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lunedì 20 luglio 2015

La lettera della madre di Federico Aldrovandi




L’Associazione “Federico Aldrovandi” nasce come naturale evoluzione del Comitato “Verità per Aldro”, creato nel gennaio del 2006 per chiedere verità e giustizia per Federico Aldrovandi, il diciottenne ferrarese ucciso durante un controllo di polizia il 25 settembre 2005.
In questi anni, dopo una fase iniziale di stallo nelle indagini e numerose omissioni, si è riusciti ad arrivare al processo e nel giugno del 2012 i quattro poliziotti che avevano fermato Federico sono stati condannati definitivamente a 3 anni e 6 mesi di reclusione per eccesso colposo in omicidio colposo.
Ma il “lavoro” non è finito. Abbiamo visto con i nostri occhi come sia difficile vedere applicato un banale principio di giustizia per cui se chi commette un reato indossi o no una divisa dovrebbe essere indifferente ai fini dell’azione giudiziaria.



Per tutto questo crediamo che passaggi fondamentali siano l’approvazione di una legge sulla tortura e la democratizzazione delle forze dell’ordine.
Perché, come recitava lo striscione che apriva il corteo nazionale che organizzammo nel 2006, ad un anno dall’uccisione di Federico…


Verità grido il tuo nome.
Per quello che non doveva succedere.
Per quello che non è ancora successo.
Perché non accada mai più.



Di seguito, pubblihciamo la lettera della mamma di Federico, pubblicata sul sito della loro associazione.



Perché rimetto le querele contro Paolo Forlani, Franco Maccari e Carlo Giovanardi

