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venerdì 25 dicembre 2015

Quel pranzo di Natale nel carcere di Opera



Nella Casa di reclusione di Opera, lo scorso 23 dicembre, si è tenuto un pranzo molto speciale: uno chef stellato ha cucinato varie prelibatezze per i detenuti e i loro familiari.

Anche se apprezziamo il gesto professionale e umano dello chef e delle altre persone famose coinvolte nell'iniziativa intitola "L'ALTrA cucina... per un pranzo d'amore",
 
non vogliamo citarle perchè a noi interessa altro: interessa sottolineare i motivi che stanno alla base di questa scelta illuminata, da parte del Direttore dell'istituto di pena, e le conseguenze positive. La giornata è poi proseguita con un concero di Edoardo Bennato, preso il teatro dell'istituto. Tornando al motivo della bella iniziativa: immaginiamo che sia stato quello di offrire ai reclusi un momento diverso dalla quotidianità, uno spazio per riabbracciare i cari, stare in compagnia e riflettere, tutti insieme, sul senso vero e profondo della nascita di Gesù: un uomo che ha incarnato i peccati degli altri uomini, che ha pagato per tutti, ma che poi è tornato alla vita. Le conseguenze: la gioia di tutte le persone, libere e non, che si sono ritrovate insieme a condividere il pane, simbolo di pace. Ma non è tutto: a servire il pranzo sono state le vittime di alcuni reati commessi dai detenuti. Una decisione meritevole, un esempio grande di capacità di perdono. Si deve andare avanti, cercando di mettersi nei panni dell'Altro, anche quando l'errore è stato enorme. Ci vuole tempo, tanto tempo per capire, perdonare. Ci vuole tempo, tanto tempo anche per riscattarsi.

Il dono più bello? La presenza dei bambini che, con il loro chiasso, le loro domande, il loro entusiasmo hanno ridato la voglia di continuare a stare dentro e ad aspettare fuori, con la fiducia nel sapere che non è poi tutto sprecato.


L'iniziativa è stata replicata in altre quattro carceri per le detenute e i detenuti e i loro familiari.

lunedì 21 dicembre 2015

VI congreso "Nessuno tocchi Caino": il carcere è una pena di morte mascherata




Il sesto congresso di 'Nessuno tocchi Caino' svoltosi nel carcere di Opera, a Milano, si è concluso con l'approvazione di una mozione che impegna gli organi dirigenti a far propri e a rilanciare gli obiettivi sul miglioramento delle condizioni carcerarie di papa Francesco, che lo scorso anno ha definito l'ergastolo come una "pena di morte mascherata". Apertosi ieri con un messaggio del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il congresso 'Spes contra spem' ha visto la partecipazione di circa 400 persone. Tra loro c'erano oltre 200 detenuti, molti dei quali condannati all'ergastolo, alcuni arrivati a Opera da Padova e da Voghera per raccontare le loro storie.
La mozione, nel dettaglio, impegna anche "a promuovere ricorsi in sede internazionale, in particolare al Comitato dei diritti umani delle Nazioni Unite, alla Corte europea dei diritti dell'uomo e, in Italia, alla Corte Costituzionale, volti al superamento dei trattamenti crudeli e anacronistici come il regime di cui all'art. 41 bis. e il sistema dell'ergastolo ostativo che, per modalità specifiche e durata eccessiva di applicazione, provocano, come ampiamente dimostrato dalla letteratura scientifica - oltre che da numerosi casi concreti - danni irreversibili sulla salute fisica e mentale del detenuto, tale da configurare la fattispecie di punizioni umane e degradanti".
Infine, la mozione invita il Congresso a elaborare un primo rapporto di 'Nessuno tocchi Caino' sull'ergastolo nel mondo a partire dall'Europa. Tra i prossimi progetti anche quello di realizzare un docu-film, a cura di Ambrogio Crespi, dal titolo, 'Spes contra spem-Liberi tutti'.

La diretta del congresso del 2013, per voi:

 
 

sabato 5 dicembre 2015

Una mostra dei detenuti di San Vittore presso il Tribunale di Milano

Si intitola "Sogni di segni, segni di sogni" l'esposizione che si è aperta oggi al Palazzo di Giustizia di Milano per mettere in mostra le opere realizzate da circa una cinquantina di persone che stanno scontando una condanna nel carcere milanese di San Vittore e all'Icam, l'istituto di custodia attenuata per le madri detenute. Obiettivo del progetto, promosso dalla sezione milanese dell'Associazione Nazionale Magistrati, è quello di consentire ai detenuti di vivere la propria quotidianità carceraria realizzando la propria personalità attraverso la pittura e esprimere così il proprio stato d'animo nella difficile fase di espiazione della pena.
La mostra di pittura resterà aperta fino al prossimo 17 dicembre nell'androne del terzo piano della cittadella giudiziaria milanese per poi essere trasferita alla Casa dei Diritti del Comune di Milano. "E' interesse dello Stato - ha osservato il presidente della Corte d'Appello del capoluogo lombardo, Giovanni Canzio, durante la cerimonia di inaugurazione - realizzare questo percorso di legalità. Iniziative come queste sono la strada migliore per ridurre il rischio di recidiva".




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mercoledì 11 novembre 2015

Niente sesso, siamo egiziani!

di Monica Macchi











Per tutto il tempo che vivi o ti muovi dentro al Cairo,

sei costantemente denigrato. Sei destinato a incazzarti.

Anche se impieghi tutte le forze della Terra

non puoi cambiare questo destino.





 


 
Una Cairo post-moderna sporca, inquinata, sovraffollata, piegata alle leggi del consumismo: qui Bassàm, il protagonista di استخدام الحياة (Istikhdam al-Hayat -“L’uso della vita”- Il Cairo, Dar al-Tanwir, 2014) si barcamena tra sesso, droghe e alcol cercando di sfuggire dalle grinfie dei bauab. i portinai che lo bloccano quando cerca di salire a casa delle amiche. In particolare in un capitolo (che gli arabofoni possono gustare online a questo indirizzo http://ahmednaje.net/2014/07/fiv/) c’è una descrizione molto esplicita di un rapporto sessuale con una donna più grande. Ebbene per questo il 14 novembre lo scrittore, giornalista di Akbar el Adab (prestigioso settimanale letterario diretto da Gamàl al-Ghitàni) e blogger egiziano Ahmed Naji (ecco il suo blog وسع خيالك “Allarga la tua immaginazione” http://ahmednaje.net/category/english/) ed il suo editore Tareq al-Taher dovranno difendere loro ed il libro dall’accusa di offesa alla morale per il suo “contenuto sessuale osceno”. In base all’articolo 187 della legge 59 del 1937 rischiano due anni di carcere e una multa tra le 5000 e le 10000 ghinee (tra i 600 e i 1000 €).
Questo libro è un lavoro ibrido: in parte prosa, in parte graphic novel di Ayman El-Zorkany le cui tavole sono state esposte in gallerie d’arte sia ad Alessandria che al Cairo senza alcun problema. E’ stato stampato in Libano da Dar al-Tanweer e quindi ha già ottenuto un visto per essere pubblicato in Egitto ma questo non lo protegge dall’essere portato in tribunale….qualora ci sia una denuncia formale. Joe Rizk di Dar al-Tanweer, ha scritto che si segue uno schema comune: “un libro è disponibile per un certo periodo finchè arriva un reclamo e poi una denuncia per il contenuto offensivo”…come del resto è successo nel 2008 per “Metro” di Magdy al-Shafee con multa e confisca di tutte le copie e ci sono voluti ben cinque anni e il successo e le traduzioni internazionali (per l’Italia è disponibile alla casa editrice “Il Sirente” acquistabile qui http://www.sirente.it/prodotto/metro-magdy-el-shafee/) per trovarlo anche in Egitto.

mercoledì 4 novembre 2015

Bambini siriani orfani detenuti illegalmente nelle prigioni a Kos




Una nostra lettrice, che ringraziamo molto, ci ha segnalato il seguente appello per i bambini siriani orfani, detenuti illegalmente nelle prigioni dell'isola greca di Kos e gli articoli di approfondimento che potete leggere cliccando sui link a seguire.


