Visualizzazione post con etichetta medici. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta medici. Mostra tutti i post

sabato 17 ottobre 2015

Accesso ai servizi sanitari in Africa

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 



di Veronica Tedeschi




La cartina qui in alto rappresenta l’accesso ai servizi sanitari in tutta l’Africa.


Inutile precisare che la situazione è critica per la maggior parte dei territori africani, soprattutto considerando il confronto con i Paesi europei in cui la percentuale del grafico è del 100% e questo indica che l'accesso è ottimale, o quasi.


Come si può notare, gli Stati che si trovano in condizioni più gravi interessano l’Africa subsahariana: le motivazioni sono molteplici, ma sicuramente le guerre civili che dilaniano questi Paesi non permettono la crescita istituzionale e sanitaria.



I pochi ospedali esistenti sono situati solo nelle grandi città, dove c’è sovraffollamento ed inoltre si presentano come agglomerati molto estesi e privi di qualsiasi struttura.

I medici sono circa 0,8 per mille abitanti e tutte le spese sono a carico dei malati, spesso bambini, donne in gravidanza e anziani.

Anche i farmaci hanno un costo alto e, nella maggior parte dei casi, sono di qualità scadente; altro problema è che molti farmaci provengono dall’Occidente e quindi non sono adatti per le malattie tropicali (uno studio del 1999, infatti, evidenzia che solo 13 dei 1233 farmaci in commercio in Africa sono creati per curare malattie tropicali).

 
 
A tutto questo si aggiunge che il 52% del continente africano non dispone di acqua potabile e il 90% delle malattie viene trasmesso proprio attraverso l'acqua.

Chi ci rimette, naturalmente, è la popolazione civile che, nella maggior parte dei casi, è costretta a scappare e a migrare illegalmente nei territori limitrofi.

 







lunedì 5 ottobre 2015

Se Arianna: una madre e una figlia disabile


 


Un testo delicato, profondo, vero: Anna è la madre di una ragazza con un grave problema cerebrale. Arianna dipende in tutto dalla mamma e da altre persone e questa madre ha deciso di raccontare la quotidianità della figlia e di una famiglia “diversamente normale”. Ogni capitolo del libro intitolato Se Arianna (edito da Giunti) racconta un episodio, un aneddoto che vede protagonista la ragazza e i suoi familiari: difficoltà, gioie, ostacoli e conquiste. Quella di Arianna è una storia che appartiene a tanti, ma non tutti hanno il coraggio di raccontarla al pubblico, anche se hanno la forza di affrontarla.



L'Associazione per i Diritti Umani ha rivolto alcune domande ad Anna Visciani e la ringrazia moltissimo per questo suo contributo.



 

Può raccontarci come si è venuti a sapere del problema di Arianna e quali sono tate le prime reazioni dei suoi familiari?



Nostra figlia Arianna è nata alla 30° settimana, quindi con un’importante prematurità, ma nonostante il suo basso peso alla nascita respirava autonomamente.

In quarta giornata è subentrata un’emorragia cerebrale come spesso accade nei prematuri.

Abbiamo subito capito che ci sarebbero stati problemi se fosse sopravvissuta, ma dato che in questi bimbi le possibilità di recupero sono elevate, abbiamo sperato che il danno subìto dal suo cervello fosse compatibile con una vita parzialmente autonoma.

Ci siamo resi conto della sua gravità con il tempo, constatando che le tappe del normale sviluppo psicomotorio non venivano raggiunte (non riusciva a stare seduta, non gattonava, non faceva i versetti che tutti i piccoli fanno per comunicare).

I nostri famigliari, come noi, a lungo sono rimasti in attesa di qualche miglioramento, sospesi tra la speranza e la preoccupazione.

Con dolore è dunque arrivata la consapevolezza del suo stato di grave deficit ed è iniziato il processo di elaborazione e accettazione di questa nostra nuova condizione.



Come si svolge la comunicazione con Arianna?



La comunicazione con Arianna è molto difficile, perché non parla e ha un problema di distonia dello sguardo, per cui non riesce a fissare un oggetto stabilmente, ma solo per pochi secondi. Questo ha reso complicato qualunque tentativo di interagire con lei attraverso la vista.

I canali preferenziali che utilizziamo con lei sono perciò quello uditivo e quello tattile: con pazienza e modulazione della voce, cercando di attirare la sua attenzione, si cerca di farla partecipare a quello che avviene intorno a lei. Oltre alle stimolazioni sensitive più complesse (suoni e colori associati), coccole e carezze non mancano mai.

Arianna ama molto la musica (abbiamo dedicato un capitolo a questo argomento) che ha il potere di rilassarla e di renderla serena. Con piacere abbiamo scoperto che ha dei gusti musicali molto precisi!!!


La sua famiglia riceve aiuti da parte delle istituzioni? E si può parlare di “solidarietà” da parte, invece, della rete sociale?


Arianna ha un’invalidità del 100% per cui le sono riconosciute la pensione e l’indennità di accompagnamento, essendo impossibilitata a svolgere da sola qualunque attività quotidiana.

Fin da quando era piccola abbiamo sempre avuto una rete di persone per farci dare una mano (in particolare dopo la nascita dei gemelli), ma sono state sempre pagate da noi.

Saltuario l’intervento di soccorso da parte di parenti, amici e vicini e solo nei casi di emergenza.

Non abbiamo mai trovato “volontari” disponibili ad aiutarci, forse perché le persone si spaventano davanti alla grave disabilità di Arianna.

In realtà per quanto riguarda l’inserimento sociale di Arianna siamo stati molto fortunati: ha frequentato la scuola materna con l’ausilio di una persona di supporto esterna (pagata con un sussidio della Provincia di Milano) e poi la scuola elementare con un orario leggermente ridotto, ma affiancata da un insegnante di sostegno del Provveditorato (lo stesso per tutti e cinque gli anni) e nelle ore rimanenti da un assistente del Comune di Milano.

Alla fine di questo percorso è stata inserita nella scuola elementare “speciale” della Fondazione Don Gnocchi dove ha trovato insegnanti davvero preparate e amorevoli. Qui è rimasta fino al compimento dei 18 anni, quando è passata al Centro Diurno della stessa struttura: la figura dell’insegnante è stata sostituita da quella dell’educatore e il numero dei ragazzi accuditi è più alto, ma l’attenzione e la dedizione ricevute sono le stesse.

Arianna riconosce il suo ambiente abituale e dimostra piacere (la sua tranquillità e i suoi sorrisi ne sono la prova) a frequentare il centro, dove ritrova i suoi compagni e le sue persone di riferimento.



Nella presentazione del libro, parla anche di situazioni grottesche...ci può fare un esempio?



Quando abbiamo cominciato a scrivere il nostro libro ci siamo resi conto che qualche volta c’eravamo trovati in situazioni drammatiche parecchio lontane da quello che una persona normale può immaginare. Situazioni paradossali risolte in modo rocambolesco, che a distanza di tempo ci sembrano addirittura grottesche.

