affrontare temi spinosi. Più che la denuncia spietata della corruzione politica e morale, che non è una novità nella letteratura egiziana ed araba, Yacoubian è stato un fenomeno editoriale in tutto il mondo arabo, ed anche in Europa. Tra i suoi ingredienti più piccanti c’è il tabù dell’omosessualità e l’atto di accusa diretto contro il presidente della repubblica. Nel mio saggio ho cercato di analizzare in che modo un adattamento cinematografico possa trattare tali questioni, porgendole ad un pubblico molto più vasto, rispetto a quello dei lettori, e quali dinamiche politiche legate alla censura e all’autocensura vengono scatenate rispetto alla rappresentazione visiva di tali tabù.






Dal punto di vista estetico: ci può essere un collegamento tra il Neorealismo italiano e alcuni film di cui lei parla ?



Quando si fanno parallelismi o collegamenti tra cinematografie di diversi Paesi, in questo caso, Egitto e Italia, a mio avviso bisogna stare molto cauti, perché si rischia di dar un giudizio su film di culture altrui che potrebbe esser fuorviante. Innanzitutto c’è il fattore temporale: che un film prodotto negli anni novanta o nel 2006 possa esser “storicizzato” come assimilabile ad una categoria che appartiene ad un’altra epoca non mi sembra un’operazione tecnicamente proponibile. Comunque va detto che molti capolavori del Neorealismo italiano hanno ispirato registi egiziani come Shahin, Salih, Abu Sayf, al-Shaykh, Tilmisani, ed altri, nelle loro scelte estetiche. In quel caso, si è trattato di film prodotti qualche anno dopo, o al massimo un decennio dopo quelli italiani di Visconti, Rossellini,De Sica, De Santis, ecc, e non di quelli da me analizzati.Gli adattamenti dei romanzi proposti nel mio saggio sono stati realizzati da affermati registi che hanno apertamente dichiarato di essersi ispirati ai padri fondatori del cinema egiziano. E tralaltro alcuni di essi sono stati considerati dalla critica egiziana come esponenti di una corrente neorealistica (ad es. Abd al-Sayyid, regista di al-Kitkat, libero adattamento de L’airone). Comunque, fatte tali premesse, se prendiamo in considerazione le tipiche categorie del film neorealista italiano, l’adattamento che potrebbe esser più facilmente assimilabile alla corrente neorealista è il citato al-Kitkat, che è stato campione d’incassi, all’inizio degli anni novanta ed è, a tutt’oggi, uno dei più apprezzati film di tutto il cinema egiziano.


Al-Makhdu’un (“Gli ingannati, 1972), tratto da Uomini sotto il Sole, merita a pieno titolo non solo il titolo di film neorealista, ma anche quello di film di resistenza rivoluzionaria. Prova ne è il fatto che sia stato censurato e mai proiettato dalle televisioni e nelle sale cinematografiche dei Paesi arabi.






Quali sono le similitudini e quali le differenze tra il linguaggio narrativo della letteratura e quello del cinema quando si parla di un'opera di un autore arabo? Anche la poesia è molto importante...





Nel linguaggio narrativo del cinema, come accennavo poc’anzi, prevalgono modelli estetici vari, ovviamente frutto delle influenze e delle scuole di cinematografie frequentati. Nel mio saggio mi sono occupato solo di quattro adattamenti, che rappresentano una goccia nell’oceano di adattamenti proposti dal cinema egiziano e degli altri Paesi arabi, e ho avuto anche la fortuna di imbattermi in film che si ispirano a modelli, sensibilità differenti, e prodotti in epoche differenti (così come i loro rispettivi romanzi sorgente). Ognuno di essi ha le sue peculiarità estetiche e contenutistiche, ma mi sento di poter affermare che tutti e quattro nascono da esigenze diverse: se in Miramar e Palazzo Yacoubian prevalgono interessi ideologici reazionari, uniti a quelli meramente commerciali, in al-Kitkat la maestria del regista emerge dall’esigenza di creare un’opera molto libera dallo spirito dell’originale, e anche slegata dai confini spazio-temporali del romanzo sorgente. Lo spirito universalistico del film non esclude però che lo spettatore si trovi a calarsi in una realtà egiziana popolare fino al midollo. In questo senso per me è un film poetico: il lirismo delle scene è anche legato a scelte estetiche assai originali, come la scenografia impeccabile, firmata da Unsi Abu Sayf, e una serie di musiche extradiegetiche e intradiegetiche che accompagnano i vari momenti clou del film e che forse sono la chiave del suo doppio successo, di pubblico e critica.



