
"...Non si potrà avere un globo pulito se gli uomini sporchi restano impuniti. E' un ideale che agli scettici potrà sembrare utopico, ma è su ideali come questo che la civiltà umana ha finora progredito (per quello che poteva). Morte le ideologie che hanno funestato il Novecento, la realizzazione di una giustizia più giusta distribuita agli abitanti di questa Terra è un sogno al quale vale la pena dedicare il nostro stato di veglia".
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venerdì 8 maggio 2015
Gli ospedali psichiatrici giudiziari, in graphic novel
Per Antonio, 25 anni, quell'edificio fortificato nella prima periferia della sua città è sempre stato, semplicemente, "il manicomio". La scoperta di quello che avviene dentro quelle mura, le vite delle persone (gli internati, ma non solo) che lì dentro passano la maggior parte delle loro giornate, e la scoperta di tutte le tensioni e i conflitti che gli si muovono intorno, lo porterà a trasformare la sua paura iniziale in una consapevolezza necessaria, ma non sempre piacevole.
Abbiamo rivolto alcune domande a Antonio Recupero che ringraziamo.
Il libro nasce da una sua esperienza personale: ce ne vuole parlare?
Quando mi sono laureato avevo 25 anni, e facevo parte di uno degli ultimi scaglioni tenuti alla leva obbligatoria. Come moltissima altra gente, senza particolari spinte ideologiche, optai per il servizio civile sostitutivo, considerandola una alternativa “comoda”. Riuscii ad essere assegnato presso un circolo ARCI della mia città, Barcellona Pozzo di Gotto, alle cui attività partecipavo abitualmente. Come scoprii, questo non mi dava diritto a nessun trattamento di favore (per fortuna, dico ora). Tra le varie attività in cui venne richiesto il mio impegno, ci fu quella della risocializzazione di alcuni gruppi di internati dell’OPG locale. Io a malapena sapevo cosa era un OPG, e nell’accezione comune lo si definiva abitualmente “il manicomio”. E’ ovvio quindi che la cosa mi spaventò non poco all’inizio. Ma la conoscenza della realtà dell’OPG, e degli internati come uomini vivi, pensanti, con fantasie, desideri e pulsioni che i farmaci riuscivano a malapena a mascherare e mai a sopprimere, mi ha fatto cambiare prospettiva molto in fretta. Le loro storie, anche se spesso terribili, erano affascinanti, e meritavano di andare oltre le mura e le sbarre che li contenevano.
Quali sono le condizioni, all'interno dell'OPG, sia per gli internati sia per gli operatori?
Gli OPG, come la galera, sono istituzioni totalizzanti, al di là delle loro finalità. Chi ci è costretto, ma anche chi ci lavora, si ritrova a vivere in una realtà assoluta e distante anni luce da quella che consideriamo abitualmente “la società civile”. Per alcuni internati, la privazione della libertà è quanto di più antiterapeutico possa esserci, e credo di poter dire questo sulla scorta di quanto emerso negli anni: valutazioni di pericolosità sociale rilasciate con leggerezza e in maniera preventiva e presuntiva hanno di fatto condannato ad un ergastolo bianco decine, se non centinaia, di persone che avrebbero potuto condurre vite normali con l’aiuto delle giuste terapie e con sostegno specialistico, e che invece hanno avuto la sorte di commettere un reato, spesso lieve, per via di una situazione di alterazione psichica. E se la malattia mentale (che una volta giuridicamente, comportava la c.d. incapacità di intendere e di volere, e quindi la non punibilità) diventa un motivo di colpa in sè e comporta pene più severe del normale, è evidente che vi è di fondo una aberrazione sia giuridica che umana. Chi si trova a lavorare a contatto con gli internati, che per primi patiscono questa situazione aberrante, rischia, come provato scientificamente, di sviluppare a sua volta situazioni di alterazione psicologica, stress e ansie, che si risolvono a volte in situazioni di abuso, a volte invece in una empatica incondizionata e acritica. E difficilmente si riesce a concepire, in entrambi i casi una nuova vita fuori dall’istituzione, per quanto intensamente la si desideri.
Quali segni ha lasciato, dentro di lei, quell'esperienza?
Sicuramente una maggiore consapevolezza di un fenomeno che è stato per troppo tempo ignorato per questioni di comodo, o peggio strumentalizzato da varie parti politiche. Proprio per questo ho voluto concentrarmi sulle persone, sul lato umano della questione, tralasciato con troppa frequenza.
Quali sarebbero le attività di risocializzazione dedicate ai ricoverati? E risultano efficaci?
