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domenica 27 dicembre 2015

Lotta concreta alle mafie: le parole del Comitato Addio Pizzo


Addiopizzo è un movimento aperto, fluido, dinamico, che agisce dal basso e si fa portavoce di una “rivoluzione culturale” contro la mafia. È formato da tutte le donne e gli uomini, i ragazzi e le ragazze, i commercianti e i consumatori che si riconoscono nella frase “Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”.

Addiopizzo è anche un’associazione di volontariato espressamente apartitica e volutamente “monotematica”, il cui campo d’azione specifico, all’interno di un più ampio fronte antimafia, è la promozione di un’economia virtuosa e libera dalla mafia attraverso lo strumento del “consumo critico Addiopizzo”.

L'Associazione per i Diritti umani ha rivolto alcune domande ai membri del Comitato Addio Pizzo.

Risponde, per voi, Pico Di Trapani. Ringraziamo moltissimo il Comitato Addio pizzo.


 


Un comitato, il vostro, costituito da studenti: potete parlarci delle vostre competenze, dei motivi che vi hanno spinto e di come siete organizzati?

Siamo un gruppo di cittadini palermitani di età varia, abbiamo tutti intorno ai venti, trenta, quarant'anni e ci siamo ritrovati nel tempo a costruire un percorso dentro l'associazione convenendo sulla necessità di creare a Palermo, la nostra città, una rete che permettesse in ultima istanza ai commercianti e imprenditori vessati dal racket delle estorsioni mafiose, di denunciare in tutta sicurezza le violenze subite da Cosa nostra. Proveniamo da percorsi personali differenti, ma siamo uniti dall'adesione a principi comuni che si riassumono nella frase “Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”. Tutto nacque casualmente così, nel 2004, dal primo nucleo storico della futura associazione, che decise di condividere quella comunicazione con la città di Palermo affiggendo dappertutto, per le strade del centro storico, centinaia di adesivi che riportavano quel messaggio. Poi nel tempo i volontari sono aumentati e ci siamo potuti strutturare meglio, pianificando azioni che vanno nella stessa direzione e che ad oggi convergono su un'opera di sensibilizzazione nei confronti della cittadinanza e del mondo delle scuole, una comunicazione costante sul tema del racket e di ciò che concerne la lotta alla mafia, l'organizzazione di eventi e la promozione di una lista di consumo critico antiracket - consultabile sul nostro sito internte e tramite App - l'assistenza processuale e psicologica alle vittime del pizzo, etc.

Perchè l'estorsione è la “madre di tutti i crimini”?

Quando sosteniamo questo, riportiamo e quindi condividiamo l'idea espressa nel 1991 da Libero Grassi, che diceva al proposito: “L’estorsione è la madre di tutti i crimini perché è funzionale a stabilire, consolidare ed estendere il governo sul territorio rappresentato da una strada, una piazza o un quartiere. Il pizzo è manifestazione della signoria territoriale di Cosa nostra sulla città di Palermo. Con il pizzo la mafia si fa Stato”. Il pizzo, pur costituendo un'emergenza sociale ed essendo ancora oggi fortemente radicato come prassi criminale, non è per Cosa nostra e non ha mai costituito una fonte di reddito così alta, in rapporto al totale delle sue entrate. Ciononostante, è da sempre praticata dalle organizzazioni mafiose come strumento di affermazione del proprio potere e di riconoscimento della propria superiorità da parte della comunità locale vessata, che invece di unirsi e reagire accetta questa supremazia imposta con la violenza. Sta in questo il vulnus culturale su cui intendiamo agire, invitando gli altri palermitani e siciliani a riconoscere in noi stessi per primi i responsabili di questo potere mafioso nella nostra regione, e a reagire insieme di conseguenza.

Come si svolgono le vostre iniziative antiracket rivolte alle scuole?

Dal 2005 i nostri volontari incontrano studenti di ogni età, nella certezza che la scuola, bene comune prioritario, è laboratorio privilegiato per la lotta alla criminalità mafiosa e alla mentalità che ne sta alla base. Le scuole, luogo di incontro di culture differenti, possono e debbono educare il cittadino in un’ottica cosmopolita, quella di una società interculturale, finalmente libera. Gli incontri con gli studenti si svolgono nelle rispettive scuole o nella sede a noi affidata, un bene confiscato alla mafia, per questo stesso luogo di forte impatto simbolico. A fianco di docenti, studenti, genitori e dirigenti scolastici, che ringraziamo sentitamente, Addiopizzo in questi anni ha non solo inciso nella formazione di questi studenti, ma segnato, secondo noi, un momento unico e significativo nella storia della nostra città con le diverse iniziative e progetti di sensibilizzazione elaborati e attuati ogni anno, a dimostrazione di quanto la scuola possa essere determinante nel formare le coscienze dei giovani.

Quali appoggi e quali ostacoli avete incontrato durante il vostro lavoro?

Gli ostacoli maggiori provengono dal tentativo che portiamo avanti, di provare a scardinare la mentalità di chi è rassegnato all’idea che nulla possa cambiare e per tale approccio assume atteggiamenti di indifferenza, nella migliore delle ipotesi, o di acquiescenza nella peggiore, a fenomeni dai quali oggi ci si può davvero liberare. Ma si tratta di un lavoro per il quale bisogna ancora tanto faticare. Si tratta di sfide e ostacoli prettamente culturali. Non a caso la maggior parte degli operatori economici che hanno denunciato e che si sono avvalsi del nostro ausilio appartengono a generazioni di giovani - trentenni, quarantenni e cinquantenni che hanno forti resistenze culturali rispetto a fenomeni come quello delle estorsioni. Noi vogliamo sostanzialmente restituire normalità alla nostra terra, facendo in modo che chi resiste alle pressioni mafiose e clientelari possa proseguire il proprio lavoro senza ripercussioni sulla propria incolumità e sull’attività economica che esercita. La presenza mafiosa nell’economia siciliana è ancora forte. Il pizzo imposto ai commercianti, oltre a rappresentare la negazione di libertà importanti, come quella di impresa, è anche un pesante macigno che incide sulla possibilità dello sviluppo dell’economia isolana, distorcendone le regole del mercato e della libera concorrenza. Ma, oggi, esistono molti esempi positivi di riscatto che possono permettere di sperare in un futuro diverso, libero dalla criminalità organizzata e dai suoi disastrosi effetti. L'appoggio su cui contiamo proviene da questa rete che da anni, ognuno per la propria parte, stiamo contribuendo a tessere insieme.

giovedì 24 dicembre 2015

Hate crimes in Europe!. Alloggio per la popolazione Rom: un viaggio d'esclusione



di Cinzia D'Ambrosi

 

Nel mio ultimo blog su 'peridirittiumani.com' ho scritto una breve riflessione sull'iniziativa chiamata 'Decade dell'inclusione della popolazione Rom' in cui ho sottolineato le aree che gli otto paesi partecipanti alla Decade avevano pattuito per migliorare il tenore di vita delle comunita' Rom in Europa e ho concluso che queste non hanno riportato miglioramenti se non per la formazione scolastica, seppur breve.