Ho perso Federico che aveva 18 anni la notte del 25 settembre di dieci anni fa per l’azione scellerata di quattro poliziotti che vestivano una divisa dello stato, e forti di quella divisa hanno infierito su mio figlio fino a farlo morire. Non avrebbero mai più dovuto indossarla.
I giudici hanno riconosciuto l’estrema violenza, l’assurda esigenza di “vincere” Federico, e una mancanza di valutazione – da parte di quei quattro agenti – al di fuori da ogni criterio di senso comune, logico, giuridico e umanitario.
Non dovevano più indossare quella divisa: nessuno può indossare una divisa dello stato se pensa che sia giusto o lecito uccidere.  O se pensa che magari non si dovrebbe, ma ogni tanto può succedere, e allora fa lo stesso, il tutto verrà ben coperto. Con la speranza che il sospetto di una morte insensata, inutile e violenta scivoli via fra la rassicurante verità di carte col timbro dello Stato, di fronte alle quali tutti si dovrebbero rassegnare. E poi con quella stessa divisa si continuerà a chiedere il rispetto di quello stesso Stato: che però sarà inevitabilmente più debole e colpevole. Come un padre ubriaco che ha picchiato e ucciso i suoi figli.
Il delitto è stato accertato, le sentenze per omicidio emesse. Invece le divise restano sulle spalle dei condannati fino alla pensione. Fine del discorso.
L’orrore e gli errori, con la morte e dopo la morte di Federico. La mancanza di provvedimenti non guarda al futuro, non protegge i diritti e la vita: non tutela nemmeno l’onestà delle forze dell’ordine.
Alla fine del percorso giudiziario che ha condannato gli agenti tutto ciò ora mi è ben chiaro: ed è il messaggio che voglio continuare a consegnare alla politica e all’amministrazione del mio Paese.
Dopo la morte di Federico, abbiamo dovuto difendere la sua vita vissuta e la sua dignità assurdamente minacciate. Era pazzesco, sembrava il processo contro Federico.
Ho chiesto risposte alla giustizia e la giustizia ha riconosciuto che Federico non doveva morire così.
Il processo è stato per me, mio marito Lino e mio figlio Stefano una fatica atroce, ma era necessario prendervi parte e lottare ad ogni udienza: ci ha sostenuti l’amore per Federico.
Su quel processo e da quel processo in tanti hanno espresso un’opinione. E’ stato un modo per crescere.
Alcuni hanno colto l’occasione per offendere me, Federico e la nostra famiglia. Qualcuno l’ha fatto per quella che ritengo gratuita sciatteria e volgarità, altri per disegni politici volti a negare o a sminuire la responsabilità per la morte di Federico.
Avevo chiesto alla giustizia di tutelarci ancora. In quel momento era l’unica strada, e non me ne pento.
Sono passati due anni dai fatti per cui ho sporto querela. Ci sono state le reazioni pubbliche e anche quelle politiche. Però poi non è cambiato niente.
Ho riflettuto a lungo e ho maturato la decisione di dismettere questa richiesta alle Procure e ai Tribunali: non perché non mi ritenga offesa da chi ha stoltamente proclamato la falsità delle foto di mio figlio sul lettino di obitorio, di chi ha definito mio figlio un “cucciolo di maiale”, o da chi mi ha insultata, diffamata e definita faccia da culo falsa e avvoltoio.
Non dimenticherò mai le offese che mi ha rivolto Paolo Forlani dopo la sentenza della Cassazione: è stati lui, sconosciuto e violento, ad appropriarsi degli ultimi istanti di vita di mio figlio. Le sue offese pubbliche, arroganti e spavalde le ho vissute come lo sputo sprezzante sul corpo di mio figlio. E lo stesso sapore ha ogni applauso dedicato a quei quattro poliziotti. Applausi compiaciuti, applausi alla morte, applausi di morte. Per me non sono nulla di diverso.
Rappresentano un modo di pensare molto diverso dal mio.
Non sarà una sentenza di condanna per diffamazione a fare la differenza nel loro atteggiamento.
Rifiuto di mantenere questo livello basato su bugie e provocazioni per ferirmi ancora e costringermi a rapportarmi con loro. Io ci sto male, per loro – credo di capire – è un mestiere.
Forlani e i suoi colleghi li lascio con le loro offese e i loro applausi, magari ad interrogare ogni tanto quella loro vecchia divisa, quando sarà messa in un cassetto dopo la pensione, sull’onore e la dignità che essa avrebbe preteso.
Un onore che avrebbero minimamente potuto rivendicare se da uomini, cittadini, pubblici ufficiali e servitori dello Stato, coloro che hanno ucciso mio figlio e coloro che li hanno sostenuti avessero raccontato la verità su cosa era successo quella notte, e non invece le menzogne accertate dietro alle quali si sono nascosti prima, durante e dopo il processo, cercando di negare anche l’esistenza di quella mezzora in cui erano stati a contatto con Federico prima dei suoi ultimi respiri.
Da Forlani e dai suoi colleghi avrei voluto in quest’ultimo processo solo la semplice verità, tutta.
Chi ha ucciso Federico sa perfettamente quale strazio sta dando ad una madre, un padre e un fratello privandoli della piena verità dopo avergli strappato il loro figlio e fratello. Nessun onore di indossare la divisa dello stato, nessun onore.
E nessun onore neanche a chi da dieci anni cerca nella morte di mio figlio l’occasione per dire che in fondo andava bene così: i poliziotti non possono aver sbagliato, in fondo deve essere stata colpa di Federico se è morto in quel modo a 18 anni.
Costruite pure su questo le vostre carriere e la vostra visibilità. Dite pure, da oggi in poi, che il mio silenzio è la vostra vittoria. Muscoli, volantini, telecamere, libri, convegni e applausi. Per dire che non c’è stato nessun problema il 25 settembre 2005. E per convincere voi stessi e il vostro pubblico che il problema l’hanno creato solo Federico Aldrovandi e sua madre Patrizia Moretti.
Vi esorto soltanto, da bravi cattolici quali vi dichiarate, a ricordare il quinto comandamento: non uccidere.
Non spenderò più minuti della mia vita per queste persone e per i loro pensieri. Mi voglio sottrarre a questo stillicidio: una fatica soltanto mia che nulla aggiungerebbe utilmente e concretamente a nessuno se non alla loro ansia di visibilità. Trovo stancante anche pronunciare i loro nomi. Inutile commentare le loro dichiarazioni pubbliche.
A dieci anni dalla morte di Federico per il mio ruolo di madre, ma anche per le mie aspirazioni e per la mia attuale visione del mondo, penso che il dedicare anche solo alcuni minuti a persone che disprezzo sia un’imperdonabile perdita di tempo. Non voglio più doverli vedere né ascoltare o parlare di loro.
Perciò ritirerò le querele ancora in corso.
Non lo faccio perché mi è venuta meno la fiducia nella giustizia, ma dieci anni sono troppi, ed è il momento di dire basta.
Non è il perdono, d’altra parte nessuno mi ha mai chiesto scusa, ma prendere atto che per me andare avanti nelle azioni giudiziarie rappresenta soltanto un doloroso e inutile accanimento.
Ritiro le querele perché sono convinta che una sentenza di condanna non potrebbe cambiare persone che  – da quanto capisco – costruiscono la loro carriera sull’aggressività e sul rancore.
Non ci potrà mai essere un dialogo costruttivo, perciò addio.
Questo non significa che verrà meno il mio impegno di cittadina per contribuire a rendere questo paese un po’ più civile, e questo impegno mi vedrà come sempre a fianco dell’associazione degli amici di Federico per l’introduzione del reato di tortura e ogni altra forma di trasparenza e giustizia.
C’è molta strada da fare: confronti, discussioni, leggi giuste. Bisogna affrontare il problema degli abusi in divisa in modo costruttivo.
Le parole e le espressioni contro Federico, contro me e la nostra famiglia le lascio alla valutazione in coscienza di chi ha avuto il coraggio di dirle. E soprattutto alla valutazione di chi se le ricorda. Io ne conservo solo il disprezzo.
Per me l’onore è un’altra cosa.
L’onore appartiene a chi ha cercato di capire, a chi ha ascoltato la coscienza e a chi ha fatto professionalmente il proprio dovere, a chi ha messo il cuore e l’arte oltre quel muro di gomma costruito attorno all’omicidio di Federico, a tutti coloro che gli dedicano un pensiero, un rimpianto, gli mandano un bacio.
Sono queste le persone che ringrazierò sempre, è grazie a loro che Federico è stato restituito al suo onore di figlio, fratello, amico, ragazzo che voleva vivere, e tornare a casa.
 
