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martedì 2 settembre 2014

Egitto: direttori di Human Rights Watch respinti all'aeroporto



 

Human Rights Watch (HRW) ha denunciato che al suo direttore esecutivo Kenneth Roth e alla direttrice del Medio Oriente Sarah Leah Whitson è stato vietato di entrare in Egitto, dove avrebbero dovuto riferire sulla sanguinosa repressione dei sostenitori del presidente islamista Mohamed Morsi, avvenuta il 14 agosto del 2013: il visto è stato negato per motivi di sicurezza”. Ma Kenneth Roth aveva scritto il giorno prima in un tweet “Il risultato del massacro di Rabaa è paragonabile a quello di Piazza Tiananmen in Cina e a quello di Andijan, in Uzbekistan”. Non ci sono ancora numeri certi ma le stime più attendibili parlano di 1.400 uccisi tra i sostenitori dei Fratelli Musulmani nei raduni di Rabaa al-Nahda Adawiya, e di oltre 16.000 imprigionati molti dei quali condannati a morte in processi di massa definiti dalle Nazioni Unite come “senza precedenti nella storia recente”.

venerdì 22 agosto 2014

Su carceri e tortura



Ringraziamo Patrizio Gonnella che ci permette di pubblicare questo suo testo già uscito sul suo blog di Micromega.



Nel 1948 è stata firmata solennemente da tutti gli Stati la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo L’articolo 5 afferma che: «Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o punizioni crudeli, inumani o degradanti». Il termine ricompare all’articolo 3 delle quattro convenzioni di Ginevra del 1949 sul trattamento dei prigionieri di guerra, cuore del diritto umanitario post-bellico. Il divieto è assoluto essendo assoluta la intangibilità della dignità umana.
Assolutezza ribadita dal Patto sui diritti civili e politici del 1966 delle Nazioni Unite il cui articolo 7 afferma che: «nessuno può essere sottoposto alla tortura, né a punizioni o trattamenti crudeli o degradanti, in particolare, nessuno può essere sottoposto, senza il suo libero consenso, a un esperimento medico e scientifico». Il successivo articolo 10 a sua volta afferma che: «Tutte le persone private della libertà devono essere trattate umanamente e con il rispetto dovuto alla dignità inerente all’essere umano».
Nel 1975 sempre in sede Onu viene promulgata la Dichiarazione sulla protezione di tutte le persone contro la tortura e altri trattamenti crudeli, inumani o degradanti. All’articolo 2 si afferma perentoriamente che tutti gli atti di tortura costituiscono una offesa alla dignità umana. All’articolo 7 gli Stati membri dell’Onu sono invitati a prevedere al loro interno il delitto specifico di tortura. Una Dichiarazione nel diritto internazionale, però, è un atto privo di effetti vincolanti. Implica per gli Stati solo una doverosità morale.
Nel 1984 viene adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite la Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti inumani, crudeli o degradanti. In questo caso la Convenzione, essendo un Trattato, vincola chi vi aderisce. E questo Trattato vincola ben 151 Paesi, quasi tutto il globo. L’articolo 1 della Convenzione del 1984 così definisce la tortura: «Ai fini della presente Convenzione, il termine ‘tortura’ designa qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze derivanti unicamente da sanzioni legittime, ad esse inerenti o da esse provocate».
La tortura così come definita in sede Onu si compone dei seguenti quattro elementi: l’inflizione di una acuta sofferenza fisica e/o psichica, la responsabilità diretta di un funzionario dell’apparato pubblico, la non liceità della sanzione, la intenzionalità. E’ questa l’unica definizione di tortura universalmente riconosciuta.
Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dà vita negli anni 1993 e 1994 al Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia (TPIJ) e al Tribunale penale internazionale per il Ruanda (TPIR). Il contributo delle Corti ad hoc è stato comunque significativo per segnare la universalità della proibizione della tortura e la sua cogenza. La norma che vieta la tortura è ritenuta disposizione di natura consuetudinaria con radici lontane nel tempo e diffuse nello spazio. Nel caso Furundzija il TPIJ, proprio partendo dalla considerazione che la proibizione della tortura fosse norma di ius cogens, è giunto a sostenere una responsabilità diretta dello Stato nel caso di mancato adeguamento interno agli obblighi punitivi internazionalmente imposti.
Nel 1998 a Roma viene firmato lo Statuto della Corte Penale Internazionale. Vincola gli Stati che ratificano il relativo Trattato internazionale. Non più quindi una Corte ad hoc nata per giudicare crimini avvenuti in un dato contesto geografico prima della nascita della Corte stessa, bensì un tribunale permanente posto a protezione giudiziaria universale dei diritti umani. Tra i crimini contro l’umanità che la Corte deve perseguire vi è la tortura. Nel dicembre del 2002 viene elaborato e posto alla firma degli Stati il Protocollo Opzionale alla Convenzione Onu contro la tortura che prevede un meccanismo
universale di controllo dei luoghi di detenzione.

