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martedì 17 novembre 2015


L'ASSOCIAZIONE PER I DIRITTI UMANI





Associazione per i Diritti Umani




PRESENTA



Seconda guerra mondiale: gli ideali di allora, la lotta per il bene comune. Cosa è cambiato?



Presentazione del romanzo: “ In piedi nella neve”

di Nicoletta Bortolotti, Mondadori





giovedì 19 NOVEMBRE, ore 19

presso



CENTRO ASTERIA

Piazza Carrara 17.1 (Ang. Via G. da Cermenate 2 – MM ROMOLO) MILANO





L’Associazione per i Diritti Umani organizza l'incontro nell'ambito della manifestazione “D(I)RITTI AL CENTRO!”.



Presentazione del romanzo “ In piedi nella neve”

di Nicoletta Bortolotti, Mondadori



Il romanzo:

Kiev 1942: la famosa “partita di calcio della morte”, tra soldati nazisti e prigionieri ucraini. Partendo da un fatto storico, l'autrice racconta una storia di guerra e di formazione per riflettere sui valori di allora e sugli ideali ancora presenti nel mondo di oggi.









giovedì 20 agosto 2015

Dalla “mala” milanese alle frontiere dell'anima


 


Gli appassionati di Massimo Carlotto conosceranno sicuramente Beniamino Rossini, uno dei suoi personaggi più amati. In La terra della mia anima (sempre edito da E/O) lo stesso compagno di avventure dell'Alligatore decide di raccontare la propria esistenza, una vita che attraversa l'immediato dopoguerra - quando inizia a fare lo “spallone” trafficando in sigarette - per arrivare alla guerra civile, passando per la Resistenza.

Beniamino ha un animo nomade, batte le terre d'Italia e d'Europa e si spinge fino al Libano; ma la sua anima viene ancorata nel mare, in quella distesa aperta e infinita che promette libertà eterna. E di libertà ne ha vissuta, il Rossini, una libertà sfrenata fatta di soldi e di femmine. Una libertà spezzata, a periodi, da anni di galera che non hanno fiaccato lo spirito indomito. Una vita appassionata, vissuta ai margini di frontiere fisiche e interiori, ma con princìpi saldi, un'etica criminale che oggi non esiste più e poi un amore, quello per un uomo diventato donna.

Il romanzo, uno dei più intensi di Carlotto, attraversa il Novecento, i momenti più bui del nostro Paese, con riflessioni di stretta attualità, come quella che riguarda le carceri: “Ora le rivolte non esistono più, le nuove carceri e le ristrutturazioni di quelle già esistenti sono state concepite per impedire ogni forma di protesta organizzata. In passato però furono un fenomeno molto diffuso, provocato dalle condizioni di vita inaccettabili nelle prigioni della Repubblica. Se oggi i detenuti hanno a disposizione un water e un lavandino, un fornello da campeggio, una caffettiera e un pentolino, lo si deve solo al sacrificio di quelli che si ribellarono e vennero picchiati, trasferiti e condannati. Sbaglia chi pensa che quel minimo di decenza venne portato nelle carceri da politici o intellettuali illuminati che sono arrivati sempre dopo e con un ritardo imbarazzante” e questo è solo un esempio. Così come può esserlo, oggi, la passione politica di Beniamino che, parlando di un suo mèntore, Enrico il Barbùn, dice: “Era comunista, in Svizzera aveva avuto problemi con la polizia, ma era un nemino dichiarato del partito. Aveva sempre considerato Stalin un dittatore sanguinario e all'inizio fu difficile discutere di politica. Quando parlava male dell'Unione sovietica mi veniva voglia di saltargli addosso”.

Ma il libro commuove per la capacità di scandagliare l'animo umano. Una frase su tutte, da sottolineare e ricordare: “ Voglio tentare di andarmene pervaso da un senso di appartenenza. Forse è una furbizia per sentirmi meno solo, ma il desiderio è sincero e preferisco il cuore in tumulto e la testa piena di sogni alla rassegnazione e all'urgenza del pentimento”.




venerdì 14 agosto 2015

Giornata internazionale dei Popoli Indigeni (9 agosto)



Attivisti indigeni per l'ambiente rischiano la vita - Un nuovo rapporto documenta le sempre maggiori minacce in tutto il mondo.
(da Associazione per i popoli minacciati)


In occasione della Giornata internazionale dei Popoli indigeni (9 agosto), l'Associazione per i Popoli Minacciati (APM) pubblica un nuovo rapporto sulla situazione degli attivisti indigeni. Per gli attivisti indigeni di tutto il mondo chiedere il rispetto dei propri diritti o protestare per la salvaguardia delle proprie terre significa rischiare la vita. In molti paesi del mondo, alzare la voce a favore delle popolazioni indigene comporta la concreta probabilità di diventare vittima di assassinii di Stato, di arresti arbitrari, di essere condannati a lunghe pene detentive ingiustificate, di subire torture o importanti limitazioni della propria libertà di movimento e di parola.

Il nuovo rapporto pubblicato dall'APM mette in evidenza le pratiche adottate da governi e multinazionali per assicurarsi profitti economici senza riguardo delle comunità indigene e delle loro terre. Solamente sull'isola di Mindanao (Filippine) tra ottobre 2014 e giugno 2015 sono stati uccisi 23 leader indigeni impegnati a salvaguardare la loro terra dallo sfruttamento selvaggio imposto da progetti minerari. A Mindanao come altrove nel mondo, gli assassini, che siano sono semplici criminali, paramilitari o forze dell'ordine statali, restano impuniti.

Il rapporto analizza la situazione di dieci paesi in Asia, Centroamerica, Sudamerica e nella federazione Russa e mostra le metodologie violente e senza scrupoli messe in campo da latifondisti, governi e multinazionali per realizzare enormi progetti per lo sfruttamento di risorse naturali quali petrolio, gas, minerali, legname, ma anche di costruzione di dighe o di traffico di droga a scapito della vita non solo dei singoli attivisti ma di intere comunità indigene.

I membri delle comunità indigene sono attivisti per l'ambiente particolarmente motivati, proprio perché la loro sopravvivenza come comunità dipende perlopiù da un ambiente intatto, pulito e sano. La loro agricoltura sostenibile e i fortissimi legami con la propria terra tradizionale da cui traggono sia il senso identitario sia di appartenenza comunitaria dipendono proprio dal rispetto per la natura e l'ambiente. La realizzazione di mega-progetti sulla loro terra implica la distruzione dell'ambiente, l'avvelenamento dei terreni e troppo spesso la messa in fuga o la deportazione delle comunità indigene che ci vivono. Per loro ciò significa cadere nel baratro della povertà estrema, malattia, la perdita dei legami comunitari e delle proprie radici culturali.

La politica ambientale delle nazioni industrializzate sembra limitarsi all'organizzazione e alla partecipazione di vertici per il clima e giornate per la terra, nel proclamare compiaciuti sempre nuovi obiettivi da raggiungere per la salvaguardia del clima, ma di fatto non va molto oltre. Non solo non si impegna a proteggere la vita degli attivisti indigeni, le prime vittime e le maggiormente colpite dalla distruzione ambientale a livello mondiale, ma non pare nemmeno interessata ad ascoltare la loro voce.

Scarica il report [solo in tedesco] in:


https://www.gfbv.de/fileadmin/redaktion/Reporte_Memoranden/2015/Menschenrechtsreport_Nr._77_Indigene_Umweltaktivisten.compressed.pdf

Vedi anche in:



gfbv.it: www.gfbv.it/2c-stampa/2014/140909it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2014/140801it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2013/130806it.html | www.gfbv.it/3dossier/ind-voelker/brasil-tras.html | www.gfbv.it/3dossier/ind-voelker/global-it.html | www.gfbv.it/3dossier/ind-voelker/dekade-it.html
in www:
http://en.wikipedia.org/wiki/Indigenous_peoples

domenica 17 maggio 2015

Non dimentichiamo le terre dei fuochi



L'Associazione per i Diritti Umani ha organizzato, nell'ambito della manifestazione “D(i)ritti al centro!” un incontro con  Thomas Turolo, regista del documentario Ogni singolo giorno in cui ha dato voce agli abitanti delle terre dei fuochi infestate dai rifiuti e dagli sversamenti tossici. Il diritto alla salute e alla vita, i racconti dei malati, l'agricoltura in crisi: questi sono solo alcuni degli argomenti di cui si è parlato. Ringraziamo l'autore, il Centro Asteria che ha ospitato la manifestazione e tutte quelle persone (donne, uomini, bambini, giovani e meno giovani) che hanno prestato anche il loro volto per dire NO alla mafia e alle collusioni disoneste.