Patrizia Moretti


domenica 29 marzo 2015

Mappare le mafie: un progetto importante per la legalità


Mappare le mafie: un nuovo progetto etico da sostenere



L'Associazione per i Diritti Umani ringrazia Marco Fortunato, Osservatorio sulla 'ndrangheta e decide di dare visibilità a questo progetto, utile e importante per garantire un futuro di legalità e giustizia al nostro Paese. Ogni cittadino può fare qualcosa e tutti insieme possiamo dar vita al cambiamento.





MafiaMaps è il primo progetto di un’App per smartphone e tablet che permetta a chiunque la ricerca e la visualizzazione di carte geografiche sul fenomeno mafioso in tutta Italia.



Nata dall’evoluzione di un progetto di WikiMafia – Libera Enciclopedia sulle Mafie, grazie alla completa integrazione con quest’ultima sarà qualcosa di più di semplici mappe: sarà la prima enciclopedia geografica sul fenomeno mafioso.



Il cittadino potrà avere sempre a portata di mano il più grande database sulla criminalità organizzata e non solo avrà accesso a tutte le informazioni rilevanti sul fenomeno mafioso di tutta Italia, ma sarà in grado di fare ricerche avanzate in maniera semplice e veloce in qualsiasi luogo d’Italia si trovi su qualsiasi aspetto di suo interesse.



Uno strumento per diffondere conoscenza, ma anche per coltivare Memoria: di quello che è stato il fenomeno mafioso in Italia e di chi lo ha combattuto, molto spesso pagando con il sacrificio estremo della vita.  E proprio per evitare che si ripetano scenari già visti, dare visibilità a chi oggi li combatte tutti i giorni sul territorio, rilanciando direttamente le iniziative e gli eventi, ma anche notificando in tempo reale le ultime notizie di mafia provenienti da un territorio, grazie alla collaborazione con le nostre testate partner.