Anche l’Europa vieta la tortura. La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà del 1950 all’articolo 3 afferma perentoriamente che: «nessuno può essere sottoposto a tortura o a pene o trattamenti inumani o degradanti». Il successivo articolo 15 sancisce che tale norma non trova eccezione neanche in caso di guerra. (Brani tratti da un mio libro del 2012, La tortura in Italia, ed. Derive Approdi).

In Italia la tortura non è ancora un reato. È inaccettabile, grave, vergognoso. La Camera sta discutendo un testo pieno di contraddizioni approvato dal Senato. In autunno andremo sotto il giudizio del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite. Chissà se per allora ci sarà uno scatto di reni delle forze politiche democratiche nel nome della dignità.




Lo Stato risponde della tortura dei suoi ufficiali se non ha il divieto nella sua legislazione.
Nel 1998 a Roma viene firmato lo Statuto della Corte Penale Internazionale. Vincola gli Stati che ratificano il relativo Trattato internazionale. Non più quindi una Corte ad hoc nata per giudicare crimini avvenuti in un dato contesto geografico prima della nascita della Corte stessa, bensì un tribunale permanente posto a protezione giudiziaria universale dei diritti umani. Tra i crimini contro l’umanità che la Corte deve perseguire vi è la tortura. Nel dicembre del 2002 viene elaborato e posto alla firma degli Stati il Protocollo Opzionale alla Convenzione Onu contro la tortura che prevede un meccanismo universale di controllo dei luoghi di detenzione.

Anche l’Europa vieta la tortura. La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà del 1950 all’articolo 3 afferma perentoriamente che: «nessuno può essere sottoposto a tortura o a pene o trattamenti inumani o degradanti». Il successivo articolo 15 sancisce che tale norma non trova eccezione neanche in caso di guerra. (Brani tratti da un mio libro del 2012, La tortura in Italia, ed. Derive Approdi).
In Italia la tortura non è ancora un reato. È inaccettabile, grave, vergognoso. La Camera sta discutendo un testo pieno di contraddizioni approvato dal Senato. In autunno andremo sotto il giudizio del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite. Chissà se per allora ci sarà uno scatto di reni delle forze politiche democratiche nel nome della dignità.






giovedì 7 agosto 2014

Convenzione per l'istituzione della Corte penale internazionale e altro



Cari lettori, su www.change.org è possibile firmare la petizione (e la lettera) che potete leggere qui di seguito. Noi dell'Associazione per i Diritti Umani lo abbiamo fatto. Fatela girare, grazie.