The Greek Ambassador to the UK

Stop putting unattended children into prison in squalid conditions without access to clean water and food. The Prison cells are like medieval dungeons with excrement on the floor. This is a totally unacceptable situation.

Why is this important?


The treatment of the children in this way contravenes article 37 of the United Nations charter for children. This treatment will result in long term physical, psychological and emotional damage to the children. It is not how a westernised nation should behave.




Per approfondire ancora l'argomento, eccovi due link importanti (e una petizione):

 

http://www.independent.co.uk/news/world/europe/refugee-crisis-orphans-locked-up-in-medieval-prisons-alongside-adult-criminals-on-greek-island-of-a6694521.html



lunedì 26 ottobre 2015

Sisi, Mustafa e gli altri


di Monica Macchi



Per la festa dell’Eid el Adaa di quest’anno il presidente egiziano Abd al-Fattah al-Sisi ha graziato molti detenuti politici tra cui alcuni giornalisti di Al Jazeera e pochi giorni fa in un’intervista con Wolf Blitzer alla CNN ha detto “Non voglio esagerare, ma vi assicuro che l'Egitto gode di una libertà senza precedenti nei media”.



In realtà Bassem Youssef si è visto cancellare il suo spettacolo “Al-Barnamig” dopo un episodio sulle elezioni presidenziali con annessa una multa di 50 milioni di ghinee. Ora vive all'estero e non è tornato in Egitto neppure per il funerale del padre per paura di essere arrestato…e nel frattempo continua a essere denigrato come “traditore”. E molti altri giornalisti come Reem Magued, Yosri Fouda e Dina Abdel Rahman sono stati licenziati con l’accusa nemmeno tanto velata di aver criticato il governo mentre nell’ultimo anno numerosi giornali tra cui Al-Watan, Al-Masry Al-Youm, Sawt Al-Oma e Al-Sabah sono stati confiscati dalle autorità. Secondo le cifre fornite dal Sindacato dei giornalisti ci sono 32 giornalisti ancora in carcere, tra cui il fotogiornalista Shawkan di cui ci siamo già occupati qui. (http://peridirittiumani.blogspot.it/2015/01/mahmoud-abou-zeid-alias-shawkan-un.html).



Ma anche la tv è nel mirino: la serie “Il popolo di Alessandria” è stata cancellata, perché critica la polizia egiziana prima della rivoluzione del 25 gennaio. E non sono solo i giornalisti e gli scrittori (Belal Fadl su tutti) ad essere sotto controllo... Ahmed El-Merghany, è stato cacciato dalla sua squadra Wadi Degla per aver criticato Sisi sulla sua pagina di Facebook…ebbene ha dovuto pubblicamente chiedere scusa per tornare a giocare perché tutti i calciatori egiziani hanno attuato una sorta di boicottaggio rifiutandosi di averlo in squadra.


Ma ci sono anche sparizioni misteriose come quella di Mostafa Massouny, un video-maker scomparso dal 26 giugno dal centro del Cairo. I suoi familiari e amici non sono riusciti a trovarlo da nessuna parte, negli ospedali, negli obitori, nelle carceri e nelle stazioni di polizia ma hanno saputo che è stato “oggetto di indagine” da parte del NSA (Agenzia di Sicurezza Nazionale) presso la sede di Lazoghly Square. Il Ministero degli Interni nega qualsiasi coinvolgimento ma dice che “stanno indagando”. L’associazione Freedom for the Brave ha iniziato una campagna per far luce sul caso di Massouny sotto l’hashtag “Dov’è Massouny?” (# ماصوني_فين) documentando almeno 163 casi di sparizioni forzate e detenzione illegale da parte delle forze di sicurezza solo negli ultimi due mesi.
 
 
 

giovedì 22 ottobre 2015

La stretta di mano ingravida ?!?!




di Monica Macchi







Atena è stata punita per le sue vignette…

. Nessuno dovrebbe essere in carcere

per la propria arte

Hassiba Hadj Sahraoui, vicedirettore di Amnesty, MENA




 






Atena Farghadani è una disegnatrice e attivista iraniana condannata per “oltraggio”, per “attentato alla sicurezza nazionale” e “diffusione di propaganda ostile alle istituzioni” per questa vignetta in cui i parlamentari sono rappresentati come animali mentre stanno votando un provvedimento che limita l’accesso delle donne al controllo delle nascite. 

Incarcerata una prima volta nell'agosto 2014, è stata liberata a novembre e poi di nuovo arrestata a gennaio dopo aver denunciato in un video postato su YouTube le percosse, le perquisizioni corporali degradanti e gli interrogatori al limite della tortura. Messa in isolamento nel carcere di Evin (che non ha una sezione per i prigionieri politici), ha iniziato uno sciopero della fame e a fine febbraio ha avuto un infarto ed è stata in coma. Si è lentamente ripresa e finalmente il 13 giugno scorso il suo avvocato Mohammad Moghimi è riuscito ad avere il permesso di farle visita… ma le guardie hanno spifferato che al termine del colloquio si sono stretti la mano! L’avvocato è stato immediatamente arrestato per questo “gesto al limite dell'adulterio” e rilasciato dopo tre giorni e il pagamento di una cauzione di 60.000 dollari. Entrambi sono in attesa di processo per “condotta indecente e relazione sessuale inappropriata”: e per comprovare le accuse Atena ha dovuto subire una visita ginecologica coatta con un doppio test: gravidanza e verginità….test di verginità imposto che è considerato internazionalmente una forma di violenza e discriminazione nei confronti di donne e ragazze e viola l’articolo 7 del Patto Internazionale sui diritti civili e politici ratificato dall’Iran.

Amnesty considera Atena Farghadani una prigioniera di coscienza che non ha commesso alcun reato e ha lanciato una petizione internazionale per chiederne la scarcerazione
 
 
Il Guardian invece ha invitato i lettori a mandare una vignetta in solidarietà con l’artista iraniana su Twitter con l’hashtag #Draw4Atena e qui potete vederne una selezione
 





mercoledì 21 ottobre 2015

#Nonmelaspaccigiusta: la campagna sulle droghe non è finita


Cari tutti,

oggi vi mettiamo al corrente della campagna #Nonmelaspaccigiusta organizzata da Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili (CILD) e da altre associazioni, come Antigone,sul tema delle droghe.

A seguito del comunicato, pubblichiamo una dichiarazione di Patrizio Gonnella - Presidente dell'Associazione Antigone - che ha rilasciato all'Associazione per i Diritti umani. Lo ringraziamo molto.

 
 
 

Nel mese di aprile 2016 le Nazioni Unite dedicheranno una sessione speciale dell’assemblea generale al tema delle droghe (Ungass). È l’occasione per mettere definitivamente in soffitta la war on drugs.


Il nostro messaggio alle istituzioni


Le droghe sono un fenomeno complesso che riguarda milioni di persone solo in Italia.
È necessaria una risposta di tipo multi-disciplinare: sociale, culturale, medica.


Non si può delegare tutto alla giustizia criminale e all’incarcerazione di massa.

L’Italia è stata in prima linea nella guerra alle droghe con una legislazione ideologica, punitiva, repressiva. La legge Fini-Giovanardi, in parte abrogata dalla Corte Costituzionale, va del tutto superata. Essa si fondava sulla logica della proibizione assoluta, della repressione, della carcerazione diffusa.

