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domenica 29 novembre 2015

Ashraf Fayadh, poeta, curatore e artista, condannato a morte da un tribunale dell’Arabia Saudita




Ashraf Fayadh, poeta, curatore e artista, è stato condannato a morte da un tribunale dell’Arabia Saudita, paese dove è nato da genitori palestinesi. 
È accusato di aver promosso l’ateismo con i suoi testi inclusi nell’antologia poetica "Instructions within" (2008), di aver avuto relazioni illecite, di aver mancato di rispetto al profeta Maometto e di aver minacciato la moralità saudita. La sentenza è stata emessa il 17 novembre ed è previsto che Fayadh possa presentare una richiesta d’appello entro trenta giorni.
Fayadh, 35 anni, è rappresentante dell’organizzazione di artisti britannico-saudita Edge of Arabia. Nel 2013 è stato tra i curatori della mostra Rhizoma alla Biennale di Venezia. È stato arrestato nel gennaio del 2014 e nel maggio dello stesso anno è stato condannato a quattro anni di prigione e 800 frustate da un tribunale di Abha, nel sudovest dell’Arabia Saudita.
Dopo che il suo primo ricorso è stato respinto, una nuova corte lo ha condannato a morte.

Mona Kareem, poeta e attivista per i diritti dei migranti che ha lanciato una campagna per la liberazione di Fayadh, ha detto al Guardian che il poeta non può chiedere a un avvocato di difenderlo perché dal giorno del suo arresto non ha più i documenti d’identità. Secondo Kareem, Fayadh sarebbe vittima di discriminazione perché di origine palestinese.
Durante le udienze il poeta ha dichiarato di essere musulmano e ha respinto le accuse.
Libertà per il poeta #AshrafFayadh condannato a morte in Arabia Saudita.
 
 
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mercoledì 5 agosto 2015

Lo Stato indifferente: la Corte Europea ha riconosciuto all’Italia una grave violazione del diritto alla tutela della vita privata e familiare dei propri cittadini



di Stefano Rodotà (da La Repubblica 22.07.2015)



La decisione della Corte europea dei diritti dell'uomo sui diritti da riconoscere alle unioni tra persone dello stesso sesso, che già suscita polemiche, era prevedibile per chi conosce la giurisprudenza di quella Corte, la sua evoluzione, le novità introdotte proprio in questa materia anche dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea.

Interviene in un momento in cui la discussione si è fatta sempre più accesa dopo l'annuncio del Presidente del Consiglio di arrivare prima delle ferie parlamentari all'approvazione, almeno da parte di una delle Camere, cli una legge in materia. Siamo di fronte ad un invito esplicito al legislatore italiano, con indicazioni importanti e che non possono essere trascurate. I giudici di Strasburgo hanno esplicitamente ricordato le loro precedenti decisioni sul riconoscimento delle unioni civili, sì che nessun potrà dirsi colto cli sorpresa o invocare la necessità di un adeguato tempo di riflessione. Su questo punto la sentenza è chiarissima.

I silenzi del Governo, la totale disattenzione di fronte agli espliciti inviti rivolti nel 2010 dalla Corte costituzionale e nel 2012 dalla Corte di Cassazione, l'assoluta inazione del Parlamento hanno determinato una grave violazione del diritto alla tutela della vita privata e familiare, riconosciuto dall'articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. E qui le parole dei giudici cli Strasburgo si fanno sferzanti. L'assoluto disinteresse di Governo e Parlamento per il gran lavoro fatto dalla magistratura italiana ha finito con il rappresentare una sua inammissibile delegittimazione, compromettendo il rispetto e l'effettività delle decisioni giudiziarie (a proposito: la somma indifferenza di Governo e Parlamento per l'elezione di tre giudici della Corte costituzionale non è forse già diventata una forma di delegittimazione di questa fondamentale e scomoda istituzione di garanzia?).

La decisione della Corte non può essere facilmente aggirata, ed è bene ricordare che essa è stata presa all'unanimità. Si dice e si ribadisce che siamo di fronte a diritti dal cui effettivo riconoscimento dipendono l'identità, la dignità sociale, la vita stessa delle persone. In questi casi, la Corte lo sottolinea più volte, il margine di discrezionalità del legislatore è ristretto. Alle unioni stabili tra persone dello stesso sesso deve essere assicurato un riconoscimento effettivo attraverso una "solenne istituzione giuridica", unioni civili riconosciute o partnerships registrate, che le sottraggano alla casualità e alla inaffidabilità che caratterizzano oggi la situazione italiana. L'esistenza non può essere affidata all'incertezza o a semplici patti privati o a regole limitate agli aspetti patrimoniali del rapporto. Siamo di fronte ad un "dovere positivo", che lo Stato deve integralmente rispettare, soprattutto perché solo così può essere cancellata una inammissibile discriminazione, fondata com'è solo sull'orientamento sessuale.

Nelle argomentazioni dei giudici di Strasburgo si coglie una particolare attenzione per lo scarto crescente, e sempre più evidente, tra dinamiche della realtà sociale e immobilità del diritto. La Corte mette in evidenza che la maggioranza dei paesi aderenti al Consiglio d'Europa, 23 su 47, hanno già disciplinato in forme adeguate unioni tra le persone dello stesso segno, segno di una tendenza da considerare ormai irreversibile. Così l'inaccettabilità della situazione italiana diviene particolarmente evidente, il suo protrarsi nel tempo è giudicato inammissibile, e questo spiega anche la ragione per la quale alle coppie ricorrenti è stato riconosciuto il diritto ad un risarcimento del danno che dovrà essere pagato dallo Stato italiano. Nella sentenza viene anche citato un sondaggio dal quale risulta che la maggioranza degli italiani è favorevole ad una legge che riconosca le unioni tra persone dello stesso sesso.

Ma i tempi non sono propizi né alle discussioni ragionate, né alla consapevolezza della centralità del riconoscimento dei diritti fondamentali. Già si sono manifestate reazioni scomposte, con insolenze nei confronti dei giudici di Strasburgo che dimostrano ir assenza di una cultura delle garanzie. Non consideriamole manifestazioni folkloristiche, come troppe volte si è fatto in passato, favorendo così la regressione culturale e politica. Ma più preoccupanti devono essere considerati i tentativi di svuotare dall'interno la riforma in discussione al Senato, nei quali si riflette anche una rinnovata pretesa di valutare le leggi in primo luogo secondo la morale cattolica, e non alla luce dei diritti delle persone. La buona politica, se c'è ancora, può trovare in questa sentenza di Strasburgo un forte sostegno. Il passo avanti, che la sentenza impone, è significativo. Ma non è destinato a chiudere definitivamente la questione.

Dal mondo LGBT viene sempre più perentoria la richiesta di un riconoscimento anche alle coppie di persone dello stesso sesso del diritto a contrarre matrimonio. Di questo bisognerà discutere, soprattutto dopo la sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti che ha imboccato decisamente questa strada. La Corte di Strasburgo ci ha ricordato che qui la discrezionalità del legislatore nazionale è più larga, perché solo 9 nazioni su 47 hanno accettato questa linea. Ma si può prevedere che questi numeri cambieranno presto, sì che le corti dovranno prendere atto della crescita di questo consenso.

E ai nostrani polemisti bisognerà pur ricordare che l'Italia ha firmato, e il Parlamento ha votato, la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, il cui articolo 9 ha cancellato il requisito della diversità di sesso per tutte le forme giuridiche di costruzione di una famiglia.


lunedì 27 luglio 2015

Condanna all'Italia per le unioni omosessuali

 
 




L'Articolo 8 della Convenzione dei Diritti umani parla di “diritto al rispetto della vita familiare e privata”: l'Italia è stata condannata, dalla Corte europea dei diritti umani, proprio per la violazione di questo articolo. La violazione riguarda tre coppie omosessuali.

Una coppia vive a Trento, una a Milano e la terza a Lissone (in provincia del capoluogo lombardo); le persone convivono da anni e avevano chiesto alle proprie municipalità di fare le pubblicazioni per celebrare il matrimonio, ma la loro proposta è stata rifiutata. Enrico Oliari – presidente di Gaylib (Associazione dei gay liberali e di centrodestra) – ha fatto ricorso a Strasburgo e, nei giorni scorsi, è arrivata la sentenza.

Come abbiamo sentito dai telegiornali, la presidente della Camera,Laura Boldrini, ha commentato così la decisione della Corte: “Ora bisogna agire. Il Parlamento non può più rinviare, deve esprimersi chiaramente su un tema così centrale. Farò tutto quanto è nelle mie facoltà perchè ciò avvenga. Non possiamo continuare ad essere un Paese malato di disuguaglianza, economica prima di tutto, ma anche sociale”.

Nella nota della Corte europea dei diritti umani – che non è un organismo della Ue – si legge: “La Corte ha considerato che la tutela legale attualmente disponibile in Italia per le coppie omosessuali non solo fallisce nel provvedere ai bisogni chiave di una coppia impegnata in una relazione stabile, ma non è nemmeno sufficientemente affidabile” e dunque: “un'unione civile o una partnership registrata sarebbe il modo più adeguato per riconoscere legalmente le coppie dello stesso sesso”. Ma non si limita a questo: Strasburgo ha stabilito che lo Stato italiano dovrà versare a ognuno dei concorrenti la somma di 5 mila euro per danni morali.

Anche il Parlamento europeo di recente si era espresso sul tema: a giugno ha approvato una relazione in cui si chiede di riconoscere i diritti alle famiglie composte da persone dello stesso genere, ma solo 27 Stati su 47, tra gli Stati membri, hanno una legislazione adeguata.

sabato 25 luglio 2015

Il sistema di protezione dei diritti umani del continente africano




di Veronica Tedeschi




Il continente africano ha un proprio sistema di protezione dei diritti umani grazie all'adozione, avvenuta il 27 giugno 1981, della Carta Africana dei diritti dell'uomo e dei popoli, entrata in vigore nel 1986. Questa istituisce una Commissione africana dei diritti dell'uomo e dei popoli, composta da 11 commissari, che vi siedono a titolo individuale e a tempo parziale, con il compito di promuovere il rispetto dei diritti umani in Africa ed esaminare i rapporti periodici redatti dagli Stati parte alla Carta. La Commissione si trova a Banjul, in Zambia; dal momento che essa può adottare soltanto rapporti sprovvisti di efficacia vincolante, è stata favorita e voluta una Corte Africana dei diritti dell’uomo e dei popoli (che ha sede in Tanzania) la quale, a sua differenza, potrà emettere sentenze con efficacia vincolante su ricorsi statali eD individuali.

La prima pronuncia “Michelot Yogogombaye vs Senegal”, risale al 2009 ed è una decisione di scarso valore con la quale la Corte ha dichiarato difetto di giurisdizione, limitandosi ad argomentare che il Senegal non avesse effettuato la dichiarazione volta ad accettare la competenza della Corte a pronunciarsi sui ricorsi individuali.

L’operato della Corte è sicuramente partito con il piede sbagliato e possiamo affermare che ha continuato nella stessa direzione; le sue successive pronunce si basano infatti, su rinvii all’attenzione della Commissione africana, secondo quanto previsto ex articolo 6, paragrafo 3, del Protocollo di Ouagadougou.

Il sistema regionale africano di protezione dei diritti umani è ben strutturato e costruito, ma solo su carta; uno dei pochi interventi della Corte effettivamente rilevanti lo troviamo nel 2011 quando quest’ultima viene interpellata dalla Commissione per le ripetute violazioni della Carta Africana dei diritti dell’uomo e dei popoli in conseguenza della violenta repressione messa in atto dal Governo di Tripoli per contenere le proteste popolari contro il regime del colonnello Muammar Gheddafi. La Corte non poteva permettersi di non intervenire in una situazione così tanto violenta e cosi tanto popolare in Occidente, nè tanto meno poteva rinviare il tutto alla Commissione. Nel caso di specie la Corte adottò misure cautelari dopo aver rilevato prima facie l'esistenza della propria giurisdizione nel merito, e adottando l'ordinanza in esame inaudita altera parte e senza addurre eccessive motivazioni.
Riassumendo, fino ad oggi la Corte ha emesso quasi solo sentenze di inammissibilità, non sfruttando a pieno i poteri a lei conferiti.