Intanto qualunque esperienza possa ridurre il senso di emarginazione e di coercizione è sicuramente utile. Parlare agli internati, portarli fuori dalle mura in cui si sentono costretti, concedergli qualche “fuga” se vogliamo metterla così. E in ogni caso la prima attività di risocializzazione e di terapia per gli internati è sempre il lavoro, perché è l’elemento che permette alle persone di costruire qualcosa nella loro vita, e di entrare in una fase “progettuale” della loro vita privata e sociale.
Parliamo anche dei disegni di Jacopo Vecchio che accompagnano i testi e della scelta di unire immagini e parole…
Con Jacopo si è creata subito una buona sintonia sulla storia, e ha saputo centrare immediatamente le fisicità di molti personaggi, associandoli perfettamente al loro carattere e, in alcuni casi, alla patologia che si portavano appresso. Nei primi studi aveva lavorato con uno stile molto complesso, fortemente caratterizzato, per poi invece scegliere di personalizzarlo di più, lavorando in sottrazione e arrivando ad una sintesi più efficace e meno appariscente. Nelle scene in cui appaiono gli internati, la linea chiara lascia spazio a delle sfumature di grigio che vanno ad accrescere la profondità delle scene. Il risultato è sotto gli occhi del lettore, che viene catturato immediatamente anche a livello visivo nei punti in cui il focus narrativo è più intenso. La scelta del fumetto ha permesso di raccontare questa realtà particolare con un approccio diverso, e il talento di Jacopo ha valorizzato particolarmente questa scelta.
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martedì 31 marzo 2015
Chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari
L’Unione Camere Penali Italiane (Ucpi) e l’Osservatorio Carcere Ucpi denunciano “l’assoluta assenza d’informazione rispetto alla chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg), prevista per oggi, 31 marzo 2015. Mancano solo pochi giorni e molte Regioni – si legge in una nota dei penalisti – non hanno ancora individuato o attrezzato le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems) e non è stata rivalutata la pericolosità sociale degli internati, al fine di determinare la loro futura destinazione”. Lo scorso 16 marzo l’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali ha visitato l’Opg di Montelupo Fiorentino e nella nota divulgata si legge: “... Vengano commissariate le Asl inadempienti e punita la responsabilità di coloro che non hanno reso possibile nei tempi programmati, nonostante i numerosi rinvii, l’applicazione concreta della riforma”.
Capiremo, quindi, quale sarà la decisione del governo e ne daremo notizia.
Intanto l'Associazione per i Diritti Umani vi propone il video dell'incontro con Gigi Gherzi: l'attore ha letto e recitato alcuni brani tratti dal suo nuovo libro intitolato Atlante della città fragile.
Un testo composto dalle storie di tante persone diverse per età, estrazione, professione, ma accomunate tutte da quella fragilità mentale che può colpire chiunque, per molti motivi. Una fragilità spesso condannata, punita, peggiorata da pratiche mediche inadeguate o dall'insensibilità di tanti.
Ringraziamo Gigi Gherzi per questo regalo.
Vi ricordiamo che i nostri video sono diponibili anche sul canale Youtube dell'Associazione per i Diritti Umani e che organizziamo incontri con gli autori anche nelle scuole medie/superiori e in università. Se interessati, scrivete a: peridirittiumani@gmail.com
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martedì 28 ottobre 2014
Atlante della città fragile: intervista a Gigi Gherzi
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“Riprendi a viaggiare!”, si dice il protagonista. Dove? Nelle strade della tua città! A far che? A dare voce a un malessere, a un brusio che suona confuso, indistinto. Viaggiare per incontrare vite, ascoltarle, sentirle prendere forma all’interno del cuore della città. Vite fragili, dappertutto. Vite che tessono un altro disegno, mappa, atlante della città, percorsi che portano a un luogo straordinario, il parco del più grande ex ospedale psichiatrico della città, dove tra alberi, panchine, musei degli orrori, appaiono infermieri specializzati nello scassinare porte da troppo tempo chiuse, segretarie innamorate della bellezza e dei giovani spettinati, receptionist in guerra coi mondi ambigui e spietati della prestazione e della performance, un ragazzo tornado bloccatosi di colpo che riprende a camminare. Tutti accompagnati e benedetti dall’antichissimo Zio Jodok. Poesia, canto lirico, storia autobiografica, pericolose avventure, strazi sottili, confessioni e canzoni per una vita che rinasce. Ogni giorno. Nell’attenzione alla “fragilità”, che è misura necessaria e preziosa del vivere.
