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sabato 15 novembre 2014

Per i 43 studenti uccisi in Messico



L'Associazione per i Diritti Umani vi invita a leggere e poi a firmare il seguente appello, per la memoria di quei 43 studenti ammazzati in Messico e per i loro familiari. Ricordiamo cosa è accaduto: la notte del 26 settembre un gruppo di studenti si sono impossessati di tre autobus per protestare, la polizia locale ha aperto il fuoco contro i manifestanti e ha ucciso uno studente. Nelle ore successive, mentre gli studenti denunciavano l’accaduto, un gruppo armato li ha attaccati. Allo stesso tempo un altro gruppo ha aperto il fuoco contro un autobus che trasportava una squadra di calcio, uccidendo un giocatore. È stato dimostrato che le armi usate dal commando erano della polizia.



L'iniziativa è stata lanciata da Amnesty: www.amnesty.it



Dopo la conferma che i 43 studenti dell'istituto per maestri di Ayotzinapa scomparsi il 26 settembre a Iguala sono stati uccisi e bruciati e i loro resti gettati in un fiume, Amnesty International ha accusato il procuratore generale del Messico, Jesus Murillo Karam, di non aver evidenziato le complicità del governo in questa tragedia.
Le indagini sono state limitate e incomplete e non hanno messo in luce la radicata collusione tra lo stato e la criminalità organizzata, che spiega le gravi violazioni dei diritti umani che hanno luogo in Messico.

Il sindaco di Iguala, il principale imputato per la sparizione dei 43 studenti, è stato a lungo sospettato di corruzione e gravi crimini. Nel giugno 2013 un sopravvissuto a un attacco contro otto attivisti aveva accusato il sindaco di aver preso direttamente parte all'azione, nel corso della quale tre degli attivisti furono uccisi. Il sopravvissuto fornì un resoconto dettagliato, che fu consegnato a un notaio per paura della corruzione della polizia. Il procuratore dello stato di Guerrero non indagò sulla sua denuncia e, nonostante le schiaccianti prove contro il sindaco, l'indagine è stata chiusa nel maggio 2014.

Nel corso delle ricerche sui 43 studenti scomparsi il 26 settembre a Iguala, nella zona sono state rinvenute 19 fosse comuni. Finora sono state arrestate 74 persone. Durante l'attacco agli studenti, sono state uccise sei persone.

Quarantatré studenti scomparsi risultano ancora dispersi dopo che la polizia ha aperto il fuoco contro di loro e dopo essere stati attaccati da sconosciuti a Iguala, stato di Guerrero. Ventotto corpi, non identificati, sono stati ritrovati in una fossa comune vicino a Iguala; la ricerca delle persone scomparse continua.

I 43 studenti non sono stati ritrovati dalla loro sparizione, il 26 settembre nella città di Iguala, nello stato di Guerrero, nel Messico meridionale. Circa 25 di loro erano stati arrestati dalla polizia municipale, mentre gli altri sono stati rapiti da uomini armati non identificati che hanno operato con l'acquiescenza delle autorità locali, poche ore dopo. Tutti gli studenti scomparsi sono vittime di sparizione forzata.

Il 5 ottobre funzionari dello stato di Guerrero hanno ritrovano sei fosse comuni nei pressi di Iguala, a quanto pare a seguito di informazioni fornite da alcuni dei 22 agenti della polizia municipale attualmente in stato di arresto. Almeno 28 corpi sono stati esumati, ma devono  essere effettuati esami medico-legali per identificare i cadaveri. Non è ancora chiaro se si tratta  degli studenti rapiti. Sulla base di una petizione dei rappresentanti di parenti delle vittime, esperti forensi internazionali indipendenti stanno aiutando nel processo di identificazione.

L'Ufficio del procuratore generale federale (Procuraduria General de la República, Pgr) si è assunto l'incarico di gestire l'indagine sulle fosse comuni e l'identificazione dei cadaveri. Tuttavia, l'indagine sulle sparizioni e sugli omicidi di altre sei persone, il 26 settembre - tra l'altro funzionale a determinare dove siano i 43 studenti - rimane all'Ufficio del procuratore generale dello stato di Guerrero, nonostante le accuse di possibili legami con gruppi criminali e la sua ripetuta incapacità di svolgere indagini efficaci su gravi violazioni dei diritti umani.

La gravità di queste sparizioni forzate e omicidi, associata al coinvolgimento del crimine organizzato, è sufficiente perché la Pgr rivendichi la competenza su questi casi, ma finora non è riuscita a farlo.



venerdì 18 luglio 2014

Il sole splende tutto l'anno a Zarzis: l'emigrazione vista dai più giovani




Un romanzo, o meglio un reportage-narrativo, che attinge dall'attualità per riflettere sui temi legati all'emigrazione, al cambiamento, all'identità. Questo e molto altro nel nuovo lavoro di Marta Bellingreri intitolato Il sole splende tutto l'anno a Zarzis (per Navarra Editore), con la prefazione di Gabriele Del Grande.



Pubblichiamo l'intervista che abbiamo fatto all'autrice, ringraziandola.



Il testo è composto da tante storie: sono storie, in fondo, reali, storie di ragazzi che ha incontrato di persona?



Tutte le storie narrate in questo libro sono storie vere. Ogni nome proprio, sia dei ragazzi che delle madri o sorelle o familiari, sono i nomi reali dei ragazzi e personaggi. Quindi sì, sono persone che ho incontrato di persona. I primi li ho incontrati a Palermo nel febbraio e marzo 2011 insegnando italiano con la mia associazione Di.A.Ri.A. Tutti gli altri li ho conosciuti a Lampedusa tra giugno e settembre dello stesso anno. Infine, un solo personaggio, l'ho incontrato a Roma e con lui altri ragazzi di cui parlo nella parte ambientata, o meglio vissuta, per l'appunto a Roma. Tutti questi ragazzi sono diventati amici col tempo, è nata una relazione che prescindeva dal fatto che io fossi stata loro insegnante, loro traduttrice, loro mediatrice. Ed è così che è partita l'avventura : conoscere le famiglie e poi ritrovare loro in Italia e in Francia negli anni a seguire. L'incipit e il primo capitolo del libro parlano invece degli unici due ragazzi conosciuti in Tunisia in procinto di... bé non vi svelo.



Quali sono i sentimenti e le aspettative dei ragazzi che lasciano il proprio Paese d'origine e quali quelle delle famiglie che restano in Tunisia?



I sentimenti sono … infiniti. Paura, gioia, insoddisfazione, desiderio d'avventura, senso di responsabilità che scatena rabbia e frustrazione, oppure forza e coraggio. Le aspettative sono tutte positive ma spesso deluse: sono quelle di poter viaggiare in Europa e poi stabilirsi e lavorare. Spesso invece per entrambi gli aspetti ci sono difficoltà e ostacoli.