Un altro aspetto degno di nota riguarda la possibilità che anche uno Stato che non abbia accettato la competenza della Corte africana, debba comunque convenire dinanzi alla Corte per ricorsi proposti da individui o Ong. Ed è proprio questo il punto di forza di tutti i sistemi regionali di protezione di diritti umani, dai più funzionanti come quello europeo (Corte europea dei diritti umani) ai meno operativi, come quello africano: garantire protezione e possibilità di ricorso a persone/Ong/Stati contro Stati che commettano gravi violazioni dei diritti umani e contemporaneamente non accettino la competenza di suddette Corti. Nel continente africano in esame, come possiamo immaginare, non tutti gli Stati hanno accettato la competenza della Corte e, senza l’applicazione di questo principio, i suddetti Stati non potrebbero essere giudicati per le violazioni da loro commesse.

La creazione dei sistemi regionali di protezione di diritti umani ha segnato, nei continenti nei quali questi sono presenti (Africa, Europa, America), una svolta importante per la lotta alle violazioni dei diritti umani commesse dagli Stati; naturalmente è necessario contestualizzare il lavoro di tali Corti: la Tanzania riceverà ricorsi diversi da quelli che riceverà Strasburgo, ma la cosa fondamentale da far passare in ogni contesto, è la consapevolezza e la spinta all’utilizzo di tali mezzi di supporto.

In un qualsiasi Stato europeo, per esempio, sarà difficile che un cittadino padroneggi il suo diritto di adire la Corte europea dei diritti umani qualora ritenga che i suoi diritti fondamentali siano stati violati e, allo stesso modo, probabilmente in maniera più accentuata, il cittadino di uno Stato africano che subirà violazioni ancora più gravi e inabilitanti non sarà incline ad un viaggio in Tanzania per denunciare i sopprusi commessi dal suo Stato o, in maniera ancora più accentuata, non saprà di poterlo fare.

venerdì 24 luglio 2015

Quelle tante, troppe morti per amianto




Ammonta a 24 il numero degli operai deceduti per forme tumorali provocate da esposizione all'amianto. E i responsabili sono stati condannati.

Il giudice della Sesta sezione penale del Tribunale di Milano, Raffaele Martorelli, ha condannato undici ex dirigenti della Pirelli con pene tra i 3 e i 7 anni e 8 mesi di reclusione per il reato di omocidio colposo. Tra i loro nomi spicca, purtroppo Guido Veronesi, fratello del celebre oncologo ed ex ministro che, come gli altri, faceva parte del consiglio di amministrazione dell'azienda nel periodo tra gli anni '70 e '80.

Prendiamo atto con rammarico della sentenza di primo grado e aspettiamo di leggere le motivazioni non appena saranno depositate. Sulla base delle evidenze scientifiche ad oggi disponbili emerse nel corso della fase dibattimentale del processo, siamo certi della correttezza dell'operato dei nostri assistiti per i fatti contestati risalenti a oltre 25 anni fa, e presenteremo impugnazione in appello”: questo il commento dei legali della Pirelli. I fatti sono accauduti decenni fa e, infatti, questa prima sentenza arriva con enorme ritardo: l'accusa aveva chiesto per gli imputati otto anni di carcere e il giudice si è spinto oltre, accordando ai parenti delle vittime, costituitisi ovviamente come parte civile, anche un risarcimento economico e accettando in pieno l'impianto accusatorio del PM Ascione secondo il quale gli operai si sono ammalati e sono deceduti a causa del lavoro presso impianti contaminati senza alcuna protezione e, quindi, a causa di esalazioni “massicce e ripetute” di amianto.

Medicina democratica e Associazione italiana esposti amianto (presenti al processo) hanno esposto striscioni, esultato alla lettura della sentenza e hanno affermato: “ Abbiamo dimostrato che uniti si vince. Questa volta siamo riusciti a far condannare il padrone”.

Sempre a Milano, altri processi che vedono coinvolti gli ex dirigenti della centrale Enel di Turbigo e della Franco Tosi di Legnano si sono conclusi con l'assoluzione degli imputati, ma la sentenza Pirelli e il rinvio a giudizio per i dirigenti dell'Ilva di Taranto, per distastro ambientale, fanno ben sperare nel giusto corso della verità.



Per approfondire il tema, l'Associazione per i Diritti Umani vi ripropone il video dell'incontro che ha organizzato con lo scrittore Stefano Valenti, autore del romanzo “La fabbrica del panico”, vicnitore del Premio Campiello – giovani, 2014.
 
 
 
 
 

lunedì 20 luglio 2015

La lettera della madre di Federico Aldrovandi




L’Associazione “Federico Aldrovandi” nasce come naturale evoluzione del Comitato “Verità per Aldro”, creato nel gennaio del 2006 per chiedere verità e giustizia per Federico Aldrovandi, il diciottenne ferrarese ucciso durante un controllo di polizia il 25 settembre 2005.
In questi anni, dopo una fase iniziale di stallo nelle indagini e numerose omissioni, si è riusciti ad arrivare al processo e nel giugno del 2012 i quattro poliziotti che avevano fermato Federico sono stati condannati definitivamente a 3 anni e 6 mesi di reclusione per eccesso colposo in omicidio colposo.
Ma il “lavoro” non è finito. Abbiamo visto con i nostri occhi come sia difficile vedere applicato un banale principio di giustizia per cui se chi commette un reato indossi o no una divisa dovrebbe essere indifferente ai fini dell’azione giudiziaria.



Per tutto questo crediamo che passaggi fondamentali siano l’approvazione di una legge sulla tortura e la democratizzazione delle forze dell’ordine.
Perché, come recitava lo striscione che apriva il corteo nazionale che organizzammo nel 2006, ad un anno dall’uccisione di Federico…


Verità grido il tuo nome.
Per quello che non doveva succedere.
Per quello che non è ancora successo.
Perché non accada mai più.



Di seguito, pubblihciamo la lettera della mamma di Federico, pubblicata sul sito della loro associazione.



Perché rimetto le querele contro Paolo Forlani, Franco Maccari e Carlo Giovanardi

Ho perso Federico che aveva 18 anni la notte del 25 settembre di dieci anni fa per l’azione scellerata di quattro poliziotti che vestivano una divisa dello stato, e forti di quella divisa hanno infierito su mio figlio fino a farlo morire. Non avrebbero mai più dovuto indossarla.
I giudici hanno riconosciuto l’estrema violenza, l’assurda esigenza di “vincere” Federico, e una mancanza di valutazione – da parte di quei quattro agenti – al di fuori da ogni criterio di senso comune, logico, giuridico e umanitario.
Non dovevano più indossare quella divisa: nessuno può indossare una divisa dello stato se pensa che sia giusto o lecito uccidere.  O se pensa che magari non si dovrebbe, ma ogni tanto può succedere, e allora fa lo stesso, il tutto verrà ben coperto. Con la speranza che il sospetto di una morte insensata, inutile e violenta scivoli via fra la rassicurante verità di carte col timbro dello Stato, di fronte alle quali tutti si dovrebbero rassegnare. E poi con quella stessa divisa si continuerà a chiedere il rispetto di quello stesso Stato: che però sarà inevitabilmente più debole e colpevole. Come un padre ubriaco che ha picchiato e ucciso i suoi figli.
Il delitto è stato accertato, le sentenze per omicidio emesse. Invece le divise restano sulle spalle dei condannati fino alla pensione. Fine del discorso.
L’orrore e gli errori, con la morte e dopo la morte di Federico. La mancanza di provvedimenti non guarda al futuro, non protegge i diritti e la vita: non tutela nemmeno l’onestà delle forze dell’ordine.
Alla fine del percorso giudiziario che ha condannato gli agenti tutto ciò ora mi è ben chiaro: ed è il messaggio che voglio continuare a consegnare alla politica e all’amministrazione del mio Paese.
Dopo la morte di Federico, abbiamo dovuto difendere la sua vita vissuta e la sua dignità assurdamente minacciate. Era pazzesco, sembrava il processo contro Federico.
Ho chiesto risposte alla giustizia e la giustizia ha riconosciuto che Federico non doveva morire così.
Il processo è stato per me, mio marito Lino e mio figlio Stefano una fatica atroce, ma era necessario prendervi parte e lottare ad ogni udienza: ci ha sostenuti l’amore per Federico.
Su quel processo e da quel processo in tanti hanno espresso un’opinione. E’ stato un modo per crescere.
Alcuni hanno colto l’occasione per offendere me, Federico e la nostra famiglia. Qualcuno l’ha fatto per quella che ritengo gratuita sciatteria e volgarità, altri per disegni politici volti a negare o a sminuire la responsabilità per la morte di Federico.
Avevo chiesto alla giustizia di tutelarci ancora. In quel momento era l’unica strada, e non me ne pento.
Sono passati due anni dai fatti per cui ho sporto querela. Ci sono state le reazioni pubbliche e anche quelle politiche. Però poi non è cambiato niente.
Ho riflettuto a lungo e ho maturato la decisione di dismettere questa richiesta alle Procure e ai Tribunali: non perché non mi ritenga offesa da chi ha stoltamente proclamato la falsità delle foto di mio figlio sul lettino di obitorio, di chi ha definito mio figlio un “cucciolo di maiale”, o da chi mi ha insultata, diffamata e definita faccia da culo falsa e avvoltoio.
Non dimenticherò mai le offese che mi ha rivolto Paolo Forlani dopo la sentenza della Cassazione: è stati lui, sconosciuto e violento, ad appropriarsi degli ultimi istanti di vita di mio figlio. Le sue offese pubbliche, arroganti e spavalde le ho vissute come lo sputo sprezzante sul corpo di mio figlio. E lo stesso sapore ha ogni applauso dedicato a quei quattro poliziotti. Applausi compiaciuti, applausi alla morte, applausi di morte. Per me non sono nulla di diverso.
Rappresentano un modo di pensare molto diverso dal mio.
Non sarà una sentenza di condanna per diffamazione a fare la differenza nel loro atteggiamento.
Rifiuto di mantenere questo livello basato su bugie e provocazioni per ferirmi ancora e costringermi a rapportarmi con loro. Io ci sto male, per loro – credo di capire – è un mestiere.
Forlani e i suoi colleghi li lascio con le loro offese e i loro applausi, magari ad interrogare ogni tanto quella loro vecchia divisa, quando sarà messa in un cassetto dopo la pensione, sull’onore e la dignità che essa avrebbe preteso.
Un onore che avrebbero minimamente potuto rivendicare se da uomini, cittadini, pubblici ufficiali e servitori dello Stato, coloro che hanno ucciso mio figlio e coloro che li hanno sostenuti avessero raccontato la verità su cosa era successo quella notte, e non invece le menzogne accertate dietro alle quali si sono nascosti prima, durante e dopo il processo, cercando di negare anche l’esistenza di quella mezzora in cui erano stati a contatto con Federico prima dei suoi ultimi respiri.
Da Forlani e dai suoi colleghi avrei voluto in quest’ultimo processo solo la semplice verità, tutta.
Chi ha ucciso Federico sa perfettamente quale strazio sta dando ad una madre, un padre e un fratello privandoli della piena verità dopo avergli strappato il loro figlio e fratello. Nessun onore di indossare la divisa dello stato, nessun onore.
E nessun onore neanche a chi da dieci anni cerca nella morte di mio figlio l’occasione per dire che in fondo andava bene così: i poliziotti non possono aver sbagliato, in fondo deve essere stata colpa di Federico se è morto in quel modo a 18 anni.
Costruite pure su questo le vostre carriere e la vostra visibilità. Dite pure, da oggi in poi, che il mio silenzio è la vostra vittoria. Muscoli, volantini, telecamere, libri, convegni e applausi. Per dire che non c’è stato nessun problema il 25 settembre 2005. E per convincere voi stessi e il vostro pubblico che il problema l’hanno creato solo Federico Aldrovandi e sua madre Patrizia Moretti.
Vi esorto soltanto, da bravi cattolici quali vi dichiarate, a ricordare il quinto comandamento: non uccidere.
Non spenderò più minuti della mia vita per queste persone e per i loro pensieri. Mi voglio sottrarre a questo stillicidio: una fatica soltanto mia che nulla aggiungerebbe utilmente e concretamente a nessuno se non alla loro ansia di visibilità. Trovo stancante anche pronunciare i loro nomi. Inutile commentare le loro dichiarazioni pubbliche.
A dieci anni dalla morte di Federico per il mio ruolo di madre, ma anche per le mie aspirazioni e per la mia attuale visione del mondo, penso che il dedicare anche solo alcuni minuti a persone che disprezzo sia un’imperdonabile perdita di tempo. Non voglio più doverli vedere né ascoltare o parlare di loro.
Perciò ritirerò le querele ancora in corso.
Non lo faccio perché mi è venuta meno la fiducia nella giustizia, ma dieci anni sono troppi, ed è il momento di dire basta.
Non è il perdono, d’altra parte nessuno mi ha mai chiesto scusa, ma prendere atto che per me andare avanti nelle azioni giudiziarie rappresenta soltanto un doloroso e inutile accanimento.
Ritiro le querele perché sono convinta che una sentenza di condanna non potrebbe cambiare persone che  – da quanto capisco – costruiscono la loro carriera sull’aggressività e sul rancore.
Non ci potrà mai essere un dialogo costruttivo, perciò addio.
Questo non significa che verrà meno il mio impegno di cittadina per contribuire a rendere questo paese un po’ più civile, e questo impegno mi vedrà come sempre a fianco dell’associazione degli amici di Federico per l’introduzione del reato di tortura e ogni altra forma di trasparenza e giustizia.
C’è molta strada da fare: confronti, discussioni, leggi giuste. Bisogna affrontare il problema degli abusi in divisa in modo costruttivo.
Le parole e le espressioni contro Federico, contro me e la nostra famiglia le lascio alla valutazione in coscienza di chi ha avuto il coraggio di dirle. E soprattutto alla valutazione di chi se le ricorda. Io ne conservo solo il disprezzo.
Per me l’onore è un’altra cosa.
L’onore appartiene a chi ha cercato di capire, a chi ha ascoltato la coscienza e a chi ha fatto professionalmente il proprio dovere, a chi ha messo il cuore e l’arte oltre quel muro di gomma costruito attorno all’omicidio di Federico, a tutti coloro che gli dedicano un pensiero, un rimpianto, gli mandano un bacio.
Sono queste le persone che ringrazierò sempre, è grazie a loro che Federico è stato restituito al suo onore di figlio, fratello, amico, ragazzo che voleva vivere, e tornare a casa.
 