Abbiamo realizzato, per voi, questa intervista a Gigi Gherzi che ringraziamo molto per la disponibilità.
Cosa vuol dire essere “fragili”?
Essere fragili, in realtà, è qualcosa che appartiene profondamente all'umano. E' una condizione di esposizione, di rischio che è stata vista, ultimamente come un disvalore, come un segno di debolezza, come un segno di fallimento e di inadeguatezza rispetto agli impegni e all'immagine che la società ti chiede di avere e questo ha creato molta sofferenza perchè, invece di consolidare la fragilità anche come un atto costitutivo della perona, è considerata una colpa, un peccato di cui vergognarsi. Tutto questo trasforma la fragilità in patologia, in un senso di fallimento psicologico.
I protagonisti delle sue storie sono vittima di un'ingiustizia sociale? Le istituzioni potrebbero fare qualcosa di più per le persone che fanno parte della “città fragile”?
Non sono
vittime di un'ingiustizia sociale specifica, sono quello che rimane
quando si scuote fortemente un corpo sociale per cercare di renderlo
omogeneo e rimane qualcosa impigliato dentro a quelle reti e sono
proprio quelle persone che non hanno voluto omologarsi.
Non c'è
nessun intento di denunciare una persecuzione specifica, ma si
denuncia semmai quel meccanismo che appiattisce la diversità
dell'essere umani e si cerca, invece, un'attenzione alle potenzialità
delle persone e alle loro particolarità. In questo senso tutti
viviamo in una situazione di ingiustizia, di disagio; tutti siamo
fuori dai nostri panni perchè spesso siamo chiamati a preformances
che non appartengono alla nostra vita.
In
passato era molto più facile individuare i portatori di fragilità
estreme e c'era una forte suddivisione tra loro e il mondo della
normalità; oggi, invece, se si parla con molti psichiatri dicono che
la maggior parte dei pazienti viene chiamata “normaloide” perchè
sono si tratta di persone che sembrano assolutamente normali, ma al
loro interno portano i segni di un enorme disagio, segni legati alla
complessità dei problemi attuali e a quel sistema sociale che chiede
massima operatività e omologazione. La nostra non è una società
che rispetta la fragilità, è una società della forza, della
violenza che è presente nelle relazioni, soprattutto in quelle
lavorative perchè è un modello competitivo.
Oggi il
disagio mentale fa paura?
Sì, fa
molta paura. Fa paura perchè porta con sé lo stigma di una condanna
al non poter essere protagonisti, al non poter fare carriera e al non
poter essere socialmente presentabili.
Per
questi motivi, oggi, c'è un uso nuovamente smodato dello
psicofarmaco, come farmaco adattativo che tampona o nasconde questa
realtà. Secondo me, è un disagio molto diverso dal passato perchè
anche la malattia sembra aver preso contorni più insidiosi e sfumati
in quanto si incrocia con un disagio legato all'esistenza stessa.
Come ha
raccolto le storie per il suo libro (e per lo spettacolo)?
Le
storie sono state raccontate in due modi: da una parte, cercavo
persone appartenenti a una certa normalità e che testimoniassero la
loro capacità ad essere fragili all'interno di questo mondo come, ad
esempio, una ragazza che fa uno stage all'interno di un'agenzia
pubblicitaria, una professoressa precaria, e anche un manager di
multinazionale. Questo per uscire da un'idea di fragilità di coloro
che dichiaratamente soffrono di un disturbo, vanno al CPS o hanno
subito un trattamento o un ricovero. Dall'altra parte, ho
intervistato persone che vivono o lavorano all'interno dell'ex
ospedale psichiatrico “Paolo Pini” di Milano dove l'associazione
Olinda, da tanto tempo, lavora sui diritti dei malati, sperimentando
percorsi di reinserimento dentro a una normalità professionale,
relazionale e anche di creatività culturale.
Si
tratta, però, di un romanzo per cui mi sono preso tutta la libertà
di incrociare le storie e, nel passaggio dall'intervista alla tecnica
narrativa, ho dovuto operare dei “tradimenti”, ma per mantenere
la verità.
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venerdì 18 aprile 2014
Lo Stato della follia
Vincitore
del Premio “Ilaria Alpi”, nel 2013 e di molti altri
riconoscimenti in Festival nazionali, il documentario Lo
Stato della follia, del
regista Francesco Cordio, apre le porte di alcuni ospedali
psichiatrici giudiziari (OPG) italiani per denunciare le condizioni
in cui versano le persone in essi detenute. Ma non solo: l'indagine
si interroga anche sui motivi per cui alcuni vengono internati e
troppo a lungo, sulle modalità di analisi delle loro condizioni
psichiatriche, sul rapporto, del tutto burocratico, tra medici,
magistrati e pazienti.
