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venerdì 14 marzo 2014

Felice chi è diverso: il documentario di Amelio sull'omosessualità



Paolo Poli e Ninetto Davoli sono i pochi personaggi famosi che rendono la loro testimonianza nel documentario di Gianni Amelio, dal titolo Felice chi è diverso, presentato in anteprima a Milano lo scorso 8 marzo al cinema Mexico e passato alla scorsa edizione del Festival di Berlino. Gli altri protagonisti sono persone comuni, di tutta Italia e di varia estrazione sociale: persone che si raccontano come omosessuali, come coppie, come amanti nel senso di “coloro che amano”.

L'originalità del film consiste nel parlare di “diversità” attraverso il vissuto di persone anziane e di frammezzare il racconto con spezzoni di altri film celebri, cinegiornali e pagine di riviste scandalistiche anni'50, come Lo specchio o Il borghese, che rimarcavano pregiudizi e stereotipi spesso offensivi. Anche nel documentario di Amelio non si usano termini politically correct, quali omosessuale o gay, ma si sentono pronunciare parole come: “finocchio”, “invertito”, “femminiello”. A volte per biasimarne l'utilizzo, ma più spesso per sdoganarlo, per rivendicare l'orgoglio di amare chi si vuole e di vivere le stesse emozioni e gli stessi sentimenti di tutti.

Certo, le persone intervistate parlano di clandestinità, di umiliazione, di derisione, di emarginazione: raccontano di aver vissuto in periodi storici in cui era davvero difficile fare coming out, ma siamo sicuri che, oggi, ci sia più libertà, che la diversità (soprattutto dell'orientamento sessuale) sia accettata ?

Una coppia di signori torinesi accenna alla necessità di estendere i diritti di base ad ogni tipo di famiglia; nel film le persone intervistate sono in maggioranza di genere maschile e restano sullo sfondo le coppie formate dalle donne: qualcosa, forse, nella società sta cambiando, ma se è necessario un documentario per approfondire e riflettere sull'argomento, vuol dire che c'è ancora tanta strada da fare.

Diventa necessario, il lavoro del regista calabrese, perchè racconta il percorso culturale di un secolo di Storia italiana, dalla caccia alle streghe durante il periodo fascista ai giorni nostri; perchè è un buon manifesto contro l'omofobia ancora imperante, nonostante alcuni passi avanti fatti dalle istituzioni e dai cittadini; e perchè propone la capacità di vivere l'amore, tra persone dello stesso sesso, con equilibrio, con gioia e con rispetto. E, di questi tempi, non è poco.
 
 
 

martedì 10 dicembre 2013

I diritti (negati) ai bambini rom e sinti


Oggi, in occasione della giornata mondiale dei diritti umani, pensiamo che sia importante parlare dei rom e dei sinti, comunità che, troppo spesso e più di altre, sono vittime di discriminazioni e di stereotipi negativi. E ne parliamo facendo riferimento al rapporto intitolato “Mia madre era rom” stilato dall'Associazione 21 luglio in cui si è analizzato il fenomeno delle adozioni dei minori rom nella Regione Lazio e, soprattutto, nella capitale dove i rom e i loro figli vivono in gravi condizioni igieniche e abitative, condizioni che sono la conseguenza delle politiche (e di una mentalità) orientate all'esclusione sociale.
Secondo il rapporto, un bambino rom ha 40 probabilità, rispetto ad un suo coetaneo “gagi”, di essere dichiarato adottabile e, quindi, di essere allontanato dalla propria famiglia d'origine. Perchè? Perchè i giudici, i Pubblici Ministeri, gli assistenti sociali spesso imputano - per mancanza di conoscenze e per pregiudizi radicati - alla stessa cultura rom (o sinti) e alla volontà dei genitori, il degrado ambientale e culturale in cui vivono bambini e adolescenti.
In quest'ottica risulta semplice far adottare un minore rom ad una famiglia non rom per ripristinare, forzatamente, i diritti del minore stesso, ma l'Associazione 21 luglio fotografa, con le seguenti parole, questa modalità di intervento da parte delle istituzioni: “Segregando i rom su base etnica nei cosiddetti 'campi nomadi'...le istituzioni locali prima condannano le comunità rom a vivere in situazioni di totale degrado e all'esclusione sociale, lavorativa e abitativa. E poi sottraggono loro i propri figli per proteggerli dal rischio di vivere in quel contesto inadeguato alla fruizione dei diritti dell'infanzia che gli stessi amministratori hanno creato”.
Ricordiamo, inoltre, che secondo una stima recente, in Italia sono presenti circa 170 mila rom e sinti: solo 35 mila vivono in insediamenti formali e informali; più della metà hanno la cittadinanza italiana e un lavoro; molti ancora, provenendo dalla Romania e dalla Bulgaria, sono cittadini comunitari. Nonostante questi dati, in base anche a molti studi di monitoraggio sull'uso dei termini e degli aggettivi da parte degli organi di informazione (ma anche nell'uso comune) le parole “zingaro” o “rom” sono ancora associate a opinioni dispregiative.