Patrizia Moretti


martedì 14 luglio 2015

Carta di soggiorno revocata a chi perde il lavoro. Il giudice ferma le Questure



(Da www.stranieriinitalia.it)




Il permesso a tempo indeterminato può essere tolto solo a chi è pericoloso, la mancanza di reddito non conta”. Un immigrato e l’Anolf vincono ricorso al Tar di Milano

Roma – 6 luglio 2015 – Per anni hanno lavorato duro rinnovando di volta in volta i loro permessi di soggiorno. Poi si sono finalmente messi in tasca la carta di soggiorno (permesso Ue per lungosoggiornati), il  documento “a tempo indeterminato”  a cui aspirano tutti gli immigrati.

Quando però, complice la crisi economica, hanno perso il lavoro, la Questura ha revocato loro la carta di soggiorno. Sostenendo che, senza un regolare contratto di lavoro, non possono essere considerate “persone per bene”, degne di rimanere in Italia. Come se a decidere di non lavorare, o di lavorare in nero, fossero i lavoratori.

È successo,  soprattutto a Milano, a cittadini stranieri che avevano chiesto un duplicato o un aggiornamento della loro carta di soggiorno. La Questura ha preteso che dimostrassero di nuovo i requisiti di reddito previsti per il primo rilascio e, in mancanza di assunzioni regolari, contributi versati  ecc, è arrivato il diniego. Potenzialmente una strage, in tempi di crisi economica.

Ora a fermare questa prassi è finalmente arrivata la legge, fatta valere qualche giorno fa dal Tribunale Amministrativo Regionale della Lombardia. Il giudice ha dato ragione a un cittadino srilankese, che dopo aver lavorato a lungo come custode non era riuscito a trovare una nuova occupazione, e ha dato torto alla Questura, che gli aveva revocato la carta di soggiorno perché non aveva un reddito regolare.

La mossa della Questura, ha spiegato il giudice, è illegittima. Sia le norme europee (art. 8 della Direttiva 2003/109/CE), sia il Testo Unico sull’immigrazione che le ha recepite (art. 9 del d.lgs. n. 286/98), prevedono infatti che lo “status di soggiornante di lungo periodo è permanente” e può essere revocato solo “ qualora lo straniero sia pericoloso per l’ordine pubblico e la sicurezza dello Stato, e non invece a fronte della mera mancanza di redditi”.

L’immigrato srilankese può festeggiare, riavrà la carta di soggiorno che si era conquistato sin dal 2005. E lo stesso potranno pretendere quanti sono incappati in una simile ingiustizia. Soddisfatta anche l’Anolf Cisl, che aveva sollevato il caso chiedendo anche l’intervento della commissione europea e che ha affiancato il lavoratore nel ricorso al Tar insieme all’avvocato Silvia Balestro.

La crisi ha colpito duro, soprattutto in determinati settori e soprattutto i lavoratori stranieri.  Togliere loro la carta di soggiorno solo perché hanno perso il lavoro vuol dire far fare un enorme passo indietro al processo di integrazione, per una situazione della quale non hanno colpa. Come si può presupporre che chi non ha un lavoro regolare abbia scelto scientemente di lavorare in nero o di evadere le tasse?” dice a Stranieriinitalia.it, Maurizio Bove, presidente di Anolf Milano e responsabile immigrazione della Cisl meneghinare.

La prassi della Questura di Milano, nota il sindacalista, estremizzava il legame tra lavoro e permesso di soggiorno già previsto dalla legge, andando oltre la stessa legge con una discrezionalità eccessiva e perdendo di vista l’importanza dell’integrazione di chi vive da tanti anni in Italia. Del resto, una sentenza simile a questa aveva già bocciato la Questura, che a quanto pare ultimamente ha iniziato a valutare con più attenzione le singole situazioni.

Ora ci aspettiamo che la legge venga applicata correttamente a Milano e nel resto d’Italia. Deve essere chiaro che chi perde il lavoro non può perdere, per quel motivo, anche la carta di soggiorno” conclude Bove. Se poi il ministero dell’Interno, aggiungiamo noi, volesse chiarire il concetto a tutte le Questure, sarebbe un ulteriore passo avanti.


lunedì 13 luglio 2015

Il Servizio civile aperto anche agli stranieri



La Corte Costituzionale italiana nella giornata del 25 giugno si è espressa dichiarando illegittimo l’art. 3 comma 1 del decreto legislativo del 2002 in materia di servizio civile con cui si limitava l'accesso al servizio ai soli cittadini italiani.

La vicenda a favore dell’inclusione dei giovani stranieri residenti in Italia aveva preso avvio oltre tre anni fa quando un giovane pakistano si era visto rifiutare la partecipazione al servizio civile per mancanza del requisito della cittadinanza italiana. Sollevata la questione di fronte al Tribunale di Milano e alla Corte d’Appello di Milano, il giudizio è poi proseguito e la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, ha posto la questione di costituzionalità della norma per contrasto con il principio di uguaglianza.

Dopo la recente sentenza 119/15, con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità del decreto legislativo 77/02 (articolo 3, comma 1), tutti i giovani stranieri regolarmente soggiornanti hanno diritto di accedere alle selezioni per il servizio civile. Nel testo si legge: "L’esclusione dei cittadini stranieri dalla possibilità di prestare il servizio civile nazionale, impedendo loro di concorrere a realizzare progetti di utilità sociale e, di conseguenza, di sviluppare il valore del servizio a favore del bene comune, comporta dunque un’ingiustificata limitazione al pieno sviluppo della persona e all’integrazione nella comunità di accoglienza".



mercoledì 27 maggio 2015

La vita non facile dei diritti riscoperti dalle sentenze



di Luigi Ferrarella (da “Corriere della sera” 15 maggio 2015)





Quanti diritti ci possiamo permettere?


Quanti diritti ci possiamo permettere? Quale dose di giustizia può tollerare il nostro assetto sociale ed economico? Fino a pochi anni fa una domanda simile sarebbe suonata bestemmia. Ora, invece, viene implicitamente declinata ogni volta che dalle Corti (Corte costituzionale, Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, Corte di cassazione) arriva una sentenza all’incrocio di un dilemma: adesso tra rivalutazione delle pensioni e vincoli di bilancio, ma già in passato tra danni dell’inquinamento Ilva alla salute di Taranto e destino degli operai e dell’acciaio italiano, e prima tra ritmi giudiziari delle inchieste anticorruzione e invece esigenze extragiudiziarie di far aprire in tempo Expo 2015, o prima ancora tra impopolarità del tema carceri e condizioni inumane di vita di chi sta in prigione. E si può già scommettere riaccadrà nelle prossime sentenze che scioglieranno nodi sulle questioni di bioetica, o che metteranno il dito nel contrasto tra irrazionalità fiscali e esigenze dell’erario, o che incroceranno assetto degli statali e nuove regole per i dipendenti pubblici.
Sotto sotto, è come se ogni volta ribollisse questo non detto: quanti diritti ci possiamo permettere? Un retropensiero talmente sdoganato da nutrire reazioni sempre più insofferenti alle conseguenze di sentenze ripristinatorie di diritti, che sino a poco tempo fa sarebbero state percepite come ovvie riaffermazioni (di eguaglianza, dignità, equità sociale), e che invece adesso vengono vissute quasi come invasioni di Corti debordanti nel campo della politica, tapina perché commissariata dallo scippo giudiziario della sua facoltà di decidere tra più alternative possibili e di imporre questa scelta senza lacci e lacciuoli.
È un’insofferenza che trasuda già dalle parole usate da governo e parlamentari per definire la sentenza della Consulta sulle pensioni: «danno alla credibilità del Paese», verdetto che «scardina», decisione che (se applicata in toto) causerebbe conseguenze «immorali». Così, dopo ciascuna di queste sentenze, sempre più palese scatta il riflesso automatico di non applicarle, oppure — se proprio non è possibile disattenderle completamente — almeno di contenerle, di arginarne la portata, di neutralizzarne gli effetti, di mitridatizzarne le conseguenze. Plastico l’esempio delle condanne inflitte dalla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo all’Italia per le condizioni inumane e degradanti della detenzione nelle carceri: sentenze alle quali in questi mesi il governo ha ritenuto di adeguarsi con una legge su piccoli «rimedi compensativi» (8 euro al giorno per il passato, oppure lo scomputo di un giorno ogni dieci sulla pena ancora da scontare) dalle maglie normative però talmente strette che l’85 per cento delle domande avanzate a fine 2014 era stata dichiarata inammissibile, e soltanto l’1,2 per cento di richieste di risarcimento era stato accolto. E qualcosa del genere, in attesa che accada per le pensioni, sta avvenendo già in parte con la legge sulla tortura, in teoria introdotta sull’onda di un’altra condanna dell’Italia da parte di Strasburgo (stavolta per il G8 di Genova), ma in realtà parcheggiata (dopo approvazione in prima lettura) in un ramo del Parlamento con un testo di compromesso al ribasso.
Cambiano infatti i casi, ma il denominatore comune resta che la giurisdizione è sottoposta a una pressione sociale molto più insidiosa di passate grossolane ingerenze politiche: il mordere della crisi economica, la coperta corta dei bilanci statali, l’urgenza della disoccupazione, la disabitudine alla ricerca di soluzioni che non siano vendibili in pochi slogan, il fastidio per ciò che inevitabilmente complesso non sia tagliabile con l’accetta, tutto congiura a domandare alle Corti superiori (come in fondo già ai magistrati nei gradi inferiori) di subordinare le proprie decisioni a
«compatibilità» con equilibri di volta in volta politici-sociali-economici e di assumere come parametro la «sostenibilità» dei propri atti. Con la conseguenza che non sembra più strano dare esecuzione a queste sentenze soltanto se e nella misura in cui esse siano compatibili con i bilanci statali, o appaiano socialmente accettabili, o risultino «digeribili» dalle esigenze delle imprese, o siano in linea con il momento politico, o siano empatiche con le emozioni dei cittadini.
Il che illumina due sottovalutazioni. La prima, nel presente, è che il ritardo con il quale il Parlamento sta mancando di eleggere i due giudici costituzionali di propria competenza influisce e di fatto altera la vita della Consulta, dove indiscrezioni attribuiscono ad esempio la contestata sentenza sulle pensioni al voto con valore doppio del presidente tra 6 favorevoli e 6 contrari. La seconda sottovalutazione, in prospettiva, è di quanto la combinazione tra nuova legge elettorale e nuovo Senato possa sbilanciare, a favore delle artificiosamente rafforzate maggioranze politiche di turno, le quote di giudici costituzionali e di componenti laici che spetta al Parlamento eleggere rispettivamente alla Consulta e al Consiglio superiore della magistratura.



mercoledì 20 maggio 2015

Un giudice, un attentato mafioso e una sopravvissuta







Sola con te in un futuro aprile di Margherita Asta e Michela Gargiulo (Fandango) racconta una storia dolorosa, terribile, ma che va ricordata.