Ecco, per voi, il video dell'incontro con Thomas Turolo






Ricordiamo che l'Associazione per i Diritti Umani organizza e conduce questi incontri anche nelle scuole medie inferiori e superiori e per le università. Per informazioni scrivere a: peridirittiumani@gmail.com



Come strumento didattico, il libro “Mosaikon – Voci e immagini per i diritti umani”, che potete acquistare con Paypall, al costo di 12,50 euro: tutte le interviste realizzate da noi a scrittori, registi, giornalisti, operatori, etc. con una ricca bibliografia e sitografia e tante notizie e approfondimenti.

martedì 5 maggio 2015

La trattativa Stato - mafia: il diritto alla legalità e il diritto alla conoscenza dei fatti




Un film forte e preciso: si tratta del lavoro di Sabina Guzzanti che ne La trattativa usa il suo piglio sagace e diretto per mettere sullo schermo il patto Stato-mafia, le stragi degli anni'90 e i rapporti, accertati, tra uomini politici e uomini di Cosa nostra.

Il film è stato presentato anche al Parlamento italiano, nelle scuole, in moltissime sale cinematografiche e ha ottenuto consensi, analisi e alcune critiche, come accade sempre quando il materiale trattato è controverso e tocca i punti deboli di un Paese.

Un gruppo di lavoratori dello spettacolo, in un teatro di posa, sceglie di realizzare uno spettacolo sui “patti” tra Stato e mafie, subito dopo gli attentati a Roma, Milano e Firenze. Un escamotage interessante, quello di inserire il teatro nel cinema, doppia “fiction” per dare doppia cornice a una realtà vera e drammatica. I personaggi (sul palco e sullo schermo) diventano investigatori che dipanano i passaggi fondamentali di vent'anni di (brutta) storia italiana: l'uccisione di Salvo Lima, il maxi processo, gli agguati a Falcone e Borsellino, le bombe, la strage fallita allo stadio Olimpico. E sfilano le figure confuse e contorte di: Ciancimino (padre e figlio), dei pentiti, di Dell'Utri, di Provenzano e di Berlusconi impersonato, ovviamente, dalla stessa Guzzanti.

Applaudito dal pubblico all'ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, La trattativa denuncia il meccanismo del racconto filmico e il linguaggio utilizzato, un linguaggio composto da pannelli grafici, immagini di repertorio, docu-fiction, interviste, intercettazioni. Vengono mescolati, quindi, finzione e realtà, come detto, per dimostrare che, troppo spesso, la verità dei fatti supera la fantasia dei migliori sceneggiatori.

Il film si apre con il primo piano della regista che, guardando in camera, si rivolge direttamente agli spettatori: come a chimarci tutti in causa, uno per uno, per dirci di guardare in faccia le cose così come stanno, nonostante la parzialità delle informazioni e delle prove; per costringerci a non trovare alibi o scusanti nella nostra mancanza di coraggio nel lottare contro un sistema marcio e corrotto.

Gaspare Mutolo, in carcere, si converte e Spatuzza si iscrive a un corso universitario: sembra surreale e invece non lo è. E allora ci si può aspettare davvero di tutto e dobbiamo continuare ad aprire bene gli occhi e a non abbassare mai la guardia.



Dedichiamo questo post a Peppino Imapstato, vittima di un attentato mafioso il 9 maggio 1978.

martedì 7 aprile 2015

Palestina, il voto italiano e le due letture dalla Terrasanta. Saeb Erekat e Yael Dayan: bene il riconoscimento. Ma Israele plaude per il contrario




di Umberto De Giovannangeli, L'Huffington Post

 