Abbiamo
fatto, per voi, un'intervista a Francesco Cordio che ringraziamo
molto per il tempo che ci ha voluto dedicare.
Il
progetto nasce da una sua esperienza negli OPG a seguito dei lavori
della Commissione parlamentare, commissione presieduta dal Senatore
Ignazio Marino, sull'efficacia ed efficienza del Servizio sanitario
Nazionale: come sono nati il suo interesse verso questo argomento e
il progetto cinematografico?
Alcuni
Senatori della Commissione d'inchiesta - che è una commissione
straordinaria e non permanente – avevano visto dei miei lavori
precedenti e, quando hanno deciso di andare a documentare in video
quello che succedeva dentro gli ospedali psichiatrici giudiziari, mi
hanno contattato.
Io non
avevo alcuna conoscenza degli OPG e ho accettato un po' senza sapere
dove mi stessero portando, ma dal primo ingresso che ho fatto non ho
potuto fare altro, oltre allo shock, che appassionarmi al tema. Ho,
quindi, chiesto ai Senatori di poter utilizzare quel materiale che
stavo filmando per un loro lavoro interno (che per la prima volta
nella storia della Repubblica è andato agli atti nei lavori della
Commissione) anche un mio lavoro esterno più ampio, che potesse
arrivare a un pubblico più vasto. La cosa mi è stata riconosciuta
per cui, negli anni successivi, ho continuato ad occuparmi di questo
tema e ho avuto la fortuna di di conoscere l'attore Luigi Rigoni che,
invece, ha avuto la sfortuna di finire in un ospedale psichiatrico
giudiziario, quello di Aversa, e ho deciso di far raccontare a lui la
sua disavventura. Questo suo racconto si intreccia alle immagini che
ho filmato dentro gli ospedali.
Il
titolo del film può essere anche un gioco di parole: come può, lo
Stato, ripristinare una psichiatria più democratica, che garantisca
i diritti di base alle persone internate?
Ho
optato per mettere nel titolo la “S” maiuscola perchè la cosa
più assurda e paradossale è che sia lo Stato a rappresentare la
parte folle: se devono essere curate delle persone che commettono un
reato in uno stato di incapacità di intendere e di volere e, invece,
vengono mandate ad ammalarsi o a peggiorare la propria situazione,
allora vuol dire che è lo Stato ad essere folle.
Il
percorso più opportuno da seguire, secondo me, potrebbe esserci
suggerito dalla Spagna dove la persona incapace di intendere e di
volere che compie un reato non può essere internata per un tempo più
lungo della durata della pena di una persona che è in possesso delle
proprie facoltà e che ha commesso un reato.
Qual è
il nesso tra crimine e follia? E come mettere in pratica misure di
sicurezza adeguate, tenendo conto della sentenza n. 139 della Corte
Costituzionale del 1982 secondo la quale la pericolosità sociale
“non può essere definita come un attributo naturale di quella
persona o di quella malattia”?
E'
fondamentale una valutazione psichiatrica più adeguata
e,soprattutto, il percorso all'interno delle strutture ospedaliere
deve avere una maggiore assistenza psichiatrica.
Se noi
calcoliamo che dentro un OPG la visita dura in media 32 minuti...vuol
dire che si è completamente abbandonati.
E'
importante che gli psichiatri facciano valutazioni più appropriate
nella fase della perizia ed è importante che, poi, i magistrati
decidano confrontandosi di persona con gli psichiatri e con le
persone che stanno per mandare in OPG perchè, spesso, magistrati e
medici si relazionano tra loro solo tramite fax. E' tutto un fatto di
carte e di burocrazia, ma in questo modo si gioca con la vita di
persone deboli, indifese, che a volte non hanno una famiglia che le
aspetta fuori. In questo senso lo Stato è molto colpevole.
Le
misure di sicurezza risalgono ad un codice antico, al codice Rocco, e
vengono comminate nel momento in cui la persona, incapace di
intendere e di volere, compie un reato: se è minimo, la misura di
sicurezza consta in due anni di internamento e, durante questo
periodo, la Sanità nazionale dovrebbe curare l'internato per far
scemare la sua pericolosità sociale. Se, al termine della misura di
sicurezza, la nuova perizia stabilisce che la persona è ancora
pericolosa, si può decidere per una eventuale proroga. E si arriva a
20,30 anni o ai famosi “ergastoli bianchi”.