Per le comunita' Rom la realta' e' grave perchè sono sottoposte a continue violazioni dei loro diritti umani. Le popolazioni Rom sono ancora oggi private d'alloggio, costrette a vivere ai margini di zone urbane, in aree affollate e povere creando dei ghetti ed insediamenti illegali o carovane. Per le comunita' Rom o Travellers in Gran Bretagna, gli sfratti e la negazione del diritto di parcheggio per una caravan vengono continuamente reiterati. La realta' non cambia di molto da un paese europeo all'altro; in Fakulteta Mahala (un ghetto Rom a Sofia, in Bulgaria) che e' un ghetto Rom nella zona centrale della citta', i servizi comunali - come la raccolta dei rifiuti - non viene effettuata. Questa non e' nemmeno la situazione piu' grave per i Rom nel paese, considerando che per coloro che vivono in Kjustendil, Plovdi - in Kosovo, Bosnia Herzegovina - le comunita' Rom vivono in campi in zone industriali in disuso, spesso a rischio per la loro salute. Sgomberi forzati sono numerosissimi, condannando le popolazioni Rom ad una vita in costante insicurezza. Sgomberi e distruzioni di campi sembrano far parte della politica statale anche in Italia. European Roma Rights Centre ha riportato piu' di 21,000 sfratti in Francia nel 2014. Circa il 45 per cento della popolazione Rom in Europa vive in un'abitazione a cui mancano i servizi primari. Questi sono scenari ripetuti in vari paesi europei e alimentao i pregiudizi esistenti.

Purtroppo, poter ottenere un alloggio tramite i servizi sociali e' alquanto difficile per moltissime ragioni, ma principalmente per la mancanza di lavoro e di un contratto d'affitto locale. Negli ultimi anni, anche se ci sono state delle iniziative come il Programma d'integrazione allogggio in Ungheria con l'obbiettivo d'integrazione dei Rom in case gestite dal governo, il problema centrale e' quello che ancora oggi non esiste un vero programma centrato sulla de-segregazione. Un programma di integrazione d'alloggio che rispecchia l'aspetto politico, fisico e mentale per poter sviluppare l'aspetto integrativo; per questo alcuni interventi hanno solamente fatto ottenere ai Rom un alloggio, ma la conseguenza è stata quella di contribuire alla crescita di ghetti urbani.

Per costruire una societa' priva di discriminazioni si dovrebbero eliminare le aree d'esclusione (ghetti), generare opportunita' lavorative, celebrare la diversita' invece di soffocarla. L'obiettivo dovrebbe essere quello di sradicare la discriminazione istituzionale e la 'policy' che rende i campi e gli alloggi Rom 'invisibili'.


Housing for the Roma: a Journey of Exclusion.

In my last post on ' peridirittiumani.org' I have written a short reflection on the decade of the Roma inclusion. Outlined there were some of the areas that the eight countries that participated in the decade (Decade for Roma Inclusion) had agreed on working to improve lives for the Roma communities in Europe. Summarily there were outlined the areas being touched and the resulting data which demonstrated that the living conditions for the Roma population in Europe is still grave and we would need a lot of concentrated and concerted efforts to improve it. Still today, basic human rights are continuously breached. Anyone that has had any encounter with Roma communities would know that more often than not they live in illegal settlements, in sheds, or housing without basic amenities. Most of these precarious living spaces are often based at the margin of urban areas, or using what urbanity can give them, and thus living under a bridge, a motorway intersection, or in concentrated urban areas creating what are being referred to as Roma ghettos.

The living spaces demonstrate their status within societies in Europe, in marginalised spaces. These 'homes' are makeshift sheds built illegally, others are informal settlements, caravans or camps.

Notably, for the Travellers communities in Great Britain, evictions and a right for stay in their home caravans has been revoked in many events in recent years. One of the most well known cases is the Travellers of Dale Farm. The Roma communities living in Fakulteta (Bulgaria) do not have access to normal city services so their rubbish is not being collected, there is no sewage system, water and electricity is sparse and sanitation often non existent. Similarly in Kosovo, Bosnia Herzegovina the Roma communities live in disused industrial area, often at risk for their health from polluted lands. Circa 45 per cent of Roma communities in Europe live in housing that lacks of basic amenities.

All these are repeated scenarios in many countries and have further segregated the Roma communities and alimented prejudices.

For the Roma communities and the Travellers alike housing in the private sector is an unattainable dream. The social sector is also very difficult for them because lack of work, valid rental agreements. Illegal and forced evictions are high condemning them to a life of constant insecurity wondering from one settlement to another. Evictions and destruction of their homes is a matter of state policy in Italy. In France the European Roma Rights Centre has recorded more than 21,000 evictions (2014).

In recent years, there have been some initiatives aimed at housing integration as we noted in Hungary, which had the objective of Roma communities being housed in social housings. However, the programme on an housing level particularly failed in rural areas and in urban areas it proved to escalate urban ghetto-isation. The main issue is that still today there is not a programme that is central to de-segregation in a way that it would reflect integration at all levels, political, physical and mental. In this way, many interventions have only contributed to the growing number of urban housing ghetto-isation for the Roma population.

To have a society free of discrimination we would aim to eradicate the creation of ghetto areas, increase opportunities for education and work and generate integration celebrating diversity rather than suffocate it. Institutional discrimination should be addressed and the 'policy' that works on making Roma housing 'invisible'.





Caption:

Roma in the illegal camp of Zitkovac in the outskirts of Mitrovice, Kosovo.

Didascalia:

Una comunita' Rom in un campo illegale di Zitkovac nei pressi di Mitrovice, Kosovo.

sabato 12 dicembre 2015

Stay human, Africa: il terrorismo in Mali


di Veronica Tedeschi
 

Il 20 novembre, ad una settimana esatta dopo la strage di Parigi, alcuni uomini armati hanno fatto irruzione all’Hotel Radisson blu di Bamako, la capitale del Mali. L’albergo è il più famoso della città e da sempre è frequentato da diplomatici e uomini d’affari occidentali; al momento dell’attacco l’hotel era pieno per il 90% della sua accoglienza totale, con circa 140 clienti e 30 dipendenti.

Dopo un assedio di otto ore, le forze di sicurezza maliane e internazionali sono intervenute per liberare i cento ostaggi; il bilancio è di 22 persone morte, compresi gli assalitori.