I loro sogni, però, si infrangono contro la crisi dell'Europa...

 

Non è la crisi ad infrangere i loro sogni. Sono le leggi ingiuste che continuano a tappar loro le ali nonostante abbiano rischiato la vita per guardare al sogno, non volendosi mai accontentare di quello che hanno tra le mani. Ebbene, non si accontentano. Ma ad un certo punto si scontrano con l'asimmetria della loro posizione di straniero senza poter materialmente reagire.



Perché il sistema di accoglienza, in Italia, non funziona ? E quali sono le falle dell”operazione Mare Nostrum”?

 

Il problema è sempre lo stesso: non funziona la legge che impedisce la libertà di viaggiare, sia dai paesi non europei della sponda sud o est del Mediterraneo, sia da un paese europeo all'altro, impedendo la libertà di scegliere in che paese fare domanda id asilo politico. Finché non cambia questo, risolvere un sistema di accoglienza spesso inefficiente sarà secondario. E pecca perché dietro c'è un business, perché la disorganizzazione e la mancanza di figure professionali, la lentezza della burocrazia, l'impreparazione delle regioni che si confrontano con emergenza piuttosto che di fronte alla regolarità di un fenomeno che tocca la nostra terra.... Mare Nostrum che falle può avere? Sì, mentre una nave militare porta le persone tratte in salvo in mezzo al mare verso un porto che spesso non è il più vicino e il più sicuro (vedi Taranto o Palermo rispetto a Lampedusa e Pozzallo), magari non può trarre in salvo altre persone che stanno arrivando dalla Libia perché percorrono distanze che necessitano giorni di viaggio. Ma oltre ia problemi pratici, Mare Nostrum ha portato a terra 70.000 e più persone in nove mesi. Ma almeno trecento ne sono morte comunque. Mare Nostrum è comunque un'operazione militare anche se compie un'azione militare. È la militarizzazione e il controllo del Canale di Sicilia che mi spaventa, senza che vari la libertà di movimento. Consiglio vivamente l'articolo della ricercatrice Martina Tazzioli: Fare spazio e non frontiere. Mare Nostrum e il confine umano-militare. http://www.euronomade.info/?p=2804.



Qual è la situazione della Tunisia post-rivoluzione, soprattutto in relazione ai diritti delle donne e dei minori?



Più che di rivoluzioni parlo di rivolte che hanno portato sì alla caduta di un regime e ad una fase di transizione con le elezioni politiche, l'assemblea costituente che a gennaio 2014 ha terminato il testo della Costituzione dove sì formalmente trovano spazio i diritti delle donne e dei minori, che già in Tunisia godevano di ampio spazio grazie al Codice di Statuto Personale del 1956. Semplicemente dalla forma alla sostanza e alla pratica a causa delle ambiguità politiche e della cultura e del sentire del paese spesso non avviene il passaggio. Rispetto ad altri paesi arabi, la situazione è positiva, nonostante i due terribili omicidi politici del 2013, diversi episodi violenti e cosiddeetti “terroristici” dal 2012 a pochi mesi fa. Ma guardando ai miei ragazzi giovani, agli amici e alle amiche...sì, si sono aperte tante possibilità in più, spesso di progetti e apertura verso il mondo. Ma spesso la maggior parte restano nel proprio quartiere a fumare e sognare al di là del mare...

giovedì 17 ottobre 2013

La carovana dei diritti: incontro sulla Siria con Shady Hamadi

Continua la nostra carovana e siamo davvero contenti di pubblicare anche il video dell'incontro che si è tenuto ieri sera, al Bistro del tempo rirovato, con Shady Hamadi sul suo libro "La felicità araba . Storia della mia famiglia e della rivoluzione siriana".
Ringraziamo Shady e Monica Macchi per i loro interventi importanti e puntuali e tutti coloro che sono intervenuti e hanno dato vita ad un interessante e approfondito dibattito.

Vi aspettiamo per il prossimo appuntamento organizzato da Associazione per i Diritti Umani: la presentazione del libro "Ferite di parole. Le donne arabe in rivoluzione. Mille fuochi di voci, di gesti e di storie di vita", di Leila Ben Salah e Ivana Trevisani. Alla presenza di Ivana Trevisani e di Monica Macchi.
Il 30 ottobre, alle ore 20.30 presso casa per la pace di Milano.

Potete visionare tutti i nostri filmati anche sul canale dedicato YOUTUBE dell'Associazione per i Diritti Umani




martedì 15 ottobre 2013

Intervista a Farid Adly sul saggio ”La rivoluzione libica. Dall'insurrezione di Bengasi alla morte di Gheddafi”



Da poco uscito nelle librerie, nella collana La cultura per le edizioni Il saggiatore, il nuovo saggio di Farid Adly - giornalista, scrittore e direttore dell'agenzia stampa bilingue ANBAMED - dal titolo La rivoluzione libica. Dall'insurrezione di Bengasi alla morte di Gheddafi , a partire dalla rivoluzione libica iniziata il 17 febbraio 2011, pone diversi interrogativi sul futuro di un'intera nazione, anche alla luce dei nuovi fatti accaduti in Libia e del sequestro lampo del premier Zeidan. Com'è scattata l'insurrezione attraverso le manifestazioni di protesta spontanee sull'onda del successo dei movimenti rivoluzionari di Tunisia ed Egitto? Si può parlare d'intervento militare umanitario? Quale validità ha la tesi della cosiddetta "eccezione araba" sull'inconciliabilità fra Islam e democrazia? E la Libia, legata all'Italia da un'infelice storia coloniale, riuscirà a garantire al proprio popolo democrazia, stabilità politica ed equa distribuzione della ricchezza petrolifera? Farid Adly riflette sugli interrogativi posti dalla rivoluzione, analizzando anche il ruolo e il coinvolgimento delle potenze straniere negli affari della famiglia Gheddafi. Prefazione di Guido Olimpio.

Abbiamo intervistato l'autore che ringraziamo moltissimo per averci regalato il suo tempo e questo importante contributo

Perché la rivoluzione libica può essere considerata diversa rispetto a quelle degli altri Paesi?