Gentile Presidente Renzi,

nel Suo discorso post primarie del dicembre 2013 Lei ha ricordato le tragedie del Rwanda e di Srebrenica. Ne fui colpito, positivamente, perché  finalmente un politico italiano dava importanza a quei fatti sempre lasciati ai margini delle cronache. Ma ricordare quelle tragedie ha delle conseguenze, quale il riconoscere il valore della giustizia. Per noi italiani, la giustizia internazionale è davvero molto importante. È stato il nostro Paese, nel 1998, a ospitare la convenzione per l'istituzione della Corte penale internazionale. In quell'occasione fu ribadito che nulla, neppure durante una guerra, può giustificare l'uccisione deliberata o indiscriminata di civili. Anche per questo motivo, credo Lei debba impegnarsi per riaffermare la giustizia internazionale. Le chiedo quindi se ha intenzione di convocare i rappresentanti diplomatici di Israele, Palestina e Siria, e chieder loro cosa stanno facendo per portare di fronte alla giustizia i responsabili di bombardamenti che hanno causato la morte di donne, bambini, malati. E, in mancanza di risposte convincenti, Le chiedo se è disposto a trarne le conseguenze politiche, cioè a protestare con decisione, richiamando – laddove ci sono – i nostri ambasciatori ed espellendo i rappresentanti di Paesi che non intendono perseguire i responsabili di crimini odiosi come l'uccisione di bambini. Può darsi che Lei non sia d'accordo, può darsi che, come tanti rappresentanti del governo italiano che l'hanno preceduta, Lei ritenga che la diplomazia debba muoversi in altri modi. Nel caso, però, La pregherei di evitare in futuro di riferirsi ancora alle vicende del Rwanda e di Srebrenica. Perché prima di condannare il solito immobilismo delle Nazioni Unite, credo sarebbe opportuno pensare alle proprie responsabilità.

1. Daniele Scaglione, scrittore

2. Ascanio Celestini, attore

3. Luca Leone, scrittore

4. Laura Caputo, giornalista

5. Maria Cecilia Castagna, editore

6. Laura Silvia Battaglia, giornalista

7. Isa Ferraguti, già senatrice X Legislatura

8. Enzo Barnabà, scrittore

9. Nadia Ravioli, cittadina

10. Silvia Gaiba, architetto del Ministero Beni Culturali e Ambientali

11. Rocco Cipriano, grafico

12. Marco Mainardi, giornalista

13. Gioacchino Allasia, maestro di Shiatsu e Craniosacrale

14. Michela Iorio, giornalista

15. Roberto Di Giovanbattista, operatore culturale

16. Sandro Ferri, editore

17. Silvia Fabbi, giornalista

18. Stefano Landucci, consigliere comunale di Pisa

19. Maria Frega, sociologa

20. Massimo Ceresa, scrittore

21. Françoise Kankindi, presidente di Bene Rwanda

22. Maurizio Dell’Orso, promotore culturale

23. Stefania Sarallo, giornalista

24. Ada Scalchi, ex sindaco di Albano Laziale (RM)

25. Silvia Cavicchioli, storica

26. Edoardo Montenegro, blogger

27. Giovanni Verga, giornalista

28. Elisabetta Falcioni, editor

29. Matteo Pagliani, cooperante

30. Marina Scaglione, insegnante


A:
Matteo Renzi, Presidente del Consiglio


Palestina, Rwanda, Srebrenica: appello per la giustizia internazionale

Gentile Presidente Renzi,

nel Suo discorso post primarie del dicembre 2013 Lei ha ricordato le tragedie del Rwanda e di Srebrenica. Ne fui colpito, positivamente, perché finalmente un politico italiano dava importanza a quei fatti sempre lasciati ai margini delle cronache. Ma ricordare quelle tragedie ha delle...