La rivendicazione dell’attacco è stata fatta dal gruppo Mourabitoun, affiliato ad Al Quaeda e che si sarebbe recentemente unito all’Isis.

Il presidente Boubacar Keïta, ha condannato “Nella maniera più ferma possibile, questo atto barbaro che non ha niente a che vedere con la religione”. Il presidente francese, Francois Hollande, ha dichiarato: “Dobbiamo dimostrare la nostra solidarietà al Mali, un Paese amico” e ha invitato i francesi a Bamako a raggiungere l'ambasciata e a mettersi al sicuro, e tutti i cittadini francesi nei Paesi a rischio ad adottare precauzioni. 




Il Mali, purtroppo non è nuovo ad attacchi del genere, nonostante non se ne senta parlare in Occidente; in passato gli attacchi degli estremisti islamici erano concentrati nel nord del Paese ma a partire dal 2015 si sono diffusi anche al centro e poi al sud, fino ad arrivare al confine con la Costa d’Avorio e il Burkina Faso.

Nel mese di marzo Bamako è stata ancora una volta la protagonista di un attentato in un ristorante nel quale sono morte cinque persone.

Il 10 giugno scorso, uomini armati hanno attaccato le forze di sicurezza a Misseni, città al confine con la Costa d’Avorio e, infine, ad agosto è stata attaccata la città di Sévaré, nella regione di Mopti, a nordest di Bamako.

Solo nel 2015 gli attentati in Mali sono, quindi, stati quattro ma le violenze nell’ex colonia francese sono cominciate già nel 2013 quando i soldati tuareg sono tornati nel nord del Paese dopo la guerra in Libia, creando un movimento nazionale con lo scopo di combattere il governo di Bamako e conquistare l’indipendenza della regione settentrionale dell’Azawad. Questo conflitto ha portato ad un colpo di Stato e, infine, alla proclamazione dell’indipendenza dell’Azawad nell’aprile del 2012.

Il susseguirsi di violenze ha causato l’intervento delle truppe francesi e africane.

Ad oggi, in Mali, sono quindi presenti truppe francesi, malesi, internazionali e tedesche. Il 25 novembre, infatti, anche la Germania ha annunciato l’invio di 650 soldati a sostegno della missione francese in Mali.
 
 




Nel mirino dell’interesse internazionale è ora presente l’ex colonia francese, ma vedere nell’aumento degli attacchi terroristici in Mali solo un altro pezzo del puzzle del terrorismo islamico sarebbe un errore. L’aumento di gruppi nel Paese è soprattutto il prodotto di condizioni storiche locali e non di un’ideologia imposta dall’esterno. Il terreno è fertile in Mali, come nel resto dell’Africa, per il reclutamento di chi vuole la violenza.

Gli stati africani, già alla prese con la povertà e gli esperimenti di democrazia, non dispongono dell’arsenale e delle competenze in materia di sicurezza per opporre la resistenza necessaria a tentativi di condizionamento.


Dopo l’11 settembre americano e il 13 novembre francese nessuno è al sicuro dal terrorismo?

Forse sì, ma ci sono molti motivi per dubitarne.  La vulnerabilità di un Paese varia in base al livello di sviluppo dello stesso, al suo grado di organizzazione e reattività dei servizi di intelligence.

Per comprende meglio questo concetto, basta pensare alla situazione della Somalia, la quale non riesce a stare a galla di fronte alla minaccia del gruppo jihadista Al Shabab; stiamo parlando di uno stato fallito a causa della lunga guerra civile che l’ha invaso per anni, di uno stato corrotto e non in grado di proteggere la sua popolazione.

La situazione in Mali non può essere paragonata a quella somala ma entrambi questi stati hanno alla base molta debolezza e necessità di aiuti esterni tanto da rendere i rispettivi governi vulnerabili a violenze e attacchi esterni.


 

mercoledì 9 dicembre 2015

Generazione Rosarno: dalla violenza alla legalità



Continuiamo ad occuparci di lotta alle mafie e vi proponiamo il libro intitolato Generazione Rosarno di Serena Uccello, per Melampo edizioni.




Si può nascere in una famiglia di 'ndrangheta eppure scegliere una strada alternativa e rigettare la violenza? Si può amare un padre in carcere e riuscire lo stesso a prenderne le distanze, immaginando per sé un destino diverso, di libertà e di rispetto vero? Vive e pulsa in questo libro una scuola superiore in cui vengono abbattuti antichi e nuovi pregiudizi e privilegi, dove non esistono figli di boss né figli di collaboratori o di testimoni di giustizia, dove mille ragazzi e ragazze si ritrovano ogni mattina tutti uguali, senza dover sopportare il peso delle storie personali. Dove una leggerezza gentile e sconosciuta è capace di generare nuova cultura. Una scuola che è un autentico fortino piantato in una periferia geografica e sociale, da cui insegna le opportunità e le promesse del mondo. Si chiama Rosarno ma diventa alla fine simbolo di tutto il Sud.






L'Associazione per i Diritti umani ha intervistato per voi l'autrice e la ringrazia.



Il libro è ambientato in Calabria, una terra bellissima e difficile. Quali sono i tratti della cultura tradizionale in cui affondano le radici della mentalità mafiosa?


Questa domanda richiede un’analisi di tipo antropologico che non sono in grado di fare, non ne ho gli strumenti, né la formazione. Posso però dare una chiave di lettura di tipo storico e sociale per spiegare perché la ‘ndrangheta è cresciuta così tanto in questi anni, in una situazione di sostanziale silenzio. In questo senso la spiegazione è l’isolamento della Calabria. Isolamento geografico e culturale, appunto. Prendo in prestito il procuratore Giuseppe Pignatone, già capo della Procura di Reggio Calabria, oggi capo della procura di Roma: “la società calabrese è realmente isolata dal resto del paese. Non esiste la Calabria, ma esistono le Ca­labrie: la provincia di Reggio è totalmente diversa da quella di Cosenza o dall’alto Catanzarese. L’isolamento tra le diverse province e dell’intera regione è innanzitutto fisico. La rete via­ria inadeguata, i cantieri dell’A3, le carenze della rete ferrovia­ria, lo sbarramento fisico dello Stretto amplificano l’isolamento geografico”. All’isolamento geografico c’è poi da aggiungere quello informativo. Negli ultimi anni sui giornali di ’ndran­gheta si è scritto, forse poco o forse in modo discontinuo, titoli e commenti e inchieste. Ma prima? Prima di Duisburg, la strage di Duisburg, quella in cui, nell’agosto del 2007, furono uccise sei persone, o prima di più recenti ope­razioni che hanno portato, soprattutto in Lombardia e nel nord Italia, all’arresto di centinaia di persone? Qualche titolo di tan­to in tanto e poco altro. Di fatto ha ragione il procuratore capo di Roma quando parla di “cono d’ombra” ricordando come “l’agenzia Ansa sia a Catanzaro, la sede Rai a Cosenza” e che “nessuna testata nazionale ha una redazione in Calabria”, men­tre “il quotidiano più diffuso, la Gazzetta del Sud è un giornale di Messina che pubblica pagine sulla Calabria”.