Gli episodio più buffi sono legati ai pasti di Arianna preparati al ristorante dell’albergo al mare dove facevamo le vacanze, quando la preparazione della sua pappa frullata passava attraverso molti tentativi ed errori prima di arrivare alla consistenza adeguata (il racconto è fatto dal fratello più piccolo).

Uno degli inconveniente più singolari invece risale a qualche anno fa quando, sempre in vacanza al mare, si staccò (nell’ascensore dell’albergo!) il poggiatesta della sedia a rotelle essendosi tranciate le viti che lo tenevano ancorato allo schienale. Momenti drammatici non solo perché Arianna non aveva modo di stare seduta, ma anche perché non sapevamo come e da chi far aggiustare la sua carrozzina.

Il racconto del papà ben evidenzia lo smarrimento e la sensazione di impotenza di quei momenti, finché non gli venne l’idea di portare la carrozzina dal ciclista del paese: “Mentre Anna continua a tenere in braccio Arianna, con Daniele vado al negozio di biciclette e pedalò in riva al mare: li vendono, li affittano e li riparano, ci sarà pure qualcuno in grado di trovare una soluzione, d’altra parte stiamo pur sempre parlando di un mezzo su ruote senza motore!”

Oggi ripensandoci possiamo persino riderci su.



Che significato ha la parola “dignità”?


Dignità è fornire a un individuo una vita rispettosa della persona, una vita in cui non solo sono soddisfatte le sue esigenze primarie di sopravvivenza, ma sono anche garantiti i diritti per la sua salvaguardia e per il suo inserimento nella società.


mercoledì 9 settembre 2015

Monica Priore si racconta: la malattia, lo sport, la vita









Monica Priore: all’età di 11 anni comincia ad avvicinarsi al mondo sportivo entrando a far parte di una squadra di pallavolo. La sua militanza nella squadra cessa quando nessun medico vuole prendersi la responsabilità di rilasciarle il certificato di idoneità medica di cui necessita. Decide allora di cambiare sport ed inizia a praticare nuoto. Nel febbraio 2004 partecipa al suo primo campionato regionale aggiudicandosi una medaglia di bronzo. Il 23 Aprile 2007 ha ricevuto la targa del CONI di Brindisi la “Forza dello Sport”.

Monica Priore racconta la sua storia nel libro intitolato “Il mio mare ha l'acqua dolce”, edito da Mondadori e l'Associazione per i Diritti Umani l'ha intervistata per voi. 



“Ero una bambina con i riccioli, volevo costruire castelli di sabbia in spiaggia con mio fratello e i miei cugini, ma ho dovuto cambiare programma. Siamo tornati in città e le vacanze le abbiamo passate nel reparto di Diabetologia per adulti. Avevo braccia lunghe e magre, livide dal gomito in giù: mi facevano un buco ogni due ore. Ora le mie braccia sono remi: sento la forza che irradiano, sento i muscoli tendersi, le spalle ruotare, le mani irrigidirsi nell'impatto con l'acqua. A ogni spinta avanzo, a ogni spinta mi allontano dalla Monica che ha sofferto, che si è sentita in colpa per essersi ammalata, che si è sentita vittima. Toccare riva è il mio riscatto, la mia conquista. Poche bracciate ancora e sono libera: libera dalla mia rabbia, libera dall'idea di me come malata. Libera di essere solo Monica, la fondista, la prima donna diabetica di tipo 1 in Europa ad avere attraversato a nuoto lo stretto di Messina." Se Monica Priore avesse dato retta ai medici, oggi non sarebbe più sana e nemmeno più felice. Impugnando la diagnosi di diabete di tipo 1, la medicina ufficiale la obbligava a una specie di vita a ostacoli: dieta ferrea, tanta insulina, orari rigidi e una blanda attività fisica per scongiurare il rischio di crisi ipoglicemiche. Un vero inferno. Ma Monica ha sempre sentito nel profondo della sua anima che, se avesse imparato a gestire la sua malattia, avrebbe potuto condurre una vita quasi normale”.

Quando si è ammalata aveva cinque anni e, forse, i ricordi non sono vividi, ma cosa le hanno raccontato i suoi familiari di quel primo periodo ?


Del primo periodo effettivamente ricordo poco, ero piccola avevo 5 anni, i miei raccontano che non feci una piega quando gli infermieri cominciarono a bucarmi, per i prelievi e per le iniezioni di insulina, piangevo solo quando le braccine erano oramai livide e non reggevo più il dolore. Mi chiedevo perché fosse accaduta quella cosa a me e spesso sfogavo la mia rabbia con la mamma dicendole che era colpa sua se avevo il diabete, mortificandola ulteriormente.


Che sentimenti prova quando pensa alla sua infanzia e adolescenza ?


I sentimenti sono diversi, ma quello più forte è la tristezza, perché se all'epoca fossi stata la persona che sono oggi, avrei vissuto meglio quei periodi ed avrei sofferto meno.


Che cosa le avevano detto i medici, all'inizio, riguardo al suo futuro?


I medici non parlavano mai del futuro, ma solo del presente, perché le conoscenze sul diabete mellito di tipo 1 erano poche, e credo che neanche loro sapessero con esattezza come sarebbe potuta essere la mia vita.

In che modo ha deciso di gestire la malattia?

Ho deciso di gestire la malattia con lo sport, non piangendomi a dosso e dando sempre il massimo delle mie potenzialità in ogni circostanza. Il diabete è un ostacolo in più, ma la vita è sempre vita, magari la si guarda da una prospettiva diversa, ma sempre vita è.


Che donna è, oggi?


Oggi sono Monica, una donna tenace, testarda e un po guerriera, non so come sarei stata senza il diabete, ma so che è merito suo se oggi sono più forte.
   

domenica 2 agosto 2015

TERRAinGIUSTA, le condizioni di vita e di lavoro dei braccianti stranieri in agricoltura








TERRAinGIUSTA, le condizioni di vita e di lavoro dei braccianti stranieri in agricoltura, è il titolo del rapportopresentato nel corso di una conferenza stampa indetta presso la “Sala Magno” della Camera del Lavoro di Foggia, mercoledì 8 luglio.
Nel corso dell’incontro la Flai Cgil di Capitanata ha presentato alcuni dati elaborati sulla base degli elenchi anagrafici dell’Inps relativi alle giornate lavorate in agricoltura, dietro i quali si celano lavoro nero, evasione contributiva, mercato delle giornate.
TERRAinGIUSTA è stato curato da MEDU – Medici per i diritti umani, ed è frutto di testimonianze e dati raccolti nel corso di undici mesi in cinque territori dell’Italia centrale e meridionale – tra queste la provincia di Foggia – che denunciano la drammatica attualità delle condizioni di sfruttamento dei lavoratori migranti in agricoltura: lavoro nero o segnato da gravi irregolarità, sottosalario, caporalato, orari eccessivi di lavoro, mancata tutela della sicurezza e della salute, difficoltà nell’accesso alle cure, situazioni abitative ed igienico-sanitarie disastrose.
Con l’approssimarsi della stagione delle grandi raccolte, a fronte delle emergenze persistenti sul versante dello sfruttamento e delle condizioni di accoglienza indegne cui sono costretti i lavoratori migranti, caratterizzate prevalentemente da soluzioni di fortuna e ghetti malsani, l’analisi dei dati raccolto sarà l’occasione per spronare le istituzioni locali, a partire dal nuovo governo regionale, affinché si proceda con soluzioni e interventi concreti, a partire dalle esperienze messe in campo anche dal sindacato e dalle associazioni negli anni precedenti. Perché la Puglia e la Capitanata diventino terra d’accoglienza e della dignità del lavoro.