Per approfondire questi e altri temi, vi segnaliamo il seguente evento:

CONTAINER 158

Mercoledì 11 dicembre alle ore 20, presso l’Auditorium San Fedele di Milano – via Hoepli 3/b.

L’evento è organizzato da Amnesty International Italia, Associazione 21 luglio e Zalab.

L’evento, che sarà introdotto e moderato dal
giornalista Gad Lerner, prevede la proiezione in prima italiana di “Container 158”, il film documentario di Stefano Liberti e Enrico Parenti che racconta la vita nel campo rom più grande d’Europa. A seguire una Tavola rotonda dal titolo “Figli dei campi: habitat marginali e diritti rubati” alla quale parteciperà l’Assessore alla Sicurezza e Coesione Sociale del Comune di Milano Marco Granelli e rappresentanti delle associazioni.
Nel corso della serata l’Associazione 21 luglio presenterà il nuovo rapporto “
Figli dei campi” sulla condizione dell’infanzia rom negli insediamenti formali e informali in Italia.




venerdì 22 novembre 2013

Apparteniamo tutti allo stesso genere



Lo scorso marzo Adan è stata uccisa in Honduras, a luglio Natalia è stata uccisa in Brasile; Islan a New York in agosto e Dwayne non c'è più a causa di un colpo di pistola, Questi solo alcuni nomi delle mille e cento persone vittime della transfobia, un termine coniato da poco tempo e che indica non solo la “paura” generata (chissà perchè) da chi cambia sesso, ma una vero e proprio odio nei confronti dei transgender, un odio che nasce da stereotipi negativi - transessualità = prostituzione, ad esempio - e che produce pregiudizi che sfociano troppo spesso nella violenza.
Ogni anno, il 20 di novembre, si celebra nel mondo il Tdor, Transgender day of remembrance: un'occasione per ricordare tutti coloro che hanno salutato la propria identità di nascita per acquisirne un'altra, quella che sentivano come più appropriata e vera; un'identità fisica più vicina al loro sentire psichico. E, per questa scelta, hanno pagato il prezzo più alto, per l'incapacità di molti ad accettare il cambiamento e la diversità e per la rigidità dei ruoli sociali.
Domenica scorsa, 17 novembre 2013, a Roma si è tenuto un sit-in a Piazza del Popolo, dinanzi ad una chiesa: alla Chiesa degli artisti. Probabilmente un luogo simbolico perchè le istituzioni statali, ma anche la Chiesa cattolica, così presente sul territorio italiano, devono prendersi cura e tutelare i diritti e la vita di tutti. Il sit-in è stato organizzato dall'associazione Libellula e, tra le varie inizitive, è stato approfondito il tema delle relazioni affettive e familiari delle persone trans. Che siano “trans” non è importante, tutti apparteniamo al genere umano.

Dalla transfobia all'omofobia. In un periodo in cui, purtroppo accadono molti episodi di cronaca legati anche alla paura e all'odio nei confronti delle persone omosessuali, arriva un piccolo segnale positivo, che va in una direzione di rispetto e di obiettività: nei giorni scorsi, il Tribunale per i minorenni dell'Emilia-Romagna ha affidato una bambina ad una coppia di uomini. Di mezza età, i due signori convivono stabilmente da sei anni e hanno compiuto tutti i test e i percorsi valutativi previsti dalla normativa.