È il 2 aprile di trent’anni fa, Carlo Palermo è arrivato in Sicilia da quaranta giorni. A Trapani aveva preso il posto di un magistrato coraggioso ucciso dalla mafia, Giangiacomo Ciaccio Montalto. Due macchine della scorta parcheggiano davanti al cancello di una villetta vicino a Bonagia, a 3 chilometri di distanza dalla casa della famiglia Asta.
Il giudice Palermo vive lì da pochi giorni e proprio lì arriva l'ultima telefonata di minacce che era stata ancora più esplicita e definitiva: "Dite al giudice che il regalo sta per essergli recapitato".

Il giudice, la mattina del 2 aprile 1985, scende di casa alle 8 e qualche minuto per recarsi al Tribunale di Trapani. Sul rettilineo di contrada Pizzolungo la macchina trova davanti a sé un'altra auto, una Volkswagen Scirocco, dentro ci sono Barbara Rizzo, giovane madre di 31 anni, e due dei suoi tre figli, i gemellini Salvatore e Giuseppe di 6 anni che stanno andando a scuola. L'autista del giudice aspetta il momento giusto per iniziare il sorpasso; le tre auto, per un brevissimo istante, si trovano perfettamente allineate ed è proprio in momento che viene azionato il detonatore.

L'esplosione è devastante, una bomba al tritolo. L'utilitaria fa scudo all'auto del sostituto procuratore che si ritrova scaraventato fuori dalla macchina , è ferito ma miracolosamente vivo. Muoiono dilaniati la donna e i due bambini. Nunzio Asta, il marito di Barbara in quei giorni va a lavoro un po' più tardi a causa di un intervento al cuore. Sente il boato, esce per andare a prestare soccorso, ma non lo lasciano avvicinare. La Volkswagen di sua moglie è stata polverizzata, non sospetta che la sua famiglia sia rimasta coinvolta. Margherita, l'altra figlia di dieci anni, in quel momento è già a scuola. Avrebbe dovuto essere a bordo anche lei, ma quella mattina i due fratellini ci mettevano troppo tempo a vestirsi e per non fare tardi la ragazzina chiede un passaggio in macchina alla mamma di una sua amica e si salva.



L'Associazione per i Diritti Umani ha intervistato la giornalista Michela Gargiulo che ringraziamo molto.



Come avete lavorato, lei e la sig.ra Margherita, per la stesura di questo libro che racconta una storia così dolorosa?


Conosco Margherita dal 2006 e, da quell'incontro, è nata subito un'amicizia, un rapporto speciale. Ho provato nei confronti di questa donna una senso di affetto profondo e quasi di protezione. Abbiamo iniziato a conoscerci sempre meglio e io, nei miei viaggi siciliani, finivo sempre a Pizzolungo con lei, la sua nuova madre e il fratello Giuseppe Salvatore. Ci sono state vicende personali che ci hanno unite, Margherita è madrina di mia figlia e il progetto di scrivere il libro della sua storia è nato molto tempo fa. Mi sono spesso avvicinata, in questi anni, ai ricordi di Margherita con timore e rispetto. La curiosità professionale ha sempre lasciato il posto alle confidenze e all'accoglienza. Margherita è una donna di grande coraggio ma tirare fuori un dolore così grande non è stato facile. Ho raccolto i ricordi di Margherita durante i nostri incontri. Pezzi di storia scritti spesso in rubriche e quaderni diversi che finivano sempre sul comodino, uno sopra l'altro. Margherita mi ha dato i preziosi giornali che suo padre Nunzio custodiva in cassaforte e sono stati per me uno strumento fondamentale per ricostruire molte scene del libro. Gli atti giudiziari sono stati l'ultimo tassello per ricomporre la sua storia, dal giorno dell'attentato ad oggi. "Sola con te in un futuro aprile" è un libro che è nato grazie al nostro rapporto di fiducia e di affetto profondo, è stato un lavoro di rilettura di fatti di cronaca decisivi per il nostro Paese fatto da un punto di vista unico: quello di chi aveva subito la perdita di tutto ciò che aveva di più caro. Credo che il lettore, di fronte al racconto intenso di questa donna, riesca a vivere il suo dramma personale e insieme a lei la rabbia delle ingiustizie subite ma allo stesso tempo capirà quanto è importante lottare contro la mafia e portare avanti un messaggio di speranza per costruire una storia diversa per il nostro Paese.


E' un percorso, anche interiore, quello che in questi trent'anni ha dovuto affrontare la sig.ra Margherita...


Margherita ha affrontato il dolore della perdita più grande, quella della madre. Ha dovuto gestire la rabbia e l'ha trasformata in una risorsa che le ha permesso di cercare la verità sulla sua storia. Ha costruito il suo futuro sulla speranza e questa è la dimostrazione della sua grande umanità.


Vogliamo spiegare più approfonditamente di cosa si stesse occupando il magistrato Carlo Palermo?


E' impossibile raccontare in poche righe l'ampiezza delle indagini di Carlo Palermo. Lui ha iniziato la sua attività di giudice istruttore a Trento nel 1980 e da allora non si è mai fermato fino al quel tragico 2 aprile 1985. Dai traffici di morfina base che transitavano da Trento provenienti dalla Turchia e diretti in Sicilia ha indagato sui traffici di armi, due mercati che, nelle sue inchieste, erano paralleli. Ha messo sotto inchiesta uomini dei servizi segreti, trafficanti, mercanti della droga, mafiosi e pidduisti. Poi, nel 1984, ha iniziato a percorrere le tracce che lo portavano dritto a due società vicine al partito socialista. Era la pista politica. Quell'inchiesta scatenò l'ira dell'allora presidente del consiglio Bettino Craxi e Carlo Palermo capì in quel momento che per le sue inchieste rimaneva poco tempo. Sul giudice istruttore arrivò un procedimento disciplinare, si aprì un'inchiesta penale per l'arresto di due avvocati. Fu costretto a chiudere l'inchiesta su armi e droga prima che questa fosse trasferita a Venezia ad altri giudici. Allora, a novembre 1984 decise di trasferirsi a Trapani per riprendere i fili del traffico di droga. Arrivò in Sicilia a fine febbraio 1985 e dopo soli 40 giorni ci fu l'attentato. Dopo l'attentato Palermo non ha mai smesso di cercare la verità e da trenta anni si interroga ancora su chi voleva la sua morte.

E' un testo che parla del nostro Paese: cosa è cambiato da allora?


Sono cambiate molte cose, altre sono rimaste immutate . La mafia ha cambiato volto e modalità ma gode sempre di un sistema di complicità a vari livelli. I meccanismi di infiltrazione sono sempre più sofisticati e meno riconoscibili. Io credo che anche i sistemi criminali si siano adeguati ad un mondo globale in continua evoluzione e che sarà sempre più difficile colpire gli interessi e i capitali frutto di attività criminali. Gli anni che ci lasciamo alle spalle sono stati anni terribili segnati da stragi e morti innocenti. Ancora oggi, per molti di quegli episodi non conosciamo né i colpevoli, né i moventi. Non sapere la verità su episodi che hanno segnato il corso della storia di questo Paese ha creato un sistema fragile, frutto di segreti e quindi di ricatti.


Qual è stato l'esito del processo per gli esecutori dell'attentato e come si può commentare quella sentenza?


Il primo processo sugli esecutori materiali della strage rappresenta un capitolo nero della nostra storia. In primo grado, nel 1988, la Corte di Assise di Caltanissetta, condannò all'ergastolo tre uomini per avere messo in atto la strage di Pizzolungo. Erano Gioacchino Calabrò, Vincenzo Milazzo e Filippo Melodia. Furono condannati, rispettivamente a 19 anni e a 12 anni, Giuseppe Ferro e Antonino Melodia. In secondo grado gli stessi uomini furono assolti e la prima sezione penale della corte di cassazione, presieduta da Corrado Carnevale confermò la sentenza di appello. Solo nel 2002, durante il processo sui mandanti i pentiti racconteranno che erano stati proprio quegli uomini a eseguire materialmente la strage ma anche di fronte a quel quadro accusatorio convergente e completo nessun tribunale potrà più processare chi è stato assolto per sempre.


Nell'attentato hanno perso la vita una madre e due figli piccoli: questo libro è dedicato a loro e crediamo porti anche un messaggio importante per i ragazzi di oggi...


I nostri ragazzi dovrebbero conoscere la storia di Barbara, Giuseppe e Salvatore e con questa andare a scavare nella cronaca recente del nostro Paese. La loro morte drammatica raccontata in questo libro dovrebbe essere uno stimolo per i giovani a guardarsi intorno e chiedersi quante sono le vittime innocenti delle quali non ci ricordiamo nemmeno i nomi. Sono 900 le persone uccise dalla mafia, alcune di loro sono state dimenticate e i loro nomi risuonano il 21 marzo quando Libera dedicata loro la giornata della memoria. Io spero che "Sola con te in un futuro aprile" faccia sentire anche le voci di chi non è stato raccontato. I ragazzi sono la nostra speranza e per costruire un mondo più giusto devono conoscere a capire qual è stata la storia del nostro Paese.

giovedì 7 maggio 2015

Alessandra e Alessandra: ancora unite in matrimonio



"E' stata una grande soddisfazione, ci abbiamo sempre creduto. E' una gioia che ci ricompensa di tante sofferenze", fatica a nascondere l'entusiasmo Alessandra Bernaroli, dopo la decisione della Cassazione secondo cui "rimane valido il matrimonio di una coppia eterosessuale anche nel caso in cui uno dei due coniugi cambi la sua identità sessuale"."Questa sentenza è molto importante - spiega Bernaroli - perché di fronte alla politica che in questo Paese spesso non decide, sceglie solo di rimandare, dimostra invece il coraggio dei giudici di affermare la dignità e i diritti di tutte le persone. Mi ha fatto piacere - sottolinea - che la notizia sia arrivata proprio il 21 aprile, una data molto importante qua a Bologna: la ricorrenza della 'liberazione'”, queste alla TV svizzera della protagonista di questa vicenda dopo la recente decisione della Cassazione, in attesa che il Parlamento affronti questi casi.

La vicenda è stata seguita con interesse dall'Associazione per i Diritti Umani. Vi proponiamo la nostra intervista ad Alessandra Bernaroli.



Può raccontarci, brevemente, la sua storia?


Io e mia moglie ci siamo conosciute nel lontano 1995. Dopo dieci anni di fidanzamento, nel 2005, abbiamo deciso di coronare la nostra unione famigliare sposandoci in chiesa, nel comune di Finale Emilia (MO), dove risiedevo con i miei genitori. Dopo il matrimonio ha preso corpo in me, aiutata dalla vicinanza di mia moglie, la presa di coscienza di essere una persona transessuale e, dopo aver pensato, parlato e meditato molto tra di noi sulla questione, ho intrapreso il percorso che mi ha portato a sottopormi ad una serie di importanti, difficoltosi e pesanti interventi chirurgici in giro per il mondo (USA, Thailandia, Spagna) fino ad approdare, nella seconda metà del 2009, alla rettifica anagrafica di nome e sesso sul certificato di nascita e sui documenti.

Ritengo importante sottolineare che mia moglie in tutti questi anni mi ha sempre sostenuta ed appoggiata, sforzandosi di comprendere questo mio bisogno di cambiamento e di mantenere unita la nostra famiglia nonostante il suo grande e comprensibile sconcerto e smarrimento iniziali. Certamente dopo tanti anni passati assieme non è stato semplice per mia moglie capire, ma grazie alla profonda conoscenza che ci legava ed alla sua cultura profondamente radicata nella religione cattolica ha trovato nell’amore e nella fede la forza per sostenermi, credendo fino in fondo nell’importanza del vincolo famigliare.