Leggi il RAPPORTO INTEGRALE
Leggi la SINTESI
Vedi i video, le foto e le testimonianze del progetto TERRAGIUSTA


mercoledì 22 luglio 2015

Nave di MSF non autorizzata a sbarcare 700 persone in Sicilia a causa dell’incapacità di accoglienza



La nave di MSF per la ricerca e soccorso Bourbon Argos sta ora navigando a nord della costa siciliana, in direzione Reggio Calabria, con 700 persone a bordo, dove dovrebbe approdare sabato mattina. Nonostante lunghe discussioni con le autorità italiane e gli sforzi compiuti dalla guardia costiera italiana, a causa dell’incapacità del sistema d’accoglienza, la Bourbon Argos non è stata autorizzata a far sbarcare in Sicilia le 700 persone a bordo.

Mercoledì 15 luglio, durante 6 diverse operazioni di salvataggio, la nave di MSF ha tratto in salvo 678 persone. A bordo persone provenienti da Bangladesh, Costa d’Avorio, Eritrea, Gambia, Guinea,Libia, Mali, Nigeria, Senegal e Somalia, tra le principali nazionalità.

L’équipe di MSF è stata impegnata 24 ore al giorno per fornire assistenza a chi aveva bisogno di cure mediche. La nave è sovraffollata e le persone a bordo sono sistemate sul ponte in uno spazio molto limitato” dichiara Alexander Buchmann, coordinatore per MSF della Bourbon Argos. “Nelle ultime 24 ore questa situazione ha provocato tensioni tra la persone e potrebbe causare gravi problemi di sicurezza a bordo della nave”.

Nonostante la buona coordinazione tra la guardia costiera italiana e gli sforzi del Centro di Ricerca e soccorso marittimo (MRCC), le autorità italiane non hanno autorizzato lo sbarco delle persone a bordo della Bourbon Argos in nessuno porto siciliano a causa dell’incapacità del sistema d’accoglienza. Giovedì sera, le autorità italiane hanno autorizzato lo sbarco di 150 persone su 700 nel porto di Trapani. Tuttavia, MSF ha deciso di non procedere con uno sbarco parziale perché una simile operazione, in una situazione di tale sovraffollamento, avrebbe posto seri rischi per la sicurezza. La situazione a bordo era molto tesa e molte delle persone hanno espresso la loro preoccupazione e paura di essere “riportati in Libia”.

Soltanto 7 pazienti che necessitavano di urgenti cure mediche sono stati sbarcati insieme alle loro famiglie. Tra i casi più seri: una donna adulta, trasferita dalla nave della guardia costiera italiana, soffriva di ipotensione e forti dolori addominali, e aveva bisogno di un ricovero urgente; e un bambino di 12 mesi con polmonite, febbre e difficoltà respiratorie a cui MSF ha fornito un trattamento antibiotico, ma che necessitava di un ricovero urgente per ulteriori accertamenti e cure.

Per due giorni, abbiamo cercato di capire dove ci sarebbe stato permesso di sbarcare, attraverso un coordinamento continuo con la Guardia Costiera italiana, cercando di mantenere un livello accettabile di sicurezza a bordo”, aggiunge Alexander Buchmann. “Questo ha causato gravi rischi per la sicurezza a bordo della nave, obbligando 700 persone in difficoltà a trascorrere due notti intere sul ponte della nave in condizioni molto difficili”.


Venerdì mattina, dopo lunghe trattative, la Bourbon Argos è stata diretta a Messina. Tale decisione è stata poi modificata alcune ore dopo e la destinazione finale è ora Reggio Calabria. La nave sta navigando lungo la costa settentrionale della Sicilia - in modo da mantenere un contatto visivo con la terraferma e non alimentare paure tra i migranti a bordo. L’arrivo è previsto sabato mattina presto.

La mancanza di preparazione del sistema di accoglienza italiano sta avendo conseguenze molto concrete che stiamo sperimentando in prima persona”, dichiara Loris de Filippi, Presidente di MSF Italia. “Basta un minimo problema logistico che il sistema collassa. Siamo ancora a luglio, e gli arrivi non si fermeranno molto presto. Il Ministero dell’Interno dovrebbe autorizzare lo sbarco nei porti siciliani più vicini al fine di facilitare le operazioni di sbarco e permettere alle navi di tornare il prima possibile nella zona di ricerca e soccorso

L'Ufficio Stampa di Medici Senza Frontiere



venerdì 8 maggio 2015

Gli ospedali psichiatrici giudiziari, in graphic novel




Per Antonio, 25 anni, quell'edificio fortificato nella prima periferia della sua città è sempre stato, semplicemente, "il manicomio". La scoperta di quello che avviene dentro quelle mura, le vite delle persone (gli internati, ma non solo) che lì dentro passano la maggior parte delle loro giornate, e la scoperta di tutte le tensioni e i conflitti che gli si muovono intorno, lo porterà a trasformare la sua paura iniziale in una consapevolezza necessaria, ma non sempre piacevole.


Abbiamo rivolto alcune domande a Antonio Recupero che ringraziamo.


Il libro nasce da una sua esperienza personale: ce ne vuole parlare?


Quando mi sono laureato avevo 25 anni, e facevo parte di uno degli ultimi scaglioni tenuti alla leva obbligatoria. Come moltissima altra gente, senza particolari spinte ideologiche, optai per il servizio civile sostitutivo, considerandola una alternativa “comoda”. Riuscii ad essere assegnato presso un circolo ARCI della mia città, Barcellona Pozzo di Gotto, alle cui attività partecipavo abitualmente. Come scoprii, questo non mi dava diritto a nessun trattamento di favore (per fortuna, dico ora). Tra le varie attività in cui venne richiesto il mio impegno, ci fu quella della risocializzazione di alcuni gruppi di internati dell’OPG locale. Io a malapena sapevo cosa era un OPG, e nell’accezione comune lo si definiva abitualmente “il manicomio”. E’ ovvio quindi che la cosa mi spaventò non poco all’inizio. Ma la conoscenza della realtà dell’OPG, e degli internati come uomini vivi, pensanti, con fantasie, desideri e pulsioni che i farmaci riuscivano a malapena a mascherare e mai a sopprimere, mi ha fatto cambiare prospettiva molto in fretta. Le loro storie, anche se spesso terribili, erano affascinanti, e meritavano di andare oltre le mura e le sbarre che li contenevano.