Tutte le rivoluzioni e le rivolte sono diverse l’una dall’altra. Ciascuna ha le sue peculiarità intrinseche che la differenziano rispetto ad altre. Le caratteristiche di quella libica sono da individuare nel tipo di economia del paese, basata principalmente sull’esportazione delle risorse naturali, petrolio e gas; nella composizione sociale; nella storia coloniale, quella italiana; e nella durata e violenza sanguinaria della dittatura.
La società libica fino agli anni cinquanta del secolo scorso era economicamente povera e le attività principali erano l’agricoltura di sostentamento e la pastorizia. La scoperta e le esportazioni del petrolio hanno introdotto uno squasso nel tessuto sociale, portando la popolazione ad emigrare massicciamente verso le due principali città: Tripoli e Bengasi. La ricchezza petrolifera ha distrutto l’economia produttiva e ha imposto un centralismo amministrativo, favorendo così uno stato sociale basato sull’assistenzialismo.
Un’altra caratteristica della società libica è l’assenza di divisioni confessionali e la prevalenza di un orientamento moderato nell’interpretazione della fede islamica.
Il colonialismo italiano era di popolamento insediativo e di conseguenza non si era mai interessato all’inserimento della popolazione locale nel processo amministrativo. Per dirla in altri termini, non si è formata una borghesia autoctona capace di ereditare le redini dello Stato alla fine del periodo coloniale ; al momento della partenza dei soldati italiani dopo la sconfitta nelle battaglie nordafricane della seconda guerra mondiale, in Libia si è creato un vuoto amministrativo che è stato colmato dal protettorato britannico, durato 8 anni, fino al momento dell’indipendenza. La breve fase della monarchia è stata stroncata da un colpo di Stato militare sfociato poi in una delle più sanguinarie delle dittature arabe, durata 42 anni.
Tutti questi elementi messi insieme hanno impresso alla sollevazione del 17 Febbraio 2011 un aspetto di straordinarietà, perché inaspettata. In un paese dove non si moriva di fame, nessuno pensava all’esistenza di una povertà diffusa ed una disoccupazione di vaste proporzioni. La sopportazione del tallone della repressione sembrava aver distrutto ogni risorsa di resistenza e di ribellione. In Libia, a differenza di Tunisia e Egitto, non c’era uno Stato, ma un potere familiare; non c’era né una Costituzione, né un Parlamento, né tantomeno un esercito. I partiti e i sindacati erano banditi e vietate persino le associazioni. L’opposizione era frammentata e relegata all’estero, quindi ininfluente.
Tutte queste motivazioni, messe insieme, hanno dato alla Rivoluzione libica un percorso diverso. Se nei due paesi confinanti, dove le Primavere arabe sono esplose anche lì in forme inaspettate per gli stessi organizzatori delle manifestazioni, le rivolte sono state pacifiche e si sono concluse con un intervento delle istituzioni dello Stato, per mandare a casa i satrapi al potere da troppo tempo, in Libia la rivolta si è trasformata da subito in una guerra, a causa dell’uso eccessivo della forza da parte del regime.
Paradossalmente la debolezza politica dell’opposizione libica l’ha costretta all’unità ed alla moderazione nella condotta diplomatica, chiedendo da subito la protezione internazionale; la ricchezza petrolifera ha fatto gola alle potenze occidentali, portandole all’intervento da subito per il cambiamento di regime. Due ragioni che hanno portato all’abbattimento in un tempo relativamente breve, 8 mesi, della dittatura, ma che hanno lasciato la loro impronta sulla seconda fase della ricostruzione dello Stato, dove assistiamo ad una difficoltà estrema nel percorso verso una convivenza pacifica basata sul diritto e non sulla vendetta. 
 
Hanno dato vita alla rivolta, soprattutto, i giovani e anche le donne: quali sono le modalità con cui l'hanno messa in atto?

Giovani e donne sono stati gli elementi fondamentali della rivolta libica. Le donne sono state la miccia che ha avviato la prima rudimentale organizzazione della protesta. Mi riferisco ai sit-in delle familiari dei detenuti politici di Abu Selim che rivendicavano “Verità e Giustizia”. Due parole che sono state il grimaldello che ha aperto le prime crepe nella dittatura. Dal 2008, ogni sabato a mezzogiorno, le donne parenti dei detenuti scomparsi dal 1996 chiedevano in silenzio, con sit-in davanti alle sedi istituzionali, di sapere che fine avessero fatto i loro mariti, padri e fratelli; chi li avesse uccisi e chi fossero i mandanti, ma soprattutto rivendicavano un processo per condannare i responsabili. Queste manifestazioni erano organizzate dalle donne, perché erano loro le uniche capaci di portarle a compimento senza l’intervento della polizia. Nella logica tradizionale della società libica, un poliziotto non picchierebbe mai una donna e di conseguenza quelle manifestazioni erano state tollerate dal potere tirannico, che aveva vietato qualsiasi forma di organizzazione ed espressione di pensiero. Sfruttando quella debolezza strutturale del regime, le donne avevano dato il via alla prima organizzazione collettiva che sfidava il potere e reclamava un diritto, rifiutando ogni tipo di compromesso al ribasso e respingendo ogni imposizione di indennizzi monetari.
La partecipazione dei giovani invece è stata spontanea ed originata da due motivazioni: l’influenza delle due esperienze di Tunisia e Egitto, la cosiddetta “caduta del velo della paura”, e la situazione sociale nella quale versavano le nuove generazioni della Libia, fortemente al di sotto delle potenzialità economiche del paese e soprattutto senza nessuna prospettiva. In Libia c’erano 200 mila giovani laureati disoccupati o inoccupati. In un paese che aveva il reddito pro capite più alto di tutta l’Africa, assistere al lusso che caratterizzava la vita dei figli della famiglia regnante e non poter usufruire delle potenzialità di un’economia forte come quella libica, ha indotto nelle giovani generazioni una ribellione che da tempo covava sotto le ceneri. La modalità della partecipazione è stata assolutamente spontanea e nel mio libro ho raccontato alcuni aspetti edificanti dell’esperienza rivoluzionaria libica. Sono state inventate al momento modalità organizzative che la mancata esperienza non garantiva, come per esempio nel settore della comunicazione e dell’informazione. Al Tribunale di Bengasi, è stato creato il Centro Informazione formato da giovani studenti della Facoltà di Comunicazione, guidati dal loro rettore. Hanno rappresentato la voce della rivolta nel mondo. L’altro aspetto interessante è stata la nascita di gruppi musicali, che hanno cantato la rivoluzione e hanno dato linfa all’unità del paese. Alla festa della Liberazione di Tripoli, un milione di cittadini hanno gioito in piazza ascoltando un gruppo musicale libico formato da giovani Amazig, che durante il regime erano stati incarcerati per l’uso della propria lingua. 
 
Quali sono stati gli errori compiuti dalla stampa italiana nel raccontare la rivoluzione libica (e le altre rivoluzioni arabe?)