Come è nata l’idea di MafiaMaps



Quando è nata WikiMafia - Libera Enciclopedia sulle Mafie nel 2012, uno dei principali progetti che avevamo annunciato erano le "Mappe delle principali attività mafiose in Italia", in quanto eravamo convinti che non vi fosse solo l’esigenza di riorganizzare in maniera scientifica tutta la conoscenza accumulata in oltre 30 anni sul fenomeno mafioso, ma anche di dare a questa conoscenza una proiezione geografica che aiutasse il cittadino a comprendere effettivamente l’entità della minaccia mafiosa. Eravamo e siamo convinti che la mancata consapevolezza del cittadino comune (che permette alle organizzazioni mafiose di radicarsi e di inquinare sempre più territori al di fuori degli originari contesti di insediamento) sia anche figlia della mancata percezione anzitutto geografica del fenomeno nel proprio territorio.



Questa mancata percezione, nonostante svariate e documentate inchieste giornalistiche che irrimediabilmente finiscono nel dimenticatoio, è la prima ragione del dominio mafioso in sempre più ampi settori della vita socio-economica in Italia (e non solo). Per questo nel dicembre 2014 abbiamo deciso di dare una propria autonomia alle "Mappe", trasformandole nel progetto di MafiaMaps.



Perché il Crowdfunding



La mole di informazioni da processare e la necessità di un team che si occupi a tempo pieno del progetto fa sì che non possiamo affidarci alle esigue risorse (poco più di 150 euro) con cui in due anni siamo riusciti a far conquistare a WikiMafia non solo il titolo di "prima", ma anche di "più grande" enciclopedia sul fenomeno mafioso. Per questo motivo sabato 21 marzo 2015 abbiamo lanciato la campagna di crowdfunding #mappiamolitutti, perché pensiamo che questa nuova e innovativa pagina della Storia del contrasto alle organizzazioni mafiose debba essere scritta anche con voi che come noi condividete l’ideale di un mondo senza mafie. Perché questa volta c’è bisogno dell’aiuto di TUTTI affinché il sogno si concretizzi.



Ci rivolgiamo, quindi, a VOI, studenti, studiosi, giornalisti, professori, blogger, appassionati, associazioni, comitati, antimafiosi e cittadini di ogni ordine e grado. Scrivete questa pagina del movimento antimafia con NOI, condividete la nostra PASSIONE, realizziamo INSIEME questo sogno.



Perché aveva ragione Paolo Borsellino, quel 18 dicembre 1991, quando diceva che “lo Stato può cambiare se la società civile prende coscienza di se stessa e delle sue potenzialità. Se il cittadino non aspetta che dall’alto arrivi qualche cambiamento ma si adopera per trasformare”.



Per realizzare il sogno dobbiamo raccogliere almeno 100mila e ci serve un anno di lavoro: poiché le probabilità di successo della campagna sono molto basse, persone più sagge di noi ci hanno sconsigliato di imbarcarci in questa avventura. Ma a noi non importa: qualora non dovessimo raccogliere tutti i soldi necessari, useremo quelli raccolti per realizzare una versione “minima” ed “essenziale” di MafiaMaps.



Perché noi non facciamo questa cosa per guadagnarci uno stipendio: lo facciamo perché ci siamo stancati di subire questa gente. Non siamo noi che dobbiamo andarcene, sono loro che devono andarsene, li dobbiamo cacciare a pedate dai nostri quartieri e dalle nostre città: ovunque ci sia un mafioso devono esserci cento antimafiosi preparati e consapevoli che gli stanno col fiato sul collo.



Diceva Giovanni Falcone che “se le cose vanno così non è detto che debbano andare così. Ma per cambiarle bisogna pagare un prezzo ed è qui che la stragrande maggioranza delle persone preferisce lamentarsi piuttosto che fare.”