Palestina, Rwanda, Srebrenica: appello per la giustizia internazionale

Gentile Presidente Renzi,

nel Suo discorso post primarie del dicembre 2013 Lei ha ricordato le tragedie del Rwanda e di Srebrenica. Ne fui colpito, positivamente, perché finalmente un politico italiano dava importanza a quei fatti sempre lasciati ai margini delle cronache. Ma ricordare quelle tragedie ha delle conseguenze, quale il riconoscere il valore della giustizia. Per noi italiani, la giustizia internazionale è davvero molto importante. È stato il nostro Paese, nel 1998, a ospitare la convenzione per l'istituzione della Corte penale internazionale. In quell'occasione fu ribadito che nulla, neppure durante una guerra, può giustificare l'uccisione deliberata o indiscriminata di civili. Anche per questo motivo, credo Lei debba impegnarsi per riaffermare la giustizia internazionale. Le chiedo quindi se ha intenzione di convocare i rappresentanti diplomatici di Israele, Palestina e Siria, e chieder loro cosa stanno facendo per portare di fronte alla giustizia i responsabili di bombardamenti che hanno causato la morte di donne, bambini, malati. E, in mancanza di risposte convincenti, Le chiedo se è disposto a trarne le conseguenze politiche, cioè a protestare con decisione, richiamando – laddove ci sono – i nostri ambasciatori ed espellendo i rappresentanti di Paesi che non intendono perseguire i responsabili di crimini odiosi come l'uccisione di bambini. Può darsi che Lei non sia d'accordo, può darsi che, come tanti rappresentanti del governo italiano che l'hanno preceduta, Lei ritenga che la diplomazia debba muoversi in altri modi. Nel caso, però, La pregherei di evitare in futuro di riferirsi ancora alle vicende del Rwanda e di Srebrenica. Perché prima di condannare il solito immobilismo delle Nazioni Unite, credo sarebbe opportuno pensare alle proprie responsabilità.


Cordiali saluti,
[Il tuo nome]

sabato 27 aprile 2013

Iraq dieci anni dopo




Laura Silvia Battaglia lavora per la redazione esteri del quotidiano Avvenire. Come freelance collabora con il settimanale Terre di Mezzo, con l’agenzia Redattore Sociale, con i network radiofonici Radio Popolare e Radio In Blu, e con RAI News. È caporedattore del sito www.assaman.info, rivolto ai migranti senegalesi. Da alcuni anni si dedica al reportage in zone di confine e di conflitto etnico o religioso (Libano, Israele e Palestina, Gaza, Afghanistan, Kosovo, Serbia), e cerca di raccontare l’altro attraverso la scrittura, i suoni, le immagini. Il suo ultimo documentario si intitola Unknown Iraq: Il 20 marzo 2003 gli Stati Uniti occupavano l’Iraq con l’operazione militare “Iraqi Freedom”. Da allora sono passati dieci anni. Dieci anni di guerra in nome del terrorismo e della democrazia. Dieci anni di odio e di caos. Oggi l’Iraq è il quinto Paese più corrotto al mondo ed è il più corrotto in assoluto in Medio Oriente.
Il documentario andrà in onda questa sera, sabato 27 aprile 2013, alle 00.45 per “Agenda del Mondo”, TG3.


Abbiamo rivolto alcune domande a Laura Silvia Battaglia


Quando si è recata in Iraq e come si è mossa all'interno del Paese?

Mi sono recata in Iraq in tre riprese diverse prima su Baghdad, poi su Bassora, poi sul Kurdistan iracheno e sempre via aerea. Questo per superare sia i problemi di sicurezza legati ai viaggi di lunga percorrenza su strada, sia per aggirare problemi di visto. Di fatto l'Iraq non è più un unico Paese ma una federazione dove la mano sinistra non sa quel che fa la destra. Un visto rilasciato da una regione, da un governatorato del Sud, ad esempio, non può valere per la capitale o per il Nord. Il Kurdistan, poi, è uno Stato nello Stato. Per quanto riguarda i movimenti su strada, ci sono diverse precauzioni di sicurezza da prendere. Baghdad certamente ha dei livelli di pericolosità maggiori, a causa degli attacchi bomba frequenti ma soprattutto a causa  di possibili ceck points delle milizie. Gli occidentali possono essere degli ottimi target per rapimenti, riscatti, rappresaglie. Muoversi in taxi è decisamente pericoloso. Però, se vivi con le persone del posto, se non alloggi nella Green zone di Baghdad, se ti rechi al mercato come un cittadino qualunque - nel mio caso il mio volto e il modo in cui mi abbiglio mi aiutano nell'impresa - muoversi senza essere un target, nei limiti di quello che anche il destino ha scelto per te, è possibile.