La “limatura” dei verbi, l’edulcorazione di alcuni passaggi, le due mozioni che sembrano eludersi a vicenda, tutto questo relativizza ma non cancella la sostanza politica dell’evento consumatosi oggi a Montecitorio: dopo Francia, Spagna, Gran Bretagna, Danimarca, Portogallo, Irlanda, Belgio, Svezia, Lussemburgo, anche il Parlamento italiano si è espresso per il riconoscimento dello Stato di Palestina. Decisione sofferta, ritardata, con contraddizioni interne, ma la cui valenza politica, oltre che simbolica, non sfugge al Governo israeliano che puntava molto sull’ "amico Matteo” perché l’Italia non si unisse, neanche con qualche distinguo filoisraeliano, al coro dei “filopalestinesi”.
Così non è stato. O almeno questa è la lettura di chi vede il bicchiere mezzo pieno (sul fronte palestinese) rispetto al voto di Montecitorio. Quel voto intenderebbe rappresentare anche un sostegno a “Lady Pesc”, Federica Mogherini, che non ha mai nascosto la sua speranza di veder nascere uno Stato palestinese, a fianco d’Israele, durante gli anni del suo mandato di Alto Rappresentante della Politica Estera e di Sicurezza dell’Unione Europea.
Il voto porta con sé strascichi di politica interna, di letture “retrosceniste” sulle dinamiche interne alle varie anime del Partito Democratico, sulla spaccatura nella maggioranza poi ricomposta, almeno all’apparenza, con il parere favorevole del governo a due mozioni: quella Pd, sostenuta anche da Sel, che ha ottenuto 300 voti favorevoli e 45 contrari; e quella stilata da Nce e Ap-Sc, approvata con 237 voti favorevoli e 84 contrari, e che ha già aperto discussioni sul “messaggio” che la fronda di sinistra pieddina ha inteso lanciare al premier “decisionista”.
Strascichi, per l’appunto. Perché la sostanza è ben altra e investe il senso di marcia della nostra politica estera, soprattutto nell’area per noi più nevralgica, sul piano geopolitico e per la difesa degli interessi nazionali: il Vicino Oriente. Un Vicino Oriente in fiamme: dalla Libia alla Siria, dall’Iraq alla Palestina. Ad affermarsi, nel mondo arabo, sono “Generali” o “Califfi”, mentre in difficoltà, se non in rotta, sono le leadership moderate. Come quella del presidente palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen). L’ "intifada diplomatica” da lui voluta era ed è anche una risposta alle spinte militariste che prendono corpo dall’azione dei “lupi solitari” palestinesi e, soprattutto, dall’affermarsi anche in Cisgiordania e a Gaza dei gruppi salafiti vicini allo Stato islamico di Abu Bakr al-Baghdadi.
"C’è il diritto dei palestinesi a un loro Stato e il diritto dello stato di Israele a vivere in sicurezza di fronte a chi per statuto vorrebbe cancellarne l’esistenza. La soluzione è quella dei due Stati, per la quale la comunità internazionale si pronuncia da tempo, il che vuol dire il diritto dei palestinesi a un loro Stato e il diritto dello Stato di Israele a vivere in sicurezza, di fronte a chi vorrebbe addirittura per statuto cancellarne la stessa esistenza", ha rimarcato il titolare della Farnesina, Paolo Gentiloni, nel suo intervento in Aula.
Il testo presentato dai democratici impegna il governo "a continuare a sostenere in ogni sede l'obiettivo della Costituzione di uno Stato palestinese che conviva in pace, sicurezza e prosperità accanto allo Stato d'Israele, sulla base del reciproco riconoscimento e con la piena assunzione del reciproco impegno a garantire ai cittadini di vivere in sicurezza al riparo da ogni violenza e da atti di terrorismo". C'è quindi l'impegno per il governo a "promuovere il riconoscimento della Palestina quale Stato democratico e sovrano entro i confini del 1967 e con Gerusalemme quale capitale condivisa, tenendo pienamente in considerazione le preoccupazioni e gli interessi legittimi dello Stato di Israele".
Un messaggio, quest’ultimo che intendeva essere rassicurante per il governo israeliano. E in parte c’è riuscito, vista la prima reazione a caldo dell’Ambasciata d’Israele:
Accogliamo positivamente – recita una nota dell’Ambasciata - la scelta del Parlamento italiano di non riconoscere lo Stato palestinese e di aver preferito sostenere il negoziato diretto fra Israele e i palestinesi, sulla base del principio dei due Stati, come giusta via per conseguire la pace. Così come scritto all'inizio della mozione: "La soluzione potrà essere raggiunta soltanto attraverso i negoziati". Tutti i governi d'Israele, a partire dagli accordi di Oslo, hanno accettato e fatto propria l'idea di due Stati per due popoli. Dopo le elezioni e la formazione di un nuovo governo in Israele a marzo , è necessario che i palestinesi decidano di tornare al tavolo delle trattative senza precondizioni, per portare avanti la pace e la sicurezza fra i due popoli”.
Resta il fatto che la nota dell’Ambasciata israeliana glissa sul fatto che, nella mozione Pd, si fa esplicito riferimento a uno Stato palestinese “con Gerusalemme quale capitale condivisa” e a uno Stato “sovrano entro i confini del 1967”: due punti su cui il governo israeliano in carica si è detto sempre contrario.
Di segno opposto a quella della sede diplomatica dello Stato ebraico a Roma, sono le reazioni, e le letture, date a caldo dai palestinesi e dagli israeliani aperti sostenitori del dialogo. “Il voto del Parlamento italiano è un atto politico importante, che può dare un nuovo impulso al negoziato e far capire ai governanti israeliani che l’Europa intende giocare un ruolo da protagonista nello scenario mediorientale”, dice all’Hp il capo negoziatore dell’Anp, Saeb Erekat. “Il problema - aggiunge Erekat – non è dichiararsi a parole favorevoli al negoziato, ma esserlo con i fatti. E ogni atto compiuto dai governanti israeliani è andato nella direzione opposta: dalla colonizzazione dei Territori all’assedio di Gaza”.
Sulla stessa lunghezza d’onda è Yael Dayan, scrittrice israeliana, più volte parlamentare laburista, una delle 800 personalità israeliane firmatarie di un appello rivolto all’Europa perché riconoscesse lo Stato di Palestina. “Apprezzo la scelta del Parlamento italiano – dice la figlia dell’eroe della Guerra dei Sei giorni, il generale Moshe Dayan, raggiunta telefonicamente a Tel Aviv dall’Hp – e da israeliana che ha combattuto per la sicurezza del proprio Paese, non la considero un atto di ostilità, ma al contrario di amicizia verso Israele. Penso questo perché sono convinta che la nascita di uno Stato palestinese non rappresenti un cedimento al “nemico” ma un investimento sul futuro per Israele. Un futuro che le destre mettono a repentaglio, riproponendo una politica fondata su una cultura militarista, cavalcando l’insicurezza e vendendo una illusione: quella di una pace a costo zero”.
È terribile odiare ed essere odiati per così tanto tempo. È estenuante occupare ed essere occupati per così tanto tempo. Questa liberazione riguarda anche noi israeliani”, le fa eco David Grossman, tra i più affermati scrittori israeliani, anche lui, come Yael Dayan, tra i promotori dell’appello all’Europa.
Resta la rabbia dei falchi. Il pronunciamento del Parlamento italiano interviene nel vivo della campagna elettorale in Israele – si vota il 17 marzo – e a pochi giorni dal viaggio negli Stati Uniti di Benjamin Netanyahu – parlerà al Congresso ma non sarà ricevuto dal presidente Barack Obama – e stride con quanto sostenuto dai leader delle destre dello Stato ebraico, decisamente ostili, per ragioni ideologiche o di sicurezza, alla nascita di uno Stato palestinese, con o senza negoziati diretti. Un tema, questo, che è parte della campagna elettorale in corso, nella quale le destre sottolineano che non c’è differenza fra Hamas e l’Isis, e che Abu Mazen ha scelto di “governare con i terroristi (Hamas, ndr) sacrificando la pace”.
Sul versante opposto, il leader dei Laburisti, Yitzhak Herzog, mette in evidenza come “le chiusure di Netanyahu hanno rafforzato gli estremisti nel campo palestinese e incrinato le relazioni tra Israele e l’Amministrazione Obama”. Herzog ha anche annunciato che, se diventerà primo ministro, si farà promotore di un “piano Marshall” per la smilitarizzazione e la ricostruzione di Gaza.
In proposito, a sei mesi dal cessate il fuoco che ha messo fine all’operazione “Protective Edge”, Oxfam ha lanciato l’allarme sulla disperata situazione in cui ancora versano gli 1,8 milioni di persone che vivono nella Striscia, a causa delle carenze e progressive riduzioni delle quantità di materiali da costruzione in entrata a Gaza. A farne le spese sono le circa 100.000 persone, di cui la metà bambini, che ancora sono costrette a vivere in rifugi e sistemazioni temporanee, mentre decine di migliaia di famiglie vivono in abitazioni gravemente danneggiate dai bombardamenti della scorsa estate. Senza la fine del blocco israeliano a Gaza - avverte l’Ong con sede centrale a Londra - ci vorrà oltre un secolo per completare la ricostruzione di case, scuole e ospedali.
Herzog – un dei leader del “Blocco sionista” di centrosinistra - ha anche sottolineato che “pace e sviluppo degli insediamenti sono tra loro inconciliabili”. L’esatto opposto di ciò che pensano, e fanno, le destre israeliane. Secondo uno studio dell’associazione israeliana Peace Now, i bandi per le nuove costruzioni sono triplicati dal 2013 rispetto al precedente governo, sempre guidato da Netanyahu. Sono state fatte 4.485 gare d’appalto nel 2014 e 3.710 nel 2013 (2007 erano state meno di 900). L’incremento demografico annuale dei coloni è di circa il 5,5%, contro l’1,7% degli altri israeliani.
Le considerazioni avanzate dal leader laburista israeliano sullo stato (pessimo) dei rapporti tra Netanyahu e Obama trovano conferma nelle parole della la consigliera per la sicurezza nazionale del presidente Obama, Susan Rice, secondo cui la visita che il premier israeliano farà a Washington il 3 marzo sarà "distruttiva". E a Netanyahu, che rilancia la linea “interventista” contro l’Iran, il segretario di Stato Usa, John Kerry, risponde seccamente: ci ha spinto a invadere l’Iraq, visto com’è finita?
Per il riconoscimento dello Stato di Palestina si batte da tempo Mairead Corrigan Maguire, premio Nobel per la pace nel 1976: “Se i governi europei avessero un sussulto d’orgoglio, se credessero davvero a quei principi universali di cui si fanno vanto – afferma Maguire – allora non dovrebbero perdere un attimo in più e seguire l’esempio svedese, compiendo un atto riparatorio che sarebbe dovuto accadere già da tempo: riconoscere lo Stato palestinese. Per farlo non c’è bisogno del “permesso” d’Israele”.


sabato 7 febbraio 2015

VITA AGLI ARRESTI DI AUNG SAN SUU KYI: una promozione speciale per voi !

 
 
 
Dal 3 al 12 marzo avremo ospite nel nostro teatro lo spettacolo "VITA AGLI ARRESTI DI AUNG SAN SUU KYI” della compagnia Teatro delle Albe – Ravenna Teatro.
Dopo Pantani (Premio Ubu per la drammaturgia 2013), il Teatro delle Albe guarda a oriente per raccontare la vita di Aung San Suu Kyi.
La scrittura di Marco Martinelli partirà dalla figura di questa donna mite e determinata, interpretata da Ermanna Montanari (premio Eleonora Duse 2013), per allargarsi a una riflessione sul mondo contemporaneo:
Cosa intendiamo per “bene comune”? Per “democrazia”? Cosa significano parole come “verità e giustizia”? Ha senso usare queste parole, e come?
 