Noi abbiamo deciso di smettere di lamentarci e di fare. Ci auguriamo che vogliate combattere questa battaglia insieme a noi. Perché l’Italia è un paese troppo bello per lasciarlo in mano loro. Riprendiamocelo.



Come puoi finanziare il progetto



Puoi contribuire come Singolo, Associazione o Sponsor. La via più rapida è su www.mafiamaps.it: scegli l’importo da donare ed esegui la donazione con PayPal. Puoi però anche sostenerci durante gli eventi di WikiMafia di sostegno a MafiaMaps: compili al momento il modulo di donazione con i tuoi dati, fai la donazione in contanti e penseremo noi a registrare il tuo contributo sul sito.



Se preferisci usare la formula del bonifico bancario, inviaci via mail la ricevuta (mafiamaps@wikimafia.it) con i tuoi dati, penseremo noi a registrare il tuo profilo e il tuo contributo. Le donazioni vanno fatte su un conto dedicato che abbiamo aperto appositamente per la campagna, intestato a Pierpaolo Farina, responsabile del progetto, con la causale "Raccolta Fondi MafiaMaps", IBAN IT 68 F 02008 01621 000103664219.





La nostra squadra



MafiaMaps viene pensata a metà dicembre 2014 da Pierpaolo Farina, con l’idea di rilanciare il progetto originario della “Mappa delle Principali attività mafiose in Italia” di WikiMafia. Il progetto iniziale è stato elaborato insieme a Francesco Moiraghi, Chiara Sanvito, Adriana Varriale, Marco Fortunato ed Ester Castano. La campagna di crowdfunding #mappiamolitutti è stata ideata anche grazie al supporto di Hermes Mariani, Samuele Motta, Thomas Aureliani, Mattia Mercuri, Claudio Paciello, Eleonora Di Pilato, Francesco Terragno, Monica De Astis, Ilaria Meli, Federica Cabras, Martina Bedetti, Dario Parazzoli, Marco Salfi.



Il team di sviluppo sarà composto da giovani ricercatori under-30, la gran parte dei quali appartenenti a WikiMafia, tutti laureati con tesi sulla criminalità organizzata con il Prof. Nando dalla Chiesa. La Startup che nascerà dopo la campagna di crowdfunding avrà sede a Milano.



Vogliamo fare Rete!



Siamo consapevoli che esistono tante realtà sul territorio che hanno svolto lavori eccellenti di mappatura (non dinamica). Il nostro obiettivo è instaurare quante più partnership possibili con realtà e associazioni che lavorano quotidianamente sul territorio, dando visibilità a loro e al loro lavoro, che andrebbero a far parte della bibliografia e dei Credits dell’App. Le associazioni che vogliono sostenere il progetto possono farlo o con un semplice contributo economico oppure dichiarando di volerci aiutare nella mappatura (in questo caso, scriveteci a mafiamaps@wikimafia.it). In entrambi i casi guadagnano la possibilità di caricare i propri eventi sulla criminalità organizzata nell'App e un account gratuito di 1 anno per usare l'App. Le associazioni "mapper" ottengono la geolocalizzazione sulla mappa in qualità di associazione partner di MafiaMaps.



Cosa succede dopo?



La campagna di crowdfunding partirà sabato 21 marzo 2015, nella Giornata della Memoria e dell'Impegno per ricordare le vittime innocenti di tutte le mafie, e terminerà sabato 23 maggio 2015, nel 23° anniversario della Strage di Capaci. Qualora alla chiusura della campagna di crowdfunding venisse raggiunto il traguardo per sviluppare l’App sia per Android che per IoS con la mappatura in tutta Italia (100mila euro), il team di ricerca comincerebbe subito a lavorare e si impegna a rilasciare l'App nella primavera 2016. Qualora dovessimo superare il minimo individuato per la campagna, useremmo le maggiori risorse per sviluppare l’App anche per i dispositivi Windows e per assumere nuovi collaboratori e velocizzare i lavori di sviluppo. Molte delle informazioni necessarie sono state già da noi raccolte in questi due anni di lavoro con WikiMafia, necessitano solamente di essere riorganizzate. Altre invece vanno reperite ex-novo e sistematizzate.