Quindi non saprei esattamente dire in quali tratti della cultura tradizione affondi la mentalità mafiosa, posso però dire che la mentalità mafiosa si nutre dell’isolamento e dell’assenza di cura da parte dello Stato e in questo isolamento cresce.



Da dove può o deve ripartire la cultura della legalità?


Il mio libro è sostanzialmente ambientato in una scuola. Un scuola sotto molti aspetti speciale perché è riuscita a compiere la sfida della inclusione. A far convivere cioè i figli di vittime, con i figli dei boss, con figli dei collaboratori. A far loro condividere tempo, spazio e sogni. Ecco la cultura della legalità deve, secondo me, essere meno slogan, meno pratica convegnistica, e più pedagogia del Bene. Come dice la ricercatrice Ombretta Ingrascì la pedagogia bianca che si oppone a quella nera della violenza.


Come si svolge la lotta alle mafie a Rosarno (e in altri luoghi)?


La lotta alle mafie è stata a lungo repressione. E l’aspetto repressivo è e deve restare centrale. In questi anni sono stati raggiunti risultati importantissimi. Tuttavia i risultati si sono cominciati a vedere anche su lungo periodo quando accanto alla repressione c’è la formazione. In questo caso uso le parole della scrittrice Evelina Santangelo che ho intervistato per il libro: “Non è un caso, credo, che in Sicilia il momento di maggiore forza della lotta alla mafia sia stato quando si è creata una saldatura tra il braccio operativo di chi deve condurre l’attività investigativa e repressiva e il mon­do della formazione. Perché è evidente che la lotta alla mafia è lotta alla sottocultura mafiosa. E questa lotta si può condurre solo se c’è collaborazione tra tutte le forze in campo”.



Quanto sono importanti le donne nel tramandare il valore della vita ?


Le donne sono fondamentali. Così come sono loro a tramandare il codice della violenza dai padri ai figli, sono loro che sempre in nome dei figli possono rompere la catena del sangue. E in questi ultimi anni in Calabria ma non solo abbiamo avuto diversi esempi. Penso a Lea Garofalo, ma anche a Maria Concetta Cacciola, che purtroppo hanno pagato con la vita la loro scelta di rottura. Ma penso anche a Giusy Pesce che invece è riuscita a salvare se stessa e i suoi figli scegliendo la strada della collaborazione.

Questo sono le sue parole che spiegano più di mille analisi.

Se io non cambio strada e non li porto con me, quando uscirò il bambino potrebbe già essere in un carcere mino­rile, e comunque gli metteranno al più presto una pistola in mano; le due bimbe invece dovranno sposare due uomi­ni di ’ndrangheta e saranno costrette a seguirli. Io voglio provare a costruire un futuro diverso per loro... Io potrei anche cavarmela con qualche anno di carcere ma nessuno libererebbe i miei figli da un destino già segnato. Quando il mio bambino, una volta, ha detto che da grande avrebbe voluto fare il carabiniere, suo zio l’ha preso a botte, poi gli ha promesso che una pistola gliel’avrebbe regalata lui... Un giorno che io gli chiesi a mio figlio ‘Che cosa vuoi fare quando sei veramente grande?’ E lui mi rispose ‘Il carabi­niere’, loro lo aggredirono: ‘Che stai dicendo, scemo, stor­to!’, tipo loro hanno questo carattere, parlavano così, con i bambini hanno una delicatezza particolare”.



Qual è l'operato dei giudici e delle istituzioni per salvare i giovani che appartengono a famiglie malavitose?


Anche in questo caso voglio rispondere raccontando un aneddoto che riporto nel libro. Un pomeriggio un piccolo gruppo di studenti del liceo Raffaele Piria di Rosarno sta partecipando a un seminario tenuto da Michele Prestipino allora procuratore aggiunto a Reggio Calabria, oggi a Roma. I ragazzi stanno lavorando su un libro, un romanzo La vita obliqua di Enzo Siciliano. E quel giorno in particolare stanno discutendo della vendetta, esattamente di qual è la differenza tra chiedere giustizia invece di vendetta. A un certo punto Prestipino si rivolge ad un ragazzo in prima fila e dice: “Vieni Carmelo, tu che pensi?”. Carmelo si avvicina e Prestipino lo tira a sé allungandogli un braccio sulle spalle. Il movimento di entrambi è spontaneo. E mi colpisce molto. Mi colpisce perché Carmelo è Carmelo Bellocco. Anche i Bellocco sono una famiglia sminuzzata tra morti, latitanti ed ergastolani. Alcuni di questi arresti portano pure la firma di Prestipino, così la na­turalezza con cui il primo ha accolto il secondo e il secondo si è fatto accogliere mi appare inedita e mi appare straordinaria. Ho così compreso che solo l’accoglienza può far passare il messaggio che non esiste una predestinazione al Male ma che ognuno può riscattare se stesso. L’accoglienza e anche il sostegno.





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domenica 29 novembre 2015

Ashraf Fayadh, poeta, curatore e artista, condannato a morte da un tribunale dell’Arabia Saudita




Ashraf Fayadh, poeta, curatore e artista, è stato condannato a morte da un tribunale dell’Arabia Saudita, paese dove è nato da genitori palestinesi. 
È accusato di aver promosso l’ateismo con i suoi testi inclusi nell’antologia poetica "Instructions within" (2008), di aver avuto relazioni illecite, di aver mancato di rispetto al profeta Maometto e di aver minacciato la moralità saudita. La sentenza è stata emessa il 17 novembre ed è previsto che Fayadh possa presentare una richiesta d’appello entro trenta giorni.
Fayadh, 35 anni, è rappresentante dell’organizzazione di artisti britannico-saudita Edge of Arabia. Nel 2013 è stato tra i curatori della mostra Rhizoma alla Biennale di Venezia. È stato arrestato nel gennaio del 2014 e nel maggio dello stesso anno è stato condannato a quattro anni di prigione e 800 frustate da un tribunale di Abha, nel sudovest dell’Arabia Saudita.
Dopo che il suo primo ricorso è stato respinto, una nuova corte lo ha condannato a morte.