I problemi al nostro matrimonio, problemi derivanti dalla burocrazia, sono subentrati subito dopo la sentenza di rettificazione dei dati anagrafici: infatti la sentenza che ordinava questa variazione all’ufficiale di stato civile, non faceva alcun cenno al nostro vincolo matrimoniale.


Così, quando mi sono recata all’anagrafe di Bologna per ritirare il nuovo documento di identità con il nome variato al femminile, ci si è trovati di fronte ad un caso mai visto prima nel nostro Paese: una moglie che nonostante il cambio di sesso da parte del proprio marito non aveva mai chiesto il divorzio.


Il tribunale di Bologna, autore della sentenza “di cambio nome”, non avendo sciolto il vincolo ha creato i presupposti per l’avventura giudiziaria che ci ha fin qui visto protagoniste, prima in Cassazione, poi avanti la Corte Costituzionale ed ora in riassunzione ancora presso la Cassazione, probabilmente il prossimo anno.


Per cercare di chiarire in sintesi il punto della questione, il problema nasce anzitutto dall’approssimativa tecnica di redazione della legge fondamentale sul transessualismo, che è la legge 164 del 1982.


Questa legge, passata al vaglio della Consulta nel 1985 (sentenza 161) e pur novellata nel 1987 (d.lgs. 74) specificamente per dirimere la questione sull’eventuale matrimonio preesistente della persona che si sottoponeva a rettificazione anagrafica, ha fallito nell’intento lasciando un margine di ambiguità interpretativa che di fronte al nostro caso, il primo verificatosi ben 27 anni dopo la sua promulgazione (trattasi evidentemente di situazioni che, per la loro complessità, non si presentano con molta frequenza, come dimostra anche l’esperienza delle altre nazioni estere), è stato usato contro l’unità della nostra famiglia.


La legge 164, riferendosi al matrimonio preesistente, dice che la sentenza di rettificazione “provoca” (ora “determina” dopo la novella del d.lgs. 150/2011) lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili. Rimanda alla legge sul divorzio per l’applicazione di quanto disposto.


Orbene fino all’emergere del nostro caso la dottrina non aveva forse approfondito a dovere questo punto. Già il fatto che la sentenza di rettificazione anagrafica potesse “provocare” di per se stessa lo scioglimento, in “automatico”, non era condiviso da tutti. Dirimente sulla sussistenza del vincolo pareva il rimando alle disposizioni sul divorzio (legge 898 del 1970), ove è noto che per ottenere il divorzio occorrono una pronuncia del giudice e la volontà di almeno uno dei coniugi, tutti elementi assenti nel nostro caso.


Posta di fronte al caso concreto, spaventata forse dal pericolo di chissà quale turbamento dell’ordine costituito che il pacifico prosieguo del nostro vincolo coniugale avrebbe potuto comportare, la pubblica amministrazione locale, dove aver chiesto ufficiale parere alla burocrazia ministeriale, ha posto in calce all’atto di matrimonio un’annotazione di scioglimento: uno scioglimento d’ufficio, cosa mai vista prima d’ora.


In fondo, come è stato detto, una morte civile per i due coniugi, sottolineata anche dal certificato di stato civile “non documentato” rilasciatomi dal comune di Bologna in quei tristi giorni, certificato che ancora conservo quale raro cimelio di ostracismo sociale.
Lì abbiamo scoperto dell’abuso perpetrato nei nostri confronti; infatti l’autorità comunale neppure si era degnata di informarci di una così grave determinazione perpetrata ai nostri danni.


Dopo un primo momento di sconforto e grande difficoltà, siamo riuscite a trovare il supporto e l’appoggio dell’associazione di promozione sociale “Rete Lenford – Avvocatura per i diritti LGBTI”, (www.retelenford.it) di cui sono anche divenuta aderente, che ci ha consentito di intraprendere la via giudiziaria per tutelare il nostro matrimonio.
In primo grado il Tribunale di Modena, nel 2010, ha accolto il nostro ricorso disponendo la cancellazione dell’annotazione di scioglimento, riconoscendo quindi piena validità al nostro matrimonio. Il Ministero dell’Interno ha fatto ricorso e in Corte d’appello il tribunale di Bologna, nel 2011, ha ribaltato la decisione precedente, sostenendo che il matrimonio in Italia può essere solo tra uomo e donna. Abbiamo proposto ricorso in Cassazione la quale a giugno 2013 con l’ordinanza 14329 ha sollevato una questione d’incostituzionalità in relazione allo scioglimento automatico del nostro matrimonio, rinviando la questione alla Consulta che nel giugno 2014 ha pronunciato la sentenza 170 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli articoli 2 e 4 della legge 164/1982 nella parte in cui non prevedono la possibilità di mantenere in vita un rapporto di coppia

Ora, come detto, attendiamo il giudizio (che si spera definitivo) della Corte di Cassazione.



Come hanno reagito, i suoi familiari, di fronte al suo cambiamento e come si è svolto il percorso che avete affrontato insieme?

A dire il vero, essendo la mia famiglia molto aderente ai valori cattolici, temevo molto la reazione dei miei genitori ed ho atteso il più a lungo possibile prima di renderli partecipi di questa mia condizione transessuale. Ricordo il giorno in cui confessai loro la questione, accompagnata da mia moglie, è stata una giornata di grande tensione.


La loro reazione iniziale fu di comprensibile stupore ed incredulità. Nei mesi seguenti faticarono a capacitarsi del fatto e tentarono (giustamente) di farmi riflettere su quanto stavo ponendo in essere; le riflessioni però, erano già state fatte e la problematica attentamente vagliata e pertanto non c’era modo di farmi desistere. Provarono anche a propormi terapie psicologiche “riparative”, su evidente suggerimento di qualche conoscente di “eterodossia integralista”, ma grazie alle mie spiegazioni ed al fondamentale sostegno di mia moglie, alla fine compresero la situazione.
Adesso, a distanza di tempo, hanno accettato la situazione e certamente non mi hanno rifiutata, come purtroppo ancor oggi accade a molte persone nella mia condizione che si vedono tagliare tutti i ponti da genitori e familiari.


Penso che una ragione di questo rifiuto, oltre all’immagine stereotipata e negativa che grava sulle persone transessuali, sia anche il timore del giudizio delle persone e, in generale, della società.


Il percorso di cambiamento, alla fine, l’ho compiuto assieme a mia moglie ed anche grazie a lei, che mi è stata sempre vicina e mi ha curata ed accudita con amore, anche durante i numerosi e pesanti interventi chirurgici a cui mi sono sottoposta nel corso degli anni in vari Paesi esteri.


In questi ultimi tempi si sente spesso parlare di omofobia e transfobia, può darci la sua opinione su questo tema?



Va detto anzitutto che omofobia e transfobia sono due fenomeni molto differenti in sé, in quanto il primo è afferente al sesso ed all’orientamento sessuale con il conseguente portato del paradigma eterosessuale quale fondamento della società; questo paradigma, cioè che gli uomini e le donne provino attrazione sessuale solo per il sesso opposto, è l’ostacolo teorico principale alla realizzazione del matrimonio egualitario in Italia.
La transfobia, invece, attiene al concetto di genere, di ruolo di genere e della sua espressione; da questo concetto discende il modello “genderista” di organizzazione della società, nella quale i due generi, maschile e femminile (generi fondati sul sesso alla nascita) implicano un insieme ben distinto e separato di compiti e ruoli all’interno dell’organizzazione sociale e familiare. Questi ruoli sono funzionali anche all’organizzazione del potere, essendo ruoli già determinati, prescritti e soprattutto non intercambiabili.


Su questo si fonda il potere della società moderna: sul modello maschile che si declina in varie forme di dominio (maschilismo) sull’altro genere e si poggia su di un modello sociale fondato su dogmi non discutibili: in questo senso la religione può essere un valido alleato al conservatorismo sociale.
In questo contesto genderista la liberazione dei generi e delle “forme umane” non eterodosse, non aderenti al paradigma maschile, può avvenire (ed è in parte avvenuta) solo con percorsi di emancipazione. Tali percorsi si declinano come tentativi di imitazione del genere dominante, copiandone i modelli di ruolo ed azione, nel tentativo di conformarsi ad essi.


Il conformismo diviene quindi il sottostante dell’azione di emancipazione; tale conformismo si esplica però su modelli di base differenti da quello dominante e pertanto non potrà mai assurgere alla stessa magnitudo di grandezza.

Ecco quindi che l’emancipazione mostra la sua vera natura e diviene limite alla libertà ed all’autodeterminazione dei singoli individui che non possono esprimere liberamente né le proprie intime inclinazioni né il loro profondo essere, la loro identità.


Oltre a questo l’emancipazione rappresenta anche un limite allo sviluppo sociale, in quanto impedisce l’esplicarsi di nuovi modelli di società, di relazioni di potere, che potrebbero essere utili a superare i limiti dell’impostazione attuale che da una società che si serve per le relazioni economiche dell’economia di mercato, sta pericolosamente declinando in una società di mercato che rischi di spazzare via ogni speranza identitaria rapportando qualunque istanza ad un valore ed utilità economica immediata, liberandosi però immediatamente di chi o cosa non possa più dare un profitto, inteso come valore puramente economico e non, come sarebbe più utile, un valore olistico ambientale, sociale, di benessere complessivo e sostenibilità globale.


Da queste brevi considerazioni si vede come i temi del transessualismo, considerato come caso particolare dell’intersessualismo, sono assai più ampi e variegati dell’ambito relativo alle questioni gay e lesbica, di cui in effetti rappresentano un sovrainsieme inclusivo e ben più ampio. Da qui discende anche, a mio avviso, l’errore “politico” di porre la questione transessuale sempre in coda ed a latere ai temi “lgb”, dai quali dovrebbe essere considerata separatamente, sia perché richiama istanze aggiuntive e differenti, sia perché il fatto di ricomprenderla nelle rivendicazioni omosessuali ne limita la portata rivoluzionaria.



Chiarito il significato di questi termini, si rileva che in Italia manca una legislazione penale antidiscriminazione che contempli l'omofobia e la transfobia: qual è la sua opinione in merito?

Si è vero, in Italia è assente ad oggi una legislazione che contempli l’omofobia e la transfobia.
In questa legislatura ci sono state proposte interessanti sulla questione, una in particolare elaborata dalla “Rete Lenford” che, ricordo, è stata protagonista in questi ultimi anni di importantissime battaglie giuridiche nell’ambito dei diritti “lgbti” che hanno portato a sentenze storiche, vere pietre miliari nel percorso di sviluppo sociale italiano.
Il punto centrale è anzitutto stabilire se omofobia e transfobia debbano essere considerate fattispecie di reato autonome oppure aggravanti di altri reati, come è ad esempio il considerare più grave un’aggressione se è stata determinata da motivi di transfobia.


Io ritengo che la collocazione più adeguata sia quella di aggravanti, in quanto diverrebbe arduo definire chiaramente il perimetro di un reato autonomo, ma ancor più tale inquadramento si configurerebbe come un pericoloso tentativo di limitare e condizionare la libertà di pensiero, cosa che non deve avvenire mai. È giusto punire i reati, non eseguire condizionamenti del pensiero. Educare il pensiero e non impedirne il libero esplicarsi. Il punto fermo deve essere la puntuale e severa punizione e repressione del reato.

Stabilito questo, resta un problema importante: il rapporto tra varie categorie di libertà tutelate dalla nostra Costituzione.
Provo a chiarire meglio: sappiamo che la nostra Carta stabilisce un principio di eguaglianza in relazione, ad esempio, a razza, sesso, opinioni politiche, religione.


Questa è una cosa molto buona e giusta, sicuramente; a distanza di tanti anni dalla statuizione di questi principi, però, occorre chiedersi se tali categorie giacciano tutte sullo stesso piano o meno.
Il percorso di formazione della proposta costituzionale, dopo i terribili anni della seconda guerra mondiale, nell’includere elementi di opinione soggettiva (politica e religiosa) tenne doverosamente in conto l’esperienza delle dittature e delle leggi razziali, dove anche la libertà religiosa fu oggetto di limitazione e persecuzione.


Oggi però e altrettanto doveroso chiederci se un’opinione religiosa, di una gerarchia religiosa, possa essere lasciata libera di confliggere e dare contro a condizioni umane che si presentano in natura e sono parte dell’essenza stessa degli individui.