In Al-Makhdu’un la poesia delle immagini in movimento è creata dal montaggio e dalle speciali inquadrature, soprattutto quelle girate nello spietato deserto del Golfo. Mi azzardo anche ad affermare, con tranquillità, che la carica sovversiva e simbolica di questo film è superiore a quella del pur notevole originale. Ciò è anche dovuto al fatto che gli eventi successi nel decennio che segue la pubblicazione del romanzo, danno al regista più carne al fuoco per stigmatizzare l’atteggiamento esplicitamente reazionario e anti-palestinese dei regimi del Golfo.




Come nasce la sua passione per la cultura araba?




Prima di risponderle, mi chiedo e Le chiedo se solitamente viene posta una domanda simile a chi decide di studiare inglese, francese o un’altra lingua europea, o a chi ha la passione per i telefilm made in Usa. Stiamo quindi assumendo che la cultura e civiltà anglosassone, solo per fare un esempio, sia più “vicina” alla nostra di quanto non lo sia quella araba. Qui si fa riferimento ad un concetto di vicinanza, che non è geografica, quindi per nulla affatto neutro.



Io intendo qui riesumare tale concetto di vicinanza geografica. Le dico che forse le origini siciliane mi hanno dato l’impulso (forse inconscio?) a conoscere la civiltà dei miei vicini di casa, a sud delle nostre coste. Dopo aver visitato un paese a due passi da noi come la Tunisia, ho realizzato che chi nasce e vive nel profondo meridione d’Italia ha più cose da condividere con gli abitanti della costa sud del Mediterraneo, che non con gli Inglesi o gli Olandesi. Parlo di modi di fare, di tradizioni culinarie, costumi, etiche etc.



La Sicilia conta, tra le varie dominazioni subìte, anche quella araba, per quasi due secoli e mezzo, se si tiene conto delle date scritte sui manuali di storia. Le influenze culturali sono ovviamente rimaste oltre quel periodo ufficiale. Per rendersene conto basta soltanto leggere la nostra toponomastica, oppure osservare i cognomi o tante espressioni e lemmi del dialetto siciliano.



D’altro canto, gli stessi Paesi arabi hanno avuto, tra le varie dominazioni, anche quella greco-romana, per cui forse la vicinanza culturale con l’Italia è assai più forte di quello che normalmente si pensa.



Spostandoci poi sul fronte della diversa sovrastruttura religiosa, cioè la matrice culturale islamica, allora in questo caso qualcuno storce il naso, per riaffermare la distanza “di sicurezza” da tali culture. Io ritengo che siano state esperienze di natura diversa, come il colonialismo politico, economico etc, ad enfatizzare le differenze e far crescere sentimenti anti-occidentali o anti-cristiani. Per semplificare, i governi e le classi al potere, sia in ambito cristiano che musulmano, hanno sfruttato la religione per propri fini.



Sento anche che sia un segno di rispetto conoscere la lingua e la civiltà dei propri “vicini in geografia”, anche per un'altra ragione: è statisticamente dimostrabile che nordafricani e mediorientali conoscono molto bene le nostre lingue, culture, costumi, sicuramente più di quanto noi italiani conosciamo loro (forse per autodifesa o perché costretti, o come bottino di guerra, come disse uno scrittore algerino). Quindi, anche soltanto per ricambiare la cortesia, sarebbe opportuno studiare le varie civiltà del mediterraneo, l’arabo, le varianti del berbero, e altre lingue dell’area considerate minoritarie.

venerdì 5 settembre 2014

Interventi culturali rivolti alle scuole



Insegnare i diritti
 

Il diritto di avere diritti” è un progetto culturale rivolto agli insegnanti e agli studenti delle terze medie e delle scuole superiori.

L'Associazione per i Diritti Umani , per l'anno scolastico 2014-2015, propone una serie di incontri che prevedono la presentazione e l'analisi guidata di film, documentari e la presentazione di libri con registi, autori, esperti di settore sui temi relativi ai Diritti Umani. Alcuni argomenti trattati sono:

le migrazioni (i diritti – e i doveri – dei migranti/rifugiati/profughi)

la lotta alla violenza sulle donne

l'educazione alla legalità

Cosa succede in Medioriente? Dalle rivoluzioni, alle guerre, ai cambiamenti geopolitici



MODALITA' di INTERVENTO

Ogni incontro può essere organizzato all'interno della scuola, in Aula Magna, accorpando le classi interessate.