Mona Kareem, poeta e attivista per i diritti dei migranti che ha lanciato una campagna per la liberazione di Fayadh, ha detto al Guardian che il poeta non può chiedere a un avvocato di difenderlo perché dal giorno del suo arresto non ha più i documenti d’identità. Secondo Kareem, Fayadh sarebbe vittima di discriminazione perché di origine palestinese.
Durante le udienze il poeta ha dichiarato di essere musulmano e ha respinto le accuse.
Libertà per il poeta #AshrafFayadh condannato a morte in Arabia Saudita.
 
 
PER FIRMARE la PETIZIONE SU CHANGE.ORG:

mercoledì 25 novembre 2015

EVE ENSLER: un saggio, un testo profondo che parla di donne e di violenza (e molto altro)


 






di Monica Macchi



Ora la lotta è tra le persone che devastano il pianeta,

saccheggiandone le risorse,

e noi




Scrittrice, poetessa, sceneggiatrice, regista e attivista di origini ebree è diventata famosa per i “Monologhi della vagina”1, che dal 1996 è stato tradotto in 50 lingue e rappresentato in 150 paesi (ha appena debuttato in India e a Cuba). Ogni anno viene attualizzato con un nuovo monologo sulle violenze contro le donne in ogni parte del mondo: una delle più rappresentate è My Vagina Was My Village, monologo scritto sulla base delle testimonianze delle donne vittime di stupro in Bosnia. Da queste pièce teatrali è nato il movimento globale V-Day, per la difesa dei diritti delle donne: 189 Paesi, oltre 70 città in Italia, 13mila organizzazioni femminili e femministe coinvolte oltre a singole personalità come Vandana Shiva e il Dalai Lama.

Dal 14 gennaio 2012 dopo aver letto una statistica secondo cui una donna su tre in tutto il pianeta sarà oggetto di percosse o stupro nel corso della sua vita ha lanciato la campagna One Billion Rising in cui le attiviste e gli attivisti danzano come strumento creativo per mostrare sdegno e assumersi le proprie responsabilità e favorire una nuova presa di coscienza, una presa di coscienza che opponga resistenza alla violenza finché questa non diventerà inconcepibile. 


Lo scorso 13 settembre Eve Ensler era a Milano al Teatro Elfo-Puccini in un incontro pubblico con Lella Costa per presentare il suo ultimo libro “Nel corpo del mondo” in cui racconta la sua esperienza con la malattia, un tumore all’utero e la riappropriazione del proprio corpo rispetto alle mutilazioni fisiche e psicologiche. In particolare rivendica una maternità non stereotipata che va al di là degli organi di procreazione, ma intesa come cura nei confronti di perone che si scelgono e con cui si creano dei legami. Ed Eve ha scelto le donne di Bukavu, in Congo con cui ha creato la Città della Gioia, un luogo condiviso in cui donne, molte delle quali analfabete e sopravvissute a stupri e torture, esorcizzano i traumi attraverso l’arte, la danza e corsi di autodifesa mentre diventano catalizzatrici di un radicale cambiamento sociale seguendo corsi professionali, di agricoltura e di uso del computer per poi istruire altre donne nei villaggi. Il cancro diventa così una metafora della società capitalistica senza alcuna attenzione né all’ambiente né alle persone: legare la nostra lotta a quella degli altri contro una società consumistica e sprecona è l’unico modo per ribaltare la gerarchia e la violenza.



Il numero, in Italia, per denunciare violenze e stalking: 1522

1
La traduzione italiana del testo è disponibile in edizione Il Saggiatore e Marco Tropea

giovedì 12 novembre 2015

Hate crimes in Europe: il caso della morte di Pavlos Fyssas

di Cinzia D'ambrosi


Il caso della morte di Pavlos Fyssas

Questo breve articolo presenta il caso della morte di Pavlos Fyssas avvenuta il 17 Settembre 2013 e le ragioni per cui il suo processo attuale e' importante non solo per la Grecia, ma per l'intera Europa. La morte di Pavlos Fyssas, a causa di un fatto di razzismo, ha dell' implicazioni molto profonde perche' tocca le fondamenta del sistema giudiziario a cui noi, in quanto cittadini ed individui, facciamo riferimento.

Pavlos Fyssas, 34enne attivista della sinistra e musicista hip-hop, e' stato accoltellato a morte da alcuni membri della Golden Dawn (partito dell'estrema destra) nel distretto di Keratsini ad Atene. Era con degli amici in un caffe' a guardare una partita di calcio, quando uno di questi ha fatto un' osservazione contro il Golden Dawn che purtroppo fu sentita da un membro proprio di quel partito che sedeva al tavolo accanto. Costui si è subito messo in contatto tramite cellulare con dei membri della Golden Dawn che in breve tempo, numerosi e con la polizia DIAS in motocicletta hanno circondato il caffe'. Pavlos stava cercando di aiutare i suoi amici a lasciare la scena quando è stato attaccato.

Per la prima volta e' in corso un processo d'omicidio contro i membri della Golden Dawn. Sin dal suo inizio ci sono state molte controversie, tra cui il fatto che il processo si stia svolgendo nella piu' grande prigione della nazione, Korydallos, in periferia d' Atene ed in una zona che ha molte affiliazioni di destra. Tutti i testimoni, inclusi il padre di Pavlos Fyssas ed i suoi avvocati, sono stati intimiditi ed anche attaccati. Ottenere un giudizio giusto e quindi ottenere una vittoria contro il razzismo e' d'importanza notevole cosi' come poter incoraggiare altre vittime a farsi venire avanti e denuniciare. Perdere il processo vorrebbe dire ristabilire il potere delle destre sul sistema giudiziario.




Didascalia:

Il processo e' controversialmente in corso nel Korydallos, la piu' grande prigione della Grecia. Foto di Cinzia D'Ambrosi.






The Case of Pavlos Fyssas death

This brief article is an introduction to the case of Pavlos Fyssas death on the 17th Septmber 2013 and why its current trial is very important not just for Greece but for Europe. Pavlos Fyssas death following a racist incidence has profound implications because it touches the foundations of the Justice System which we, as individuals and societies, rely on. It is also an example of courage.

Pavlos Fyssas, a 34-year-old left-wing activist and hip-hop artist, was stabbed to death by Golden Dawn supporters in the Keratsini district of Athens. He was with friends in a coffee shop and one of his friends made a remark against the Golden Dawn. It was overheard by someone on a nearby table, who called by cell phone members of the Golden Dawn and DIAS motorbike police. Soon the coffee shop was surrounded by numerous Golden Dawn members. Pavlos was trying to help his friends to escape when he was knifed and died at the scene. The trial against the perpetrators, members of the Golden Dawn is the first of the kind. The trial is being controversially held in the country's biggest jail, Korydallos prison and in an area known for far right affiliation. All the witnesses, including the father of Pavlos Fyssas, the boy who was killed have been intimidated at the start of the trial. Reaching a just verdict is a victory over racism and an encouragement for the many victims to come forward. Losing will only re-initiate the discourse of government and far right affiliations, and overall a defeat on our Justice System.




mercoledì 11 novembre 2015

Niente sesso, siamo egiziani!

di Monica Macchi











Per tutto il tempo che vivi o ti muovi dentro al Cairo,

sei costantemente denigrato. Sei destinato a incazzarti.