In altri termini: può un’opinione fondata su presunti “dogmi” che non ammettono discussione né falsificazione scientifica negare e combattere aspetti dell’essere umano che sono naturali e legittimi caratteri dell’individuo?
La risposta, in tutta evidenza, è no!


Ne consegue pertanto che la libertà religiosa, anche di espressione religiosa, deve trovare un limite invalicabile nelle tutele degli aspetti di cui stiamo discutendo, omosessualità e transessualismo. Prima le persone e poi la loro libertà di espressione e manifestazione, politica o religiosa che sia.
Tenendo conto di quanto detto possiamo quindi dare una valutazione non del tutto positiva della proposta di legge sull’omofobia approvata dalla Camera in questa legislatura e di cui da molti mesi si sono perse le tracce: una proposta che mirava ad incidere su aspetti penali lasciando aperta la possibilità di una non meglio definita libertà di pensiero alle organizzazioni religiose.


Francamente spero che questa proposta non prosegua oltre e, a dire il vero, mi sembrerebbe strano che la variegata maggioranza dell’attuale Governo possa approvare qualcosa di positivo su questi temi. Se ce ne fosse necessità, basti pensare alla proposta di una legge sulle unioni registrate, quando è evidente che una siffatta legge non farebbe altro che discriminare le persone omosessuali relegandole al ruolo di persone a cittadinanza limitata, simili, ma non uguali alle persone che aderiscono al modello eterosessuale nonostante i presupposti (quello di avere a fianco un’altra persona con cui condividere la vita) siano i medesimi.
In conclusione, penso che quello che serva contro l’omofobia e la transfobia sia anzitutto una modifica costituzionale nel senso indicato prima; inoltre occorre rivolgere l’attenzione al ruolo della cultura e dell’educazione sociale, lì dove le associazioni “lgbti” dovrebbero focalizzare il loro agire, in modo da far comprendere alle persone che il mondo non è solo in bianco e nero, ma a colori, e che è importante rispettare la dignità delle persone.
Fatto questo ecco che una legge su omofobia e transfobia sarebbe il corretto strumento per punire gli eccessi.



Parlando ancora dei temi relativi ad omofobia e transfobia, entriamo più nello specifico sugli aspetti della discriminazione: in quali settori, a suo parere, sono più frequenti? Lei ha vissuto episodi di discriminazione?



Parlando di discriminazione occorre, a mio avviso, distinguere anzitutto tra episodi diretti e conclamati rispetto a manifestazioni e atteggiamenti discriminatori più sfumati e sottili, che potremmo definire di discriminazione indiretta.
Mi pare di poter affermare che in Italia, ad oggi, gli episodi di violenza diretta e conclamata purtroppo si presentino con una certa frequenza e visibilità. Basti pensare all’atteggiamento di alcuni esponenti politici sia a livello locale, sia nazionale che proclamano a chiare lettere quello che altro non è che odio (non è chiaro se atavico o strumentale a fini politici) contro le persone “lgbti”; per non parlare di istituzioni religiose e non solo cattoliche, cosi come importanti esponenti del mondo sportivo, ad esempio.
Queste esternazioni, mai punite e non sufficientemente stigmatizzate dalle componenti “sane” della società, sono non soltanto gravemente offensive, ma rappresentano un modello negativo per potenziali nuove e maggiori discriminazioni. Il rischio è quello di passare dai discorsi d’odio ad azioni violente.
In effetti, questi episodi sono del tutto assimilabili al razzismo, come ha anche stabilito una risoluzione del Parlamento europeo di qualche anno addietro.
Nel mondo del lavoro queste forme di discriminazione diretta e grave sono senz’altro meno presenti e forse il merito, stante il negativo humus culturale cennato, va riconosciuto alle specifiche norme antidiscriminatorie che derivano dal recepimento di direttive europee (legge 216/2003 più volte novellata) che costituiscono certamente un argine a questi negativi atteggiamenti.
Una particolare protezione viene offerta anche dallo “Statuto dei lavoratori”, con la previsione specifica del divieto di licenziamenti antidiscriminatori (art.15 l.300/1970) nei quali sono ricomprese anche le questioni “lgbti”.
Riguardo alle discriminazioni indirette, temo che si presentino con grande frequenza e rendano di fatto improbabile l’ingresso nel mondo del lavoro di persone di cui sia evidente o noto il loro status di persona transessuale od ex transessuale; come se non bastasse, a questo stato di cose dobbiamo tener conto degli effetti della grave crisi di questi anni che rende arduo l’ingresso nel mondo del lavoro alla maggior parte delle persone, per cui gli spazi per le persone transessuali di fatto si azzerano.
Voglio sottolineare che ho parlato sin qui di discriminazioni indirette utilizzando questo termine non nel senso proprio della normativa, bensì avendo a mente quelle situazioni concrete in cui non verrà mai dichiarato chiaramente che la mancata assunzione è conseguenza della condizione transessuale, ma non è certo difficile per il datore di lavoro trovare una qualsiasi altra motivazione alla mancata assunzione che peraltro non ha, a rigore, necessità di giustificazione alcuna.
Parlando invece di situazioni relative a persone transessuali già presenti nel mondo del lavoro, qui è spesso probabile che si verifichino episodi di mobbing, molestie e progressiva marginalizzazione sia nelle mansioni sia nelle relazioni sociali interne all’impresa, con l’obiettivo di spingere al licenziamento la persona divenuta “indesiderata”.
La situazione migliore, a ben vedere, è quella delle persone che hanno un lavoro autonomo o esercitano libere professioni, in quanto maggiore è la possibilità di far valere il loro “saper fare” e quindi di mantenere le relazioni di lavoro anche dopo il percorso di cambiamento.


Certo, sarebbe utile ed interessante parlare avendo a disposizione dati reali, ma da una parte il numero delle persone transessuali stabilmente inserite in contesti lavorativi non è molto elevato e d’altro canto ad oggi non sono disponibili ricerche significative sul tema. Un esempio importante in tal senso è rappresentato dalla ricerca “Io sono io lavoro” eseguita nel 2011 da Arcigay con il contributo del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali sulla discriminazione nel mondo del lavoro nei confronti delle persone omosessuali e transessuali.


A proposito di questi studi, va segnalata l’importante possibilità che offre la normativa antidiscriminatoria vigente di poter utilizzare dati statistici a supporto delle azioni che chiamano in causa la discriminazione (art.4 decreto 216/2003).

Parlando di discriminazioni sul luogo di lavoro va detto che una leva importante per migliorare la condizione delle persone transessuali è rappresentata da un approccio manageriale alla gestione delle diversità in azienda, il cosiddetto “diversity management”, focalizzato in particolare sulle persone “lgbti”.
In Italia questo è un tema ancora poco conosciuto e le aziende rischiano di perdere un’importante occasione per valorizzare e trattenere a sé le potenzialità rappresentate da queste persone, mentre nel mondo anglosassone questi temi sono già ampiamente entrati nelle policy aziendali, sia delle imprese che operano in ambito nazionale sia nelle multinazionali che provano a declinare questi temi anche in Paesi dove il discorso sociale non è ancora sviluppato, potendo a volte costituire un positivo agente di cambiamento.
Non va sottovalutato il fatto che queste leve aziendali possono costituire un potente fattore distintivo di promozione del “brand” istituzionale anche in un’ottica di “corporate social responsibility”.


Per quanto mi riguarda, sono attiva sui temi della diversità “lgbti” quale componente del team di “Parks” (www.parksdiversity.eu), un’associazione no-profit che raggruppa importanti imprese italiane (e filiali di multinazionali) che sono attente e desiderano impegnarsi su questi temi.
Tornando a volgere lo sguardo al campo sociale, mi pare di poter affermare che le persone transessuali non abbiano ancora raggiunto la pari dignità e siano ancora in attesa di poter trovare adeguata rappresentanza nei movimenti politici e nelle assisi rappresentative.
Al di là di rari ed estemporanei esempi a livello locale, ancora mancano personalità di rilievo nella politica nazionale; una grande occasione mancata fu, nella XV legislatura, l’elezione al Parlamento di una persona in rappresentanza dei temi del transessualismo che non era neppure transessuale in senso stretto, bensì, come amava definirsi “transgender”, nei fatti rappresentante del mondo omosessuale. Tengo a precisare che non sto dicendo che questa persona non abbia lavorato bene, semplicemente avrei preferito che il discorso politico si fosse focalizzato sui temi del riconoscimento concreto piuttosto che sull’affermazione acritica di principi vaghi.
Purtroppo anche in campo economico e scientifico la società italiana ben si guarda dal valorizzare le rare figure presenti; lunga è ancora la strada per la valorizzazione e la promozione sociale della questione transessuale.

Per quanto mi riguarda, anch’io purtroppo ho dovuto confrontarmi con la discriminazione sul luogo di lavoro.
Consapevole della difficoltà che le persone potevano (e possono) avere nell’approcciarsi e nel comprendere la questione transessuale, durante il mio percorso di cambiamento in azienda non ho mai preteso di imporre acriticamente il mio passaggio agli altri colleghi di lavoro, ma ho sempre cercato di anticipare l’insorgere di problemi e domande parlando dei temi “lgbti” e del transessualismo in particolare ad ogni occasione, anche prendendo spunto da fatti di cronaca, cercando di stimolare domande ed orientare la visione delle questioni.
Nonostante il mio percorso di transizione sia stato molto graduale e molto “attento”, nel senso detto prima, questo non è stato sufficiente: purtroppo il responsabile dell’ufficio dove lavoravo al tempo non è stato in grado di accettare e comprendere la mia condizione ed ha intrapreso nei miei confronti una campagna vessatoria fatta di battute allusive, di tentativi di sminuire il mio lavoro, di affidarmi lavori via via più marginali ed inventare problemi inesistenti, sollevando questioni percettive e caratteriali, non riuscendo a contestare concrete mancanze lavorative.
Ai tempi avevo anche intrapreso attività sindacale in azienda, seppur marginale, e pertanto riuscivo a difendermi da queste che erano vere e proprie molestie, ma giorno dopo giorno la situazione, nonostante i miei tentativi, anziché migliorare andava peggiorando e così, dopo averne parlato con la direzione del personale, la soluzione che stabilirono fu quella di spostarmi ad altro ufficio.
Questa soluzione risolse in un attimo il problema; certo mi chiesi allora e a distanza di tanti anni ancor oggi mi chiedo se sia stato corretto da parte aziendale il non prendere una posizione ufficiale e pubblica su questa questione. Il fatto di non punire in maniera netta ed evidente anche al resto del personale questi atteggiamenti, purtroppo, al di là di quello che possa o non possa prevedere il codice deontologico o quello disciplinare, fa sì che l’immagine del carnefice ne esca rafforzata in quanto, alla fin fine, la vittima della discriminazione è stata comunque sollevata dal suo incarico e spostata dal proprio ruolo, mentre l’autore del mobbing è rimasto dov’era senza aver subito, quantomeno in apparenza (ed è questo che conta agli occhi altrui) alcuna punizione. La deduzione che ne può conseguire è che se un determinato comportamento non viene punito, non è sbagliato.
In altra ottica, parlando con un approccio sindacale a quella che, in generale, è la gestione del personale aziendale, sarebbe corretto chiedersi se una persona che non tollera le diversità in azienda può gestire al meglio i propri collaboratori; se chi ha atteggiamenti maschilisti può davvero valorizzare e far rendere al massimo le risorse aziendali che ha a disposizione. Forse, e dico forse, se fossimo di fronte a conclamati casi di persone con una superiore specializzazione tecnica o scientifica si potrebbero fare valutazioni di un certo tipo, per quanto opinabili, ma parlando in generale il dubbio è forte!
Per fare un altro esempio sul tema, sempre in ottica generale, se la persona oggetto di discriminazione fosse sì trasferita ma promossa ad un incarico superiore, allora il discorso cambierebbe, ma ancora non sarebbe una soluzione corretta, a mio avviso: le promozioni dovrebbero seguire il merito e non essere una contropartita a tacitazione.
Sia come sia, tornando al mio caso, quello che ho potuto verificare è stato il mancato supporto dei colleghi durante il periodo in cui subivo discriminazioni: per meglio dire, in privato mi consolavano ed erano dalla mia parte, ma davanti al responsabile non avevano reazioni. Certo, questo è comprensibile in una struttura gerarchica aziendale dove nessuno si può permettere di perdere il posto di lavoro mettendosi contro i superiori.
Meno comprensibile è stato però l’atteggiamento di chi è arrivato a criticarmi poiché cercavo di difendermi dagli attacchi: addirittura qualcuno avrebbe detto che non era corretto che io mi ponessi in contrasto con chi, in fondo, era il mio superiore gerarchico; avrei dovuto rispettare i ruoli e subire in silenzio.
Trovo questi atteggiamenti molto tristi e rappresentativi di schemi di pensiero volti ad atteggiamenti se non servili quantomeno rappresentativi di grande omologazione e limitatezza di vedute.
Purtroppo mi è capitato spesso di incontrare persone di tal fatta, specialmente in ambito sindacale: a parole convintamente a favore dei diritti e del progresso civile, ma di fronte al caso concreto muti ed inermi.