Quali sono le condizioni, all'interno dell'OPG, sia per gli internati sia per gli operatori?


Gli OPG, come la galera, sono istituzioni totalizzanti, al di là delle loro finalità. Chi ci è costretto, ma anche chi ci lavora, si ritrova a vivere in una realtà assoluta e distante anni luce da quella che consideriamo abitualmente “la società civile”. Per alcuni internati, la privazione della libertà è quanto di più antiterapeutico possa esserci, e credo di poter dire questo sulla scorta di quanto emerso negli anni: valutazioni di pericolosità sociale rilasciate con leggerezza e in maniera preventiva e presuntiva hanno di fatto condannato ad un ergastolo bianco decine, se non centinaia, di persone che avrebbero potuto condurre vite normali con l’aiuto delle giuste terapie e con sostegno specialistico, e che invece hanno avuto la sorte di commettere un reato, spesso lieve, per via di una situazione di alterazione psichica. E se la malattia mentale (che una volta giuridicamente, comportava la c.d. incapacità di intendere e di volere, e quindi la non punibilità) diventa un motivo di colpa in sè e comporta pene più severe del normale, è evidente che vi è di fondo una aberrazione sia giuridica che umana. Chi si trova a lavorare a contatto con gli internati, che per primi patiscono questa situazione aberrante, rischia, come provato scientificamente, di sviluppare a sua volta situazioni di alterazione psicologica, stress e ansie, che si risolvono a volte in situazioni di abuso, a volte invece in una empatica incondizionata e acritica. E difficilmente si riesce a concepire, in entrambi i casi una nuova vita fuori dall’istituzione, per quanto intensamente la si desideri.


Quali segni ha lasciato, dentro di lei, quell'esperienza?


Sicuramente una maggiore consapevolezza di un fenomeno che è stato per troppo tempo ignorato per questioni di comodo, o peggio strumentalizzato da varie parti politiche. Proprio per questo ho voluto concentrarmi sulle persone, sul lato umano della questione, tralasciato con troppa frequenza.



 Quali sarebbero le attività di risocializzazione dedicate ai ricoverati? E risultano efficaci?


Intanto qualunque esperienza possa ridurre il senso di emarginazione e di coercizione è sicuramente utile. Parlare agli internati, portarli fuori dalle mura in cui si sentono costretti, concedergli qualche “fuga” se vogliamo metterla così. E in ogni caso la prima attività di risocializzazione e di terapia per gli internati è sempre il lavoro, perché è l’elemento che permette alle persone di costruire qualcosa nella loro vita, e di entrare in una fase “progettuale” della loro vita privata e sociale.



Parliamo anche dei disegni di Jacopo Vecchio che accompagnano i testi e della scelta di unire immagini e parole…


Con Jacopo si è creata subito una buona sintonia sulla storia, e ha saputo centrare immediatamente le fisicità di molti personaggi, associandoli perfettamente al loro carattere e, in alcuni casi, alla patologia che si portavano appresso. Nei primi studi aveva lavorato con uno stile molto complesso, fortemente caratterizzato, per poi invece scegliere di personalizzarlo di più, lavorando in sottrazione e arrivando ad una sintesi più efficace e meno appariscente. Nelle scene in cui appaiono gli internati, la linea chiara lascia spazio a delle sfumature di grigio che vanno ad accrescere la profondità delle scene. Il risultato è sotto gli occhi del lettore, che viene catturato immediatamente anche a livello visivo nei punti in cui il focus narrativo è più intenso. La scelta del fumetto ha permesso di raccontare questa realtà particolare con un approccio diverso, e il talento di Jacopo ha valorizzato particolarmente questa scelta.

mercoledì 6 maggio 2015

Curarsi (non) è permesso: I risultati dell'indagine sull'accesso alle cure per i cittadini stranieri irregolari negli ospedali milanesi.


“Prevedendo il pieno accesso alle cure anche per i cittadini stranieri irregolari, la normativa italiana è avanzata ed includente”: inizia così la dichiarazione degli operatori del Naga a seguito della loro ultima indagine che riguarda la salute di tutti i cittadini, italiani e stranieri.
Il diritto alla salute viene protetto, come ricorda la Corte Costituzionale, “come ambito inviolabile della dignità umana”.
Tra gennaio 2014 e febbraio 2015 i volontari del Naga ne hanno verificato l'effettiva applicazione negli ospedali milanesi, con un'indagine qualitativa, raccogliendo documentazione  le testimonianze.
Gessi non tolti, controlli diagnostici e ricoveri non effettuati, farmaci salvavita non forniti, esenzioni non applicate, pazienti cronici respinti, mancata erogazione del codice Straniero Temporaneamente Presente (STP) che permette l'accesso alle cure, ai farmaci e agli esami diagnostici. Sono questi alcuni dei 155 casi dei quali abbiamo raccolto la documentazione clinica e che dimostrano che a Milano e nei paesi limitrofi, ogni anno, cittadini stranieri irregolari affetti da patologie anche gravi non ricevono assistenza sanitaria adeguata” afferma il Dott. Fabrizio Signorelli, direttore sanitario del Naga.
Dalla nostra indagine emerge che in 80 dei 155 casi di pazienti non adeguatamente assistiti si tratta di patologie gravi come il diabete mellito, fratture ossee, casi di tumore o gravi patologie cardiache. Si tratta di persone giovani (età media 43 anni), prevalentemente di sesso maschile (76%), provenienti principalmente dai paesi del nord Africa, centro America, sud est Asiatico, Romania. Il 20% dei pazienti che non ha ricevuto assistenza è cittadino comunitario. I casi si distribuiscono equamente in tutti gli ospedali di Milano e dei paesi limitrofi e si rilevano prassi estremamente variabili, a discrezione dei singoli ospedali o anche dei singoli operatori” prosegue il direttore sanitario.
Riteniamo che tutto ciò sia, in parte , frutto di una mancanza di conoscenza della normativa da parte degli operatori sanitari e amministrativi, di difficoltà burocratiche e linguistiche e di un'abitudine diffusa a demandare alle associazione di volontariato. Ma crediamo che ciò derivi anche da una chiara volontà politica regionale di non rendere pienamente godibile il diritto alle cure per tutti nella nostra città” conclude Signorelli.
Affinché le cure siano garantite a tutti, senza discriminazione alcuna, è necessario un chiaro cambio di rotta politico. Al di là di ogni interpretazione del fenomeno migratorio, crediamo che debba essere garantito a tutti il pieno godimento del diritto alla salute. Non solo per rispettare la legge, ma soprattutto per una questione di civiltà, equità e giustizia; crediamo, infatti, che sia inammissibile che una fetta di popolazione che vive sul nostro territorio venga esclusa dal godimento di un diritto fondamentale” afferma Luca Cusani presidente del Naga.
In attesa di un cambio di approccio strutturale e di vedere la legge pienamente applicata, sottoponiamo alcune raccomandazioni che potrebbero migliorare notevolmente la situazione attuale: rendere concretamente possibile per i pazienti stranieri irregolari l’iscrizione agli ambulatori dei medici di medicina generale; utilizzare il codice ENI, riconosciuto a livello nazionale, per i cittadini dell’Unione Europea indigenti privi di assistenza sanitaria; permettere anche agli ospedali privati convenzionati di prescrivere farmaci ed esami su ricettario regionale per i pazienti stranieri irregolari e attuare una campagna di informazione e formazione rivolta a chi opera nella sanità” prosegue Cusani. "Come Naga continueremo a denunciare ogni forma di discriminazione e a colmare temporaneamente le lacune del sistema sanitario: curiamo, senza chiedere il permesso”.