Teatro Elfo Puccini
Corso Buenos Aires, 33
www.elfo.org
20124 Milano
 
 
 
 
 
 
 

giovedì 6 novembre 2014

Perez.




Da poco uscito nelle sale cinematografiche italiane, Perez. narra, senza illusioni, la deriva di oggi.

Un uomo grigio in una grigia città. Si chiama Demetrio Perez ed è un avvocato d'ufficio che da tempo ha perso di vista l'etica della sua professione. Perez, infatti, difende delinquenti e quei perdenti come lui che ha visto fallito anche il suo matrimonio e che ha un rapporto conflittuale con la figlia Tea.

Tea si innamora di Francesco Corvino, figlio di un pregiudicato e sarà la relazione pericolosa della ragazza a spingere l'avvocato verso il tentativo di riscatto. Accetta uno scambio, o meglio il ricatto di un boss della camora: questi gli chiede aiuto per recuperare una partita di diamanti nascosti nel ventre di un toro e lui troverà la maniera di incastrare Corvino. Perez viene a patti con la sua coscienza pur di salvare Tea, accetta la proposta del boss e da quel momento la sua vita cambierà in maniera radicale.



Un film italiano di genere, un noir urbano, una scelta che strizza l'occhio a Martone e Sorrentino, ma efficace per discutere di etica e legalità. Perez.è il secondo lungometraggio di Edoardo De Angelis, dopo Mozzarella stories, in cui l'autore cambia totalmente registro, non fa sconti alla sua città e al Paese intero, narrando una storia di derive morali, di dubbi, di scivolamenti nell'ambiguità tra giusto e sbagliato.Non ci sono più barriere o differenze, siamo tutti coinvolti in quella mancanza di coraggio per essere onesti e non accettare compromessi e ricatti.

Non c'è pace, nel film di De Angelis, e c'è poca speranza. Il titolo del film vede recitare solo il cognome del protagonista, seguito da un punto: il nome non è importante perchè quel conognome rappresenta un simbolo, una categoria umana che non ha quasi più possibilità di salvezza; spesso ripreso di spalle (come un uomo qualunque, privo di umanità e di un'identità), Demetrio Perez si sfoga, parla da solo e la sua voce fuori campo ci fa entrare nella sua mentalità, stretta tra le regole codificate dallo Stato e le regole codificate dall'Uomo. Le sue azioni si svolgono in quell'area del capoluogo campano a cui si erano affidate le aspettative di una rinascita economica, culturale e sociale e che, col tempo, si è rivelata nella sua tragicità, con il suo fallimento in tutti i settori.

Nel genere noir, si sa, non c'è mai una distinzione netta tra personaggi “buoni” e “cattivi”: i cattivi qui ci sono e sono, chiaramente, i camorristi. Ma quelli che dovrebbero rappresentare i valori positivi sono ammantati di pavidità: l'avvocato corrotto, i giudici e i poliziotti superficiali e poco attenti. E nemmeno l'unica figura femminile non riesce a illuminare le coscienze, ma trascina coloro che ha attorno a sè in un baratro sempre più oscuro. Ecco perchè, il sole fa fatica a sorgere: anche la fotografia del film, ben curata, sottolinea la fatica di una resurrezione etica e morale.


lunedì 29 settembre 2014

Una sede al Centro Midulla per i bambini dell'orschestra Falcone Borsellino






Continua la nostra lotta per l'affermazione della legalità, per cui anche noi vi proponiamo la lettera/petizione già su change.org dove potete firmarla...Grazie.



Questa petizione sarà consegnata a:

Sindaco di Catania

Al Sindaco di Catania, On. Enzo Bianco





A Catania i creatori dell’organizzazione no profit “La città invisibile” lavorano da anni per tenere lontani i ragazzi dalla strada e indirizzarli verso la musica ed altre iniziative culturali che valorizzino le loro attitudini e che li indirizzino verso un futuro di giustizia e legalità.

Ora però questi ragazzi hanno bisogno di noi!

I componenti dell’orchestra “Falcone e Borsellino” (orchestra interna alla “Città Invisibile”) non hanno più una sede dove incontrarsi, dove imparare la musica e dove provare i loro pezzi.

Non lasciamo che questi ragazzi si allontanino dai valori che gli sono stati tramessi e insegnati! Non permettiamolo!

Aiutiamo “La città invisibile” a mantenere alto l’impegno fino ad ora profuso.

Una possibilità c’è!

Vi preghiamo di leggere l’appello sottostante,di condividerlo, di divulgarlo e di partecipare insieme a noi a questa iniziativa importante.

-----------------------------------------------------------------------------------------------------------     Al Sindaco di Catania, On. Enzo Bianco

c.p.c. Presidente della Regione Siciliana, On. Rosario Crocetta

Procuratore della Repubblica di Catania, dott. Giovanni Salvi

Prefetto di Catania, dott.ssa Maria Guia Federico

Questore di Catania, dott. Salvatore Longo

Arcivescovo della Diocesi di Catania, S. E. Mons. Salvatore Di Cristina

Oggetto: Concessione dei locali del Centro Culturale Midulla alla fondazione no profit “La città invisibile”

Egregio Signor Sindaco,

la Fondazione “La città invisibile”, ente no profit, per prevenire il disagio e la devianza dei minori del quartiere di San Cristoforo, uno dei più a rischio di Catania, ha creato e sostiene la Scuola di vita e Orchestra “Falcone Borsellino” .

Per poter ricevere lezioni di musica e di legalità, impartite con successo dai volontari della Città invisibile, e poter quindi eseguire delle prove d’orchestra per i concerti tenuti in importanti eventi antimafia, i numerosi bambini del quartiere hanno fino ad oggi utilizzato i locali della Chiesa di San Cristoforo, concessi dal parroco.

Ora, gli stessi locali versano in stato di pericolo di crollo e non sono più agibili, perciò a questi bambini non resterebbe che la strada per poter svolgere le lezioni o al più la piazzetta di San Cristoforo.

Noi, invece, con questa lettera aperta, Le chiediamo di concedere alla Fondazione i locali del Centro Culturale Midulla, ubicato alle spalle della chiesa di San Cristoforo, in via Zuccarelli, che è a tutt’oggi inutilizzato e in stato di abbandono; al suo interno vi sono una palestra, una grande sala per conferenze, delle stanzette e persino una biblioteca, utilissime al raggiungimento dei fini della Fondazione.

Oppure, gentile signor Sindaco, meglio sarebbe auspicabile la concessione dei locali di un altro imponente edificio, praticamente inutilizzato dagli abitanti della città e del quartiere, cioè la famosa caserma borbonica, Ex Manifattura Tabacchi che si trova nella piazzetta di San Cristoforo, .

Concedere i suddetti locali alla Città invisibile, permetterebbe, inoltre, di realizzare un programma più ampio, esteso ad altre fasce d’età, per vivificare di cultura e legalità il quartiere.

Perciò, signor Sindaco, la nostra richiesta DI APRIRE, AI BAMBINI DELLA CITTA’ INVISIBILE, LA PORTA DEL CENTRO MIDULLA O DELLA EX MANIFATTURA TABACCHI.

Lo faccia al più presto, perché questi bambini non debbano rinunciare ad aver fiducia nello stato che lei rappresenta. Essi hanno già dimostrato la loro determinazione a uscire dal degrado, contribuiscono efficacemente ad innalzare con la cultura il livello della vita civile e morale del loro quartiere. Essi, non solo hanno suonato alla sua presenza durante la visita della Pres. Boldrini e dentro al Palazzo di Giustizia per l’ANM, ma hanno suonato anche a Palermo in via D’Amelio il 19 luglio per tre anni di seguito, così come per Falcone, negli eventi del 23 maggio a Palermo, per Dalla Chiesa, per don Puglisi e per Fava.