Ci vuole un cambio di paradigma puntando su altre parole chiave, ovvero prevenzione, riduzione del danno, decriminalizzazione, depenalizzazione e legalizzazione.

Il Governo italiano non ha ancora fatto sapere quale sarà la sua posizione in attesa di Ungass 2016 e quando convocherà la conferenza nazionale sulle droghe.

Noi chiediamo al Presidente del Consiglio dei Ministri di dare un segnale di cambiamento nella direzione del superamento della war on drugs e di spingere l’intera Unione Europea in questa direzione.

Gli chiediamo anche di annunciare la data della conferenza nazionale sulle droghe, indispensabile per un dibattito pubblico su un tema tanto cruciale.






INTERVENTO DI PATRIZIO GONNELLA
 
Era il 17 luglio 1971, quando l’allora presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon, dichiarò quella che è conosciuta globalmente come la “war on drugs”. Davanti al congresso Nixon disse che il consumo di droga aveva assunto la dimensione di una emergenza nazionale e chiese a Capitol Hill uno stanziamento iniziale di 84 milioni di dollari per assumere misure di emergenza. Dopo 40 anni e miliardi di dollari spesi per combatterla nelle strade nei tribunali e con incarcerazioni di massa, la guerra alla droga è persa. Molti stati se ne sono accorti e iniziano a cambiare le proprio politiche. Anche le Nazioni Unite lo hanno capito e per la primavera del 2016 hanno convocato una sessione speciale dell’Assemblea Generale su questo tema. Sarà l’occasione per un cambiamento profondo a livello globale e sarà un’occasione senza precedenti anche per l’Italia per far sentire una nuova voce e avere peso in queste scelte. Per favorire questo cambiamento è però necessaria un’opinione informata. Cosa hanno comportato le politiche proibizioniste e repressive in Italia? Quanti sanno che dal 2006 al 2014 circa 250.000 persone sono entrate in carcere, per una spesa per lo Stato di oltre 1 miliardo di euro l’anno, senza contare i soldi spesi per forze dell’ordine e tribunali. E quanti sanno che se la cannabis fosse legale l’Italia guadagnerebbe tra i 7 e i 13 miliardi di euro ogni biennio grazie alla tassazione. Quanti conoscono i reali effetti delle droghe (cannabis-cocaina-anfetamine-ecc.) e quanti il confronto tra cannabis e alcool, due sostanze psicoattive, una illegale e l’altra no? E ancora, in quanti sanno quali sono le sanzioni previste per l’uso personale, se l’uso di gruppo è ammesso o punito, cosa accade se si viene fermati mentre si è alla guida dopo aver utilizzato sostanze? Con #NonMeLaSpacciGiusta la Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili (CILD) punta proprio a questo: ad informare per favorire un dibattito non ideologico, aperto ai dati e alla voci di tutti. Il progetto si avvale della competenza di ONG, medici, avvocati, giornalisti scientifici e propone un sito con numerosi materiali per fornire una base di conoscenza che informi il dibattito politico e mediatico. Le droghe non sono da trattare tutte allo stesso modo: in maniera disinformata, ideologica e approssimativa. Le droghe sono una diversa dall’altra. È necessario informare correttamente circa i rischi dell’uso e dell’abuso. Il tema riguarda la salute psico-fisica delle persone, i loro stili di vita, la libertà di scelta, l’educazione. Considerarla solo di rilevanza giudiziaria significa fare un favore immenso alle mafie e a chi è capace di guadagnare ingenti somme di denaro dal mercato nero. I nostri ragazzi vanno educati, sostenuti, protetti, informati. Non serve perseguitarli e incarcerarli. Il cambiamento inizia da un’opinione informata. Contro chi non ce la spaccia giusta.

sabato 17 ottobre 2015

Book City: il potere della letteratura e i diritti umani





Milano, 25 ottobre 2015

Novel Rights, "Il Potere della Letteratura e i Diritti Umani", in collaborazione con “Associazione per i Diritti Umani” e con “Amnesty International” Sezione Italiana, presenta in Italia una serie di eventi con un gruppo di esperti, che discutono attorno al problema dei Rifugiati, e alla crisi globale che ne deriva.

DOMENICA 25 OTTOBRE 2015, dalle 19:00 alle 21:00 presso la CAMERA DEL LAVORO (Corso di Porta Vittoria 43) Milano

Argomenti di discussione: di cosa necessita un autore /cosa dovrebbe fare per aiutare a risolvere la crisi del rifugiato? Può la letteratura avere un ruolo in qualche modo influente o contribuire ad offrire una soluzione? Che ruolo può avere un autore nel mondo attuale in continuo cambiamento? Possono gli autori dare un significato diverso alla parola rifugiato?

L'evento che chiuderà Bookcity sarà la presentazione di un'opera che fa parte di una mostra – già allestita in occasione di Expo 2015 – dell'artista Ivana Olimpia Belloni . L'opera offre ai visitatori un'esperienza unica di attivismo che coinvolge arte, letteratura e diritti umani



I relatori

Roma Tearne, autrice britannica di origini singalesi

Il suo ultimo romanzo, "L'ultimo molo" (Nova, 2015) è basato sulla storia vera di una nave passeggeri britannica, la SS Arandora Star, che durante la II Guerra Mondiale, mentre compiva la traversata per trasportare 800 internati italiani e tedeschi da Liverpool al Canada, è stata silurata da un sottomarino tedesco. La storia ci racconta che, nell’agosto del 1940, sulla costa irlandese, il mare restituì 213 corpi.

I membri di alcune famiglie italiane coinvolte nel disastro ci onoreranno della loro presenza durante l'evento.



Il nuovo romanzo di Roma, sempre in forma di ebook, dal titolo “Non spaventate i bambini” e ispirato ad Aylan Kurdi, verrà ufficialmente presentato durante l’evento.



Ava Homa, scrittrice, giornalista e docente universitaria curdo-canadese. È una delle poche scrittrici curde al mondo

Molto apprezzata dalla critica, Ava Homa ci parlerà dell’ immaginazione, antidoto all'apatia

Il breve racconto digitale di Ava "Ninnananna" (Novel Rights, 2012) tradotto in italiano


specificamente per questa occasione, sarà disponibile per l’acquisto al termine dell’evento

così come il romanzo digitale di Roma Tearne



Altri relatori

 

Vered Cohen Barzilay è fondatrice e direttore di Novel Rights, un movimento letterario globale, a favore dei diritti umani. Da più di un decennio, Vered analizza l'impatto della letteratura sull'attivismo riguardante i diritti umani ed ha sviluppato il concetto di “letteratura dei diritti umani”, decidendo di fondare Novel Rights con l'obiettivo di esplorare l'impatto della letteratura sull'attivismo dei diritti umani. Novel Rights pubblica storie in formato digitale che parlano di diritti umani e promuove eventi globali a favore del legame tra letteratura e diritti umani



Alessandra Montesanto: Vicepresidente dell'”Associazione per i Diritti Umani” di Milano, un'associazione culturale che organizza incontri di approfondimento, presentazioni di libri e film, sulle tematiche legate ai diritti umani, e propone spunti di riflessione attraverso il sito www.peridirittiumani.com.

Riccardo Noury: Portavoce di Amnesty International Italia, blogger per Il Corriere della Sera, Il Fatto Quotidiano e Articolo 21

Ruggero Gabbai: regista, fotografo e Presidente della Commissione Consigliare EXPO 2015


L'evento inizierà con un minuto di silenzio in memoria dei rifugiati che hanno perso la vita nel tentativo di trovare un posto più sicuro dove vivere, e la cui storia non è stata mai raccontata e si concluderà con uno straordinario incontro con il figlio di Mostafa Azizi. Mostafa Azizi, scrittore e regista iraniano, è rinchiuso nella prigione Evin di Teheran dall’inizio di febbraio di quest’anno. Suo figlio, insieme ad altri autori, sta conducendo una vasta campagna per liberarlo.