Non parlerei di errori, perché l’informazione è un processo complesso. I limiti del mondo dell’informazione sulle rivolte arabe della Primavera 2011 sono legate all’inaspettata onda di protesta che ha fatto cadere dittature decennali, evento che nessun analista aveva previsto o inquadrato. Nel mio libro infatti cito l’unica eccezione a questo dato: l’analisi fatta all’inizio del 2010, un anno prima dei moti di rivolta, da parte dell’attuale presidente tunisino, Moncef Marzouki, allora esponente di spicco dell’opposizione all’estro. La mancanza di informazioni giornalistiche e la sorpresa hanno fatto sì che i media si affidassero ad esperti accademici, che molte volte non avevano una valida conoscenza sul campo della realtà di questi paesi, ma soltanto uno preparazione libresco fatta di riletture italianizzate di analisi altrui. Nel caso libico, per esempio, si è parlato spesso di tribalismo della società libica, analisi molto lontana dalla realtà, perché il tribalismo negli ultimi cinquant’anni non ha più rappresentato in Libia un fattore politico o militare, ma soltanto sociale. I media internazionali si sono basati su studi antropologici precoloniali italiani, risalenti alla fine dell’Ottocento e dato eco alla propaganda del regime, che aveva utilizzato il fenomeno sociale per dividere la popolazione libica, sulla base della logica “Divide et impera”. L’altro errore di valutazione credo sia stato quello di considerare la rivolta della masse arabe come un fenomeno telecomandato dall’esterno, da interessi geopolitici delle potenze del mondo industrializzato. Nel caso libico, una certa stampa italiana, per ragioni politiche di parte, ha inseguito il mito del complotto francese ai danni degli interessi italiani; un’interpretazione assolutamente smentita dai fatti, perché gli affari italiani in Libia non sono stati scalfiti dopo la caduta del regime di Gheddafi.

Si può parlare di “democrazia” all'interno di un Paese governato, per decenni, da un dittatore e quanto è importante anche la cultura per veicolare il concetto stesso di “democrazia”?

Io credo che il concetto di Democrazia sia un concetto universale e non esiste un diritto di prelazione dell’Occidente. In ogni stadio dello sviluppo sociale, si sono avuti corrispondenti modi di convivenza civile e delle regole generali di organizzazione della società. Questo vale per ogni realtà e non è una prerogativa di una rispetto ad altre. L’organizzazione sociale dei paesi industrializzati è figlia di questo sviluppo ed ha subito anche nella storia recente dei paesi europei delle derive dittatoriali, come in Italia prima e in Germania poi, con il fascismo e il nazismo. La Democrazia è un processo storico, non si esporta e non si importa, ma si sperimenta. L’organizzazione sociale che ogni comunità si dà nei diversi periodi storici è figlia dell’equilibrio di tanti fattori e non c’è nessuna collettività alla quale si possa precludere la strada dell’armonia dei poteri e della convivenza civile equilibrata e pacifica. In ogni realtà ci sono contraddizioni e nella lotta tra gli interessi diversi, prevalgono gli equilibri corrispondenti alle componenti più forti. Io personalmente sono stato e sono sempre contrario alle interpretazioni eurocentriche, che mettono una sorte di copyright sul processo democratico. Infatti, la teoria dell’eccezione araba, come confuto nel mio libro, è caduta miseramente alla prova delle Primavere arabe. Che questo processo sia difficile e irto di grandi sfide è un’altra questione, si deve dare del tempo alle società arabe affinché ricostruiscano il proprio percorso. Non ci sono limiti culturali alla Democrazia. Chiunque prefiguri una simile ipotesi, ricade di fatto nel campo delle discriminazioni che annuncia di voler combattere. 
 
Dopo la rivoluzione, sono stati compiuti passi avanti nella tutela dei diritti umani? 
 
In Libia, no. La Rivoluzione del 17 Febbraio 2011 ha fatto cadere il velo della paura e ha fatto conquistare il diritto di parola a tutti, ma il consolidamento dei diritti umani e la costruzione di uno Stato di diritto sono ancora lontani dalla pratica quotidiana. La lotta per il potere e la bramosia per la ricchezza facile hanno dato spazio alle vendette, alla corruzione ed al prevalere del “dialogo armato”. La deriva militarista della Rivoluzione libica ha creato le condizioni per la nascita di tanti “Piccoli Gheddafi”, che con il mitra in mano hanno imposto il loro volere alle istituzioni liberamente e democraticamente elette. In Libia ci sono ancora migliaia di prigionieri di guerra che non hanno avuto ancora un processo, non garantendo loro neppure una minima assistenza dello Stato, ma continuano a restare nelle mani di milizie armate incontrollate. Diverse persone sono state sequestrate subito dopo il loro rilascio da parte delle autorità giudiziarie, come avvenne alcune settimane fa con la figlia dell’ex capo dei servizi di sicurezza, Sanussi, che dopo aver scontato la condanna a 8 mesi, per ingresso illegale e possesso di documenti d’identità falsi, è stata rapita a 50 metri dal carcere dove era detenuta. Inoltre nella Libia di oggi circolano molte armi non censite e diversi gruppi che si ispirano al jihadismo estremista, che sconfitti nelle elezioni, hanno imposto il loro potere con la canna del fucile. Se questo processo non si concluderà presto, con l’affermazione dell’esclusiva detenzione della violenza da parte dello Stato, la Libia potrebbe avere una pericolosa deriva imposta da una minoranza violenta contro la maggioranza della popolazione. 
 
Cosa chiede la società civile oggi e qual è il futuro della Libia?

La società civile in Libia non chiede, ma si batte per l’uguaglianza e per l’equità. A Bengasi, per esempio, le milizie armate sono state cacciate a furor di popolo, perché la gente era stufa di vedere scippare la Rivoluzione da un gruppo di barbuti, molti dei quali avevano un passato gheddafiano oppure convertitosi alla causa nell’ultimo quarto d’ora. Per questi motivi io sono ottimista sul futuro della Libia, malgrado la consapevolezza delle difficoltà del momento e dell’inadeguatezza di molti uomini tra quelli che sono stati eletti nelle prime elezioni libere del paese. Io credo che a causa della caratteristica strutturale dell’economia libica, basata prevalentemente sulla produzione ed esportazione del petrolio, si troverà un modus vivendi per un equilibrio dei poteri, altrimenti, l’unica certezza è l’affondamento della nave e la prospettiva del naufragio per tutti. 
 
Cosa rappresentano, per lei, la Libia e l'Italia?

Una domanda sul personale, di fronte alla quale mi trovo in difficoltà. Io sono nato in Libia, a Bengasi, la città ribelle ad ogni potere costituito, e dentro di me vivo questo spirito. Sono arrivato in Italia nel 1966 per compiere gli studi universitari e per amore sono rimasto qui. Ho voluto, però, mantenere la mia cittadinanza d’origine, malgrado le autorità libiche mi abbiano negato per 15 anni il rinnovo del passaporto. Ho figli italiani e in questa mia nuova terra, non mi sono mai considerato uno straniero. Vivo quella che ho chiamato una ventina di anni fa, in un articolo sul supplemento del Manifesto Arancia Blu, “la lacerazione delle doppie diversità”. La condizione di straniero è un particolare stato di cambiamento di vita, non si fa più parte di quella passata e non si entra a pieno titolo in quella nuova. In Italia, non ho mai subito delle discriminazioni ed ho sempre agito da cittadino che rivendica e pratica i propri diritti e doveri, secondo i dettami della Costituzione Italiana, che secondo me è la più bella del mondo, perché figlia della resistenza contro il nazifascismo. Le mie radici però sono in Libia, dall’altra parte del Mediterraneo. Forse inconsciamente, dopo 30 anni di Milano, ho scelto di vivere ad Acquedolci, un piccolo centro siciliano, una media ponderata tra il capoluogo lombardo e la mia città natale, Bengasi.