Ci può
riportare le voci di qualche persona rinchiusa, ad esempio, a
Montelupo Fiorentino, a Reggio Emilia o ad Aversa, per citare solo
poche strutture?
Tra le
tante testimonianze che ho registrato, quella che più mi ha colpito
è quella di un ragazzo internato a Reggio Emilia che, con grande
lucidità, dice una frase: “ L'Uomo è un animale che può
abituarsi a tutto, ma qua viene messo a dura prova”. Dopo qualche
mese il ragazzo ha deciso di togliersi la vita.
Nei
titoli di coda scrivo che il film è dedicato a lui e a tutti coloro
che non ce l'hanno fatta.
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domenica 23 marzo 2014
Cercere e dintorni e lo sportello migranti
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giovedì 14 marzo 2013
Brutte e buone notizie dall'ambito carcerario
Il 31
marzo 2013 chiuderanno i sei ospedali psichiatrici giudiziari (Opg)
presenti sul territorio italiano. 800 malati mentali saranno a
rischio di cure e questo è un fatto piuttosto grave perchè, come
spiega Claudio Mencacci - Presidente della Sip, Società Italiana di
Psichiatria – circa il 10% delle persone che presentano disturbi
sono pericolosi e potrebbero creare qualche problema di sicurezza; il
rischio è molto basso, ma non si può escludere del tutto che
possano reiterare i reati.
Gli Opg
chiudono in base al disegno di legge n. 9/2012, voluto dai Ministeri
della Salute e della Giustizia e le conseguenze potrebbero essere
negative a causa della mancanza di strutture alternative, della
mancata gradualità, di una proroga o di interventi che garantiscano
la sicurezza dei pazienti, degli operatori e della comunità; la Sip
denuncia, inoltre, la carenza di cure psichiatriche nei penitenziari
dove confluiranno molti dei malati mentali. In Italia sono tra le
1000 e le 1500 persone internate negli Opg e, ad oggi, non sono
ancora pronte le 20 strutture che dovrebbero sostituire gli ospedali
psichiatrici giudiziari.
![]() |
Virgilio De Mattos |
Per
accompagnare questo percorso, ancora confuso, è arrivato nel nostro
Paese, Virgilio De Mattos ,docente dell'Università di Belo
Horizonte, in Brasile che nel suo libro intitolato Una
via d'uscita,
edizioni Alphabeta, riporta l'esperienza del PAJ-PJ-TJMG, “Programma
di attenzione integrale” che si basa, principalmente, sul concetto
di “prevenzione”: i pazienti, aiutati dai familiari e dal
personale specializzato, affrontano il proprio caso e ne indicano la
soluzione attraverso l'azione giuridica, sociale e clinica.
I
malati di mente autori di reato, infatti, vengono riconosciuti
responsabili del reato, ma non vengono isolati in un carcere; possono
circolare liberamente nelle strutture adibite per poter affrontare le
cure necessarie e per poter relazionarsi meglio e lavorare sul
problema; tutti i cittadini devono essere sottoposti a un giudizio
penale con tutte le garanzie previste dal codice, con la possibilità
di essere sottoposti ad un processo con il contraddittorio e la
difesa legale; in caso di condanna, infine, deve essere fissata la
pena con la possibilità - valutando i casi - di detrazione o
progressione del regime di detenzione, la sospensione o la
prescrizione.
Un
ulteriore passo verso il rispetto dei diritti fondamentali anche per
chi ha commesso reato è dato da un progetto in atto dal 1994 presso
il carcere di San Vittore di Milano. Si tratta di uno spazio di
produzione musicale, creato da Alejandro Jarai che, dal sette anni,
ha dato vita al progetto VLP
Sound: la
stanza 17 del 3° Raggio diventa un luogo dove si fa musica tutti i
giorni, con la partecipazione dei detenuti e con la collaborazione di
istituzioni, educatori e associazioni che operano nel settore.
Il
progetto prevedere la realizzazione di CD - distribuiti gratuitamente
- e la realizzazione di concerti e di registrazioni per creare un
ponte tra la realtà interna all'istituto e la realtà esterna. La
“persona” è, infatti, al centro del progetto: i detenuti, grazie
alla musica, imparano di nuovo ad ascoltare. Ascoltano, prima di
tutto, se stessi e poi gli altri; recuperano le proprie emozioni e la
propria umanità; migliorano la relazione con “il diverso da sè”
e con il mondo esterno. La
musica, quindi, come comunicazione, come veicolo di nuovi valori,
come opportunità di crescita e di riscatto.
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