Qualora non raggiungessimo il traguardo iniziale, ma dovessimo fermarci a molto meno, useremmo comunque le minori risorse per sviluppare un'App "minima", con la mappatura delle principali città italiane.



I sostenitori del progetto potranno in qualsiasi momento seguire i progressi dell’App dalle pagine social (Facebook, Twitter, Google+) e dalla newsletter preposta (che invierà ogni mese 1 mail di aggiornamento). In esclusiva per i "Gold Supporter" (vedi sezione ricompense), il 21 marzo 2016 verrà rilasciata una beta in anteprima. L’App sarà completamente gratuita per i sostenitori del progetto, a seconda dell'importo donato (vedi la sezione ricompense per maggiori dettagli), mentre costerà 0,99 centesimi ogni anno per tutti gli altri. L’abbonamento ricorsivo all’applicazione implica l’assoluta assenza di qualsiasi tipo di pubblicità al suo interno. Puntiamo nel lungo periodo a rendere completamente gratuita l'App.



Cosa puoi fare (oltre a sostenere economicamente il progetto)



Se credi in questo progetto e vuoi aiutarci a far diventare il sogno una realtà nel 2016, sarà determinante il “passaparola”: è decisamente improbabile che finiremo in televisione o sui grandi giornali, quindi far conoscere il progetto ai propri amici e convincerli a donare anche solo 1 euro è importante.



Condividi la pagina della campagna sui social network e segnalala via mail ai tuoi contatti. Crea un cartello con #mappiamolitutti e scattati una foto, usando l’hashtag per dare visibilità alla campagna.



Se conosci qualche giornalista che potrebbe fare eco alla campagna, fagliela notare. Se MafiaMaps diventerà realtà, dipende anzitutto da te: anche un piccolo gesto, come una condivisione su Facebook, può essere determinante.
 


 


sabato 19 luglio 2014

Il maresciallo in pericolo e le istituzioni tacciono




Vi proponiamo, cari lettori, quest'altro articolo per ricordare la strage di Via d'Amelio, nel 22° anniversario, in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e i cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Cluadio Traina, Walter Eddie Cosina e Vincenzo Li Muli.

(Vi rimandiamo, se volete, anche all'intervista ad Salvo Palazzolo che abbiamo fatto in occasione dell'uscita del libro Ti racconterò tutte le storie che potrò, scritto con la Signora Agnese, vedova Borsellino).             





Nemmeno la lotta alle mafie deve andare in vacanza. In tempi di inchini e genuflessioni davanti ai boss, arriva anche una minaccia vera. Ieri, 18 luglio 2014, sulle pagine palermitane di Repubblica, il giornalista Salvo Palazzolo scrive che il collaboratore di giustizia Flamia avrebbe riferito ai p.m. Francesca Mazzocco e Caterina Malagoli l'intenzione della cosca siciliana di Porta Nuova di uccidere il maresciallo dei carabinieri Michele Coscia. “Due anni fa, durante un'udienza del processo 'Perseo', Giuseppe Di Giacomo mi disse che con Vincenzo Di Maria e Massimo Mulè avevano ormai deciso l'omicidio di Coscia perchè il maresciallo continuava a dare troppo fastidio con le sue indagini”, queste le parole del pentito anche se poi Giuseppe Di Giacomo è stato ammazzato da un commando in Via Eugenio l'Emiro.

Il maresciallo Coscia, di origini pugliesi, presta servizio in Sicilia da circa vent'anni e, in particolare, per tre anni è stato al commissariato di Bagheria. Fu uno dei primi ad occuparsi del delitto delle tre donne della famiglia di Francesco Marino Mannoia nel periodo in cui questi aveva deciso di collaborare con il giudice Falcone. Falcone stesso non si capacitò di come la notizia della collaborazione potesse essere uscita e fosse diventata nota ai clan.