martedì 30 luglio 2013

Il Brasile del Papa e delle proteste


Vorrei fare appello a chi possiede più risorse, alle autorità pubbliche e a tutti gli uomini di buona volontà impegnati per la giustizia sociale: non stancatevi di lavorare per un mondo più giusto e più solidale! Nessuno può rimanere insensibile alle disuguaglianze che ancora ci sono nel mondo...Ognuno, secondo le proprie possibilità e responsabilità, sappia offrire il suo contributo per mettere fine a tante ingiustizie sociali. Non è la cultura dell'egoismo, dell'individualismo, che spesso regola la nostra società, quella che costruisce e porta a un mondo più abitabile, ma la cultura della solidarietà; vedere nell'altro non un concorrente o un numero, ma un fratello...Desidero incoraggiare gli sforzi che la società brasiliana sta facendo per integrare tutte le parti del suo corpo, anche le più sofferenti e bisognose, attraverso la lotta contro la fame e la miseria. Nessuno sforzo di 'pacificazione' sarà duraturo, se non ci saranno armonia e felicità per una società che ignora, che mette ai margini e che abbandona nella periferia una parte di se stessa”.
Queste alcune frasi pronunciate da Papa Francesco durante la sua visita alla favela di Varginha, a Rio de Janiero.  


Il pontefice è tornato in Italia. La Confederation cup è terminata e, per un po', si spegneranno i riflettori sul Brasile in attesa dei Mondiali di calcio e delle Olimpiadi.
I brasiliani - pochi mediamente ricchi e tanti poveri - torneranno alla loro quotidianità, quella gente che è scesa in piazza per protestare contro un'economia capitalistica escludente e contro quei governanti che risolvono i problemi sociali solo in maniera superficiale, come era scritto su uno dei tanti striscioni che sfilavano durante le manifestazioni e che recitava: “Un Paese muto è un Paese che non cambia”, quelle persone che sulla spiaggia di Copacabana ascoltava e applaudiva le parole di Bergoglio quando faceva appello alla solidarietà.
Il presidente operaio Lula prima e Dilma Roussef poi si sono trovati a dover gestire una situazione economica disastrosa, eredità del precedente governo neoliberale di Fernando Enrique Cardoso. Lula si vide costretto a riadattare la sua politica in base alle richieste delle multinazionali e dei latifondisti e la Roussef ha continuato il suo operato avvicinandosi alla bancada ruralista - proprietaria della terra per la quale sono stati assassinati molti contadini e leaders sociali - e alla chiesa evangelica (e ricordiamo che la Commissione dei diritti umani è stata affidata ad un pastore evangelico, omofobo e razzista di cui abbiamo parlato in un precedente articolo). Per non parlare della persecuzione nei confronti del Movemento Sem Terra. 
Il popolo brasiliano si è stancato: è sceso nelle piazze di tutte le città per dire “basta” all'aumento del costo del biglietto de mezzi pubblici; alle tremende condizoni di lavoro degli operai impegnati nella costruzione di impanti sportivi faraonici; al progetto del treno ad alta velocità, che dovrebbe collegare ventidue quartieri di Fortaleza, ma che comporta la sparizione dei barrios, costringendo le persone ad abbandonare le propie case; alla privatizzazione merchandising sportivo da parte della Fifa che spazzerà via i piccoli veditori ambulanti.

La rabbia è esplosa, l'esasperazione è al limite. Le parole di Papa Francesco sono arrivate al cuore degli abitanti delle periferie brasiliane e di tutto il mondo, ma devono arrivare alle orecchie di chi ha il potere di avviare il cambiamento e promuovere l'uguaglianza.

sabato 6 luglio 2013

La voce e il futuro del popolo egiziano


(Reuters/Salem)
Una piazza Tahrir gremita di persone e di bandiere. Fuochi d'artificio, grida di gioia e braccia alzate al cielo: dopo Mubarak, la voce del popolo si è alzata anche per la deposizione di Mohamed Morsi, a distanza di un anno dal suo insediamento.
Il Ministro della Difesa e capo dei militari, Abdel Fattah el Sissi ha dichiarato: “ Le forze armate hanno provato in tutti i modi a promuovere la riconciliazione nazionale negli ultimi mesi e, a novembre, hanno chiesto il dialogo nazionale, ma il presidente Mohamed Morsi ha respinto la richiesta”; e Mohamoud Badr, portavoce del movimento dei Ribelli Tanarod, ha aggiunto: “L'Egitto è la patria di tutti, nessuno escluso. Continuiamo la nostra rivoluzione per pane, libertà e dignità umana”.
Il presidente eletto, dunque, è stato deposto: la Costituzione è sospesa ed è stato nominato “presidente ad interim” il giudice della Corte Costituzionale, Adli Mansour.
Una Costituzione che va rivista anche e soprattutto in tema di diritti umani; una costituzione da cui è stato escluso il divieto di discriminazione per genere e razza e che non tutela le minoranze religiose. Nell'Egitto di Morsi, ad esempio, la comunità musulmana sciita e i cristiani copti hanno vissuto in un clima di violenza e di paura costanti.
Non è stata abolita la tortura né si è smesso di sottoporre imputati civili ai processi della corte marziale, pratica, questa, contraria al diritto internazionale.
Brutte notizie anche per quanto riguarda il diritto di espressione: sono stati messi in atto processi e minacce nei confronti dei blogger, considerati “blasfemi” e si è tentato di mettere a tacere e di impedire l'operato di molti rappresentanti delle Oragnizzazioni non governative.
Infine, mentre le piazze egiziane esultano, non sono mancati incidenti e violenze. Da domenica scorsa si sono registrate 39 vittime causate dagli scontri tra oppositori e difensori della presidenza e Human Rights Watch, in un comunicato, denuncia che “almeno” 91 donne sono state molestate sessualmente se non stuprate in piazza Tahrir, complici la folla e la confusione.