Scarica tutto il report, i casi esemplari, l'abstract, l'abstract in inglese.

sabato 2 maggio 2015

Con il nuovo romanzo, Fulvio Ervas parla del diritto alla salute





L’ospedale è un faro nella notte. Promette cura, salvezza, che tutto quanto è possibile si farà. C’è una vita, in gioco, e Paolo Vivian non vivrà. Lorenzo è suo figlio e non è per niente ‘sdraiato’. Studia medicina, sa che sbagliare è umano, ma ci sono posti dove un errore costa molto di più. Lorenzo non può permettersi un avvocato e i medici si appellano alla tragica fatalità.
La sua sete di chiarezza tocca nel cuore il vecchio professore di scienze del liceo, paladino del corpo umano e della fotosintesi clorofilliana. Insieme, affidano il caso alla TNT: tre donne toste, Tosca, Norma e Tina, che del diritto alla salute sono sceriffa, contabile e poeta.


Il romanzo si intitola Tu non tacere ed è da poco uscito per le edizioni Marcos Y Marcos.



L'Associazione per i diritti umani ha rivolto alcune domande all'autore. Ringraziamo molto Fulvio Ervas.



Da dove nasce la storia raccontata nel suo romanzo?



Fondamentalmente dalla mia passione per la salute e la storia della medicina. E poi da tanti frammenti di storie vere, compresa la mia.



La storia, nel romanzo, è quella di Lorenzo, un giovane studente di medicina. Il padre Paolo incappa in una doppia, brutta avventura, subisce un incidente stradale e non viene adeguatamente soccorso. Lorenzo si mette in testa che non siano state prestate adeguate cure al padre e vuole scoprire cosa sia successo. Ha il sospetto che vi sia stato un errore medico. E’ un romanzo che ci racconta il desiderio di capire di un giovane, la sua battaglia per la conoscenza e la giustizia. Ci racconta le relazioni familiari, la bufera che attraversa una famiglia quando è sottoposta a prove molto forti. Ma è anche un romanzo che ci ricorda il valore del corpo, della salute, della buona sanità.



Paolo, il protagonista, costringe il lettore ad interrogarsi sul diritto alle cure giuste e sulla giustizia in Italia: che tipo di indagine è stata fatta per scrivere questo testo?



Il romanzo si basa su una storia vera, un caso che è già stato giudicato. Quindi ho avuto la possibilità, attraverso un’azienda che svolge un’azione di tutoring ai cittadini che hanno subito danni, anche da errori medici, di avere conoscenza di casi concreti, tutti già sottoposti al giudizio delle istituzioni competenti.



Io non amo parlare di malasanità, un termine che semplifica troppo. Io credo che il sistema sanitario sia un’entità di grande complessità e che al suo interno abbia moltissime capacità professionali, ma che non sia esente da eventi di “medicina non all’altezza della situazione”. Le cause di questo sono diverse. Ma è proprio sul modo di affrontare i propri errori (questo è un territorio per il narratore di grande suggestione), sullo stile, sulla trasparenza, sull’assunzione di responsabilità, sulla capacità di comunicazione, che si gioca lo spessore dei macrosistemi ( Sanità compresa). Quando si evita di arrivare, cioè, alla condizione dove l’individuo viene soverchiato dalle grandi strutture, che hanno più forza, più conoscenze, maggiore capacità di azione.



La madre del ragazzo, Elisa, vorrebbe dimenticare o sapere la verità. Molti parenti delle vittime delle strade chiedono che venga inserito il reato di "omicidio stradale". A che punto è l'iter di questa legge?



Mi pare che se ne parli di più, ma non siamo ancora approdati. E’ evidente che sulla strada accadono molti, tragici, eventi e che sulla strada è necessaria una grande attenzione civile, cioè la comprensione che l’automobile ha lo stesso potere distruttivo di un’arma. Bisogna essere educati ad usarla in maniera accurata, e bisogna essere richiamati a questo costantemente. E credo che si debba sapere che, se provochi un grave danno, la tua responsabilità non può arrivare solo sino al pagamento della rata annuale di una polizza assicurativa.


Centrale, nel libro, è il rapporto padre-figlio e sono anche importanti le tre donne (le TNT) che si battono per il diritto alla salute: ce ne può parlare?


Sono tornato a parlare ( dopo “Se ti abbraccio non avere paura”) di una forte relazione parentale. Qui un figlio, Lorenzo, manifesta un forte desiderio di giustizia verso il padre. E’ un atto di rispetto. Lorenzo vuole che si dica, domani, che suo padre è innocente rispetto alla morte. Cioè non se l’è cercata, non ha abbandonato la famiglia per qualche imprudenza o per qualche tragica fatalità. Purtroppo, per far luce sulle responsabilità di quello che è successo, Lorenzo, come fanno molti cittadini, deve affidarsi a qualche professionista che lo accompagni nell’intricato mondo delle leggi, della medicina legale, dei referti, delle assicurazioni. Il cittadino non ha, da solo, la forza per tutelarsi adeguatamente. E’ troppo solo, in questi territori.


Lei è anche professore di liceo: qual è il ruolo della scuola, oggi, nella formazione dei futuri cittadini?


Naturalmente io auspico che la scuola resista nel suo ruolo di formatore collettivo. So, anche, che questo è un ruolo che viene svolto, purtroppo con molta efficacia, anche da altre “agenzie formative”, che sono, in realtà, disinformative.



Ma se vuole competere e resistere, l’istituzione scolastica deve ritrovare passione, motivazione, visione. Non si mantiene il contatto con queste nuove generazioni, velocissime ed anche disattente, con la grinta del burocrate e con l’energia del registratore che ripete l’ennesima, grigia, lezioncina.