L'artista italo-francese, Ivana Olimpia Belloni darà un contributo all’evento con uno dei suoi dipinti, creato appositamente per quest’occasione. Accanto al suo lavoro, in occasione della sua mostraper Expo2015, ha scritto: Vered mi ha dato l'opportunità e l'onore di rappresentare il senso della pace nel mondo che noi adulti possiamo e dobbiamo dare ai deboli ed agli indifesi proprio attraverso il rispetto dei diritti umani. Le impronte mie della mia nipotina, Giulia, stanno a significare proprio questo.







domenica 11 ottobre 2015

Roosh V e la legalizzazione dello stupro





Mentre tornavo a casa, ho capito quanto lei fosse ubriaca,

ma non posso dire che mi interessasse o che io abbia esitato….

l’unica cosa che mi interessa è fare sesso”

 

 
Roosh V (nome d’arte di Daryush Valizadeh) è uno scrittore che si autodefinisce “antifemminista” e che ha recentemente lanciato una proposta di legge per legalizzare lo stupro “se fatto in una proprietà privata”. Secondo questa brillante idea “le donne smetterebbero di seguire strani sconosciuti nelle loro case e gli uomini non sarebbero ingiustamente incarcerati”.



Ebbene i suoi libri (tra cui spiccano la “Bibbia” che insegna a rimorchiare le ragazze durante il giorno e un manuale che insegna come portarsi a letto le ragazze polacche… ma ci sono anche le varianti per le ukraine, le lituane e le estoni) vengono contestati negli USA ma sono in vendita su Amazon: la scorsa settimana è stata lanciata da Caroline Charles una petizione su change.org per chiedere a Jeff Bezos – CEO di Amazon – il ritiro immediato dei libri per garantire che nessuno tragga profitti dallo stupro.


Ecco il link per firmare:





giovedì 8 ottobre 2015

La pena di morte è disumana




In occasione delle ultime esecuzioni negli Stati Uniti (la prima donna in 70 anni è stata condannata alla sedia elettrica in Georgia e la pena eseguita nei giorni scorsi), ripubblichiamo un intervento del Pontefice - sui temi delle carceri e della pena di morte - ma ancora molto attuale.


(dal sito de L'Osservatorio Romano)

Francesco: abolire pena di morte, no a carcere disumano

Udienza di Papa Francesco nella Sala dei Papi - L'Osservatore Romano
23/10/2014

Cristiani e uomini di buona volontà “sono chiamati oggi o a lottare non solo per l’abolizione della pena di morte”, in “tutte le sue forme”, ma per il miglioramento delle “condizioni carcerarie”. È uno dei passaggi centrali del discorso tenuto da Papa Francesco in Vaticano a un gruppo di giuristi dell’Associazione penale internazionale. La voce del Papa si è levata anche contro il fenomeno della tratta delle persone e della corruzione. Ogni applicazione della pena, ha affermato, deve essere fatta con gradualità, sempre ispirata dal rispetto della dignità umana. Il servizio di Alessandro De Carolis:

L’ergastolo è una “pena di morte coperta”, per questo l’ho fatta cancellare dal Codice Penale Vaticano. L’affermazione a braccio di Papa Francesco si incastona in una intensa, particolareggiata disamina di come gli Stati tendano oggi a far rispettare la giustizia e a comminare le pene. Il Papa parla con la consueta schiettezza e non risparmia critiche a tempi come i nostri in cui, afferma, politica e media incitano spesso “alla violenza e alla vendetta pubblica e privata”, sempre alla ricerca di un capro espiatorio. Il passaggio sulla pena di morte è molto sentito. Papa Francesco ricorda che “San Giovanni Paolo II ha condannato la pena di morte”, come pure il Catechismo, non solo punta il dito contro il ricorso alla pena capitale, ma smaschera in un certo senso anche quello alle “cosiddette esecuzioni extragiudiziali o extralegali”, che lui chiama “omicidi deliberati”, commessi da pubblici ufficiali dietro il paravento dello Stato:

“Tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà sono dunque chiamati oggi o a lottare non solo per l’abolizione della pena di morte, legale o illegale che sia, e in tutte le sue forme, ma anche al fine di migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della dignità umana delle persone private della libertà. E questo, anche, io lo collego con l’ergastolo. In Vaticano, poco tempo fa, nel Codice penale del Vaticano, non c’è più, l’ergastolo. L’ergastolo è una pena di morte coperta”.

Lo sguardo e la pietà di Papa Francesco sono evidenti in tutta la sua esplorazione sia delle forme di criminalità che attentano alla dignità umana, sia del sistema punitivo legale che talvolta – dice senza giri di parole – nella sua applicazione legale non è, perché quella dignità non rispetta. “Negli ultimi decenni – rileva all’inizio il Papa – si è diffusa la convinzione che attraverso la pena pubblica si possano risolvere i più disparati problemi sociali, come se per le più diverse malattie ci venisse raccomandata la medesima medicina”. Questo ha fatto sì che il sistema penale abbia varcato i suoi confini – quelli sanzionatori - per estendersi sul “terreno delle libertà e dei diritti delle persone”, ma senza un’efficacia realmente riscontrabile:

“C’è il rischio di non conservare neppure la proporzionalità delle pene, che storicamente riflette la scala di valori tutelati dallo Stato. Si è affievolita la concezione del diritto penale come ultima ratio, come ultimo ricorso alla sanzione, limitato ai fatti più gravi contro gli interessi individuali e collettivi più degni di protezione. Si è anche affievolito il dibattito sulla sostituzione del carcere con altre sanzioni penali alternative”.
 
Papa Francesco definisce ad esempio il ricorso alla carcerazione preventiva una “forma contemporanea di pena illecita occulta”, celata dietro “una patina di legalità”, nel momento in cui procura a un detenuto non condannato un’“anticipo di pena” in forma abusiva. Da ciò – osserva – deriva sia il rischio di moltiplicare la quantità dei “reclusi senza giudizio”, cioè “condannati senza che si rispettino le regole del processo” – e in alcuni Paesi sono il 50% del totale – sia, a cascata, il dramma della vivibilità delle carceri:

“Le deplorevoli condizioni detentive che si verificano in diverse parti del pianeta, costituiscono spesso un autentico tratto inumano e degradante, molte volte prodotto delle deficienze del sistema penale, altre volte della carenza di infrastrutture e di pianificazione, mentre in non pochi casi non sono altro che il risultato dell’esercizio arbitrario e spietato del potere sulle persone private della libertà”.
 
Ma Papa Francesco va oltre quando, parlando di “misure e pene crudeli, inumane e degradanti”, paragona a una “forma di tortura” la detenzione praticata nelle carceri di massima sicurezza. L’isolamento di questi luoghi, ricorda, causa sofferenze  “psichiche e fisiche” che finiscono per incrementare “sensibilmente la tendenza al suicidio”. Ormai, è la desolante constatazione del Papa, le torture non sono somministrate solamente come mezzo per ottenere “la confessione o la delazione”…

“…ma costituiscono un autentico plus di dolore che si aggiunge ai mali propri della detenzione. In questo modo, si tortura non solo in centri clandestini di detenzione o in moderni campi di concentramento, ma anche in carceri, istituti per minori, ospedali psichiatrici, commissariati e altri centri e istituzioni di detenzione e pena”.