Ogni incontro prevede l'intervento di un ospite: un rappresentante dell'associazione e/o di un esperto, regista, autore, etc.

Nel caso di un film: è prevista una presentazione dello stesso e, a seguire, un commento e un dibattito con gli studenti sulle tematiche e un'analisi anche tecnica dell'opera.


Nel caso della presentazione di libri: è prevista un'intervista agli autori (da parte della vicepresidente dell'associazione) e un dibattito con gli studenti.

 

Per la proiezione del materiale audiovisivo è necessario un proiettore (con pc o lettore dvd)


Si concorda con i dirigenti e gli insegnanti se organizzare l'incontro di mattina o di pomeriggio.



ALCUNE PROPOSTE (Questi sono solo alcuni esempi):



Presentazione di film/documentari – Alcuni titoli possibili

Tomorrow lands, alla presenza del regista Nicola Zambelli



La curt de l'America, alla presenza del regista Lemnaouer Ahmine



Non ci sto dentro, alla presenza del regista Antonio Bocola



Il giardino di limoni, con il commento di Monica Macchi, esperta di mondo arabo



Vado a scuola, con il commento di Alessandra Montesanto, critico cinematografico e vicepresidente dell'associazione.



Presentazione di libri/saggi:

Chiamarlo amore non si può = una raccolta di racconti sulla violenza contro le donne, alla presenza di alcune autrici



Ferite di parole = donne arabe in rivoluzione, alla presenza dell'autrice Ivana Trevisani e di Monica Macchi



La felicità araba = un incontro con lo scrittore Shady Hamadi sul suo saggio che illustra cosa sia successo in Siria e cosa sta accadendo ancora oggi



Viaggio nel continente africano = incontro con lo scrittore e musicista Pègas Ekamba Bessa (con possibilità di un intermezzo musicale)



Il Tempo dalla mia parte = incontro con l'attore e scrittore Mohamed Ba, per parlare di Senegal, di migrazioni, di teatro e di tanto altro ancora



COSTI

Ogni incontro prevede un compenso di 350 euro netti.

Come detto, di solito, le scuole accorpano le classi interessate e dividono la cifra per il numero di studenti partecipanti.

 
 
Per ulteriori informazioni o adesioni : peridirittiumani@gmail.com

martedì 16 aprile 2013

I disorientati: l'ultimo romanzo di Amin Maalouf




Autobiografia e finzione; Passato e Presente; Oriente e Occidente; vita e morte; storia individuale e riflessione universale: tutto questo ne I disorientati, l'ultimo lavoro editoriale di Amin Maalouf, pubblicato da Bompiani.
Il Libano non viene mai chiamato così, ma si parla, nel testo, di “Levante”, e dal Levante prende l'avvio la storia di Adam, fuggito dalla guerra e ora insegnante di Storia a Parigi. All'annuncio della morte dell'ex amico Mourad, Adam è costretto a ritornare nel proprio Paese d'origine dove tutto è rimasto uguale e dove il tempo sembra essersi fermato. Sembra: è rimasto, forse, il Circolo dei Bizantini, quel gruppo di ragazzi che voleva cambiare il mondo, ma a cambiare sono stati proprio loro. Il conflitto li ha separati e spinti verso strade diverse; c'è chi è andato all'estero, chi è rimasto in patria, imbrigliato nelle maglie corrotte della politica e chi ha deciso di partecipare alla guerra civile. Adam cerca di radunare i sopravvissuti: emergono, così, i rancori sopiti e le verità non dette, ma il confronto, sincero anche se difficile, cambierà il presente del protagonista.
Amin Maalouf è uno scrittore libanese, illuminista arabo che, nel 2011, ha ricevuto la spada di Accademico sulla cui lama ha fatto incidere i simboli della sua doppia identità: la Marianna della Rèpublique e il cedro del Libano. Quel riconoscimento è stato, per lo scrittore, importantissimo perchè ha sancito il suo ingresso nell'istituzione fondata dal cardinal Richelieu per codificare e salvaguardare la lingua francese. Libanese e francese, mediorientale ed europeo: Adam è l'alter ego di Maalouf che, narrando la propria vicenda in prima persona, riporta il clima intellettuale della giovinezza dell'autore, le sue aspirazioni e le speranze dei suoi coetanei in un momento di grande fervento storico e politico. Ma la guerra, durata dal 1975 al 1990, ha distrutto ogni possibilità di cambiamento. In un'intervista a Famiglia Cristiana, Maalouf racconta: “ La guerra è iniziata il 13 aprile del 1975, di domenica, con due massacri. Uno, la sparatoria contro l'autobus dei militari palestinesi in un quartiere di Beirut, è avvenuto sotto la finestra di casa mia, a trenta metri. Ero un giornalista appena tornato dal Vietnam, ma ricordo con terrore quella decina di secondi, appoggiato al muro per proteggermi, che causarono oltre venti morti. Non volevo far crescere i miei figli in un posto dove, a 14 anni, si può prendere il fucile per ammazzare una persona”. Infatti, lo scrittore, allo scoppio della guerra, scappa dal Libano e ora vive a Parigi. Ma per circa una trentina d'anni non ha voluto parlare o scrivere della propria esperienza e fare i conti con la Memoria individuale. Lo fa ora, con questo romanzo. Perchè adesso è in grado di affrontare il senso di colpa causato dal fatto di essere andato via, di aver scelto la strada più facile. Ritornano, nel libro, i temi a lui più cari: l'esilio, appunto, l'incontro tra due culture differenti, il confronto religioso, la ricerca della propria identità. Ma, in questo suo ultimo lavoro, lo scrittore aggiunge un argomento importante: dalla cultura greca classica, dall'Occidente, riprende la riflessione sul “nostos”, sul ritorno. Il ritorno alle proprie radici, alla propria Terra, per guardarsi in faccia e ammettere che, forse, anche lui stesso è un dis-orientato.
Amin Maalouf