Essi possono divenire motivo di orgoglio per la sua Catania (e lo sono già ai nostri occhi). Li aiuti, dunque, ad usufruire di un luogo che lei stesso a contribuito a ristrutturare e che è un vero schiaffo all’onestà lasciare nelle mani dei vandali e della malavita.

I bambini e le loro famiglie aspettano il suo consenso ad aprire quella porta.

Non diamola vinta alla mafia!


martedì 16 settembre 2014

Il manifesto dell'antimafia




Mentre Don Luigi Ciotti viene minacciato da Riina, noi rispondiamo a gran voce con la recensione di un libro importante e ve lo consigliamo di cuore. Stiamo parlando del Manifesto dell'Antimafia del Prof. Nando dalla Chiesa, edito da Einaudi.

Il Professore - docente di di Sociologia della criminalità organizzata presso l'Università degli studi di Milano - ha calcolato, insieme ai suoi studenti, che una tangente pagata alle mafie ha lo stesso valore economico di duemila assegni di ricerca: sostegno allo studio, sostegno al lavoro. Tutto questo sottratto alla società e ai cittadini onesti.

Parte proprio da qui l'ultimo lavoro di Nando dalla Chiesa: dalla mentalità, dalle pratiche quotidiane, diffuse e sotterranee, che alimentano la forza della criminalità. La mafia non è solo al Sud, la mafia non intacca solo politica e finanza; la mafia si annida nella mancanza di valori positivi e di indifferenza verso il Bene comune. Non a caso il professore definisce la 'ndrangheta come una “forza sociale criminale” perchè riguarda i comportamenti sociali, quindi anche quelli di ciascuno di noi.

Le mafie hanno un'anima, si continua a leggere nel testo, un'anima nera che si può tradurre in tabelle e schemi concreti. Si fa riferimento a tre “C” che non vanno sottovalutate: quelle dei complici, del concorso esterno e, soprattutto, dei codardi.

Il saggio si rivolge a tutta la società civile e, in particolare, ai giovani che forse si sentono schiacciati e scoraggiati da quella zona grigia, da quella palude (culturale, politica, istituzionale) che non riesce a sbloccare la situazione, per paura o per interesse...Pensiamo alle vicende che stanno caratterizando l'organizzazione di Expo 2015. Ma sono proprio loro, i giovani, portatori di speranza e di futuro e noi più grandi abbiamo il dovere di indicare e di ricordare che la strada è sempre e soltanto quella dell'etica e della giustizia.


lunedì 21 luglio 2014

Rom sgomberati due volte in due giorni: l'appello per una soluzione




(Foto Reporters)






Questo è l'appello che Amnesty e Associazione 21 luglio fanno al sindaco di Roma. Ma la situazione riguarda anche altre città italiane.

Roma, 11 luglio 2014 – Sgomberati due volte in due giorni e abbandonati dalle istituzioni. Per 39 rom ancora nessuna soluzione alternativa è stata individuata dalle autorità di Roma Capitale dopo lo sgombero forzato dell’insediamento informale in zona Val d’Ala. Associazione 21 luglio e Amnesty International rivolgono un appello urgente al sindaco di Roma Marino e all’Assessore Cutini: «Serve una soluzione immediata per rispondere all’emergenza che queste persone, tra cui minori e malati, stanno affrontando».

I 39 rom rumeni sono stati sgomberati lo scorso 9 luglio dall’insediamento informale nei pressi della stazione ferroviaria di Val d’Ala, nella periferia nord-est di Roma. Lo sgombero, come denunciato in un
comunicato congiunto da Associazione 21 luglio e Amnesty International, ha violato «i diritti umani delle persone coinvolte in quanto realizzato senza le garanzie previste dagli standard internazionali». In particolare, lo sgombero – hanno denunciato le due organizzazioni – non è stato accompagnato da una genuina consultazione con le persone coinvolte né da una notifica formale scritta. In più, nessuna soluzione abitativa alternativa adeguata è stata offerta loro, come invece prescritto dal Comitato sui Diritti Economici, Sociali e Culturali delle Nazioni Unite.

Dopo lo sgombero, nella stessa giornata, i rom si sono recati davanti alla sede dell’Assessorato alle Politiche Sociali di Roma Capitale per chiedere una soluzione alternativa. Sul posto erano presenti anche gli attivisti dell’Associazione 21 luglio, di Amnesty International e l’Assessore alle Politiche Sociali del Municipio III Eleonora Di Maggio. In quella sede, tuttavia, nessuna soluzione adeguata è stata offerta alle famiglie sgomberate, se non la divisione dei nuclei familiari (donne e bambini in case famiglia, uomini a parte). Soluzione – la stessa proposta ai rom al momento dello sgombero - che non può essere ritenuta adeguata e che le famiglie hanno comprensibilmente rifiutato.

Successivamente i rom si sono spostati sullo stesso terreno dal quale erano stati sgomberati, dove hanno trascorso la notte riparandosi dalla pioggia con mezzi di fortuna. La mattina dopo, tuttavia, le forze dell’ordine sono intervenute per sgomberare le famiglie una seconda volta. A quel punto i rom, accompagnati dagli attivisti di Associazione 21 luglio e Amnesty International, si sono spostati nella sede del Municipio Roma III, in piazza Sempione, nel cui atrio, in seguito a un accordo con le autorità municipali, hanno potuto trascorrere la notte in attesa di un pronto intervento da parte delle istituzioni capitoline per affrontare e risolvere l’emergenza in cui i 39 rom sono stati costretti dallo sgombero. «Il tempo passa e le autorità di Roma Capitale non hanno ancora trovato nessuna soluzione all’emergenza che esse stesse hanno creato con un’azione inutile, costosa e frutto di una totale amnesia istituzionale», scrivono oggi Associazione 21 luglio e Amnesty International.

«Dopo essere stati vittime di due sgomberi in due giorni, i rom sono stati letteralmente abbandonati a loro stessi. Rivolgiamo quindi un appello alla sensibilità del sindaco Ignazio Marino e dell’Assessore al Sostegno Sociale e Sussidiarietà di Roma Capitale Rita Cutini – affermano le due organizzazioni - affinché, urgentemente, venga individuata una soluzione abitativa adeguata per questi uomini, donne e bambini».

«Una volta che la situazione alloggiativa di questa comunità sia stata risolta – concludono le due organizzazioni – il sindaco Ignazio Marino e le altre autorità competenti dovranno verificare perché gli sgomberi continuano ad essere compiuti con modalità che violano gli standard internazionali relativi a consultazione genuina, notifica previa ed offerta di alternative adeguate, e creare i presupposti perché tali violazioni di diritti umani non si ripetano ulteriormente, ad esempio attraverso l’adozione di una circolare che guidi il comportamento di ufficiali impegnati nelle operazioni di sgombero».

Per maggiori informazioni
Danilo Giannese
Responsabile Comunicazione e Ufficio Stampa
Associazione 21 luglio
Tel: 388 4867611 – 06 64815620
email:
stampa@21luglio.org
www.21luglio.org

Amnesty International Italia – Ufficio Stampa
Tel. 06 4490224 – cell. 348 6974361
e-mail:
press@amnesty.it 


sabato 19 luglio 2014

Il maresciallo in pericolo e le istituzioni tacciono




Vi proponiamo, cari lettori, quest'altro articolo per ricordare la strage di Via d'Amelio, nel 22° anniversario, in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e i cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Cluadio Traina, Walter Eddie Cosina e Vincenzo Li Muli.

(Vi rimandiamo, se volete, anche all'intervista ad Salvo Palazzolo che abbiamo fatto in occasione dell'uscita del libro Ti racconterò tutte le storie che potrò, scritto con la Signora Agnese, vedova Borsellino).             