E dalla durezza del carcere, insiste il Papa, devono essere risparmiati anzitutto i bambini, ma anche – se non del tutto almeno in modo limitato –anziani, ammalati, donne incinte, disabili, compresi “madri e padri che – sottolinea – siano gli unici responsabili di minori o di disabili”. Papa Francesco si sofferma con alcune considerazioni su un fenomeno da lui sempre combattuto. La tratta delle persone, sostiene, è figlia di quella “povertà assoluta” che intrappola “un miliardo di persone” e ne vede almeno 45 milioni costrette alla fuga a causa dei conflitti in corso. Quindi, osserva con durezza:
 
“Dal momento che non è possibile commettere un delitto tanto complesso come la tratta delle persone senza la complicità, con azione od omissione, degli Stati, è evidente che, quando gli sforzi per prevenire e combattere questo fenomeno non sono sufficienti, siamo di nuovo davanti ad un crimine contro l’umanità. Più ancora, se accade che chi è preposto a proteggere le persone e garantire la loro libertà, invece si rende complice di coloro che praticano il commercio di esseri umani, allora, in tali casi, gli Stati sono responsabili davanti ai loro cittadini e di fronte alla comunità internazionale”.
 
Il capitolo sulla corruzione è ampio e analizzato con grande scrupolo. Il corrotto, secondo Papa Francesco, è una persona che attraverso le “scorciatoie dell’opportunismo”, arriva a credersi “un vincitore” che insulta e se può perseguita chi lo contraddice con totale “sfacciataggine”. “La corruzione – afferma il Papa – è un male più grande del peccato” che “più che perdonato”, “deve essere curato”:

"La sanzione penale è selettiva. È come una rete che cattura solo i pesci piccoli, mentre lascia i grandi liberi nel mare. Le forme di corruzione che bisogna perseguire con [la] maggior severità sono quelle che causano gravi danni sociali, sia in materia economica e sociale – come per esempio gravi frodi contro la pubblica amministrazione o l’esercizio sleale dell’amministrazione – come in qualsiasi sorta di ostacolo frapposto al funzionamento della giustizia con l’intenzione di procurare l’impunità per le proprie malefatte o [per] quelle di terzi”.

Al tirare delle somme, Papa Francesco esorta i penalisti ad usare il criterio della “cautela” nell’applicazione della pena”. Questo, asserisce, “dev’essere il principio che regge i sistemi penali”:

“Il rispetto della dignità umana non solo deve operare come limite all’arbitrarietà e agli eccessi degli agenti dello Stato, ma come criterio di orientamento per il perseguimento e la repressione di quelle condotte che rappresentano i più gravi attacchi alla dignità e integrità della persona umana”.






venerdì 25 settembre 2015

Per Donatella Colasanti e tutte le donne vittime di violenza


Si chiamava Donatella come me”




di Monica Macchi

Dedicato a Donatella, a Rosaria, Mariacarmela, Valentina

e a tutte le donne vittime di violenza”




Battiamoci per la verità

Donatella Colasanti







29 settembre 1975: Rosaria Lopez e Donatella Colasanti arrivano con Gianni Guido e Angelo Izzo a Villa Moresca a San Felice Circeo, di proprietà della famiglia di Andrea Ghira che li raggiungerà poco dopo. Le due ragazze vengono rinchiuse in bagno, drogate, torturate, seviziate, violentate in un crescendo di odio sia misogino che classista. Dopo diverse ore, Rosaria viene annegata nella vasca da bagno e Donatella riesce a sopravvivere fingendosi morta. La sera successiva i tre ragazzi, giovani neofascisti della “Roma bene”, caricano le due ragazze nel baule dell’automobile, tornano in città e vanno a mangiare in trattoria. Un metronotte sente le urla di Donatella dall’auto parcheggiata in via Pola e nel giro di poche ore Izzo e Guido vengono arrestati (Izzo è stato fotografato mentre esibisce spavaldamente le manette ai polsi, sorridendo), mentre Ghira, grazie a una soffiata, non verrà mai catturato e si dice che sia morto in Spagna anche se l’identità della salma non è mai stata affermata in maniera incontrovertibile. La Colasanti ha seguito tutte le fasi del processo che ha dato un contributo fondamentale nella formulazione della nuova legge contro lo stupro che viene ora considerato un reato contro la persona e non più contro la morale e nel 2005 muore a soli 47 anni per un tumore al seno.



26 settembre alle 20,30 e 27 alle 19,00 presso il Csoa Spartaco di via Selinunte a Roma, va in scena “Si chiamava Donatella come me”, uno spettacolo teatrale di Donatella Mei, che si è sempre occupata di storie di donne (nel 2013 scrive “Desdemona, Ofelia, Giulietta e le altre (ovvero se Shakespeare fosse stato femminista)” e nel 2015 la trilogia su Dora Maar, Tina Modotti e Camille Claudel). Uno spettacolo di denuncia a livello personale e politico ed insieme una riflessione sui meccanismi relazionali fra uomini e donne ma soprattutto un viaggio nell’anima della protagonista in cui ogni tappa è scandita dalla storia giudiziaria e dal destino diverso e paradossale dei tre colpevoli. Uno spettacolo tragicamente attuale.


lunedì 21 settembre 2015

I frutti del carcere

Milano. La Loggia dei Mercanti,  a un passo dal Duomo, ospita - sabato 26 settembre – l’iniziativa “I frutti del carcere”. In programma l’esposizione delle produzioni carcerarie e incontri di approfondimento sui temi della detenzione e delle alternative al carcere. Un’occasione per conoscere il lavoro dei detenuti, le attività svolte nei laboratori degli Istituti di pena con la mostra mercato di mobili, gioielli, accessori, abiti, prodotti alimentari (pane, focacce, dolci) oltre a fiori e piante. Saranno organizzati anche incontri e dibattiti di approfondimento incentrati sui temi della detenzione, del lavoro carcerario e delle misure alternative. A cura associazione di  promozione sociale “Per i Diritti”. L’evento è inserito nel calendario di Expo in Città. Ore 10-18.30. Sito: www.comune.milano.it.





venerdì 11 settembre 2015

Il coraggio di Jafar Panahi nel raccontare l'Iran di oggi







Taxi Teheran è il titolo della nuova pellicola del regista persiano Jafar Panahi. Il regista de Il palloncino bianco, Il cerchio, Offside, Pardè e This is not a film – film vincitori dei maggiori premi in campo cinematografico – ha sempre raccontato le contraddizioni dell'Iran, denunciando la mancanza di libertà civili e universali attraverso poetiche metafore concettuali e visive. 

Panahi non ha mai taciuto le proprie posizioni politiche ed è sceso in piazza per protestare contro la rielezione di Mahmud Ahmadinejad: a causa di quelle manifestazioni di protesta gli è stato intimato di non girare più film, di non concedere interviste alla stampa straniera e di non abbandonare il Paese. Se avesse violato queste direttive sarebbe stato condannato a vent'anni di carcere. Grazie ad una rete di amici e colleghi, Panahi ha continuato a lavorare e torna nelle sale con Taxi Teheran, che si è aggiudicato l'Orso d'oro all'ultima edizione del festival di Berlino. Girato clandestinamente come le sue ultime due opere, il film è una docu-fiction in cui si compone un affresco della società iraniana. Salgono su un taxi, guidato dallo stesso regista, persone di tutti i tipi, età e professioni: donne, uomini, giovani, bambini, professionisti, persone semplici, persone note e comuni. In una scena significativa, il regista scende per pochi minuti dalla vettura per andare a prendere la sua nipotina all'uscita di scuola: anche lei, “armata” di videocamera, racconta di dover preparare una ricerca sulle attività scolastiche, ma che la ricerca deve conformarsi strettamente ai precetti dell'Islam ed evitare il “realismo nero”. Di cosa si tratta? Eccolo spiegato dal mezzo cinematografico e dalla creatività di Panahi: mentre lui e la bambina chiacchierano all'interno del taxi, sullo sfondo viene inquadrato un ragazzino che scava nella spazzatura e ruba del denaro a una coppia di giovani sposi. Sul suo taxi sale, inoltre, Nasrin Sotudeh, l'avvocatessa e attivista per i diritti umani, anche lei impossibilitata ad esercitare la professione dal 2011. Tra i tanti temi trattati, infatti, vi si trova anche quello che riguarda la condizione femminile, un argomento caro all'autore; e poi artisti e persone comuni che anelano alla libertà e, quando riconoscono il regista alla guida del mezzo, si stupiscono e poi si mettono a ridere. Sì, perchè la cifra che contraddistingue questo lavoro è l'ironia, un'ironia graffiante che dimostra quanto la censura non possa nulla contro la volontà. Una piccola cinepresa nascosta dell'abitacolo, riprende e registra (quasi sempre ad inquadratura fissa e in primo piano o mezzo busto) i volti e le espressioni delle persone: proprio come uno specchio che riflette e rimanda parole, immagini, situazioni che parlano dell'Iran contemporaneo. Il finale del racconto è terribile ed è accompagnato da un testo che sostituisce i titoli di coda: “Il ministero dell'orientamento islamico dà l'autorizzazione per i titoli di coda dei film che vengono distribuiti. Con mio grande rammarico quindi non ha titoli di coda. Esprimo la mia gratitudine a tutti coloro che mi hanno sostenuto. Senza la loro preziosa collaborazione, questo film non avrebbe visto la luce”. Auguriamo a Panahi di poter tornare alla luce della libertà dato che, coraggiosamente, continua a vivere con la famiglia a Teheran e sotto minaccia costante da parte del regime.