Quali categorie di persone ha intervistato? Ad esempio, persone comuni, artisti, intellettuali e qual è il sentimento comune a dieci anni dal conflitto?

Ho intervistato solo persone comuni, posto che ho parlato anche con politici locali e con un ministro ma il loro punto di vista mi è servito per comprendere altri livelli di ragionamento legati ad interessi di parte, da parte appunto di chi governa. Ci sono due sentimenti prevalenti: la disfatta e la revanche. La disfatta è comune nelle persone che superano i 50 anni, unita alla convinzione che mai, mai più, l'Iraq tornerà ad essere ciò che era stato prima dei tempi di Saddam: un Paese modello di cultura e di sviluppo nell'area del Mashreq con la migliore università del Medio Oriente. Il secondo sentimento prevalente è la revanche, molto comune e diffusa tra i giovani ventenni. Ragazzi a cui non è stato possibile avere un'infanzia, una famiglia, un passato e che non possono sopportare l'idea di non potersi giocare il futuro. Si battono per la pace, per un lavoro, l'istruzione, la salute: tutti diritti garantiti nella forma dalla costituzione  ma nella sostanza ancora negati.

Chi si sta occupando della ricostruzione del Paese e in che modo?

Le cause di tutto questo vanno ricercate in un binomio esplosivo: i 13 anni di sanzioni a cui il Paese è stato sottoposto dalle Nazioni Unite, dopo l'invasione del Kuwait, da una parte; dall'altra la più grande operazione di state-building mai registrata prima, e in atto dal 2003. Un insieme di azioni militari, umanitarie ed economiche che costa agli americani 65 miliardi di dollari l'anno e di cui usufruiscono esclusivamente le élite al potere. Soldi che vengono settimanalmente volatilizzati dentro la Banca Centrale Irachena in oscure operazioni all'estero.Tra gli ultimi programmi di sviluppo, l'Unido ha lanciato il Teirq10006, per lo sviluppo della zona industriale di Baghdad. A questo progetto, che ha la benedizione di nove rappresentanti del governo iracheno, tra cui il Ministro dell'Industria e Minerali e 11 rappresentanti di organizzazioni internazionali, partecipa l'Italia come Paese donatore. Obiettivo: creare una Road Map industriale intorno a Baghdad che possa rappresentare un modello per lo sviluppo di altre zone industriali in tutto l'Iraq, da Bassora ad al-Anbar, passando per Erbil. Per rendere operativo il progetto, Unido chiede una definizione necessaria dei confini della zona industriale, un assetto giuridico che eviti gli effetti di free-low zones, un controllo sul territorio nazionale e non municipale, la privatizzazione sostanziale delle attività, la razionalizzazione e l'assicurazione delle risorse primarie per l'area industriale, specie acqua ed energia elettrica. In questo progetto non si fa menzione delle necessità dei civili iracheni.

Quanto sarebbe importante attivare campagne per favorire l'istruzione dei giovani e magari anche delle donne?

Non "sarebbe" importante ma "è" importante. Il punto non è attivare le campagne, cosa che è già stata fatta. Il punto è fare in modo che vengano promosse, accettate, spinte dai forum sociali locali. Dopo questo passo, che ha tra le sue più importanti sostenitrici donne, attiviste e sindacaliste del calibro di Hanaa Edwar, coordinatrice dell'ong irachena Al Amal, è necessario che il governo recepisca questo tipo di imput. Può un governo che si dice democratico consentire ancora il delitto d'onore o accettare, per tradizione, il matrimonio di minori intorno ai 12-13 anni d'età? E' quello che succede ancora in alcune zone del Paese.

Il mondo italiano dell'informazione si è un po' dimenticato dell'Iraq e delle conseguenze della guerra e della rivoluzione?