giovedì 4 aprile 2013

Forum Sociale Mondiale: l'anno di Tunisi

Si è appena conclusa, con una grande marcia per la libertà e i diritti, l'ultima edizione del Forum Sociale Mondiale che - a due anni da Porto Alegre, nel sud del Brasile - ha visto la Tunisia come Paese ospitante.
Cinque giorni, dal 26 al 30 marzo, di intense attività in cui si sono riuniti associazioni, movimenti altermondialisti, società civili: per la prima volta in un Paese arabo, per la prima volta sulla sponda del Mediterraneo. La scelta del capoluogo tunisino non è stata casuale, ma è seguita all'assassinio del leader dell'opposizione Chokri Belaid, avvenuto nel mese di febbraio.
Raffaella Bonini, coordinatrice italiana e mondiale dell'appuntamento, ha dichiarato: “Non siamo più una novità, un fenomeno di moda, la faccia buona della contestazione no-global che i governi locali e nazionali e le più ricche Ong mondiali facevano a gara a sponsorizzare. Proprio in questi ultimi anni, mentre la crisi ha popolarizzato le tematiche e le intuizioni dei movimenti rappresentati nel Forum Sociale Mondiale, abbiamo perso sostegno e finanziamenti. Questo appuntamento di Tunisi è stato costruito con l'impegno volontario, al quale ha poi fatto seguito un appoggio da parte delle istituzioni tunisine”. 
Proprio centinaia di giovani tunisini, spesso militanti nell'associazionismo, hanno lavorato alacremente per organizzare gli incontri, le manifestazioni culturali, i seminari, gli appuntamenti musicali che hanno arricchito il programma del Forum, il quale si è tenuto, in buona parte, all'interno del campus universitario di El Manar. Si tratta di quei giovani che, da due anni, hanno dato vita alla rivoluzione democratica araba, che sono scesi nelle piazze delle principali città del Nord Africa per ribaltare regimi autoritari e violenti.
Adesso è il momento della ricostruzione, della creazione di nuove basi su cui ricominciare. E i temi, per avviare il cambiamento e discussi all'interno del Forum, sono stati, oltre alla crisi politica: una giustizia economica internazionale, il problema del cambiamento climatico nelle zone aride del Maghreb-Mashreq e le conseguenze sulle popolazioni, la piaga del land-grabbing, le istanze di uguaglianza e di libertà per tutti. A questo proposito è bene ricordare che, nei giorni che hanno preceduto l'inaugurazione del Forum, si è tenuto anche il Terzo Incontro Globale dei Media Indipendenti durante il quale, gli attivisti e i giornalisti hanno chiesto un riconoscimento formale del loro operato e la possibilità di lavorare liberamente, partendo dal presupposto che non ci può essere pluralismo politico senza pluralismo dell'informazione. 