Anche se impieghi tutte le forze della Terra

non puoi cambiare questo destino.





 


 
Una Cairo post-moderna sporca, inquinata, sovraffollata, piegata alle leggi del consumismo: qui Bassàm, il protagonista di استخدام الحياة (Istikhdam al-Hayat -“L’uso della vita”- Il Cairo, Dar al-Tanwir, 2014) si barcamena tra sesso, droghe e alcol cercando di sfuggire dalle grinfie dei bauab. i portinai che lo bloccano quando cerca di salire a casa delle amiche. In particolare in un capitolo (che gli arabofoni possono gustare online a questo indirizzo http://ahmednaje.net/2014/07/fiv/) c’è una descrizione molto esplicita di un rapporto sessuale con una donna più grande. Ebbene per questo il 14 novembre lo scrittore, giornalista di Akbar el Adab (prestigioso settimanale letterario diretto da Gamàl al-Ghitàni) e blogger egiziano Ahmed Naji (ecco il suo blog وسع خيالك “Allarga la tua immaginazione” http://ahmednaje.net/category/english/) ed il suo editore Tareq al-Taher dovranno difendere loro ed il libro dall’accusa di offesa alla morale per il suo “contenuto sessuale osceno”. In base all’articolo 187 della legge 59 del 1937 rischiano due anni di carcere e una multa tra le 5000 e le 10000 ghinee (tra i 600 e i 1000 €).
Questo libro è un lavoro ibrido: in parte prosa, in parte graphic novel di Ayman El-Zorkany le cui tavole sono state esposte in gallerie d’arte sia ad Alessandria che al Cairo senza alcun problema. E’ stato stampato in Libano da Dar al-Tanweer e quindi ha già ottenuto un visto per essere pubblicato in Egitto ma questo non lo protegge dall’essere portato in tribunale….qualora ci sia una denuncia formale. Joe Rizk di Dar al-Tanweer, ha scritto che si segue uno schema comune: “un libro è disponibile per un certo periodo finchè arriva un reclamo e poi una denuncia per il contenuto offensivo”…come del resto è successo nel 2008 per “Metro” di Magdy al-Shafee con multa e confisca di tutte le copie e ci sono voluti ben cinque anni e il successo e le traduzioni internazionali (per l’Italia è disponibile alla casa editrice “Il Sirente” acquistabile qui http://www.sirente.it/prodotto/metro-magdy-el-shafee/) per trovarlo anche in Egitto.

La bolla di Ventimiglia. Una protesta per i migranti, una protesta sociale





La Bolla di Ventimiglia è la graphic novel con cui Emanuele Giacopetti racconta la lotta portata avanti da un gruppo di migranti poche settimane fa, dando vita al presidio No Borders. Parole, ma soprattutto immagini, che descrivono con disarmante chiarezza quello che è successo e che continua a accadere al confine tra Francia e Italia: migranti che per la prima volta hanno rivendicato con determinatezza il diritto di passare; la reazione delle forze dell’ordine francesi e italiane; il presidio nato sugli scogli, dove alcuni migranti si sono rifugiati per sfuggire alle cariche delle forze dell’ordine; la solidarietà di molte persone.
Oggi il colore della nostra pelle è il miglior passaporto sulla piazza, ma – ammonisce Giacopetti – i confini della ‘Fortezza Europa’ sono mutevoli, come le sue regole”.



L'Associazione per I Diritti umani ha intervistato per voi Emanuele Giacopetti e lo ringrazia molto per queste parole.



Prima di tutto parliamo del presidio permanente “No borders”



Il presidio non esiste più', o meglio: quello che era il presidio sugli scogli e' stato sgomberato dalla polizia il 30 settembre, sulla pagina fb del presidio (tutt'ora attiva) si possono vedere le foto dell'operazione. Il 4 ottobre invece il corteo chiamato in solidarietà al presidio e' stato bloccato dalle forze dell'ordine nella piazza della stazione di XXmiglia, il corteo non si e' svolto e dopo 6 ore di stallo la polizia ha deciso di caricare i manifestanti che si organizzavano per andarsene rincorrendoli per le strade della citta' e ferendone molti. Nonostante questo gli attivisti, i migranti e i solidali con quell'esperienza continuano a vedersi e ad organizzare iniziative.      



La bolla di Ventimiglia” nasce da una vostra partecipazione diretta alle proteste: puoi fare alcune riflessioni su ciò che sta accadendo, dato che hai vissuto la situazione dall'interno?



Penso che ci siano vari livelli di viversi da dentro "la Bolla" e solo chi ha vissuto l'esperienza nel suo pieno (non io) abbia la reale visione dall'interno delle cose. Comunque: penso che l'esperienza di ventimiglia sia stata ed e' un'anomalia non solo rispetto a quest'europa e alle leggi che ne regolano i confini ma anche e soprattutto un'anomalia rispetto al dibattito che la questione profughi ha suscitato nel paese. Mi spiego: la destra, nel suo senso più' esteso, che ha molto lavorato e guadagnato dalla vicenda, ha impostato il discorso sul binomio respingere/accogliere facendo di un discorso complesso una semplificazione che ha portato anche chi non condivide quelle posizioni ad opporvicisi in un modo in fondo funzionale a questo sistema. Per molti un centro d'accoglienza e' la risposta umana al problema, , mentre in pochi lo leggono come uno strumento che limita il diritto a migrare di chi e' costretto a farlo. Basti pensare anche alla distinzione fra Profugo con diritto di asilo e migrante economico che e' stata sdoganata tranquillamente anche fra chi si dice in difesa dei diritti dei migranti. Ecco, "la Bolla" e' stata un'anomalia a tutto questo, portando la discussione nel luogo delle contraddizioni del sistema Europa e diventando allo stesso tempo protesta e risposta materiale alla necessita' di migrare.



Quali sono le politiche italiane sbagliate e quali quelle possibili in tema di accoglienza



Ci sarebbe molto da dire, col rischio di semplificare parlo solo dei principi: oggi l'immigrazione e' vissuta come un'invasione o nel migliore dei casi come un male da tollerare e mai come quello che e', un fenomeno inevitabile che se ben affrontato diventa risorsa. Nel momento che il migrante viene considerato persona nel pieno dei suoi diritti a prescindere dai documenti, noi rivendichiamo universalmente tutti quei diritti che oggi nell'era della "distrazione di massa" ci vediamo togliere. In questo momento nel nostro paese le strutture istituzionali costringono migliaia di vite ad un'esistenza in stallo che non può' produrre altro che degrado e sappiamo molto bene che il degrado e' un ottimo carburante per il consenso di chi ci governa o aspira a farlo.