martedì 25 agosto 2015

Sos al Papa per la chiesa del carcere a Porto Azzurro



Il direttore del penitenziario, D’Anselmo: "Le rivolgo una richiesta di aiuto a nome dei 500 reclusi"



(da La Nazione)



Porto Azzurro (Isola d'Elba, Livorno) 18 agosto 2015 - "Le rivolgo, Santo Padre, una richiesta di aiuto a nome di circa 500 persone recluse nel carcere di Porto Azzurro, che da ormai quasi 10 anni non possono più partecipare alla santa messa nella chiesa di san Giacomo Maggiore, situata all’interno del secentesco forte spagnolo che ospita la casa di reclusione".

Inizia cosi la lettera che il nuovo direttore del penitenziario elbano, Francesco D’Anselmo, ha scritto a papa Francesco per informarlo della situazione e chiedere un suo autorevole intervento per far sì che la chiesa in questione, costruita nel ‘600, venga restaurata e torni ad essere un punto di riferimento non solo per la popolazione carceraria, ma anche per il paese di Porto Azzurro.

"Dal 2004 – aggiunge il direttore - la chiesa è stata dichiarata non agibile e perciò chiusa al culto. In realtà varie perizie avevano allora evidenziato che non si trattava di una situazione di particolare gravità, ma di infiltrazioni della copertura e di deterioramento delle gronde. Così fin dal 2005 dal Vescovo diocesano e dalla direzione del carcere era stato individuato un progetto per il restauro dell’ edificio, che prevedeva costi piuttosto contenuti. I detenuti, i volontari, gli operatori penitenziari a più riprese si rivolsero ai ministri della Giustizia e dei Beni ambientali. Ne seguirono dichiarazioni di disponibilità e di attenzione al problema. Ma gli anni sono passati e la chiesa è sempre chiusa, le sue condizioni sono deteriorate ed il degrado è sempre più evidente". Il direttore evidenzia l’importanza della Chiesa riveste per i reclusi.

"Per i detenuti che vivono in ambienti angusti – scrive ancora il dottor D’Anselmo - l’unico luogo armonioso che può trasmettere loro serenità e bellezza è questa chiesa. In un carcere, inoltre, dove pochi sono i motivi di conforto, la chiesa è un centro di diffusione di luce ed è bello stare uniti a pregare in un luogo dove molti hanno pregato e dove anche alcuni cittadini della comunità esterna possono, previa autorizzazione, partecipare alla messa, realizzando con i detenuti la comunione cristiana più autentica".

Nel carcere di Porto Azzurro da dieci anni la messa viene celebrata in un piccolo ambiente del tutto inadeguato, che non può accogliere più di 60-70 persone. "E’ un locale adibito a teatrino – spiega il direttore - con alle pareti pitture raffiguranti non certo immagini sacre. Certo, so che l’importanza dell’Eucarestia non dipende da pareti affrescate, statue all’altare ed altro, ma dalla disposizione dell’anima e dalla Grazia. Però l’essere umano ha bisogno di bellezza, musica, arte, che esprimono fede e gratitudine. Tanto più in un luogo di sofferenza e di tristezza come un carcere. Riaprire al culto la chiesa di San Giacomo sarebbe perciò importante, una vera Grazia".

giovedì 20 agosto 2015

Dalla “mala” milanese alle frontiere dell'anima


 


Gli appassionati di Massimo Carlotto conosceranno sicuramente Beniamino Rossini, uno dei suoi personaggi più amati. In La terra della mia anima (sempre edito da E/O) lo stesso compagno di avventure dell'Alligatore decide di raccontare la propria esistenza, una vita che attraversa l'immediato dopoguerra - quando inizia a fare lo “spallone” trafficando in sigarette - per arrivare alla guerra civile, passando per la Resistenza.

Beniamino ha un animo nomade, batte le terre d'Italia e d'Europa e si spinge fino al Libano; ma la sua anima viene ancorata nel mare, in quella distesa aperta e infinita che promette libertà eterna. E di libertà ne ha vissuta, il Rossini, una libertà sfrenata fatta di soldi e di femmine. Una libertà spezzata, a periodi, da anni di galera che non hanno fiaccato lo spirito indomito. Una vita appassionata, vissuta ai margini di frontiere fisiche e interiori, ma con princìpi saldi, un'etica criminale che oggi non esiste più e poi un amore, quello per un uomo diventato donna.

Il romanzo, uno dei più intensi di Carlotto, attraversa il Novecento, i momenti più bui del nostro Paese, con riflessioni di stretta attualità, come quella che riguarda le carceri: “Ora le rivolte non esistono più, le nuove carceri e le ristrutturazioni di quelle già esistenti sono state concepite per impedire ogni forma di protesta organizzata. In passato però furono un fenomeno molto diffuso, provocato dalle condizioni di vita inaccettabili nelle prigioni della Repubblica. Se oggi i detenuti hanno a disposizione un water e un lavandino, un fornello da campeggio, una caffettiera e un pentolino, lo si deve solo al sacrificio di quelli che si ribellarono e vennero picchiati, trasferiti e condannati. Sbaglia chi pensa che quel minimo di decenza venne portato nelle carceri da politici o intellettuali illuminati che sono arrivati sempre dopo e con un ritardo imbarazzante” e questo è solo un esempio. Così come può esserlo, oggi, la passione politica di Beniamino che, parlando di un suo mèntore, Enrico il Barbùn, dice: “Era comunista, in Svizzera aveva avuto problemi con la polizia, ma era un nemino dichiarato del partito. Aveva sempre considerato Stalin un dittatore sanguinario e all'inizio fu difficile discutere di politica. Quando parlava male dell'Unione sovietica mi veniva voglia di saltargli addosso”.

Ma il libro commuove per la capacità di scandagliare l'animo umano. Una frase su tutte, da sottolineare e ricordare: “ Voglio tentare di andarmene pervaso da un senso di appartenenza. Forse è una furbizia per sentirmi meno solo, ma il desiderio è sincero e preferisco il cuore in tumulto e la testa piena di sogni alla rassegnazione e all'urgenza del pentimento”.




martedì 21 luglio 2015

La casa del nulla: una riflessione sugli istituti penitenziari e un esempio di letterartura carceraria

 
 
 
 
 
 
 



Naria Giuliano e Rosella Simone sono le autrici del libro intitolato La casa del nulla (Milieu edizioni) opera sospesa tra storia orale, letteratura carceraria, racconto corale e antropologico. Pubblicato per la prima volta a metà degli anni ottanta da Tullio Pironti, e riproposto in una versione ridotta nel 1997 con il titolo "I duri", il testo ha avuto, come i suoi autori, diverse vicissitudini, ma rimane un testo fondamentale per capire gli anni settanta-ottanta e conserva ancora oggi una freschezza narrativa inossidabile.