Dobbiamo riprendere il volo.

domenica 1 febbraio 2015

La fragilità nell 'epoca contemporanea


L'Associazione per i Diritti Umani

in collaborazione con il Centro Asteria

PRESENTA



DIRITTI AL CENTRO:
LA FRAGILITA' nella SOCIETA' CONTEMPORANEA



Alla presenza di GIGI GHERZI (attore, scrittore e regista teatrale)



DOMENICA 15 FEBBRAIO



ORE 16.30

presso



CENTRO ASTERIA

Piazza Carrara 17.1, ang. Via G. Da Cermenate (MM Romolo, Famagosta)



Milano 12/01/2015 - L’Associazione per i Diritti Umani presenta il secondo appuntamento della serie di incontri dal titolo “DiRITTI AL CENTRO”, che affronta, attraverso incontri con autori, registi ed esperti, temi che spaziano dal lavoro, diritti delle donne in Italia e all’estero, minori, carceri, immigrazione...

In ogni incontro l’Associazione per i Diritti Umani attraverso la sua vice presidente Alessandra Montesanto, saggista e formatrice, vuole dar voce ad uno o più esperti della tematica trattata e, attraverso uno scambio, anche con il pubblico, vuole dare degli spunti di riflessione sull’attualità e più in generale sui grandi temi dei giorni nostri.



In questo incontro dal titolo “La fragilità nella società contemporanea” si affronta il tema della fragilità: della sensibilità non accolta nella società omologata in cui vigono le leggi del mercato, dell'arrivismo e dell'individualismo. Non c'è spazio per le persone sensibili, per i non allineati, per gli affetti profondi. Si approfondiranno questi e molti altri temi attraverso il romanzo ATLANTE DELLA CITTA' FRAGILE, edito da Sensibili alle foglie, di Gianluigi (Gigi) Gherzi. Sarà presente l'autore che ci parlerà anche dello spettacolo teatrale tratto dal volume.

 


IL LIBRO:

Riprendi a viaggiare!”, si dice il protagonista. Dove? Nelle strade della tua città! A far che? A dare voce a un malessere, a un brusio che suona confuso, indistinto. Viaggiare per incontrare vite, ascoltarle, sentirle prendere forma all’interno del cuore della città. Vite fragili, dappertutto. Personaggi straordinari e quotidiani insieme: una giovane professoressa precaria che incontra il giovane principe somaro, un’adolescente bellissimo in fuga dallo specchio e dai rituali dell’apparenza, un manager potentissimo e delocalizzato che cerca di ricordare rogge e canali, una giovane pubblicitaria con l’amore per le parole, che ne vorrebbe inventare tante ma non sa se sopravviverà ai tirocini e agli stage. Vite che tessono un altro disegno, mappa, atlante della città, percorsi che portano a un luogo straordinario, il parco del più grande ex ospedale psichiatrico della città, dove tra alberi, panchine, musei degli orrori, appaiono infermieri specializzati nello scassinare porte da troppo tempo chiuse, segretarie innamorate della bellezza e dei giovani spettinati, receptionist in guerra coi mondi ambigui e spietati della prestazione e della performance, un ragazzo tornado bloccatosi di colpo che riprende a camminare. Tutti accompagnati e benedetti dall’antichissimo Zio Jodok. Poesia, canto lirico, storia autobiografica, pericolose avventure, strazi sottili, confessioni e canzoni per una vita che rinasce. Ogni giorno. Nell’attenzione alla “fragilità”, che è misura necessaria e preziosa del vivere.





L' AUTORE:

Scrittore, attore e regista teatrale, vincitore dei premi teatrali “Scenario” e “ETI Stregagatto”, ha firmato testi e regie per alcuni dei più importanti gruppi di teatro di ricerca italiani. Ha più volte portato l’esperienza del teatro e della scrittura all’interno di carceri, centri sociali autogestiti, scuole e comunità. Insegna teatro e scrittura e cura progetti di ricerca e spettacolo sul tema dell’incontro tra migranti e realtà italiana. Nel 2011 fonda il progetto “Teatro degli Incontri” a Milano. Per queste edizioni ha pubblicato, con Giovanni Giacopuzzi, Tuani, nel 2004; Pacha della strada, nel 2008.







venerdì 10 ottobre 2014

Il progetto B.LIVE per i giovani oncologici




Fino al 10 ottobre, presso il negozio SHARE in Via Padova 36 a Milano, tra cappotti, maglioni, jeans e altri capi di abbigliamento sono esposte anche magliette, biciclette, spille e CD musicali che hanno un valore aggiunto: sono, infatti, oggetti disegnati dai ragazzi del progetto B.LIVE, giovani in cura all'Istituto Nazionale dei Tumori, nell'ambito del progetto più ampio chiamato, appunto, Progetto giovani.

B.LIVE coinvolge i pazienti in percorsi creativi guidati da professionisti di diversi settori e nasce con il contributo della Fondazione Magica Cleme onlus, dell'Associazione Bianca Garavaglia e di Fondazione Near onlus. Il primo progetto B.LIVE, del 2012, è stato proprio quello di moda con il coordinamento della stilista Gentuccia Bini: i ragazzi hanno partecipato a tutto il percorso di realizzazione dei capi, dal cartamodello, alla sfilata, creando una vera e propria collezione. Attraverso Facebook (per una volta usato con criterio) i giovani hanno potuto lavorare e partecipare al progetto anche dalle loro abitazioni oppure dall'ospedale nel caso fossero in terapia o dovessero effettuare i controlli medici. Interessante notare che i prodotti sono esposti, in questo periodo, nel negozio SHARE, un locale speciale perchè raccoglie capi di abbigliamento, usati e garantiti, che provengono dall'Italia e dall'estero per uno scambio commerciale etico, solidale e responsabile; il negozio, inoltre, fa parte di un progetto di housing sociale che prevede la ristrutturazione di 19 appartamenti a canone calmierato.

Il secondo progetto di B.LIVE riguarda la musica: nel 2013 è stato realizzato il CD “Nuovole di ossigeno” con la partecipazione di Faso, il bassista del gruppo di Elio e le storie tese e i ragazzi dell'Istituto che hanno scritto e cantato i pezzi.

Nel contesto del Progetto Giovani sono attive varie attività, percorsi sportivi e formativi per restituire, ai pazienti, la qualità del tempo e un ambiente, anche all'interno dell'ospedale, in cui trovare serenità e svago e in cui dar via libera alla creatività. “ Questo progetto mi ha aiutato a pensare a me stesso non come a un malato, ma come a un ragazzo che può andare in palestra, disegnare, progettare. Non sono un medico, ma credo che questo atteggiamento aiuti anche a superare la malattia”, ha affermato Matteo Davide: bastano queste parole, come quelle di altri, per capire il valore di questa idea. Un'idea dove il commercio consapevole, l'Arte e il senso sociale, finalmente, si uniscono per affermare il diritto alla vita.

mercoledì 3 settembre 2014

La controversa Legge 194




di Marina Terragni (già sul blog di Io Donna)



Come saprete il Consiglio d’Europa ha recentemente condannato L’Italia che “a causa dell’elevato numero degli obiettori di coscienza viola i diritti delle donne che alle condizioni prescritte dalla 194 del 1978 intendono interrompere la gravidanza”. Al momento nessuno sembra occuparsene, ma la sentenza ci obbliga a trovare una soluzione.