Altra cosa, l'Italia dovrebbe innanzitutto interrompere le sue politiche estere ed economiche che generano le migrazioni disperate a cui assistiamo,solo due esempi: guardiamo cosa combina in Nigeria l'eni o quali sono i rapporti che il governo turco, nostro amico, ha con l'isis o con chi invece gli si oppone come il popolo curdo.



Cosa può fare la società civile?



Partecipare, nel senso più' fisico possibile. E' un momento in cui la nostra partecipazione seppur individuale puo' fare la differenza sull'esistenza di spazi democratici che oggi vediamo chiudersi. A Ventimiglia il 4 ottobre il diritto a manifestare e' stato negato e la verita' e' che nonostante la solidarietà' enorme espressa ovunque, la presenza fisica dei soli attivisti e dei migranti che non hanno ceduto alle intimidazioni dei giorni precedenti, ha reso possibile per le istituìzioni chiudere in maniera violenta un'esperienza scomoda. Su come e quando partecipare invece, il metodo della "bolla" e' replicabile e funziona ovunque: si creano degli spazi di discussione con chi sente o condivide il problema e insieme si decide "che fare", di questi tempi, questo e' già' rivoluzionario.



Alla luce delle disposizione europee, quale potrebbe essere il futuro per i migranti e i rifugiati?



Non bello,le cosiddette quote dei rifugiati divise fra i paesi membri sono solo uno specchietto per le allodole e riguardano solo una minima parte dei reali numeri di persone che continuano e continueranno a migrare. Penso che l'Europa nei fatti stia lasciando le cose come stanno, c'e' troppo da perdere ad intervenire e troppo da guadagnare a non farlo, già' si possono vedere i progetti dei nuovi centri per migranti in costruzione su tutti i confini: questa e' la stabilizzazione dell'emergenza non la sua soluzione.



Perchè la scelta di trattare questi temi con attraverso una graphic novel?



I tempi del fumetto sono sulla carta incompatibili con il tempo della notizia o ancora meno del contenuto web, eppure con Graphic-News il tentativo e' proprio quello di utilizzare i vari linguaggi della notizia disegnata per creare informazione che e' allo stesso tempo racconto, approfondimento e notizia nel senso stesso del termine. Per restituire o almeno provarci, un'esperienza come quella della "bolla", avere più' livelli a disposizione e' necessario.




Clicca qui per leggere “La bolla di Ventimiglia”:
 
 
 
 
 


domenica 13 settembre 2015

Programma della manifestazione: "D(i)RITTI al CENTRO!"


L'Associazione per i Diritti Umani è lieta di presentarvi la prima parte della manifestazione intitolata "D(I)RITTI al CENTRO", col patrocinio di Fondazione Cariplo.

Vi aspettiamo numerosi, numerosissimi e vi chiediamo di fare passaparola...GRAZIE!


 
 




venerdì 11 settembre 2015

Il coraggio di Jafar Panahi nel raccontare l'Iran di oggi







Taxi Teheran è il titolo della nuova pellicola del regista persiano Jafar Panahi. Il regista de Il palloncino bianco, Il cerchio, Offside, Pardè e This is not a film – film vincitori dei maggiori premi in campo cinematografico – ha sempre raccontato le contraddizioni dell'Iran, denunciando la mancanza di libertà civili e universali attraverso poetiche metafore concettuali e visive. 

Panahi non ha mai taciuto le proprie posizioni politiche ed è sceso in piazza per protestare contro la rielezione di Mahmud Ahmadinejad: a causa di quelle manifestazioni di protesta gli è stato intimato di non girare più film, di non concedere interviste alla stampa straniera e di non abbandonare il Paese. Se avesse violato queste direttive sarebbe stato condannato a vent'anni di carcere. Grazie ad una rete di amici e colleghi, Panahi ha continuato a lavorare e torna nelle sale con Taxi Teheran, che si è aggiudicato l'Orso d'oro all'ultima edizione del festival di Berlino. Girato clandestinamente come le sue ultime due opere, il film è una docu-fiction in cui si compone un affresco della società iraniana. Salgono su un taxi, guidato dallo stesso regista, persone di tutti i tipi, età e professioni: donne, uomini, giovani, bambini, professionisti, persone semplici, persone note e comuni. In una scena significativa, il regista scende per pochi minuti dalla vettura per andare a prendere la sua nipotina all'uscita di scuola: anche lei, “armata” di videocamera, racconta di dover preparare una ricerca sulle attività scolastiche, ma che la ricerca deve conformarsi strettamente ai precetti dell'Islam ed evitare il “realismo nero”. Di cosa si tratta? Eccolo spiegato dal mezzo cinematografico e dalla creatività di Panahi: mentre lui e la bambina chiacchierano all'interno del taxi, sullo sfondo viene inquadrato un ragazzino che scava nella spazzatura e ruba del denaro a una coppia di giovani sposi. Sul suo taxi sale, inoltre, Nasrin Sotudeh, l'avvocatessa e attivista per i diritti umani, anche lei impossibilitata ad esercitare la professione dal 2011. Tra i tanti temi trattati, infatti, vi si trova anche quello che riguarda la condizione femminile, un argomento caro all'autore; e poi artisti e persone comuni che anelano alla libertà e, quando riconoscono il regista alla guida del mezzo, si stupiscono e poi si mettono a ridere. Sì, perchè la cifra che contraddistingue questo lavoro è l'ironia, un'ironia graffiante che dimostra quanto la censura non possa nulla contro la volontà. Una piccola cinepresa nascosta dell'abitacolo, riprende e registra (quasi sempre ad inquadratura fissa e in primo piano o mezzo busto) i volti e le espressioni delle persone: proprio come uno specchio che riflette e rimanda parole, immagini, situazioni che parlano dell'Iran contemporaneo. Il finale del racconto è terribile ed è accompagnato da un testo che sostituisce i titoli di coda: “Il ministero dell'orientamento islamico dà l'autorizzazione per i titoli di coda dei film che vengono distribuiti. Con mio grande rammarico quindi non ha titoli di coda. Esprimo la mia gratitudine a tutti coloro che mi hanno sostenuto. Senza la loro preziosa collaborazione, questo film non avrebbe visto la luce”. Auguriamo a Panahi di poter tornare alla luce della libertà dato che, coraggiosamente, continua a vivere con la famiglia a Teheran e sotto minaccia costante da parte del regime.

sabato 1 agosto 2015

Consigli di letture per l'estate (e non solo!)