Ci ha accennato prima della sua esperienza sindacale: è stata utile per affermare il suo status e portare un discorso di cambiamento in azienda oppure non ha trovato ciò che si aspettava?


Mi duole dirlo, ma l’esperienza sindacale che ho vissuto inizialmente con tanto entusiasmo e voglia di fare, si è tramutata, a tratti, in un’esperienza per me davvero negativa, non tanto in ambito aziendale bensì, purtroppo, con le strutture verticistiche e burocratiche del sindacato stesso che, mi sembra giusto ricordarlo, è la federazione bancaria della CGIL.
Prima di intraprendere la mia battaglia giuridica sulla vicenda del mio matrimonio sciolto d’ufficio ero molto felice e speranzosa nei riguardi del mio ruolo sindacale; pensavo che essendo nell’unico sindacato italiano che aveva addirittura dedicato una struttura specifica a livello nazionale a questi temi, definendoli “nuovi diritti”, avrei avuto in caso di necessità un valido supporto e molte connessioni.

Fintanto che non ebbi nulla da chiedere, tutto funzionò bene: io ho gestito da sola il mio percorso di transizione, sia nella vita sia in azienda.
Nel sindacato, proprio dopo l’intervento di cambio di sesso, ero divenuta la responsabile aziendale, anche se per verità va detto che presi quel ruolo non tanto perché qualcuno aveva creduto particolarmente in me, piuttosto le altre persone a cui era stato offerto lo avevano rifiutato; purtroppo fare attività sindacale è visto più come una fonte di problemi che di utilità sociale.
Per me questo ruolo, come ho detto, rappresentava un’esperienza di rilancio positiva, anche nella mia nuova dimensione femminile; va detto che per carattere da sempre mi piace interessarmi e poter portare il mio contributo nei contesti in cui sono inserita, questo fin dal liceo, dove sono stata sia rappresentante di classe sia d’istituto.
All’inizio, pur timorosa che i colleghi non rispondessero positivamente al mio nuovo ruolo, cercai di lavorare al meglio e creare un gruppo affiatato, partecipando sempre agli incontri sindacali che si tenevano sia sul territorio sia in ambito nazionale.

Provai anche a offrire il mio contributo sui temi del transessualismo, dato che li avevo approfonditi e, grazie alla mia esperienza personale, potevo offrire un sicuro valore aggiunto.
Purtroppo la risposta fu di assoluta indifferenza e lì iniziarono le mie perplessità.
Dopo che emerse il problema relativo al mio matrimonio notai una chiusura da parte del sindacato che francamente non mi sarei mai aspettata.
In quelle prime fasi, alla fine del 2009, non avevo ancora stabilito i rapporti con chi poi ha portato avanti questa causa giuridica, cioè Rete Lenford, e disperatamente cercavo un aiuto poiché ero in grande difficoltà.
Stranamente dalle strutture centrali del sindacato mi fecero capire di “non disturbare”.

Dopo di questo iniziò un boicottaggio nei miei confronti ed io mi trovai sola a svolgere la mia attività, senza più il supporto delle strutture territoriali.
Passai momenti difficili, ma essendo l’azienda in cui lavoro uno dei maggiori gruppi bancari nazionali, con migliaia di dipendenti, avevo modo e materia per svolgere proficuamente la mia attività.
Mi concentrai sul lavoro e, pur senza supporto, mi impegnai, riuscendo in questi anni anche a conseguire due master grazie a delle borse di studio.
L’anno scorso le strutture centrali, vedendo che non riuscivano a scalfirmi con la loro azione sottotraccia, scrissero direttamente alla banca ed all’associazione bancaria italiana per escludermi dal mio incarico (senza neppure comunicarmelo, tra l’altro).
Questa è stata, in breve, la mia esperienza con le strutture della CGIL. C’è poco da aggiungere, alla faccia di democraticità e gestione trasparente.
Vorrei rimarcare il fatto che, parlando in generale, escludere di punto in bianco, senza motivazioni né votazioni, una persona che ha svolto per anni intensa attività sindacale in azienda, la espone ad eventuali ritorsioni da parte del datore di lavoro. Valutai allora se fare ricorso giurisdizionale contro tale decisione, ma gli amici mi consigliarono di lasciar perdere, non ne valeva la pena e di fatto era un’attività volontaria e non retribuita.
Una triste esperienza con le strutture centrali, ma un’ottima esperienza in azienda, dove ho potuto ampliare le mie conoscenze e mi sono messa in gioco nell’attività di confronto e contrattazione.
Negli anni passati a fare questa attività ho potuto siglare decine e decine di accordi aziendali, un contratto integrativo, ho vissuto e contribuito a gestire per la parte di competenza le fasi di incorporazione e scorporo di aziende e attività; ho potuto aiutare tanti colleghi a risolvere al meglio le loro problematiche sul luogo di lavoro ed anche ad avere piccoli aumenti di stipendio. Mi è piaciuto fare questa attività ed ho visto che ci sono questione, nell’ambito dell’organizzazione sindacale, certamente da riformare.
Una soddisfazione particolare è rappresentata dalla firma di un accordo da me promosso che estende una tutela già presente per le coppie etero anche alle coppie dello stesso genere; questo risultato ha avuto anche l’onore di essere citato su un’importante pubblicazione economica nazionale.



Ci può ricordare cosa recita la legge 164 ? E qual è la sua opinione in merito alla norma?

La legge 164 del 1982 fu, ai tempi, una legge molto avanzata, la terza in ambito europeo dopo la normativa svedese del 1972 e tedesca del 1980.
La legge nacque a fronte della presa d’atto della necessità di regolarizzare e dare dignità a situazioni, che si presentavano con sempre maggior evidenza, di persone che si sottoponevano ad operazioni di rettificazione chirurgica del sesso all’estero e, dopo essere tornate in Italia, non potevano modificare i loro documenti e rischiavano addirittura conseguenze penali per aver modificato il proprio corpo, per non parlare del fatto che potevano essere sanzionate per mascheramento e, come accadeva, inviate al confino.
Va detto che fino agli anni ’70 qualche tribunale particolarmente attento concedeva la variazione dei documenti anche in assenza di una normativa specifica, ma con l’aumentare delle richieste la giurisprudenza si era orientata nel senso di un rigido divieto.
Questa legge fu dunque ottima per risolvere le situazioni in essere di persone che si erano già sottoposte ad intervento chirurgico, ed a questo scopo erano posti gli articoli 6 e 7. In aggiunta l’articolo 3 dispone al primo comma: “Il tribunale, quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, lo autorizza con sentenza.” Questo comma, nella ratio della norma, era da riferirsi ai casi di quelle persone che andavano o sottoporsi all’intervento all’estero (non essendovi peraltro ai tempi la possibilità di effettuare l’intervento in Italia).
Con riferimento ai nuovi casi, va detto anzitutto che la legge è implicitamente impostata e volta a risolvere le problematiche della questione transessuale, ma non cita mai il termine transessualismo: lo farà invece la Corte Costituzionale nella famosa sentenza 161/1985 dove validò l’applicazione della nuova normativa.
Questa legge è molto sintetica ed anche aperta all’interpretazione e proprio la successiva giurisprudenza è intervenuta a limitarne e definirne gli ambiti, financo con una certa rigidità. La sintesi della legge fa sì che sia anche non sempre chiara e precisa riguardo a tutti gli aspetti coinvolti dal tema della variazione anagrafica.


Il punto chiave della disciplina si trova all’articolo 1, dove è scritto che: “La rettificazione si fa in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell'atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali”; qui probabilmente era implicito il riferimento ai caratteri sessuali primari, ma questo non viene in realtà esplicitato chiaramente.
La Consulta, con la già citata sentenza 161, ampliò il campo dei caratteri sessuali a quelli psicosessuali, introducendo quindi elementi psicologici soggettivi di percezione ed autodeterminazione, qualificando la differenza tra i sessi come quantitativa anziché qualitativa e suggerendo di privilegiare tra i vari aspetti, quelli di carattere dominante.
La successiva giurisprudenza si attenne allo stretto tenore letterale della norma, favorita però in questo dalla vaghezza delle considerazioni della Consulta testé citate e sicuramente sostenuta dagli sviluppi dell’endocrinologia e delle neuroscienze che portano a dare rilievo anche ad un dato genetico ed a fattori ormonali.
Per questa ragione di stretta interpretazione giurisprudenziale da più parti, seguendo gli sviluppi del dibattito a livello internazionale, si è iniziato a parlare di “sterilizzazione forzata” della persona transessuale, la quale, generalmente, può ottenere i documenti con il nuovo nome e sesso solamente dopo aver subito l’intervento di rettificazione sessuale (con asportazione delle gonadi).
Continuando l’esame della normativa, resta da analizzare un ultimo articolo ed i successivi sviluppi.
L’articolo mancante è il 4, dove in sostanza si dice che la sentenza di rettificazione provoca (determina) lo scioglimento del matrimonio e si applicano le disposizioni della legge sul divorzio.

Probabilmente l’intento originario del legislatore era quello di definire con un’unica procedura giuridica il caso della persona che chiedeva il mutamento di nome e sesso in presenza di un matrimonio (civile o religioso) precedentemente contratto.

L’assunto che si dava per scontato è che non vi fosse interesse per i coniugi nel proseguire il matrimonio e pertanto la strada più ovvia fosse quella di agevolare al massimo lo scioglimento. Certo, vi era anche il tema che il matrimonio, precedentemente eterosessuale, sarebbe divenuto un matrimonio composto da due persone divenute dello stesso sesso o, più correttamente, divenute dello stesso genere sociale, in quanto il sesso biologico non si può mutare (perlomeno ad oggi) mediante terapie mediche e chirurgiche.
La mia opinione è che ai tempi fosse talmente ovvio e scontato nel pensiero comune che il coniugio non potesse proseguire che neppure si metteva in conto la possibilità di una diversa volontà dei coniugi; il discorso sulla differenza di genere passava pertanto in secondo piano.
Anche la dottrina dell’epoca non approfondì la questione, così come la Consulta nella già citata sentenza 161. Solo qualche commentatore ipotizzò la possibilità di una volontà dei coniugi a proseguire nel vincolo, ma la questione non venne adeguatamente approfondita.
Nel 1987 una legge (n.74) apportò modifiche alla disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio ed in quell’occasione venne introdotta una nuova fattispecie che si riferiva specificamente al passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione di sesso. La collocazione sistematica di questa novella legislativa faceva pensare che fosse necessaria sia la volontà dei coniugi allo scioglimento, sia la sussistenza della sentenza di un giudice che, accertata tale volontà, pronunciasse il divorzio.
Con queste premesse si arrivò, molti anni dopo, al caso dello scioglimento d’ufficio del mio matrimonio a seguito del mio cambio anagrafico e di genere avvenuto nel 2009.
Avendo già ripercorso le tappe della mia vicenda all’inizio di questa intervista, sottolineo i punti fondamentali della questione: si è partiti dalla contestazione dell’annotazione dello scioglimento del matrimonio a margine dell’atto stesso chiedendone la cancellazione (sollevando un problema di mancanza di potere che ricorda un po’ la discussione in corso in questi mesi sulle trascrizioni dei matrimoni omosessuali celebrati all’estero) e si è invece arrivati a discutere di un matrimonio omossessuale che tale non è!
Il problema è che qui non si è rispettata la volontà dei coniugi, né la mia né quella di mia moglie e si pretende di costringere una persona a scegliere se rinunciare al proprio nome ed alla propria identità oppure al proprio matrimonio ed al progetto stabile di vita già posto in essere con l’altra persona, tutto questo in nome di un presunto interesse dello Stato a non modificare le forme di matrimonio, interesse che però non è mai stato declinato nel suo concreto significato.