Nemmeno la lotta alle mafie deve andare in vacanza. In tempi di inchini e genuflessioni davanti ai boss, arriva anche una minaccia vera. Ieri, 18 luglio 2014, sulle pagine palermitane di Repubblica, il giornalista Salvo Palazzolo scrive che il collaboratore di giustizia Flamia avrebbe riferito ai p.m. Francesca Mazzocco e Caterina Malagoli l'intenzione della cosca siciliana di Porta Nuova di uccidere il maresciallo dei carabinieri Michele Coscia. “Due anni fa, durante un'udienza del processo 'Perseo', Giuseppe Di Giacomo mi disse che con Vincenzo Di Maria e Massimo Mulè avevano ormai deciso l'omicidio di Coscia perchè il maresciallo continuava a dare troppo fastidio con le sue indagini”, queste le parole del pentito anche se poi Giuseppe Di Giacomo è stato ammazzato da un commando in Via Eugenio l'Emiro.

Il maresciallo Coscia, di origini pugliesi, presta servizio in Sicilia da circa vent'anni e, in particolare, per tre anni è stato al commissariato di Bagheria. Fu uno dei primi ad occuparsi del delitto delle tre donne della famiglia di Francesco Marino Mannoia nel periodo in cui questi aveva deciso di collaborare con il giudice Falcone. Falcone stesso non si capacitò di come la notizia della collaborazione potesse essere uscita e fosse diventata nota ai clan.

Il maresciallo Coscia continua ad essere in pericolo e nessuno deve abbassare la guardia: né lo Stato - per non ripetere gli stessi errotri del passato, sottovalutando la situazione - né la società civile che deve imparare a denunciare e a superare l'omertà e la cultura della paura. Perchè proprio la paura, il ricatto e le minacce sono le prime armi che uccidono un Paese e una collettività.

sabato 12 luglio 2014

Quel premio ad un cittadino-eroe



Si chiamava Michele Liguori e aveva 59 anni. Era l'unico vigile urbano della sezione ambientale di Acerra ed è deceduto, a gennaio scorso, per un raro tumore al fegato, lasciando la moglie e il figlio. Ma non è solo il racconto di un destino, purtroppo, condiviso da molti. Michele Liguori aveva deciso di dire “NO” alla camorra: per tredici anni ha lavorato e vissuto tra i rifiuti tossici della “terra dei fuochi”, ma continuava a denunciare, continuava imperterrito a chiedere bonifiche di terreni marci. 


Dopo la sua morte, i familiari continuano la sua battaglia per un'Italia sana, per una regione salubre, per la tutela della salute e della vita di altre persone. Ma chiedono anche giustizia per quel marito, padre, uomo e cittadino che ha svolto il proprio dovere professionale, civico e civile per il Bene comune.

Il primo tentativo della famiglia di vedere riconosciuta la malattia professionale è stato liquidato con una nota dell'Inail in cui si leggono poche parole e nessuna spiegazione: “La morte non è riconducibile all'evento”: probabilmente, riconoscere al Sig. Liguori la morte per cause ambientali significherebbe aprire la strada a migliaia di altre richieste di indennizzo. Ma la Signora Maria e il figlio Emiliano non si arrendono: stanno preparando una battaglia legale durissima che si combatterà con documenti e analisi su tutto il territorio colpito dalle efflusioni di sostanze tossiche e che è volta a dimostrare il collegamento tra queste sostanze – riversate nelle discariche abusive dal clan dei Casalesi, come ha accertato la Giustizia – e i numerosi casi di tumore che colpiscono la popolazione. Il caso di Michele Liguori è e sarà emblematico.

Ecco che, quindi, la giuria dell'ultima edizione del Premio Ambrosoli (un premio indetto in memoria dell' Avvocato Giorgio Ambrosoli ammazzato nel 1979 per volontà del banchiere Michele Sindona) ha deciso di assegnare proprio a Michele Liguori il primo riconoscimento.


Durante la cerimonia, che si è tenuta a Milano alla fine di giugno, sono stati dichiarati come vincitori quelle persone o gruppi di persone - in particolare della pubblica amministrazione e delle imprese - che su tutto il territorio nazionale si siano contraddistinti per la difesa dello stato di diritto tramite la pratica dell’integrità, della responsabilità e della professionalità, pur in condizioni avverse a causa di contesti ambientali o di situazioni specifiche, che generavano pressioni verso condotte illegali.

Vogliamo terminare riportando alcune parole di una lettera che l'avvocato Ambrosoli scrisse alla moglie qualche anno prima di morire e che riteniamo fondamentali: “Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto...Abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il Paese, si chiami Italia o si chiami Europa”...E noi vorremmo ricominciare da qui.




venerdì 11 luglio 2014

Giustizia per i nuovi desaparecidos





L'Associazione per i Diritti Umani di Milano aderisce al seguente appello:


È una tragica routine che si ripete ormai da anni. Immagini di barconi pieni di persone stipate in condizioni disumane, naufragi, morte e disperazione. Noi attivisti, rappresentanti di associazioni di migranti, famiglie dei nuovi desaparecidos, giuristi ed esponenti della società civile riteniamo tutto ciò intollerabile.

Per questo ci rivolgiamo ai governi, all’Unione Europea, agli organismi internazionali, ai movimenti, alle organizzazioni non-governative e a tutti coloro che hanno a cuore la dignità e i diritti delle persone. Lo facciamo all’apertura del semestre italiano di Presidenza dell’Unione Europea perché crediamo che il rispetto e la tutela dei diritti umani, che dovrebbero essere il fondamento del progetto europeo, debbano essere costantemente riaffermati e difesi.

Proponiamo la convocazione di un Tribunale Internazionale di opinione che offra alle famiglie dei migranti scomparsi un’opportunità di testimonianza e rappresentanza; contribuisca ad accertare le responsabilità e le omissioni di individui, governi e organismi internazionali; e fornisca uno strumento per l’avvio di azioni avanti agli organi giurisdizionali nazionali, comunitari, europei e internazionali. Vogliamo ricostruire la verità, sanzionare i responsabili e rendere giustizia a vittime e familiari. Tutto ciò anche nella prospettiva di una diversa, più umana ed efficiente politica di accoglienza, comune e condivisa da tutti gli Stati dell’Unione Europea, e di un nuovo rapporto del Nord nei confronti del Sud del mondo, in modo da porre fine alle situazioni di crisi, guerra e persecuzione che costringono migliaia di persone ad abbandonare il proprio paese.

Chiediamo che le istituzioni si impegnino a garantire con tutti gli strumenti disponibili il riconoscimento dell’identità delle vittime, offrendo ai loro familiari un luogo di raccoglimento e cordoglio che restituisca dignità alle persone scomparse.

Dobbiamo interrompere il ciclo di disinformazione che si fa indifferenza e impotenza. Perciò rivendichiamo il diritto ad essere informati anche sulle forme di cooperazione militare e di polizia instaurate tra gli Stati europei e i paesi di origine e transito dei migranti. Ma occorre mettere insieme una molteplicità di attori, ascoltando, in primo luogo, la voce dei diretti interessati, gli esuli e i migranti, le vittime e i testimoni.

Mercedes Frias, Enrico Calamai, Arturo Salerni, Tsegehans Weldeslassie, don Mosè Zerai e Mehrzia Chargi, madre di un ragazzo tunisino scomparso, presenteranno il nostro appello, che sta raccogliendo molte adesioni, alla conferenza stampa che si terrà il giorno 10 luglio alle ore 11:30 a Roma, presso la Sala Stampa della Camera dei Deputati, in Via della Missione 4.

In questa occasione il numero dei partecipanti sarà limitato dalla capienza della sala, ma stiamo già organizzando per settembre un’assemblea pubblica che possa garantire la partecipazione di tutti coloro che vorranno dare il proprio contributo.