Cari lettori,

siamo contenti di comunicarvi che abbiamo una piccola “libreria” per voi. Di seguito trovate un elenco di libri che potete acquistare direttamente dal sito www.peridirittiumani.com con Paypall (carta di credito o bonifico). Una volta effettuato il pagamento, inviateci una mail a: peridirittiumani@gmail.com con il vostro indirizzo e vi sarà recapitata subito per posta.




Eccovi i libri:



Mosaikoun - Voci e immagini per i Diritti Umani a cura di Alessandra Montesanto Euro 12,50
 



Il silenzio e il tumulto, di Nihad Sirees Euro 15,00



L'autunno, qui, è magico e immenso, di Golan Haji Euro 10,00

 
Ferite di parole – le donne rabe in rivoluzione, di Leila Ben Salah e Ivana Trevisani Euro 16,00



La vita ti sia lieve – Storie di migranti e di altri esclusi, di Alessandra Ballerini Euro 15,00

 
 
 
Pierfrancesco Majorino e Caterina Sarfatti

Milano, come Lampedusa? Dossier sull'emergenza siriana,
  Euro 5,00
 
 

martedì 21 luglio 2015

La casa del nulla: una riflessione sugli istituti penitenziari e un esempio di letterartura carceraria

 
 
 
 
 
 
 



Naria Giuliano e Rosella Simone sono le autrici del libro intitolato La casa del nulla (Milieu edizioni) opera sospesa tra storia orale, letteratura carceraria, racconto corale e antropologico. Pubblicato per la prima volta a metà degli anni ottanta da Tullio Pironti, e riproposto in una versione ridotta nel 1997 con il titolo "I duri", il testo ha avuto, come i suoi autori, diverse vicissitudini, ma rimane un testo fondamentale per capire gli anni settanta-ottanta e conserva ancora oggi una freschezza narrativa inossidabile.



Abbiamo rivolto alcune domande a Rosella Simone che ringraziamo.
 
 
Il libro racconta storie ambientate nelle carceri degli anni '70, anni difficili per il nostro Paese: qual era la popolazione carceraria dell'epoca ? E quali relazioni si instauravano tra le mura degli istituti?
Era una popolazione carceraria particolare e rispecchiava, come sempre fa il carcere, la società di allora. Nelle carceri speciali appena istituite erano stati concentrati due soggetti diciamo “nuovi”: ”terroristi” e rapinatori. Le istituzioni ritenevano che le regole durissime di quel carcere (colloqui con i vetri, arie d’aria ridotte all’osso, perquisizioni corporali….) e mettere insieme soggetti così apparentemente diversi avrebbe creato conflitti e piegato gli irriducibili. Non fu così. Proprio le condizioni brutali in cui erano costretti a vivere i detenuti creò una saldatura, una solidarietà, una amicizia, tra politici e banditi che fece detonare il circuito carcerario italiano.
Facciamo un paragone tra le condizioni di vita all'interno dei luoghi di detenzione di ieri e in quelli di oggi...
Il carcere è cambiato ma non è detto che sia sempre e solo in meglio. La carcerazione è differenziata e c’è chi può avere accesso alle pene alternative, andare a scuola, fare teatro e chi è chiuso nell’orrore del 41 bis. Di recente mi sono occupata del caso di un carcerato rinchiuso a Sulmona, Domenico Belfiore ergastolano in carcere da 32 anni, con un tumore all’intestino che, andato in coma, era stato ricoverato con urgenza, operato e rimandato immediatamente in carcere deve nel giro di pochi giorni è ritornato, ovviamente, in coma. Fortunatamente siamo venuti a saperlo e c’è stata una mobilitazione che ha portato alla concessione degli arresti domiciliari. Ma quanti i casi di cui non si sa niente?
Non sono contraria al carcere attenuato ma non posso giustificare, neanche per un capomafia alla Reina, una detenzione che equivale, per me, alla tortura.
Tra l’altro è proprio questa differenziazione che crea nei soggetti detenuti un processo di desolidarizzazione. Se io aspiro al premio (e non dico che non sia legittimo) dovrò guardarmi da stringere amicizie o essere solidale con chi gode fama di “cattivo”. E un carcere dove non c’è solidarietà tra i reclusi è un carcere dove si vive molto male.
Com'è nata l'idea di scrivere questo libro?
E’ una storia vecchia di 30 anni. Nell’agosto del 1985 Giuliano Naria, allora mio marito (abbiamo divorziato nel 1993), (condannato per banda armata denominata Brigate rosse e accusato, poi assolto, del delitto del Procuratore della Repubblica di Genova Francesco Coco) dopo un durissimo sciopero della fame che lo aveva portato a pesare 40 chili e dopo aver scontato 9 anni e sei mesi aveva ottenuto gli arresti domiciliari a Garlenda, un paesino dell’entroterra ligure nella casa che era dei mia nonna e che avevo dato in uso a i suoi genitori. Io lo avevo raggiunto lasciando Milano e il lavoro di giornalista. Era una bella cosa ma cosa ci facevamo lì? Non ci amavamo più così tanto da fare un figlio ma un libro forse potevamo provare a farlo. Avevamo a disposizioni personaggi straordinari da far impazzire di gioia qualsiasi aspirante scrittore! Giuliano era il narratore che sa guardare il carcere con ironia e gusto del paradosso, io l’intervistatrice. L’idea era raccontare la brutalità del carcere ma senza piagnistei, volevamo racconti scanzonati anche nella tragedia. Volevamo raccontare persone, non criminali o terroristi. Persone curiose, sbruffone, prepotenti, generose, crudeli anche e, soprattutto, non volevamo dare giudizi. Quelli li aveva già dati la legge.
Il testo fa fare una riflessione anche sull'utilità del carcere: qual è la sua opinione in merito?
L’obbiettivo di fondo per cui è stato scritto il libro è far si che chi lo legge si chieda: a cosa serve il carcere? Credo, credevamo, che il carcere non sia riformabili e, come da tempo insiste il mio amico Vincenzo Guagliardo, e fortunatamente non solo lui, che dovremmo liberarci dalla necessità del carcere.
Si tratta di storie che, da una parte, attingono alla realtà e, da un'altra, sono romanzate: perchè questa scelta?
Il libro è firmato da due persone ma in realtà è un canto corale e tutti i personaggi citati ne sono in qualche modo gli autori. E’ un documento di storia orale, storia raccontate come intorno a un bivacco (molti racconti sono nati all’Asinara a celle distrutte), dove ciascuno racconta la sua di storia e magari la abbellisce, omette, confonde. Non sono la verità ma sono più che vere.