L'informazione sugli esteri in Italia è una sconosciuta, oggi più che mai. Probabilmente è colpa dell'assenza di una vera politica di Esteri, dovuta al nostro passato poco o per nulla coloniale, a cui si agiunge oggi la crisi dei media e del mercato editoriale. Eppure siamo un Paese chiave nel Mediterraneo e gli italiani sono attori preziosi in contesti di dialogo e mediazione. Riguardo all'Iraq, il fatto, ad esempio, che in questi ultimi 4 giorni ci siano stati 200 morti in scontri settari, e che non si sia nemmeno scritta una breve; o che nell'agosto del 2012 siano state impiccate 21 persone in un solo, stesso giorno senza un giusto processo e sia uscito solo un trafiletto nelle ultime pagine di 3 quotidiani, continua a confermare una triste verità: di Iraq non si parla perché l'Iraq è l'unica, vera, grande riserva di petrolio a cielo aperto nel Medio Oriente e perché sono molti i giacimenti ancora non sfruttati. Secondo il ministro del Petrolio iracheno, infatti, nel 2014 la produzione dovrebbe raggiungere quota 6,5 milioni di barili al giorno, più del doppio della attuale cifra di 2,7. E le previsioni più ottimistiche parlano di 12 milioni di barili per il 2017, quasi cinque volte la produzione attuale come sostiene lo scenario energetico profilato per il 2030 dalla British Petroleum. Perché dunque parlare (male) di un Paese nel quale si continuano a fare affari d'oro?

Può anticipare chi è Usama Al – Samarai, che lei ha intervistato, e commentare le sue parole?

Usama Al Samarrai è il figlio di Ahmed Al Samarrai, il presidente del Comitato Olimpico Nazionale Iracheno rapito a Baghdad il 15 luglio del 2006 in un incontro pubblico, insieme ad altri 24 membri del Comitato. Alcuni rapiti sono stati rilasciati dopo qualche tempo. Ma Usama non ha mai più avuto notizie del padre. Nessuno, a distanza di sette anni, sa se è vivo o morto. 
Niran, la moglie del presidente rapito, ha parlato dopo sei anni. Nel libro “A homeland kidnapped” denuncia l’inefficienza del nuovo governo iracheno, il silenzio della comunità internazionale, e ipotizza questo scenario: il marito ha pagato la sua equidistanza da qualsiasi partito e il suo amore per il Paese al di là delle divisioni settarie sull'altare delle nuove elité al potere. Di questo crimine, secondo la vedova e il figlio "sono responsabili figure attualmente al Governo”. Da parte mia aggiungo, semplicemente, che è molto strano non attivare nessun tipo di inchiesta o di interrogazione parlamentare o di indagine di fronte al rapimento di ben 24 persone da parte di un commando armato che ha fatto irruzione in una sala conferenze pubblica a Baghdad. E' come se in Italia 20 persone irrompessero armate durante una riunione di Confindustria, intimando ai cameraman presenti di spegnere le telecamere prima dell'azione e rapissero 24 delegati. Provate solo a immaginarlo. Non chiedersi il perché, non attivare nessuna azione di contrasto, non interrogare i rilasciati, insabbiare tutto nel silenzio, a livello locale e internazionale, equivarrebbe inevitabilmente a rendersene complici.



UNKNOWN IRAQ TRAILER from Laura Silvia Battaglia


Laura Silvia Battaglia





sabato 13 aprile 2013

Una poesia (una denuncia, uno sfogo) di Paul Polansky, insignito, nel 2004, del premio Human Rights Award

Paul Polansky, giornalista, poeta, scrittore, fotografo e antropologo, ma anche x pugile e giocatore di football americano. Scappa dalla guerra in Vietnam e arriva in Spagna e girerà l'Europa, seguendo le sue radici vichinghe: agli inizi degli anni '90 inizia un percorso di ricerca sulle origini della propria famiglia che porterà alla luce l'esistenza del campo di concentramento di Lety, in Repubblica Ceca; nel 1999 viene ingaggiato dalle Nazioni Unite e inviato in Kosovo come mediatore tra le istituzioni e i rom perseguitati e continuerà a lottare affinché i rom, cacciati dagli estremisti albanesi, possano uscire dai campi profughi, costruiti su terreni inquinati dal piombo e altri metalli pesanti; nel 2004, Gunther Grass gli consegna il premio Human Rights Award.
Attualmente Paul Polansky vive a Nish, in Serbia dove prosegue la sua attività nella difesa dei diritti umani anche attraverso lo strumento audiovisivo: il suo ultimo documentario, Gipsy Blood, è visibile su you tube ed è stato premiato al Golden Wheel International Film Festival di Skopje. 
Paul Polansky ci ha regalato la poesia (uno sfogo, una denuncia) che pubblichiamo qui di seguito.