Il Comitato “Giustizia per i nuovi desaparecidos”٭



Roma, 7 luglio 2014



Info e adesioni:

nuovidesaparecidos@gmail.com

٭٭ Andrea Amato, Mario Angelelli, Claudio de Fiores, Emilio Drudi, Mercedes Frias, Gianluca Gatta, Agenzia Habeshia, Francesco Martone, Pasqualina Napoletano, Mauro Palma, Edda Pando, Sara Prestianni, Lucy Rojas, Arturo Salerni, Alessandro Triulzi, Fulvio Vassallo Paleologo, Tsegehans Weldeslassie, Carolina Zincone.

martedì 1 luglio 2014

Aggiornamento Iraq




Cari lettori,

abbiamo rivolto alcune domande alla giornalista Laura Silvia Battaglia, esperta di Iraq e Medioriente, che ringraziamo molto perchè ci aiuta a capire meglio cosa sta accadendo in Iraq in questo periodo.   

Laura Silvia Battaglia è anche reporter e ha realizzato due importanti documentari: Unknown Iraq, vincitore del premio “Giornalisti del Mediterraneo 2013”, e l'ultimo dal titolo The sound of theTigris.                                  




Cosa sta accadendo in Iraq e quali sono i pregressi di questa situazione?

Sta accadendo la federalizzazione/balcanizzazione dello Stato iracheno. Una soluzione pianificata da tempo dagli Stati Uniti, incardinata nell’ordinamento della nuova Repubblica islamica d’Iraq da parte dell’establishment sciita e curdo, incoraggiata da tutti gli attori regionali, come l’Arabia Saudita, che operano affinché il nuovo Iraq, ormai una provincia sciitizzata del vicino Iran, non diventi di nuovo una potenza economicamente dominante come ai tempi di Saddam.

La federalizzazione imposta sarà la conseguenza naturale di una guerra civile per il potere, il petrolio, il denaro, che vede in campo gli iracheni ma dietro le quinte Iran da una parte e Arabia Saudita dall’altra, mentre gli investitori europei, cinesi e russi stanno a guardare, sperando che i loro interessi economici nel fiorente mercato della ricostruzione post-guerra ricevano meno danni e scosse possibili. Gli Stati Uniti, dal canto loro, hanno già provveduto a una parziale indipendenza energetica, sviluppando l’economia verde e il fracking sul suolo statunitense. Chi ha da essere preoccupato, sotto il profilo economico ed energetico, è l’Europa e la Cina.

Se questo vale sotto il profilo geo-politico, va ricordato che l’avanzata di Daesh o Isil (al-Dawla al-Islāmiyya fī al-ʿIrāq wa al-Shām) ha un suo perché e giustificazione. Essa è presentata come una invasione di un gruppo terroristico in area siro-irachena. Il gruppo ha come fine dichiarato la realizzazione di uno stato sovranazionale che ricalchi il Califfato islamico omayyade del 632 dopo Cristo, per intenderci quello dei primi quattro successori “dell’Inviato di Dio”, gli ortodossi rāshidūn. La bandiera che Isil sventola è l’Islam politico di derivazione qaedista e radice sunnita, ma la sua declinazione è completamente distante dai principi coranici. Apparentemente sembra una guerra religiosa, dove ogni miliziano straniero convertito replica nei video propagandistici la sua shahada (professione di fede) e il gruppo incita alla fitna (la realizzazione dell’unità della umma, della comunità islamica), emettendo delle fatwe, delle punizioni per chiunque non segua le direttive dei nuovi “califfi”. Ma questa è la cover religiosa di un progetto politico: l’espansione del potere regionale dell’Arabia Saudita e, conseguentemente, della dinastia wahabita sui Paesi nel Mashrek e del Maghreb che hanno una serie di ricchezze: petrolio, ampi campi desertici per l’addestramento di un nuovo esercito, popolazione senza lavoro, educazione, cibo e diritti, stanca di dittature e bombardamenti e ingiustizie imposti grazie alla mano occidentale.

Se si pensa che gli iracheni sunniti sono stati estromessi dal governo centrale del nuovo Iraq, spesso perseguitati o ghettizati e che la gloria di Saddam nonché il suo esercito non sono mai morti, si comprende perché Daesh/Isil abbia trovato tutti questi consensi al suo passaggio. Per la popolazione, i tagliagola barbuti non sono meglio dei dittatori corrotti.


Quali potrebbero essere le conseguenze sugli equilibri nel resto del Medioriente e nei rapporti con l'Occidente?


Come già detto, gli equilibri son già completamente cambiati. Il nuovo Stato islamico di Daesh ha decretato la morte dell’accordo Sykes-Picot. Se invece vogliamo parlare in termini non geopolitici ma umanitari, la conseguenza è la totale distruzione della complessità culturale del Medio Oriente, la sua ricchezza in termini etnico-religiosi, la naturale e storica tolleranza delle popolazioni locali. Si cancella la terra di Abramo, la culla delle tre religioni monoteiste, tutte provenienti dallo stesso seme. E non lo si fa in nome della Bibbia o del Corano. Lo si fa ancora in nome del petrolio e del potere.



A distanza di 10 anni dalla caduta di Saddam, com'è la quotidianità della società civile? Quali diritti sono garantiti e quali no?


Patrick Cockburn avvertiva in un’inchiesta dell’Independent nel 2009: “La mazzetta in Iraq è uno stile di vita”. Nel 2013/2014 non è cambiato nulla. Secondo il Corruption Perception Index del 2012 l’Iraq è il quinto Paese più corrotto al mondo su 176 ed è il più corrotto in assoluto in Medio Oriente. Qui si paga per ottenere un lavoro, andare dal medico, ottenere il passaporto. E se il cittadino non è in grado di pagare (e non lo è la maggior parte della popolazione) non usufruirà del servizio finché non troverà un altro metodo di pagamento, sotto minaccia. C’è anche l’economia sommersa, a cui parteciperebbe almeno il 70% della popolazione irachena a vario titolo: da chi è impegnato nel mercato nero del petrolio (quantificabile nel 10% del traffico complessivo all’interno del paese e nel 30% verso l’estero) a chi si dedica al commercio illecito di armi e attrezzature mediche ospedaliere; fino a tutti i membri della polizia, ai giudici e ai funzionari corrotti che intascano tangenti e mazzette per i motivi più futili e che costano alle tasche dei cittadini iracheni 4 miliardi di dollari l’anno.


Cosa chiedono, in particolare, i giovani?


Chiedono pace, pace, pace. Una vita normale. Lavoro, non solo presso i Ministeri per i figli delle migliori famiglie sciite e curde. Chiedono buona educazione, scholarships per l’estero. Chiedono di essere cittadini con diritti reali, chiedono servizi. Chiedono di non avere più paura delle bombe e chiedono di uscire la sera. L’unica città dove possono attualmente fare questo in sicurezza è la curda Suleymanyia.

 

Cosa NON viene riportato dalla stampa italiana e occidentale?

Sono anni che l’Iraq è sotto il cono d’ombra dei media. Perché la ricostruzione del Paese e i bilioni di dollari che si possono fare con l’housing, con l’edilizia stradale, il petrolio, la rimessa in sesto di un Paese intero completamente messo in ginocchio da anni di sanzioni e dieci anni di guerra e occupazione ha distratto tutti, colpevolmente, dalle questioni umanitarie. E oggi tutti si stupiscono del fatto che Daesh/Isil abbia successo. Ricordo solo un episodio che vale per tutti: il 28 agosto 2012, 21 persone, tra cui tre donne erano state impiccate in un solo giorno, accusate per reati di terrorismo non provati tramite regolare processo. Erano le ultime sentenze di morte un anno in cui ne sono state eseguite ben 91 e per le quali si era levata la voce solo di Navi Pillay, l’Alto Commissario Onu per i Diritti Umani. Tra gli oltre 600 detenuti attuali ci sono persone in cella da 7 anni, senza essere mai state interrogate in presenza di un avvocato, senza diritto alla difesa, torturate e costrette a confessare crimini non commessi, a cui le forze di polizia hanno minacciato e violentato mogli e sorelle. In Iraq l’orrore di Abu Ghraib non è mai finito.