Nella legislazione nazionale (che risale al 1983) viene sottolineato che “ l'affido temporaneo non è preordinato all'adozione, ma al benessere del minore” e viene, inoltre, indicata come famiglia affidataria, o nucleo affidatario, un nucleo in cui sono presenti madre e padre o persone singole, senza una precisazione in merito all'orientamento sessuale degli affidatari. E' importante, invece, che vengano effettuate tutte le valutazioni delle motivazioni, delle competenze e delle loro capacità genitoriali. Sempre nella normativa, non vi è nemmeno un richiamo al vincolo del matrimonio come requisito necessario, a differenza di quello che viene sancito dall'articolo 29 della Costituzione.
La decisione del Tribunale di Bologna dell'affidamento temporaneo della bambina di tre anni alla coppia di omosessuali - che conoscono la bimba da tempo e che hanno sempre avuto con lei un rapporto di affetto - si fonda su una precedente pronuncia della Corte di Cassazione del gennaio 2013, nella quale la Corte ha stabilito che la credenza diffusa “che sia dannoso per l’equilibrato sviluppo del bambino il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale” rappresenti un pregiudizio . Il giudice, infatti, nella sentenza, ha scritto: “ ...Si rivela la sussitenza di una situazione di fatto paragonabile al contesto familiare sotto il profilo accuditivo e di tutela del minore...Il fatto che i componenti del nucleo abbiano il medesimo sesso non può considerarsi ostativo all'affidamento di un minore. Ciò anche tenuto conto che in assenza di certezze scientifiche o dati di esperienza costituisce mero pregiudizio la convinzione che sia dannoso per lo sviluppo del bambino il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale”.

venerdì 26 luglio 2013

Un libro, una storia vera, un ricongiungimento





Somalia, 1991: è guerra civile. Mahad, come molti altri compaesani, perde tutto ed è costretto a scappare. Mahad ha una figlia, Murayo, affetta da tubercolosi intestinale e, nel '94, riesce a portarla all'ospedale militare italiano di Johar dove la bambina verrà curata, ma Mahad non può portarla con sé nella fuga dal conflitto, sarebbe troppo rischioso: la lascia, quindi, in ospedale dopo aver scattato un paio di fotografie.
Ma il tempo passa: il contingente militare deve ritirarsi e Murayo deve essere portata presso l'orfanotrofio di Mogadiscio. Il soldato italiano a cui è dato il compito di accompagnarla, però, cambia programma e il destino della piccola. La porta, infatti, con sé in Sicilia e decide di adottarla.
Murayo cresce in serenità, ma nella convinzione di aver perso i legami con la famiglia d'origine, fino a quando, dopo quattordici anni, durante una puntata della trasmissione televisiva “Chi l'ha visto?” viene fatto passare l'appello di un magro signore somalo, rifugiato nel campo profughi di Dadaab, in Kenya, dal quale ha continuato a scrivere all' ONU, alla Croce Rossa e ad altri enti per ritrovare sua figlia.
Murayo oggi ha 26 anni, è in procinto di laurearsi ed è riuscita a riabbracciare Mahad e sua sorella (la madre, nel frattempo, si è spenta). E nella puntata della trasmissione di Rai3 del 26 giugno scorso sono state trasmesse le immagini forti, emozionanti, intense di quel lungo, atteso e significativo abbraccio tra la giovane donna e il padre naturale.
Questa è la storia di Murayo e dei suoi due padri: quello africano e quello italiano. Una storia raccontata nel libro intitolato “Solo le montagne non si incontrano mai”, di Laura Boldrini, edito da Rizzoli.
Presidente della Camera, Laura Boldrini è stata a lungo portavoce ONU per i rifugiati e aveva fatto una promessa a Murayo: “Farò in modo che tu possa riabbracciare tuo padre”: il percorso, raccontato con grande partecipazione nel testo, è stato lungo e difficile. Un percorso geografico, ma soprattutto emozionale e psicologico, che ha coinvolto la ragazza, ma anche le sue due figure di riferimento maschili: una padre adottivo che accoglie e ha la capacità di capire l'esigenza della figlia di ricongiungersi con le proprie radici e la propria identità e un padre naturale che la affida ad un' altra guida, di un'altra cultura, regalandole un Futuro migliore del loro Passato.
La vicenda di Murayo, infine, è l'occasione di parlare dei profughi e delle loro condizioni, con realismo; è l'opportunità di raccontare un popolo al di là degli stereotipi; ma, in particolare, è un esempio di amore. Quell'amore incondizionato e profondo che ha permesso a una bambina, in difficoltà e in pericolo, di diventare una donna.

sabato 23 febbraio 2013

Morire di nostalgia a 14 anni (e un film come dedica)