La legge 194 è una buona legge, che ha consentito dagli anni Ottanta una riduzione del 54 per cento delle Ivg. Ma oggi è sostanzialmente inapplicata a causa delle altissime percentuali di obiezione di coscienza del personale medico e paramedico: 70 per cento con punte fino al 90 in Campania e oltre l’80 in Lazio, Molise, Sicilia, Veneto e Puglia, e interi ospedali che non garantiscono il servizio (obiezione di struttura). Anche l’attività dei Consultori si è fortemente ridotta: diminuisce il numero (per esempio, in Lombardia si è passati dai 335 Consultori del 1997 agli attuali 216) e viene depotenziata la loro azione.

A ciò si accompagna una vivace ripresa di iniziativa del Movimento per la Vita, in Italia e in Europa, oltre al proliferare dei cimiteri dei non-nati, con cerimonie di sepoltura dei prodotti abortivi (è bene ricordare che il diritto di seppellire i feti di qualunque età gestazionale è già garantito da un decreto presidenziale del 1990. Non vi è quindi alcuna necessità, se non ideologica, di istituire cimiteri dedicati).

La massiccia obiezione è causa di un ritorno all’aborto clandestino (il Ministero della Salute stima 40.000 interruzioni clandestine, numero in difetto perché nelle ostetricie è in costante aumento il numero degli “aborti spontanei”: dei 150 mila aborti spontanei verificatisi nel 2011, almeno un terzo, secondo lo stesso Ministero è attribuibile al “fai da te”, aborti non completi eseguiti in cliniche fuorilegge o provocati con farmaci reperibili sul Web o in farmacie compiacenti).
Altra conseguenza, il
turismo abortivo: migrazioni interne, dal Veneto in Emilia Romagna dove la legge funziona meglio, dal Lazio in Toscana, e così via. Cresce anche il business dell’aborto: per esempio, delle 3776 IVG effettuate nell’ASL di Bari nel 2011,  il 70 per cento è stato praticate in case di cura convenzionate. Il DRG per IVG ammonta a una cifra tra i 1100 e 1600 Euro. Questo significa 3.000.0000 di euro nelle casse del privato (dove l’obiezione è poco significativa).

Perché si obietta tanto? Per ragioni di carriera. Per evitare carichi di lavoro economicamente e professionalmente non remunerativi. Per sindrome da burnout: da non obiettore si diventa obiettore per stanchezza e per le difficoltà connesse a un lavoro che ti pone costantemente di fronte a questioni etiche. Per motivazioni religiose, anche se gli obiettori di coscienza poi sono disponibili a effettuare villocentesi e l’amniocentesi, anche in strutture private convenzionate confessionali dove si pratica l’obiezione di struttura. E tutti sappiamo che amniocentesi e villocentesi sono la “conditio sine qua non” dell’aborto terapeutico.

L’obiezione di coscienza è un diritto garantito dall’articolo 9 della legge 194, che è una legge a rilevanza Costituzionale. E’ garantito anche dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, laddove sancisce che “gli stati membri sono tenuti a organizzare i loro servizi sanitari in modo da assicurare l’esercizio effettivo della libertà di coscienza dei professionisti della salute”. Ma se il diritto alla obiezione deve essere garantito, la Corte di Strasburgo chiarisce che ciò non deve impedire ai pazienti di accedere a servizi a cui hanno legalmente diritto (sentenza della Corte del 26.5.2011). L’Europa quindi sostiene la necessità che lo Stato preveda l’obiezione a condizione che non ostacoli l’erogazione del servizio.

Il diritto all’obiezione di coscienza non può quindi essere negato. Questo diritto è garantito dall’art 3 della nostra Costituzione, dall’articolo 9 della 194 e dall’Europa.Come si fa, allora, a far funzionare la legge? Nemmeno la mobilità del personale è una soluzione. I medici non obiettori sono pochissimi. Costringerli alla mobilità su più strutture significherebbe “condannarli” a eseguire esclusivamente aborti, negando il resto della loro professionalità.
Molte regioni italiane risolvono il problema chiamando medici non obiettori “a gettone” per garantire la 194, retribuendoli in modo cospicuo: ma non si possono fare soldi sulla pelle delle donne.


Che cosa si può fare, allora?Ogni reparto di ostetricia dovrebbe prevedere il 50 per cento di medici e paramedici non obiettori, con presenza H24 di un’équipe che garantisca l’intera applicazione della legge 194, dalla prescrizione della pillola del giorno dopo all’aborto terapeutico,consentendo così la rotazione del personale medico e paramedico.

Come si può garantire il 50 per cento di non obiettori?

La strada è tracciata da una sentenza del TAR Puglia (14/09/2010, n. 3477, sez. II) nella quale si afferma che:
“ è possibile predisporre per il futuro bandi finalizzati alla pubblicazione dei turni vacanti per i singoli Consultori ed Ospedali che prevedano una
riserva di posti del 50 per cento per medici specialisti che non abbiano prestato obiezione di coscienza e al tempo stesso una riserva di posti del restante 50 per cento per medici specialisti obiettori”.
Opzione equa, ragionevole e praticabile che non si porrebbe in contrasto con il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione e consentirebbe la piena applicazione della legge 194.


Il TAR dell’Emilia Romagna ((sez. Parma, 13 dicembre 1982, n. 289, in Foro amm. 1983, 735 ss) chiarisce inoltre che “la clausola che condiziona l’assunzione di un sanitario alla non presentazione dell’obiezione di coscienza ai sensi dell’art. 9 risponde all’esigenza di consentire l’effettuazione del servizio pubblico per il quale il dipendente è assunto, secondo una prospettiva non estranea alle intenzioni del legislatore del 1978”.

(proposta congegnata insieme a Mercedes Lanzilotta)

giovedì 28 agosto 2014

L'appello per Gaza di MEDU, Medici per i Diritti Umani





Pubblichiamo anche noi l'appello ufficiale di Medici per i Diritti Umani con preghiera di divulgazione. Grazie. 