                                                                                                                       

Per guardare il trailer de The sound of theTigris e per un ulteriore approfondimento:




sabato 24 maggio 2014

Requiem dal sottosuolo




Lettera43.it

301: questo è il numero delle vittime della tragedia avvenuta in miniera. Siamo a Soma, in Turchia. E il popolo si mobilita, si alza il livello di rabbia contro il governo di Erdogan accusato di non aver garantito norme di sicurezza adeguate in nome del guadagno perchè, a seguito della privatizzazione della miniera, il costo di una tonnellata di carbone è sceso a 24 dollari - contro i precedenti 130 - e tutto sulla pelle dei lavoratori. E allora anche Smirne, Ankara, Istanbul si uniscono a Soma, alle famiglie dei minatori, tutti cittadini che non accettano di barattare le proprie vite e quelle dei propri cari in nome di una modernità che arricchisce pochi e potenti e annienta gli altri. La risposta della polizia è stata dura: i manifestanti sono stati caricati con gas lacrimogeni, proiettili di gomma e cannoni ad acqua.
I dirigenti della società privata, la Soma Komur, che gestiva l'impianto avevano tentato una difesa, affermando di non essere stati negligenti perchè gli impianti erano a norma e controllati: ma a distanza di pochi giorni, sono partiti i primi arresti. Circa venti persone, tra dirigenti e responsabili tecnici, e per tre di loro l'accusa provvisoria è di omicidio plurimo colposo.
Abbiamo già affrontato tante, troppe volte, il tema delle morti sul lavoro: con il film di Costanza Quatriglio dal titolo Con il fiato sospeso, con il romanzo La fabbrica del panico di Stefano Valenti, con il pezzo sugli operai cinesi che persero la vita nel rogo di Prato e altre situazioni che abbiamo riportato, di volta in volta, nei nostri articoli o attraverso le parole, i ricordi, le testimonianze di chi ci ha rilasciato le interviste.
In ogni parte del mondo le regole spietate del capitalismo mietono vittime, rubano le esistenze di donne, uomini, spesso anche bambini. Non è mai sufficiente continuare a ripetere che le regole del mercato vanno cambiate, che non ci possono più essere persone di serie A e persone di serie B e che ricominciare dall'etica e dall'umanità sarebbe l'arricchimento più grande.


venerdì 23 maggio 2014

Falcone, Borsellino e l'amore della signora Agnese






Era il 23 maggio 1992 quando un bomba fece saltare in aria l'auto su cui viaggiavano il giudice Giovanni Falcone, sua moglie, Francesca Morvillo, e i ragazzi della scorta. Dopo poche setimane, il 19 luglio, il destino era segnato anche per il giudice Paolo Borsellino e altri poliziotti che cercavano di proteggerlo.



Il nostro impegno deve essere costante nel ricordare il sacrificio di tutti coloro che hanno lottato contro la crminialità organizzata – ciascuno a suo modo – perchè queste persone hanno lottato anche per noi. Il loro impegno, quindi, deve essere anche il nostro per ripristinare la cultura della legalità, dell'onestà e della giustizia.



Ecco, quindi, che vogliamo onorare la memoria di Borsellino e di sua moglie, la Signora Agnese Piraino Leto che ci ha lasciati da poco, suggerendo la lettura del libro Ti racconterò tutte le storie che potrò, scritto dal giornalista Salvo Palazzolo con la signora Agnese, edito da Feltrinelli. Un testo importante e intimo che racconta l'etica di un uomo, ma anche l'amore di una coppia e il calore di una famiglia.

 



Abbiamo rivolto alcune domande a Salvo Palazzolo che ringraziamo di cuore per averci concesso l'intervista.


Perchè la signora Leto Borsellino ha deciso di regalare ai lettori una storia così personale?


La signora Agnese sapeva di avere un terribile male, sapeva di non avere più molti giorni da vivere. Eppure, non rinunciava a partecipare alla vita del paese. E si arrabbiava quando sentiva che i magistrati di Palermo e Caltanissetta erano minacciati con delle pesanti lettere anonime. “Non arrivano dalle celle dei mafiosi – mi disse il giorno in cui ci incontrammo, nel febbraio dell’anno scorso – ma da uomini infedeli delle istituzioni”. Ecco perché Agnese aveva deciso di scrivere, per accendere i riflettori su una situazione drammatica: “Quelle minacce puntano a creare un clima di tensione – mi disse ancora - è lo stesso clima che ho vissuto prima della morte di Paolo”. Così, iniziò il suo racconto, “il racconto delle tante vite che ho vissuto” ripeteva lei: “E’ un racconto che dovrà dare forza e speranza, perché non si ripeta più l’incubo delle stragi mafiose”.


Un romanzo, un saggio, una denuncia. Come sono stati gli anni successivi a quel tragico 19 luglio 1992?


Per Agnese Borsellino sono stati anni di grande impegno civile, per chiedere verità sui delitti di mafia rimasti impuniti. Diceva: “La verità appartiene a tutti gli italiani, ecco perché non possono essere solo i magistrati a cercarla”. Dopo quel drammatico 1992, tanto si è fatto per arrivare alla verità, ma tanto è stato ostacolato, proprio sulla morte di Paolo Borsellino e dei suoi agenti di scorta: non sappiamo ancora chi ha messo in atto quel terribile depistaggio del falso pentito Scarantino, di certo un depistaggio istituzionale che nasconde ancora alcuni degli autori della strage di via d’Amelio.


La signora parla apertamente di una telefonata di Francesco Cossiga in cui si fa riferimento ad un colpo di Stato: ci può spiegare meglio quel momento e il senso di quella telefonata?


E’ uno dei misteri che Francesco Cossiga si è portato nella tomba. Se lo chiedeva anche Agnese, e l’ha scritto nel libro: “Cosa volesse dirmi esattamente con quelle parole non lo so”. E ha aggiunto: “Però, la voce di Cossiga non la dimenticherò mai: via d’Amelio è stata da colpo di Stato, così disse. Evidentemente, voleva togliersi un peso. Dunque, qualcuno sa”. Scrive proprio così la signora Borsellino: “Qualcuno ha sempre saputo, e non parla. È un silenzio diventato assordante da quando i magistrati di Caltanissetta e di Palermo hanno scoperto ciò che Paolo aveva capito: in quella terribile estate del 1992 c’era un dialogo fra la mafia e lo Stato. Ma ancora non sappiamo in che termini, e soprattutto non conosciamo tutti i protagonisti”.


Lucia, Manfredi e Fiammetta sono i figli della signora Agnese e di Paolo Borsellino: quale il rapporto con un padre diventato, suo malgrado, un eroe civile?

Loro portano nel cuore e nella mente il ricordo di un papà premuroso, sensibile, un papà giocherellone, che amava raccontare storie sempre divertenti. Nel suo libro, Agnese ha voluto lasciarci il ritratto di una famiglia normale, che ha saputo sempre trovare dentro di sé la forza di reagire ai momenti difficili: all’inizio degli anni Ottanta, Paolo Borsellino aveva iniziato la sua vita blindata, per istruire con Giovanni Falcone e con gli altri colleghi del pool il primo maxiprocesso alle cosche. Erano gli anni in cui Cosa nostra avviava la grande mattanza a Palermo. Paolo Borsellino trovava una grande forza proprio nella sua famiglia.



Qual è l'appello che la signora Leto Borsellino ha voluto lanciare con questo libro?


Agnese ha lasciato a tutti noi un incarico importante: quello di raccontare le storie della nostra terra. Storie, come quella di Paolo Borsellino, che ha fronteggiato l’organizzazione Cosa nostra sforzandosi innanzitutto di capire le ragioni del fenomeno, che è così subdolo per le sue complicità all’interno delle istituzioni e della società civile. Agnese ci invita a raccontare le tante storie di ribellione e riscatto che ci sono nelle nostre città, storie spesso sconosciute o dimenticate. Credo che questo ci abbia voluto dire lasciandoci un grande racconto di speranza.