 


mercoledì 27 marzo 2013

Il diritto del dissenso




Si può discutere sulle modalità di dissentire o di protestare, ma non del diritto di farlo.
Inna Shevchenko, Oksana Shachko, Anna Hutsol sono le cofondatrici dell'Ong femminista Femen, fondata nel 2008 in Ucraina e che oggi vede attiviste anche in Italia, Germania, Olanda, Francia, Brasile, Stati Uniti e Canada. Le donne, giovani e meno giovani, organizzano dei blitz, si mostrano a seno nudo e con scritte rosse sul corpo e gridano slogan.
Il loro nome - “femen”, appunto - significa, in latino, “coscia” e proprio il corpo è la loro unica arma per combattere la mercificazione e la denigrazione della donna in tutte le società, il turismo sessuale e ogni forma di sessismo.
La protesta delle Femen è arrivata anche in Tunisia. Ma per poco.
Perchè l'attivista che voleva lanciare il movimento anche nel Paese nordafricano, Amina, è stata raggiunta da una fatwa, ovvero è stata minacciata di morte.
19 anni, studentessa liceale, Amina aveva pubblicato sulla propria pagina Facebook alcune sue fotografie a seno scoperto con le scritte, in arabo e in inglese, “ Il mio corpo mi appartiene e non è di nessuno” mentre fuma una sigaretta, oppure “Fanculo la tua moralità”. La pagina del social-network ha raccolto 3700 amici, ma anche tantissimi insulti. Anche la sua famiglia non ha accettato l'atto di rivolta della ragazza, atto che in Tunisia è passibile, dal punto di vista penale, di una condanna a sei mesi di reclusione per l'accusa di “offesa al pudore”. Ma non è finita qui.
Da martedì scorso non si hanno più notizie di Amina: il cellulare è spento e risultano disattivati i suoi profili Facebook e Skype. La situazione è preoccupante se si considera che la ragazza è stata minacciata da un gruppo di salafiti i quali - tramite una dichiarazione ufficiale del predicatore integralista Adel Almi - hanno richiesto, per lei, la quarantena, la fustigazione e,infine, la lapidazione.



 

lunedì 4 febbraio 2013

Sei traduzioni, un solo indagato

A pochi giorni dalla decisione della Procura di Bergamo di archiviare le accuse nei confronti di Mohammed Fikri, la famiglia di Yara Gambirasio - la ragazzina di Brembate di Sopra (BG) uccisa il 26 novembre 2010  - ha chiesto di non chiudere il fascicolo perchè, giustamente, vuole che siano battute ancora tutte le strade, che niente rimanga intentato nella ricerca della verità. E qui non si vuole entrare nel merito della questione giudiziaria.
Il problema è un altro.
Il problema è che, da due anni, Mohammed Fikri resta l'unico indagato a causa dell'incapacità - da parte dei numerosi interpreti della lingua araba e consulenti del Tribunale - di tradurre in maniera certa e corretta una frase che il ragazzo marocchino ha pronunciato, al telefono, pochi giorno dopo l'omicidio della ragazza.
Il verbo che crea problemi di interpretazione è "qatala" che, in arabo, significa "uccidere", ma è la pronuncia di due consonanti - la "q" e la "t" - a generare confusione. Nel corso delle indagini (e del tempo), infatti, sono risultate sei le traduzioni possibili della frase, tra cui: "Dio mio, Dio mio, non l'ho uccisa io", "Dio, fà che risponda", "Dio, perchè non funziona" etc., ognuna delle quali inserita all'interno di ipotesi e situazioni diverse. Lo stesso Fikri, in un momento di esasperazione, ha detto: "Nel mondo, un miliardo di persone parlano arabo. Perchè non mandate le mie telefonate ad Al Jazeera?"
Il muratore di cittadinanza marocchina non ha prove a suo carico, a parte la frase di cui non si accerta l'esatta traduzione. Non bastano le dichiarazioni del suo ex-datore di lavoro, il quale afferma che il giovane si trovasse con lui la sera dell'omicidio; nè valgono le intercettazioni telefoniche che lo scagionano; e nemmeno il test del DNA che non è compatibile con quello trovato sul corpo della vittima. 
Fikri aspetta che siano fugati definitivamente i dubbi sulla sua persona, non trova più un lavoro, è continuamente oggetto di insulti e diffidenze.
Deve essere fatta giustizia prima di tutto per la ragazzina, ma non si può negare la vita anche ad un'altra persona solo per l'inefficienza e l'incompetenza di alcuni, se vogliamo parlare, ancora una volta, di un Paese civile.