(Reuters/Waguih)

martedì 25 giugno 2013

Un milione e mezzo di persone in piazza in Brasile, ma non è il carnevale


All'inizio è stata denominata la “rivolta dell'aceto”. Perchè? Perchè il governo, presieduto da Dilma Rousseff, ha deciso di aumentare la tariffa del trasporto pubblico di 0.2 reais e per questo motivo sono cominciate le manifestazioni di protesta e, nella città di San Paolo, i corpi speciali anti-sommossa della Polizia ha sparato, contro i manifestanti, dei proiettili di gomma ad altezza uomo, colpendo agli occhi sette giornalisti della Folha.
Manifestanti e giornalisti sono stati fermati con un'accusa paradossale: “Porto illegale di aceto” in quanto “l'aceto può servie a fabbricare bombe”. In realtà, l'aceto - come il limone - è usato dai repoters proprio per proteggersi dai gas lacrimogeni. Le persone bloccate e portate in questura sono state liberate, quasi tutte, nella notte seguente al fermo.
Ma le manifestazioni non si sono placate, anzi. Da San Paolo a Rio de Janeiro, da Brasilia a Fortaleza circa un milione di persone è sceso in piazza, per lo più per manifestare in maniera pacifica, anche se si è registrato qualche episodio di saccheggio e di vandalismo e, a Ribeirão Preto vicino alla città di San Paolo, un manifestante di vent'anni è morto a causa di una jeep che cercava di farsi largo tra la folla.
 La rivolta, come detto, è scaturita dall'aumento delle tariffe di autobus e metropolitana: un aumento importante per chi si sposta solo con i mezzi pubblici e guadagna di media, al mese, 700 reais che equivalgono a circa 247 euro. Ma la protesta non riguarda solo questo provvedimento: i manifestanti, adesso, si ribellano anche contro l'aumento delle tasse e la corruzione e chiedono servizi migliori per quanto riguarda la sanità e l'istruzione soprattutto dal momento in cui sono stati spesi oltre 26 miliardi di dollari dei fondi pubblici per finanziare i Mondiali del 2014 e le Olimpiadi del 2016.

Il Presidente Rousseff ha rassicurato i manifestanti con un discorso improntato sul dialogocon i partecipanti al movimento pacifico e sulla fermezza nei confronti dei violenti. “Nè il governo né la società possono accettare che una minoranza violenta e autoritaria distrugga il patrimonio pubblico e privato, attacchi luoghi di culto, incendi automobili e voglia portare il caos nei nostri principali centri urbani”, ha affermato, e riguardo alle richieste di chi è sceso nelle piazze e nelle strade ha promesso un grande patto per migliorare i servizi pubblici e una lotta molto più incisiva per combattere la corruzione.

venerdì 14 giugno 2013

La Turchia e il diritto di espressione



La notte tra, martedì e mercoledì scorso, è stata ancora una notte di scontri in Turchia.
I manifestanti sono per lo più giovani sotto i trent'anni e anche intellettuali che, in un primo momento, avevano speranto che Erdogan potesse rappresentare un buon compromesso tra le forze religiose e conservatrici e quelle laiche e filoccidentali. Ma ora si sono uniti alle voci del dissenso, soprattutto dopo che il Premier ha ribadito che il progetto urbanistico di Piazza Taksim - da cui è partita la rivolta - andrà avanti lo stesso. Linea dura confermata anche dal sindaco della città di istanbul, Huseyin Avni Mutlu, che ha affermato: “Continueremo ininterrottamente con le nostre misure, fino a quando elementi marginali saranno resi inoffensivi”. E le misure, fino alle tre dell'altra notte, sono state ancora i lanci di lacrimogeni, mentre, all'alba, i bulldozer hanno portato via i detriti e scardinato le barricate.Intanto la protesta continua anche ad Ankara e, come a Istanbul, la polizia ha reagito con lanci di gas e cannoni ad acqua.
Dall'inizio di questa situazione, il 31 maggio, si contano quattro persone decedute, centinaia di feriti e oltre 70 arresti, tra cui avvocati-attivisti che Erdogan ha definito “vandali” e “terroristi”.
Ma tutto questo ancora non è sufficiente. Il Consiglio Supremo della Radio e della Televisione (Rtuk) turco - un organismo di controllo nominato dal governo - ha deciso di multare le piccole tv che hanno trasmesso in diretta le manifestazioni, adducendo come motivazione, il fatto che: “Hanno danneggiato lo sviluppo fisico, morale e mentale di bimbi e giovani”.
Come sta reagendo, q tutto ciò, la comunità internazionale?
Gli Stati Uniti hanno espresso preoccupazione ed esigono il rispetto della libertà di espressione, di assemblea e di associazione, oltre ad di avere una stampa libera ed indipendente.
Il portavoce del Cancelliere tedesco, Steffen Seibert, ha affermato che: “Solo il dialogo può servire a calmare la situazione in modo duraturo”.
In Italia, il Ministro degli Affari esteri, Emma Bonino, ha sostenuto che Piazza Taksim non è come Piazza Tahrir, in Egitto, e che il nostro Paese vuole una Turchia pienamente democratica in Europa. Ha, inoltre, aggiunto: “ L'adesione della Turchia all'UE può avere un effetto benefico per il Paese. Nelle piazze e nelle strade si sta svolgendo un esame di maturità del governo turco” e sottolineato che, da parte della polizia turca, c'è stata una reazione sproporzionata alle manifestazioni in Gezi Park.

mercoledì 12 giugno 2013

Then months later: cosa succede in Egitto dieci mesi dopo la rivoluzione?



Andrea Balossi Restelli, Lucrezia Botton e Matteo Vivianetti - videomakers ed esperti di mondo arabo - si sono recati in Egitto, a Il Cairo, dopo la caduta del regime di Mubarak e hanno realizzato il documentario Then months later, presentato all'ultima edizione del Festival del Cinema africano, d'Asia e America latina di Milano, nel concorso Extr'a.
 Le riprese vengono fatte durante le elezioni che porteranno al governo il gruppo conservatore 
dei Fratelli musulmani e la cinepresa riprende le reazioni del popolo, le aspettative e le              preoccupazioni delle persone comuni.


Per approfondire l'argomento, abbiamo rivolto alcune domande agli autori del documentario.


Il titolo del vostro documentario suggerisce il periodo in cui vi siete recati a Il Cairo per realizzare il film ? E in che situazione si trovava la città ?

Ci siamo recati al Cairo nel dicembre del 2011 dopo che Matteo e Lucrezia ci erano stati 10 mesi prima subito dopo la caduta di Mubarak, per cercare di capire il clima elettorale ma soprattutto postelettorale.
Dalla prima visita scaturì il video Shuft (Ho visto) testimonianze di persone che avevano partecipato al movimento di piazza Tharir mischiate ai materiali (foto, filmati) realizzati dai manifestanti in quei giorni.
Durante il secondo viaggio abbiamo realizzato il video Ten Months Later che racconta le emozioni, le paure e le speranze di alcuni personaggi molto eterogenei tra loro all’indomani delle elezioni parlamentari vinte con larga maggioranza dai Fratelli Musulmani e dalla coalizione salafita.
Il clima del Cairo a distanza di dieci mesi era molto cambiato, dall’euforia dei giorni della caduta del regime si era passati ad una disillusione e spesso alla rabbia di dover subire
interventi repressivi della giunta militare con morti e feriti; inoltre il clima delle elezioni parlamentari, in cui per la prima volta i cittadini Egiziani erano liberi di esprimersi senza timori, era guastato da sospetti e tensioni.
Al nostro arrivo, infatti, abbiamo trovato una città estremamente tesa, segnata dalle recenti violenze e in balia di eventi che si succedevano con una rapidità impressionante.
In questo contesto le elezioni avevano assunto un significato molto più marginale di quello che ci si sarebbe aspettati. La schiacciante vittoria dei Fratelli Musulmani, che quasi tutti davano per scontata ma non con quelle proporzioni, diveniva agli occhi degli attivisti laici come un altro tassello di una transizione post-rivoluzionaria in cui tutto andava per il verso sbagliato.
Con il nostro documentario abbiamo cercato cogliere questo particolare momento dell'Egitto registrando tra la gente opinioni e sensazioni che rendessero l'estrema dinamicità e instabilità che si viveva in quei giorni.