Abbiamo rivolto alcune domande a Rosella Simone che ringraziamo.
 
 
Il libro racconta storie ambientate nelle carceri degli anni '70, anni difficili per il nostro Paese: qual era la popolazione carceraria dell'epoca ? E quali relazioni si instauravano tra le mura degli istituti?
Era una popolazione carceraria particolare e rispecchiava, come sempre fa il carcere, la società di allora. Nelle carceri speciali appena istituite erano stati concentrati due soggetti diciamo “nuovi”: ”terroristi” e rapinatori. Le istituzioni ritenevano che le regole durissime di quel carcere (colloqui con i vetri, arie d’aria ridotte all’osso, perquisizioni corporali….) e mettere insieme soggetti così apparentemente diversi avrebbe creato conflitti e piegato gli irriducibili. Non fu così. Proprio le condizioni brutali in cui erano costretti a vivere i detenuti creò una saldatura, una solidarietà, una amicizia, tra politici e banditi che fece detonare il circuito carcerario italiano.
Facciamo un paragone tra le condizioni di vita all'interno dei luoghi di detenzione di ieri e in quelli di oggi...
Il carcere è cambiato ma non è detto che sia sempre e solo in meglio. La carcerazione è differenziata e c’è chi può avere accesso alle pene alternative, andare a scuola, fare teatro e chi è chiuso nell’orrore del 41 bis. Di recente mi sono occupata del caso di un carcerato rinchiuso a Sulmona, Domenico Belfiore ergastolano in carcere da 32 anni, con un tumore all’intestino che, andato in coma, era stato ricoverato con urgenza, operato e rimandato immediatamente in carcere deve nel giro di pochi giorni è ritornato, ovviamente, in coma. Fortunatamente siamo venuti a saperlo e c’è stata una mobilitazione che ha portato alla concessione degli arresti domiciliari. Ma quanti i casi di cui non si sa niente?
Non sono contraria al carcere attenuato ma non posso giustificare, neanche per un capomafia alla Reina, una detenzione che equivale, per me, alla tortura.
Tra l’altro è proprio questa differenziazione che crea nei soggetti detenuti un processo di desolidarizzazione. Se io aspiro al premio (e non dico che non sia legittimo) dovrò guardarmi da stringere amicizie o essere solidale con chi gode fama di “cattivo”. E un carcere dove non c’è solidarietà tra i reclusi è un carcere dove si vive molto male.
Com'è nata l'idea di scrivere questo libro?
E’ una storia vecchia di 30 anni. Nell’agosto del 1985 Giuliano Naria, allora mio marito (abbiamo divorziato nel 1993), (condannato per banda armata denominata Brigate rosse e accusato, poi assolto, del delitto del Procuratore della Repubblica di Genova Francesco Coco) dopo un durissimo sciopero della fame che lo aveva portato a pesare 40 chili e dopo aver scontato 9 anni e sei mesi aveva ottenuto gli arresti domiciliari a Garlenda, un paesino dell’entroterra ligure nella casa che era dei mia nonna e che avevo dato in uso a i suoi genitori. Io lo avevo raggiunto lasciando Milano e il lavoro di giornalista. Era una bella cosa ma cosa ci facevamo lì? Non ci amavamo più così tanto da fare un figlio ma un libro forse potevamo provare a farlo. Avevamo a disposizioni personaggi straordinari da far impazzire di gioia qualsiasi aspirante scrittore! Giuliano era il narratore che sa guardare il carcere con ironia e gusto del paradosso, io l’intervistatrice. L’idea era raccontare la brutalità del carcere ma senza piagnistei, volevamo racconti scanzonati anche nella tragedia. Volevamo raccontare persone, non criminali o terroristi. Persone curiose, sbruffone, prepotenti, generose, crudeli anche e, soprattutto, non volevamo dare giudizi. Quelli li aveva già dati la legge.
Il testo fa fare una riflessione anche sull'utilità del carcere: qual è la sua opinione in merito?
L’obbiettivo di fondo per cui è stato scritto il libro è far si che chi lo legge si chieda: a cosa serve il carcere? Credo, credevamo, che il carcere non sia riformabili e, come da tempo insiste il mio amico Vincenzo Guagliardo, e fortunatamente non solo lui, che dovremmo liberarci dalla necessità del carcere.
Si tratta di storie che, da una parte, attingono alla realtà e, da un'altra, sono romanzate: perchè questa scelta?
Il libro è firmato da due persone ma in realtà è un canto corale e tutti i personaggi citati ne sono in qualche modo gli autori. E’ un documento di storia orale, storia raccontate come intorno a un bivacco (molti racconti sono nati all’Asinara a celle distrutte), dove ciascuno racconta la sua di storia e magari la abbellisce, omette, confonde. Non sono la verità ma sono più che vere.

 
 

lunedì 20 luglio 2015

La lettera della madre di Federico Aldrovandi




L’Associazione “Federico Aldrovandi” nasce come naturale evoluzione del Comitato “Verità per Aldro”, creato nel gennaio del 2006 per chiedere verità e giustizia per Federico Aldrovandi, il diciottenne ferrarese ucciso durante un controllo di polizia il 25 settembre 2005.
In questi anni, dopo una fase iniziale di stallo nelle indagini e numerose omissioni, si è riusciti ad arrivare al processo e nel giugno del 2012 i quattro poliziotti che avevano fermato Federico sono stati condannati definitivamente a 3 anni e 6 mesi di reclusione per eccesso colposo in omicidio colposo.
Ma il “lavoro” non è finito. Abbiamo visto con i nostri occhi come sia difficile vedere applicato un banale principio di giustizia per cui se chi commette un reato indossi o no una divisa dovrebbe essere indifferente ai fini dell’azione giudiziaria.



Per tutto questo crediamo che passaggi fondamentali siano l’approvazione di una legge sulla tortura e la democratizzazione delle forze dell’ordine.
Perché, come recitava lo striscione che apriva il corteo nazionale che organizzammo nel 2006, ad un anno dall’uccisione di Federico…


Verità grido il tuo nome.
Per quello che non doveva succedere.
Per quello che non è ancora successo.
Perché non accada mai più.



Di seguito, pubblihciamo la lettera della mamma di Federico, pubblicata sul sito della loro associazione.