WHY
PERCHE’


Why
PERCHE’
In the 21st century
Nel 21mo secolo
Has the German govt
Il governo tedesco
Invested
Ha investito
½ million euros
½ milione di euro
In a Gypsy camp
In un campo di zingari
Built on toxic wasteland
Costruito su un’area abbandonata tossica
Where everyone is being
Dove tutti muoiono avvelenati?
poisoned?



Why
Perchè
In the 21st century
Nel 21mo secolo
Has the German govt
Il governo tedesco
Deported from Deutschland
Ha espulso dalla Germania
Kosovo Gypsies
Zingari kosovari
Who end up
Che sono finiti
In this camp
In questo campo
Where every child is born
Dove tutti i bambini sono nati
With irreversible brain damage…
Con danni cerebrali irreversibili
If they live.
E non si sa se sopravviveranno




Why
Perchè
In the 21st century
Nel 21mo secolo
Has the German govt
Il governo tedesco
And their implementing partner
E il suo socio
The United Nations
Le Nazioni Unite
Ignored pleas---
Hanno ignorato la supplica
Yes, pleas for ten years---
Sì, per dieci anni hanno ignorato la supplica
From the World Health Organization
Dell’Organizzazione Mondiale della Sanità
To immediately evacuate and medically treat
Di evacuare e curare immediatamente
Children and pregnant women
Bambini e donne in stato interessante
The most vulnerable
I più vulnerabili
Who have the highest lead levels
Quelli che hanno i più alti livelli di acetato di piombo
In medical literature?
Nella letteratura medica?


Why
Perchè
In the 21st century
Nel 21mo secolo
Has the German govt
Il governo tedesco
Become involved in a camp
Si è trovato coinvolto in un campo


Where almost 90 Gypsies have died
Dove circa 90 zingari sono morti

Where the lead poisoning has caused
Dove il veleno dell’acetato di piombo ha causato
Hundreds of miscarriages?
centinaia di aborti?




Why
PERCHE’
In the 21st century
Nel 21mo secolo
Has the German govt
Il governo tedesco
Ignored the pleas---
Ha ignorato la supplica
Yes, the pleas----
Sì, la supplica
Of the European Council’s
Della Commissione Europea
Commissioner for Human Rights
per I Diritti Umani
Begging Germany
Che pregava la Germania
Only Germany
Solo la Germania
Not to deport anymore Gypsies
Di non espellere più gli zingari
Back to Kosovo
E deportarli in Kosovo
Where they might
Dove avrebbero potuto
end up
Finire
In this deadly camp?
In questo campo di morte?




Why
PERCHE’
In the 21st century
Nel 21mo secolo
Has the German govt
Il governo tedesco
Turned a blind eye
Non ha voluto vedere
To the documentary films
I documentari
Made about this lead-poisoned camp
Riguardanti questo campo avvelenato con il piombo
By the BBC,
girati dalla BBC
Norwegian TV, French TV,
dalla TV norvegese, da quella francese
Australian TV
Dalla TV australiana
And even German TV?
E perfino da quella tedesca?




Why
PERCHE’
In the 21st century
Nel 21mo secolo
Is the German govt---
Il governo tedesco
This time an elected
Un governo regolarmente eletto
And supposedly democratic govt---
E presumibilmente un governo democratico
Targeting Gypsies
Prende di mira gli zingari
Threatening Gypsies
Li minaccia
Transporting Gypsies
Li deporta
Once again
Ancora una volta
Against their will
Contro la loro volontà
To a camp
In un campo
That newspapers & magazines
Che quotidiani e riviste
World-wide
Di tutto il mondo
Have called
Hanno definito
A “death” camp?
Un campo di morte?