Potete anticiparci le storie/testimonianze dei cinque protagonisti che avete seguito durante il vostro lavoro?

Per rappresentare quella fase di transizione ci siamo affidati a cinque persone, tra cui quattro donne, diverse per età, condizioni economiche e livelli di istruzione ma accomunate da una visione critica sulla situazione politica.
Varie sono le reazioni alla vittoria dei Fratelli Musulmani: più emotive o più razionali, sono comunque sempre amare tranne quella di una donna che vive in un quartiere popolare che risalta per l'ironia e la positività con cui si relaziona a una situazione anche per lei preoccupante.
Le proteste di via Mohamed Mahmoud e gli scontri fra polizia e giovani manifestanti sono, invece, rivissute attraverso lo sguardo lucido e appassionato di un' anziana attivista politica che ci accompagna per le strade che arrivano in piazza Tahrir.
Abbiamo seguito anche Zeinab nel suo tragitto verso casa nel traffico caotico del Cairo e ci ha detto che il sistema li lascia vivere in quel caos per stancarli e non farli ragionare, ci ha detto che molta gente vorrebbe un Paese più civile con scuole e ospedali sicuri e puliti ma che l’individualismo e l’ignoranza non permettono a questi sentimenti di prevalere.
Lei lavora come addetta alle pulizie alla tv giapponese e vive in periferia in un classico palazzone non intonacato perché scrostato o perché mai finito, ma facendoci accomodare ci dice che qui non si sta tanto male…
Nama durante l’inaugurazione di una mostra sull’ iconografia dei manifesti elettorali ci dice quanto è triste, pensa che sia finita, è veramente delusa dai risultati elettorali, crede che se i salafiti hanno preso tanti voti nelle principali città allora nelle campagne, dove ancora si stava votando, faranno il pieno! Nama cura progetti culturali nelle scuole e lavora in una compagnia teatrale e, andandosene, ci dice che se dovrà scegliere tra il velo o la barba a lei andrà benissimo la seconda!
Selma, avvocatessa di diritto commerciale, crede che i Fratelli Musulmani abbiano condotto un gioco politico sporco con una campagna ”porta porta” tra i poveri promettendo mari e monti e rimprovera ai partiti progressisti e laici di aver parlato solo al loro pubblico ristretto: a quel 10% di egiziani che già avevano una consapevole coscienza politica e li avrebbero votati comunque. In ogni caso non sembra troppo preoccupata, dice di voler vedere cosa saranno capaci di fare i Fratelli Musulmani e ci assicura che ormai la gente ha imparato a scendere in piazza è questa la vera garanzia di una democrazia.
Incontriamo Marwa mentre esce dal giornale dove lavora e si reca al seggio per votare, ci dice che darà la sua preferenza ad un partito laico e liberale anche se preferirebbe una compagine più a sinistra e ci dice che in materia di economia anche i Fratelli Musulmani
sono liberali in teoria...
Laila ci dice che la giunta militare sembra non voler lasciare il potere, dice che il movimento ha fatto male ad abbandonare la piazza, vede le divisioni interne tra Fratelli musulmani e Movimento 8 aprile come ostacolo ad un nuovo corso, ci lascia molto pensierosa ma con il piglio di una vecchia combattente!
Mustafa guida il suo taxi e fuori dai finestrini scorre la vita e ci dice che è musulmano ma
che il partito dei Fratelli divide invece che unire, dice che le persone non hanno capito cos’è la democrazia, ognuno vuole qualcosa e nessuno pensa al bene comune di tutti gli Egiziani!

Quali sono, in generale, i sentimenti delle persone che stanno vivendo la “post – rivoluzione” ? Quali le aspettative del popolo egiziano?

Generalizzando possiamo dire che tutta la gente si aspetta un governo che si interessi al bene comune e porti a un miglioramento delle condizioni di vita e diffidi di forme di potere autoritarie che perseguono interessi personali e di gruppo. Di qui viene l'attuale diffusissima opposizione al governo di Morsi. Vi e' poi, soprattutto fra quelli che si sono impegnati di persona nella rivolta contro il regime, la paura di vedere vanificati l'impegno e le sofferenze patite durante e dopo la rivoluzione a causa del prevalere di forze antidemocratiche nel corso di questa drammatica fase di transizione.
Abbiamo deciso di pubblicare il video nonostante fosse stato girato più di un anno fa e fossero successe molte cose tra cui l’elezione del presidente Morsi proprio perché ci siamo accorti di quanto fossero ancora attuali i sentimenti espressi dai nostri intervistati, molti loro timori si sono avverati e molte speranze sono state deluse, ma per quel che possiamo capire, la volontà di cambiare il Paese rimane radicata in una minoranza molto eterogenea che forse si scoprirà molto più forte di quanto immaginano gli osservatori interni ed esterni.

Pensate che i mezzi di informazione italiani riportino correttamente le notizie di quello che sta accadendo in Egitto?

In generale assolutamente no. I media più diffusi si occupano dell'Egitto - e degli esteri in generale - in maniera occasionale cercando notizie spettacolari o “olkloristiche per suscitare attenzione nel pubblico e, nella maggior parte dei casi, dando una visione limitata e distorta del Paese, spesso con un occhio solo puntato sulla condizione della donna. In particolare, sulle rivolte arabe si tende a omologare le diverse insurrezioni sotto lo stesso appellativo di Primavera Araba, espressione che gli attivisti arabi in occasione del World Social Forum 2013 tenutosi in Tunisia, hanno rifiutato perché' la considerano una narrativa orientalistica inventata dai media occidentali, che non tiene conto delle specificità', della lunghezza e della complessità' dei processi di trasformazione dei diversi Paesi arabi.
A distanza di più di due anni si può constatare che certi mezzi d’informazione italiani hanno meglio compreso le dinamiche e le situazioni di tutto il mondo arabo e quindi i cambiamenti in atto, anche se l’attenzione si risveglia a singhiozzo solo con cadaveri e esplosioni o grazie a pochi volonterosi cronisti, ma questo è un problema generale del sistema d’informazione che vive di notizie e non di indagine della realtà. Devo però dire che proprio dall’esigenza di Lucrezia e Matteo di comunicare cosa stava succedendo nella loro città d’adozione nacque l’idea del primo video, avendo vissuto per dieci anni in Egitto si preoccupavano di come dall’Italia venisse ignorata o mal interpretata la rivoluzione di piazza Tharir.







martedì 4 giugno 2013

Cosa succede in Turchia?