Perché rimetto le querele contro Paolo Forlani, Franco Maccari e Carlo Giovanardi

Ho perso Federico che aveva 18 anni la notte del 25 settembre di dieci anni fa per l’azione scellerata di quattro poliziotti che vestivano una divisa dello stato, e forti di quella divisa hanno infierito su mio figlio fino a farlo morire. Non avrebbero mai più dovuto indossarla.
I giudici hanno riconosciuto l’estrema violenza, l’assurda esigenza di “vincere” Federico, e una mancanza di valutazione – da parte di quei quattro agenti – al di fuori da ogni criterio di senso comune, logico, giuridico e umanitario.
Non dovevano più indossare quella divisa: nessuno può indossare una divisa dello stato se pensa che sia giusto o lecito uccidere.  O se pensa che magari non si dovrebbe, ma ogni tanto può succedere, e allora fa lo stesso, il tutto verrà ben coperto. Con la speranza che il sospetto di una morte insensata, inutile e violenta scivoli via fra la rassicurante verità di carte col timbro dello Stato, di fronte alle quali tutti si dovrebbero rassegnare. E poi con quella stessa divisa si continuerà a chiedere il rispetto di quello stesso Stato: che però sarà inevitabilmente più debole e colpevole. Come un padre ubriaco che ha picchiato e ucciso i suoi figli.
Il delitto è stato accertato, le sentenze per omicidio emesse. Invece le divise restano sulle spalle dei condannati fino alla pensione. Fine del discorso.
L’orrore e gli errori, con la morte e dopo la morte di Federico. La mancanza di provvedimenti non guarda al futuro, non protegge i diritti e la vita: non tutela nemmeno l’onestà delle forze dell’ordine.
Alla fine del percorso giudiziario che ha condannato gli agenti tutto ciò ora mi è ben chiaro: ed è il messaggio che voglio continuare a consegnare alla politica e all’amministrazione del mio Paese.
Dopo la morte di Federico, abbiamo dovuto difendere la sua vita vissuta e la sua dignità assurdamente minacciate. Era pazzesco, sembrava il processo contro Federico.
Ho chiesto risposte alla giustizia e la giustizia ha riconosciuto che Federico non doveva morire così.
Il processo è stato per me, mio marito Lino e mio figlio Stefano una fatica atroce, ma era necessario prendervi parte e lottare ad ogni udienza: ci ha sostenuti l’amore per Federico.
Su quel processo e da quel processo in tanti hanno espresso un’opinione. E’ stato un modo per crescere.
Alcuni hanno colto l’occasione per offendere me, Federico e la nostra famiglia. Qualcuno l’ha fatto per quella che ritengo gratuita sciatteria e volgarità, altri per disegni politici volti a negare o a sminuire la responsabilità per la morte di Federico.
Avevo chiesto alla giustizia di tutelarci ancora. In quel momento era l’unica strada, e non me ne pento.
Sono passati due anni dai fatti per cui ho sporto querela. Ci sono state le reazioni pubbliche e anche quelle politiche. Però poi non è cambiato niente.
Ho riflettuto a lungo e ho maturato la decisione di dismettere questa richiesta alle Procure e ai Tribunali: non perché non mi ritenga offesa da chi ha stoltamente proclamato la falsità delle foto di mio figlio sul lettino di obitorio, di chi ha definito mio figlio un “cucciolo di maiale”, o da chi mi ha insultata, diffamata e definita faccia da culo falsa e avvoltoio.
Non dimenticherò mai le offese che mi ha rivolto Paolo Forlani dopo la sentenza della Cassazione: è stati lui, sconosciuto e violento, ad appropriarsi degli ultimi istanti di vita di mio figlio. Le sue offese pubbliche, arroganti e spavalde le ho vissute come lo sputo sprezzante sul corpo di mio figlio. E lo stesso sapore ha ogni applauso dedicato a quei quattro poliziotti. Applausi compiaciuti, applausi alla morte, applausi di morte. Per me non sono nulla di diverso.
Rappresentano un modo di pensare molto diverso dal mio.
Non sarà una sentenza di condanna per diffamazione a fare la differenza nel loro atteggiamento.
Rifiuto di mantenere questo livello basato su bugie e provocazioni per ferirmi ancora e costringermi a rapportarmi con loro. Io ci sto male, per loro – credo di capire – è un mestiere.
Forlani e i suoi colleghi li lascio con le loro offese e i loro applausi, magari ad interrogare ogni tanto quella loro vecchia divisa, quando sarà messa in un cassetto dopo la pensione, sull’onore e la dignità che essa avrebbe preteso.
Un onore che avrebbero minimamente potuto rivendicare se da uomini, cittadini, pubblici ufficiali e servitori dello Stato, coloro che hanno ucciso mio figlio e coloro che li hanno sostenuti avessero raccontato la verità su cosa era successo quella notte, e non invece le menzogne accertate dietro alle quali si sono nascosti prima, durante e dopo il processo, cercando di negare anche l’esistenza di quella mezzora in cui erano stati a contatto con Federico prima dei suoi ultimi respiri.
Da Forlani e dai suoi colleghi avrei voluto in quest’ultimo processo solo la semplice verità, tutta.
Chi ha ucciso Federico sa perfettamente quale strazio sta dando ad una madre, un padre e un fratello privandoli della piena verità dopo avergli strappato il loro figlio e fratello. Nessun onore di indossare la divisa dello stato, nessun onore.
E nessun onore neanche a chi da dieci anni cerca nella morte di mio figlio l’occasione per dire che in fondo andava bene così: i poliziotti non possono aver sbagliato, in fondo deve essere stata colpa di Federico se è morto in quel modo a 18 anni.
Costruite pure su questo le vostre carriere e la vostra visibilità. Dite pure, da oggi in poi, che il mio silenzio è la vostra vittoria. Muscoli, volantini, telecamere, libri, convegni e applausi. Per dire che non c’è stato nessun problema il 25 settembre 2005. E per convincere voi stessi e il vostro pubblico che il problema l’hanno creato solo Federico Aldrovandi e sua madre Patrizia Moretti.
Vi esorto soltanto, da bravi cattolici quali vi dichiarate, a ricordare il quinto comandamento: non uccidere.
Non spenderò più minuti della mia vita per queste persone e per i loro pensieri. Mi voglio sottrarre a questo stillicidio: una fatica soltanto mia che nulla aggiungerebbe utilmente e concretamente a nessuno se non alla loro ansia di visibilità. Trovo stancante anche pronunciare i loro nomi. Inutile commentare le loro dichiarazioni pubbliche.
A dieci anni dalla morte di Federico per il mio ruolo di madre, ma anche per le mie aspirazioni e per la mia attuale visione del mondo, penso che il dedicare anche solo alcuni minuti a persone che disprezzo sia un’imperdonabile perdita di tempo. Non voglio più doverli vedere né ascoltare o parlare di loro.
Perciò ritirerò le querele ancora in corso.
Non lo faccio perché mi è venuta meno la fiducia nella giustizia, ma dieci anni sono troppi, ed è il momento di dire basta.
Non è il perdono, d’altra parte nessuno mi ha mai chiesto scusa, ma prendere atto che per me andare avanti nelle azioni giudiziarie rappresenta soltanto un doloroso e inutile accanimento.
Ritiro le querele perché sono convinta che una sentenza di condanna non potrebbe cambiare persone che  – da quanto capisco – costruiscono la loro carriera sull’aggressività e sul rancore.
Non ci potrà mai essere un dialogo costruttivo, perciò addio.
Questo non significa che verrà meno il mio impegno di cittadina per contribuire a rendere questo paese un po’ più civile, e questo impegno mi vedrà come sempre a fianco dell’associazione degli amici di Federico per l’introduzione del reato di tortura e ogni altra forma di trasparenza e giustizia.
C’è molta strada da fare: confronti, discussioni, leggi giuste. Bisogna affrontare il problema degli abusi in divisa in modo costruttivo.
Le parole e le espressioni contro Federico, contro me e la nostra famiglia le lascio alla valutazione in coscienza di chi ha avuto il coraggio di dirle. E soprattutto alla valutazione di chi se le ricorda. Io ne conservo solo il disprezzo.
Per me l’onore è un’altra cosa.
L’onore appartiene a chi ha cercato di capire, a chi ha ascoltato la coscienza e a chi ha fatto professionalmente il proprio dovere, a chi ha messo il cuore e l’arte oltre quel muro di gomma costruito attorno all’omicidio di Federico, a tutti coloro che gli dedicano un pensiero, un rimpianto, gli mandano un bacio.
Sono queste le persone che ringrazierò sempre, è grazie a loro che Federico è stato restituito al suo onore di figlio, fratello, amico, ragazzo che voleva vivere, e tornare a casa.
 
Patrizia Moretti