I punti importanti sono da un lato che qui l’unione coniugale è preesistente alla rettificazione anagrafica ed ha già prodotto validi effetti giuridici; inoltre pare arduo accostare questo tipo di unione alla coppia omosessuale, in quanto è piuttosto una variazione della coppia eterosessuale venendosi infatti a modificare il genere dei coniugi senza che ne sia intaccato il loro orientamento sessuale.

Come se tutto questo non fosse già sufficiente, a completare il quadro di contraddizione che si trova a fronteggiare il “sistema” di fronte alla questione transessuale va detto che, incredibilmente, il diritto canonico (il nostro matrimonio è concordatario), non prevede in alcun modo lo scioglimento automatico del matrimonio a seguito di variazione anagrafica (variazione effettuata dallo Stato italiano, non dal Vaticano, peraltro) di uno dei coniugi, poiché riconosce continuità alla persona.

Il problema è servito; alla Suprema Corte il compito della risposta si spera in tempi ragionevoli, considerato che in altre nazioni estere dove si sono presentati (pochi) casi simili al nostro, è stato finora sempre mantenuto in essere il vincolo preesistente anche laddove era assente di una normativa sulle unioni omosessuali e questo a sottolineare che è stata colta la differenza eziologica delle due situazioni.
Per completezza di analisi ricordo che la normativa posta dalla legge 164 è stata modificata dal decreto 150/2011 in materia di semplificazione dei procedimenti civili: da volontaria giurisdizione la procedura è passata al rito ordinario, con sicuro aggravio di costi ed appesantimento del procedimento, il tutto infarcito da qualche difformità interpretativa su bolli e modalità operative a seconda dei differenti tribunali. Anziché semplificare si è complicato, quando all’estero spesso si è di fronte a semplici procedure amministrative senza l’intervento dei tribunali.
Una curiosità è rappresentata dal fatto che questo decreto 150 si è premurato di modificare una parola dell’articolo 4 della legge 164, proprio l’articolo relativo allo scioglimento del matrimonio. Questa modifica, pur ininfluente sia sul piano lessicale sia su quello procedurale, è indicativa delle forze sotterranee impegnate a mantenere l’eterodossia ed il conservatorismo sociale. Ho avuto l’onore di un comma di legge ad personam, purtroppo contro e non a favore!


Facendo un passo indietro, lei ha parlato di sterilizzazione forzata imposta dalla normativa. Può spiegarci meglio la questione?


Come accennavo poc’anzi, recentemente alcune associazioni che si occupano dei temi “lgbti” hanno iniziato una campagna contro la sterilizzazione forzata e la cosiddetta patologizzazione del transessualismo.

La questione, un po’ complessa, prende le mosse dal fatto che recentemente in Argentina è entrata in vigore una legge che consente la variazione anagrafica di nome e sesso senza necessità di alcun tipo di intervento chirurgico e neppure di diagnosi clinica di transessualismo: a semplice richiesta.
In effetti, a ben guardare, la questione viene spostata dall’individuazione e diagnosi del transessualismo a quella dell’autodeterminazione della persona.
Questo tema è collegato alla natura stessa del transessualismo: è davvero una problematica clinica oppure altro non è che una “naturale varianza” della fenomenologia umana, come è ora considerata ad esempio l’omosessualità (che pure nei decenni scorsi era classificata quale disturbo psicologico)?
La risposta a questa domanda sarebbe stata assai ardua fino a qualche decennio addietro: ora, grazie come detto ai progressi delle scienze, si sono potute formulare plausibili ipotesi sull’origine ed il manifestarsi del transessualismo.
Credo però che il punto chiave sia un altro: dobbiamo chiederci se la persona transessuale sia in uno stato di equilibrio oppure no; se non lo è, occorre ricercare tale equilibrio nei modi e nelle forme che la persona stessa ritiene più opportune.
Ogni cosa al mondo, in un certo senso, rappresenta una “naturale varianza”, anche un raffreddore, per fare un esempio. Se non lo curo sto male e mentre è vero che a volte può sparire da solo, è altrettanto vero che se permane può causare gravi o peggiori conseguenze.
Ecco, anche per il transessualismo vale la stessa logica: non essendo una situazione di equilibrio, anzi di grave sofferenza, è la persona stessa a richiedere terapie, mediche o chirurgiche, per adeguare e riequilibrare corpo e mente.
Comprendiamo quindi come, a mio avviso, sia del tutto erroneo pretendere di eliminare la questione transessuale dai manuali clinici; offensivo verso le persone transessuali ed anche contrario alla verità delle cose come ad oggi le possiamo percepire. Ecco che il discorso sulla depatologizzazione, se male impostato, rischia di danneggiare le persone transessuali.
Quello che è vero è che non è ammissibile considerare il transessualismo un problema psicologico, da sistemare poi tramite ormoni e chirurgia, per giunta. È qui il problema e da poco, con la nuova edizione del manuale diagnostico “DSM” si è ottenuto un progresso in quanto ora il transessualismo non è più un problema di per sé, che resta “attaccato” alla persona per tutta la vita, ma viene tenuto in conto solo in quanto causa di disagio temporanea, che scompare una volta che la persona raggiunge il suo equilibrio, il suo stato di benessere.
Altro c’è ancora da fare, a mio avviso, per eliminarlo del tutto dal manuale DSM e collocarlo nel classificatore internazionale ICD al fianco delle questioni intersessuali, date le probabili cause genetiche ed ormonali del fenomeno.
Dato questo quadro, si può facilmente comprendere l’origine delle cosiddette “terapie riparative” (applicate pervicacemente anche all’omosessualità): se si considerano questi fenomeni come questioni psichiatriche o dipendenti da educazione e contesto sociale, si comprende come possano trovare appiglio tali sedicenti cure, nei fatti terribili strumenti di violazione della dignità ed integrità umana.
Questo stesso processo di considerare le persone transessuali (ed omosessuali) esseri diversi, con problemi e deviazioni mentali, in effetti minorati, ha consentito una loro collocazione sociale in qualche modo inferiore a quella delle persone sedicenti “normali”. Sfruttando questo percorso argomentativo si è quindi potuta dare una giustificazione all’esclusione ed alla marginalizzazione, financo alla persecuzione. In qualche modo questo processo di segmentazione degli esseri umani in categorie dotate di differenti dignità richiama elementi della teoria specista ed è lo stesso processo che giustifica, ad esempio, lo schiavismo e la tratta dei neri, oppure giustifica la condizione di inferiorità sociale delle donne.
Chiarito il tema della patologizzazione, torniamo alla legge argentina ed alla variazione di nome e genere sui documenti a semplice richiesta.
Senza entrare nel merito del tessuto sociale e culturale argentino, che non conosco, in Italia il problema si pone in quanto nelle fasi iniziali di transizione, quando già l’aspetto cambia e non è più rappresentativo del genere di origine, diviene faticoso e discriminatorio essere obbligate ad utilizzare documenti con il nome espresso nel genere di appartenenza iniziale.
Ecco quindi il problema: il nome in rapporto all’aspetto in divenire, non tanto un cambio di genere senza che nulla del sesso sia cambiato.
Compreso questo ecco che si evidenzia tutta la forzatura di pretendere da una parte l’eliminazione del transessualismo, che pure esiste e dall’altra addirittura l’eliminazione del sesso dalla società, cosa questa contraria alla stessa biologia umana; al più occorrerebbe aumentare i sessi, a rigore, se volessimo ricomprendere i casi di intersessualismo (almeno tre casi principali che sommati al maschile e femminile darebbero cinque tipologie sessuali alla nascita.
Vale dire che occorrerebbe anche una maggior precisione e chiarezza sui termini: se parliamo di sesso, se sui documenti indichiamo il sesso, allora non si vede come questo possa essere abolito, tutt’al più si può prevedere una casella “X” di sesso non specificato per i soli casi di intersessualità alla nascita, come già avviene in Australia.
Se invece si parla di genere, cioè di tutte quelle manifestazioni sociali, comportamenti, usi, regole, modi di relazionarsi, legate ad un determinato genere ed al ruolo che assume nella società, queste sono sì intercambiabili e pertanto si potrebbero variare a piacere; si potrebbero anche eliminare, ma per una ragione molto semplice: essendo modalità di relazione occorre sempre un riconoscimento sociale, quindi la cancellazione sarebbe del tutto illusoria, in quanto il genere desiderato sarebbe sempre soggetto a validazione collettiva.
Insomma, se abbiamo un lupo ed un agnello e chiamiamo entrambi gufo, è lecito pensare che l’agnello possa dormire sonni tranquilli avendo di fianco un lupo e chiamandosi ora entrambi gufi?
Quello che manca in Italia è pertanto la possibilità di variare liberamente il nome senza che questo sia legato obbligatoriamente al genere, come invece impone una ben poco lungimirante legge (art. 35 decreto 396/2000). Va da sé che anche il codice fiscale dovrebbe adeguarsi a questa riforma, magari diventando un codice numerico in modo da impedire la possibilità di rilevare a prima vista il sesso della persona.
La pretesa di cambiare anche l’indicazione di genere non trova invece, a mio avviso, valide ed autonome ragioni, salvo eventuali impedimenti di ordine eccezionale, come ad esempio l’impossibilità di sottoporsi ad interventi chirurgici per obiettive ragioni di salute.
Altre richieste, beninteso se vi fosse la variazione legislativa di cui sopra, ricadrebbero a mio avviso in casi che nulla hanno a che fare con il transessualismo.


Che cos'è, per lei, l'identità?


L’identità è un concetto che si può applicare a differenti contesti: in generale il termine mi pare si riferisca all’idea di essere parte di qualcosa o, perlomeno, di assumere a modello quella cosa, che diviene la nostra identità, per definire meglio noi stessi.
In fondo l’identità è un riferimento, il nostro punto fermo, la nostra àncora di salvezza nell’universo mutevole.

Parlando dell’identità di genere, la penso riferita al proprio sentirsi interiore, alla propria essenza, femminile o maschile.
Mi pare di poter dire che questa identità abbia due aspetti, uno soggettivo, l’altro oggettivo.
Il primo appare quando mi guardo allo specchio e mi chiedo chi è e a chi appartiene quell’immagine che vedo riflessa, il secondo aspetto, oggettivo, emerge dalle relazioni che ho quando entro in contatto con le altre persone che vorrei mi riconoscessero e mi considerassero per quello che sento di essere, un essere femminile.
In questo senso l’identità di genere, detta transessualismo (decenni addietro transessualismo primario, per distinguerlo da altre realtà differenti che oggi sono ricomprese nel termine “ombrello” transgender) non è un qualcosa che viene definito unicamente dal mondo esterno, dalla società.
Per questa ragione avere i documenti allineati con la propria identità di genere, ottenere un giusto riconoscimento sociale, passare indifferenti in mezzo alla folla senza ingenerare dubbi ed ambiguità su chi si è, tutto questo non è così importante come l’aspetto soggettivo, come essere sé stessi.
Per arrivare a questo traguardo penso sia necessario un profondo percorso di presa di coscienza di sé. Solo dopo aver fatto questo ci può essere, e ci deve essere, un processo di autodeterminazione che porti alla piena realizzazione del sé. Il fine ultimo è raggiungere una condizione di maggior benessere; questo è l’obiettivo. Quando si arriva a questo punto, l’aspetto sociale dovrebbe esplicarsi in maniera spontanea; l’unico ostacolo può essere la memoria del passato oppure, appunto, la mancanza di leggi che diano riconoscimento a questo percorso.
In fondo il percorso transessuale è quasi un percorso filosofico: presa per mano da Socrate attraverso un percorso di conoscenza interiore, si arriva ad incontrare uno stato di benessere e felicità epicurea.
Dove la persona, seguendo Hegel, rimane nella sua essenza la medesima anche dopo il percorso di cambiamento, Aristotele ci invita a riflettere se davvero vi è un tratto comune che definisca la persona o si possa parlare di una situazione nuova, totalmente slegata da quella precedente. A mio avviso il tratto comune rimane, e, paradossalmente, la logica transessuale mette d’accordo i due filosofi, in quanto la persona resta certamente sempre la medesima anche dopo il cambiamento, ma proprio perché la sua natura è del tutto peculiare: una natura intersessuata che impedisce di dividere le due situazioni, il prima ed il dopo, e le assimila in questo tratto che resta costante.