Cosa sta succedendo in Turchia in questi ultimi giorni?
Succede che il Comune di Istanbul ha deciso di cancellare il Gezi Parki, l'unica zona verde nel centro cittadino, per costrure un gigantesco shopping-mall, un centro commerciale, un “non-luogo” come Gilles Deleuze definiva questi edifici dedicati allo shopping sfrenato. Succede che il progetto sia già stato approvato ma - per paradosso - non sia ancora arrivato, invece , il permesso per l'abbattimento degli alberi e così, abusivamente, gli operai abbiamo iniziato a raderli al suolo lo stesso. Succede che, venerdì 31 maggio, cinquantamila manifestanti si siano rovesciati in piazza Taksim e dintorni per contestare questo progetto urbanistico e che siano stati attaccati dalla polizia.
Comitati di cittadini, singoli, personalità politiche, sindacati, esponeneti della cultura e dello spettacolo, forze di sinistra e correnti vicine all''islamismo: per la prima volta, tutti, tanti uniti per dichiarare il proprio dissenso nei confronti di questa decisione, che riguarda un bene pubblico e, più in generale, nei confronti delle politiche conservatrici del primo Ministro Recep Tayyip Erdogan, tra le quali si annoverano: la legge contro la vendita di alcolici dopo le 22 nei supermercati e la campagna di moralizzazione dei comportamenti pubblici.
La manifestazione contro la realizzazione del centro commerciale è iniziata con concerti improvvisati, danze, discorsi: un modo pacifico e democratico di esprimere, da parte dei cittadini, un parere su una decisione istituzionale. Molti hanno pronunciato frasi del tipo: “ Che il governo di dimetta”, sventolando bandiere e ritratti di Ataturk, padre della Repubblica laica moderna. Ma questa battaglia civile sta diventando sempre più politica (e manifestazioni antigovernative si stanno espandendo anche in altre città, quali Ankara e Smirne, anche grazie alla convocazione tramite i social network che erdogan ha definito “una minaccia per la società”.
La polizia ha attaccato i manifestanti di istanbul con manganelli, idranti e lacrimogeni; secondo Amnesty International ci sono stati oltre mille feriti, due morti e altri sono in pericolo di vita per ferite alla testa. Il portavoce della Ong, Riccardo Noury, ha infatti affermato: “ Pretendiamo dal Ministero della Sanità turco informazioni precise sul numero di persone rimaste ferite negli scontri e lanciamo un appello perchè ci sia uno stop nell'uso di gas lacrimogeni che sono la causa principale delle ferite riportate dai manifestanti”.
Da domenica la protesta ha cambiato registro: è diventata una protesta sonora. Le piazze e le strade di Istanbul, Ankara e Smirne sono state invase da automobilisti che hanno suonato il calcson ripetutamente, mentre sui balconi delle case le persone sbattevano pentole e coperchi. Suoni, parole, ma non la violenza. 

 

mercoledì 8 maggio 2013

The Suffering grasses: un film sul conflitto siriano





Lara Lee è brasiliana, di origini coreane, attivista, regista e fondatrice di “Cultures of Resistance Network” e ha da poc realizzato il documentario intitolato The suffering grasses.“Quando gli elefanti combattono, è l'erba che soffre”: questo potrebbe essere il senso del suo ultimo lavoro che racconta il conflitto siriano attraverso il punto di vista di decine di persone le cui vite sono state distrutte o cambiate totalmente dal conflitto. Oltre a cercare di capire le motivazioni (o almeno di esporle) degli attori della guerra - come il partito baathista di bashar al-Assad, l'Esercito siriano libero e gli altri Paesi coinvolti, quali: Stati Uniti, Russia, Cina, Iran, Libano, Turchia - la regista raccoglie le esperienze, il vissuto di persone comuni: agricoltori, donne, giovani combattenti per la resistenza, profughi. Tutte loro, in fondo, accomunate dallo stesso sentimento: quello di essere stati abbandonati. Lasciati al proprio destino sia da parte delle istituzioni interne al Paese sia da parte della comunità internazionale. E intanto le madri istituiscono scuole all'interno dei campi profughi per dare, alla follia, una parvenza di normalità.
Ma per una recensione completa e ricca di riflessioni, vi rimandiamo alla recensione di Monica Macchi per Formacinema.it :




mercoledì 20 febbraio 2013

Un nigeriano si oppone al decreto di espulsione: a ferro e fuoco il CIE di Ponte Galeria


Alle porte di Roma, il centro di identificazione ed espulsione (CIE) di Ponte Galeria è stato messo a ferro e fuoco da alcuni detenuti nigeriani dopo che uno di loro, Victor di 29 anni, si è opposto al decreto di espulsione emesso nei suoi confronti. Alcuni immigrati, suoi connazionali, hanno dato alle fiamme materassi e suppellettili, altri sono saliti sui tetti dell'istituto. Durante la rivolta è stata ferita alla mano una poliziotta e sono dovute intervenire tre squadre dei vigili del fuoco.
La rappresentanza nigeriana è la più numerosa, all'interno di questa struttura, con circa il 40% della popolazione maschile ospite (43 su 132 persone). L'immigrato nigeriano non è stato rimpatriato, altri otto sono in stato di fermo giudiziario, mentre gli altri immigrati (non nigeriani) sono rimasti indifferenti all'accaduto.
Ma il gesto di Victor e dei suoi connazionali non è l'unico Nei giorni scorsi un cittadino ivoriano si è dato fuoco all'aeroporto di Fiumicino dopo il respingimento della sua richiesta di asilo: piuttosto che entrare in un CIE o tornare in patria, ha preferito tentare di togliersi la vita. E, sempre di recente, un altro cittadino africano si è gettato sotto la metropolitana romana.
Il Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, sostiene che le condizioni nei CIE italiani siano proprie di un lager e che le persone “ospiti” al loro interno, in realtà, si vengano a trovare in una condizione di vera e propria tortura psicologica perchè i CIE sono luoghi di privazione della libertà personale e di sistematica violazione dei diritti umani: persone che non hanno commesso alcun reato sono, infatti, private della libertà e dei diritti solo perchè si trovano nel nostro Paese senza un permesso di soggiorno.
Anche questi ultimi episodi dimostrano che si debba continuare a parlare dei CIE per rivedere le condizioni di vita dei migranti al loro interno e che si debba varare una radicale riforma delle leggi sull'immigrazione.