Il maresciallo Coscia continua ad essere in pericolo e nessuno deve abbassare la guardia: né lo Stato - per non ripetere gli stessi errotri del passato, sottovalutando la situazione - né la società civile che deve imparare a denunciare e a superare l'omertà e la cultura della paura. Perchè proprio la paura, il ricatto e le minacce sono le prime armi che uccidono un Paese e una collettività.

martedì 10 dicembre 2013

I diritti (negati) ai bambini rom e sinti


Oggi, in occasione della giornata mondiale dei diritti umani, pensiamo che sia importante parlare dei rom e dei sinti, comunità che, troppo spesso e più di altre, sono vittime di discriminazioni e di stereotipi negativi. E ne parliamo facendo riferimento al rapporto intitolato “Mia madre era rom” stilato dall'Associazione 21 luglio in cui si è analizzato il fenomeno delle adozioni dei minori rom nella Regione Lazio e, soprattutto, nella capitale dove i rom e i loro figli vivono in gravi condizioni igieniche e abitative, condizioni che sono la conseguenza delle politiche (e di una mentalità) orientate all'esclusione sociale.
Secondo il rapporto, un bambino rom ha 40 probabilità, rispetto ad un suo coetaneo “gagi”, di essere dichiarato adottabile e, quindi, di essere allontanato dalla propria famiglia d'origine. Perchè? Perchè i giudici, i Pubblici Ministeri, gli assistenti sociali spesso imputano - per mancanza di conoscenze e per pregiudizi radicati - alla stessa cultura rom (o sinti) e alla volontà dei genitori, il degrado ambientale e culturale in cui vivono bambini e adolescenti.
In quest'ottica risulta semplice far adottare un minore rom ad una famiglia non rom per ripristinare, forzatamente, i diritti del minore stesso, ma l'Associazione 21 luglio fotografa, con le seguenti parole, questa modalità di intervento da parte delle istituzioni: “Segregando i rom su base etnica nei cosiddetti 'campi nomadi'...le istituzioni locali prima condannano le comunità rom a vivere in situazioni di totale degrado e all'esclusione sociale, lavorativa e abitativa. E poi sottraggono loro i propri figli per proteggerli dal rischio di vivere in quel contesto inadeguato alla fruizione dei diritti dell'infanzia che gli stessi amministratori hanno creato”.
Ricordiamo, inoltre, che secondo una stima recente, in Italia sono presenti circa 170 mila rom e sinti: solo 35 mila vivono in insediamenti formali e informali; più della metà hanno la cittadinanza italiana e un lavoro; molti ancora, provenendo dalla Romania e dalla Bulgaria, sono cittadini comunitari. Nonostante questi dati, in base anche a molti studi di monitoraggio sull'uso dei termini e degli aggettivi da parte degli organi di informazione (ma anche nell'uso comune) le parole “zingaro” o “rom” sono ancora associate a opinioni dispregiative.

Per approfondire questi e altri temi, vi segnaliamo il seguente evento:

CONTAINER 158

Mercoledì 11 dicembre alle ore 20, presso l’Auditorium San Fedele di Milano – via Hoepli 3/b.

L’evento è organizzato da Amnesty International Italia, Associazione 21 luglio e Zalab.

L’evento, che sarà introdotto e moderato dal
giornalista Gad Lerner, prevede la proiezione in prima italiana di “Container 158”, il film documentario di Stefano Liberti e Enrico Parenti che racconta la vita nel campo rom più grande d’Europa. A seguire una Tavola rotonda dal titolo “Figli dei campi: habitat marginali e diritti rubati” alla quale parteciperà l’Assessore alla Sicurezza e Coesione Sociale del Comune di Milano Marco Granelli e rappresentanti delle associazioni.
Nel corso della serata l’Associazione 21 luglio presenterà il nuovo rapporto “
Figli dei campi” sulla condizione dell’infanzia rom negli insediamenti formali e informali in Italia.