WHY? WHY? WHY?
PERCHE’? PERCHE’? PERCHE’?




Paul Polansky
Paul Polansky




(Traduzione a cura di EsseBi)



E' da poco uscito nelle libreria italiane anche l'ultimo romanzo di Paul Polansky, dal titolo Il pianto degli zingari, Volo Press edizioni.
Danica studia a Monaco ed è brava: forse diventerà un'insegnante o forse una dottoressa. Ma una mattina d'inverno deve abbandonare tutto: casa, scuola, amici e futuro per salire su un aereo diretto a Pristina, insieme ad altri rom come lei.
Ritorna l'incubo sepolto dieci anni prima quando suo padre aveva gridato “Avna o nemcoja”: “Arrivano i tedeschi!”: era il giugno del 1999, ma quelle parole riportavano alla mente i ricordi del nonno e della seconda guerra mondiale, con le sue atrocità. Nel '99, invece, erano stati i vicini di casa albanesi a cacciare di casa lei (che all'epoca aveva sette anni) e la sua famiglia.
Danica adesso è più adulta e più consapevole e si chiede: ma non sono tedesca? Studio in Germania, ho vinto anche una borsa di studio, ho creato dei legami...Un racconto in versi, il punto di vista di un'adolescente per parlare di dignità umana, di rispetto, di cittadinanza, di inclusione, con una sensibilità e un'attenzione particolare alla tutela dei diritti dei minori.

 
Paul Polansky






venerdì 25 gennaio 2013

Ferite a morte: il teatro per riflettere sulla violenza contro le donne

La violenza sulle donne è divenato, purtroppo, un fenomeno vastissimo all'estero (come in Messico, ad esempio) e anche in Italia, come conferma la cronaca quotidiana.
Maura Misiti - demografa al Cnr - sostiene che nel nostro Paese: " nonostante il lavoro dell'Istat sulla violenza femminile, è impossibile sapere quante donne vengano realmente uccise in quanto donne, perchè l'unica fonte che abbiamo sono solo le notizie di conaca. una base assolutamente non scientifica...Non c'è ancora un'aggravante specifica e le istituzioni, come le forze dell'ordine, non sono abbastanza sensibilizzate sul tema". 
Le Nazioni Unite hanno ripreso l'Italia, stigmatizzando proprio l'indifferenza istituzionale al fenomeno. E il Comitato CEDAW ha stilato un rapporto in cui si registra la scarsa attenzione ai centri antiviolenza che operano sul territorio, il persistere di una rappresentazione stereotipata e svilente delle donne e un'informazione che racconta in maniera obsoleta e superficiale la violenza che subiscono.

Dallo scorso mese di novembre - con debutto a Palermo - Serena Dandini porta sulla scena dei teatri italiani  uno spettacolo intitolato Ferite a morte, scritto proprio in collaborazione con la Dott.ssa Maura Misiti e che diventerà un libro, edito da Rizzoli.
Mogli, ex fidanzate, compagne, amanti che non ci sono più, raccontano la propria storia attraverso le voci di alcune di altre donne: scrittrici, giornaliste, donne dello spettacolo e della politica. Angela Finocchiaro, Lella Costa, Geppi Cuccciari, Lorella zanardo, Concita De Gregorio, per citarne solo alcune. 
La violenza sulle donne - ha spiegato la Dandini - "è un fenomeno trasversale che colpisce non solo il sud, ma anche il nord, la borghesia e i ceti medi, la destra e la sinistra. Anche gli uomini devono fare un'esame di coscienza perchè solo insieme ne potremo uscire".
Per questo, un altro importante obiettivo che si pone lo spettacolo, è quello di fare una campagna di sensibilizzazione sull'argomento anche nelle scuole.
Per chi volesse seguire lo spettacolo, aderire all'iniziativa, avere altre informazioni: si può consultare anche il sito dell'associazione Noi no : www.noino.org

Oppure si può aderire alla Convenzione "NO MORE!".