Habtamu Scacchi aveva solo 14 anni. Era di origini etiopi ed era stato adottato da due coniugi italiani che lo amavano moltissimo.
L'altro ieri si è tolto la vita, impiccandosi.
Era residente a Paderno Dugnano e il suo corpo è stato ritrovato in un campo di Biassono, abbastanza vicino al luogo in cui viveva e studiava.
Ma in precedenza si era già allontanato da casa: un anno fa si trovava in villeggiatura sul lago D'Orta, nel novarese, e da lì era scappato, portando con sé una cartina geografica, e agli agenti che lo avevano fermato, per poi ricondurlo dai suoi genitori, aveva detto di provare una forte nostalgia e di desiderare di rivedere i familiari rimasti in Etiopia.
Il 15 febbraio scorso il ragazzino si era allontanato di nuovo dalla cittadina di residenza, senza documenti né telefono cellulare, e i genitori avevano subito dato l'allarme perchè preoccupati da un biglietto lasciato dal figlio. Sul foglio di carta, infatti, Habtamu aveva scritto: “Non ce la faccio più a vivere in Italia, voglio morire”. E così, purtroppo, è stato.
Un adolescente che, oltre alle inquietudini proprie dell'età, portava dentro di sé il peso dello strappo dalle proprie origini e dai propri affetti e, probabilmente, anche il disagio – non ancora risolto – di una doppia appartenenza, di una doppia identità.

Ad Habtamu vogliamo dedicare la recensione del romanzo e dell'omonimo film Vai e vivrai di Radhu Mihaileanu (editi entrambi da Feltrinelli). Nei film e in letteratura, spesso, c'è il lieto fine; nella realtà, altrettanto spesso, purtroppo, no.

VAI e VIVRAI di Radhu Mihailenau



Tra il 1984 e il 1985, migliaia di africani aspettano di essere imbarcati sugli aerei per essere portati in salvo in Israele. Sì, perchè quegli africani sono ebrei etiopi, i falasha.
Molti di loro non riescono, per vari motivi, a scappare dalla carestia e rimangono al campo profughi in Sudan e, quasi sicuramente, andranno comunque incontro alla morte, per fame, per sete, per malattia. Proprio per evitare questo, una madre cristiana spinge il proprio bambino verso un'altra donna, affidandoglielo e chiedendole di portalo con sé in Terra Santa, come un falasha. Il bambino dovrà abbandonare il proprio vero nome – si farà chiamare Schlomo – la propria religione, il proprio Passato.
Una volta giunto in Israele , dove viene adottato da una famiglia di ebrei illuminati, la sua esistenza non sarà facile: ogni successiva conquista avverrà a seguito di dolore e di sofferenza perchè è un bambino nero in una società di bianchi, una società complessa caratterizzata dal razzismo tra ebrei askenaziti e sefarditi, un conflitto – questo – che si va ad aggiungere a quello con i palestinesi.
Lo stesso Mihaileanu, nato da una famiglia di ebrei rumeni, è dovuto scappare dal regime di Ceausescu e ora vive a Parigi e, dopo il successo di Train de Vie, ha proposto la storia dei falasha, una storia poco conosciuta, ma molto interessante. Nel caso degli ebrei etiopi, infatti, è la prima volta nella storia dell'umanità, secondo l'opinione del regista, che dichiararsi ebrei può servire per salvarsi la vita, anche se sempre a caro prezzo.
Lo stile del racconto cinematografico (ma anche il libro è altrettanto profondo) mescola il documentarismo con l'epopea per scandagliare gli stati d'animo del protagonista che viene seguito in tutte le tappe della vita. Il titolo originale della pellicola, infatti, è Va, vis, deviens: Va, vivi e diventa. Schlomo è un bambino, poi un adolescente e poi un giovane uomo e, nel corso degli anni, porta sempre dentro di sé la nostalgia per la propria terra, per la propria cultura, per la propria madre che cerca nel cielo, guardando le fasi della luna.
Il film e il romanzo riportano un testo universale, quindi: si parla della ricerca di equilibrio tra due identità diverse; si parla della ricchezza potenziale che due appartenenze veicolano; e si parla di maternità: Schlomo si confronta con tre madri. La madre biologica, quella adottiva (importantissima la scena in cui la donna lecca il viso del figlio per dimostrare ai genitori razzisti dei compagni di scuola che essere neri non significa avere qualche malattia) e Sara, la donna che lo farà diventare padre.
Ma, soprattutto, la Mamma Africa: quella che ha generato lui e tutti quelli come lui, quella terra e quella cultura che gli ha dato i tratti somatici e la fierezza, i moti dell'anima e il suo Passato. Per andare incontro al futuro, e a una nuova vita, Schlomo dovrà fare ritorno alle proprie radici,  camminare a piedi nudi, come in pellegrinaggio, sulla terra arida del proprio Paese per riabbracciare colei da cui tutto è partito.