Alla luce dei gravi danni subiti da ospedali, cliniche e dal personale medico nella Striscia di Gaza, Medici per i Diritti Umani-Israele invia una comunicazione urgente al Procuratore Generale e al Ministro della Difesa:

Devono essere adottate tutte le misure di sicurezza per evitare di colpire il personale medico e di mettere in pericolo le strutture sanitarie mentre continuano i combattimenti nella Striscia di Gaza.
Roma, Tel Aviv, 24 luglio 2014 – Medici per i Diritti Umani Israele (Physicians for Human Rights Israele – PHR Israele) ha inviato il 22 luglio una lettera al Procuratore generale e al Ministro della Difesa di Israele, denunciando i danni subiti da numerose strutture sanitarie e dal personale medico e le difficoltà di evacuare i feriti nel corso degli attacchi militari a Gaza. La lettera, firmata da Ran Cohen, direttore esecutivo di PHR-Israele e dagli avvocati Tamir Blank e Adi Lustigmanù, afferma “ci rivolgiamo a voi alla luce dei tanti, dei troppi danni subiti sia al corpo che allo spirito dal personale medico nonché alle strutture nella Striscia di Gaza”. La lettera si aggiunge ad altri comunicati che PHR-Israele e altre organizzazioni hanno diffuso per contestare la politica di attacco a Gaza, i danni all’ospedale al-Wafa, e sottolineare l’urgente bisogno di mettere in atto un meccanismo che regoli l’evacuazione dei feriti.
A causa degli intensi combattimenti nella zona della Striscia di Gaza è difficile raccogliere informazioni sul terreno, ma secondo i dati che PHR-Israele ha ottenuto da varie fonti, tra cui la sezione di emergenza del Ministero della Sanità Palestinese a Ramallah, che opera in collaborazione con l’Organizzazione Mondiale della Sanità, al 21 luglio 2014 sono stati danneggiati, direttamente o indirettamente, cinque ospedali, sei cliniche e i centri di primo soccorso nella Striscia di Gaza, 23 membri del personale medico sono stati feriti e tre sono stati uccisi (l’elenco completo è compreso nella lettera). Il danno più recente è stato registrato ieri presso l’ospedale della Mezzaluna Rossa Shuhadat di Al-Aqsa a Deir Al-Balah, apparentemente a causa di un colpo diretto sull’ospedale. Questo attacco ha causato la morte di cinque persone (tra cui dei medici), ha ferito circa 70 persone, e ha causato importanti danni strutturali all’edificio e due ambulanze sono state colpite mentre evacuavano dei feriti.
PHR-Israele sottolinea che le Convenzioni di Ginevra garantiscono protezione alle strutture e al personale medico mentre svolgono il loro ruolo. L’Alta Corte di Giustizia israeliana ha detto, in merito a queste misure di protezione, che, anche nel caso in cui vi sia una preoccupazione ben fondata che la struttura medica venga utilizzata impropriamente, questa non consente una violazione radicale dei principi umanitari. “Va ricordato che per alcuni pazienti non ci sono le condizioni pratiche per spostarli in un’altra struttura, a ciò si aggiungono le difficoltà dei civili nella Striscia di Gaza per i quali talvolta non è possibile l’evacuazione a causa di Hamas o delle circostanze oggettive provocate dal conflitto. Infine deve essere sempre accertato che una determinata struttura sanitaria abbia effettivamente fatto parte delle attività militari e che vi sia una necessità militare immediata di colpirla”.
I numerosi casi di danneggiamenti riportati in questo comunicato sollevano gravi preoccupazioni sul fatto che l’esercito non stia operando secondo le norme del diritto internazionale, o intenzionalmente e per “ordini superiori” o per il fatto che le direttive riguardanti le strutture mediche non sono state inserite nelle linee guida o restano inapplicate sul terreno.
Alla luce di questo, e al fine di evitare ulteriori danni alle strutture mediche e ai membri del personale sanitario, PHR-Israele chiede che l’esercito cessi di impegnarsi in operazioni che mettono illegittimamente in pericolo il personale medico, e chiede che nelle linee guida vengano inseriti i divieti e le limitazioni che si applicano alle strutture mediche e al personale. Inoltre, PHR-Israele esige che avvenga un ripensamento immediato, e che l’esercito programmi le proprie azioni in modo da ridurre al minimo la possibilità di altri danni di questo tipo in futuro, e che venga fatta una revisione retroattiva e che si tenga conto dei danni già inflitti.


Per ulteriori informazioni: Lital Grossman, Spokeswoman, Physicians for Human Rights – Israel 052-3112136 media@phr.org.il
Ufficio stampa MEDU – 3343929765 / 0697844892


giovedì 17 luglio 2014

Il Piano Casa e di diritti dei migranti vulnerabili




Pubblichiamo anche noi il comunicato ufficiale di Medici per i Diritti Umani, divulgato lo scorso giugno, perchè ci sembra importante segnalare sempre situazioni a rischio di ingiustizia e problemi risolti contro i valori della dignità e della solidarietà.

Il Piano Casa mette a rischio i diritti di cittadinanza dei rifugiati più vulnerabili. Il caso Firenze.


4 giugno 2014 – Medici per i Diritti umani (MEDU) considera con grande preoccupazione la recente approvazione da parte del Parlamento della norma, contenuta nell’art.5 del Piano Casa 2014, che nega la possibilità di iscrizione anagrafica per coloro che occupino abusivamente un immobile.

La misura adottata istituzionalizza e generalizza una pratica, più volte denunciata da MEDU e da altre organizzazioni del terzo settore, già da tempo messa in atto dal Comune di Firenze (vedi il rapporto Rifugiati a Firenze ). Considerata la cronica carenza di posti di accoglienza per i migranti forzati nel nostro Paese, sono infatti migliaia sul territorio italiano i richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale che si trovano ad abitare stabili occupati in condizioni di precarietà . Nel solo caso di Roma, ad esempio, MEDU stima la presenza stanziale di almeno 2.000 migranti forzati costretti a vivere in condizioni di precarietà abitativa.

Medici per i Diritti Umani lavora a Firenze da anni in tali contesti (Magazzini Ex Mayer, struttura via Slataper, Parco delle Cascine, scuola viale Guidoni), rilevando le gravissime conseguenze di una politica decisa a livello comunale e ora estesa a livello nazionale. Di fatto la mancata iscrizione anagrafica, oltre a tradursi nella difficoltà per le Istituzioni a monitorare le reali presenze sul proprio territorio, priva il cittadino dei suoi più elementari diritti sociali, a partire dall’iscrizione ai Sistemi Sanitari Regionali e quindi dall’attribuzione di un medico di medicina generale.
Particolarmente critica risulta tra i rifugiati la situazione delle categorie più vulnerabili, quali persone affette da handicap fisici dovuti a traumi subiti nel paese di origine o durante il viaggio, per le quali risulta necessario un intervento fisioterapico, persone affette da patologie croniche gravi o disturbi di salute mentale incompatibili con una condizione di isolamento e precarieta’.

MEDU stima la presenza di circa 250 rifugiati che vivono in stabili occupati nel capoluogo toscano: donne, uomini e minori in fuga da guerre e persecuzioni personali che giungono nelle nostre città spesso dopo un breve periodo di permanenza all’interno dei Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo (CARA). Dei 170 rifugiati assistiti dall’unita’ mobile di MEDU negli ultimi 6 mesi che si trovano in questa situazione circa il 50% non risulta iscritto al Servizio sanitario regionale e il 74,4% risulta privo di residenza, mentre solamente il 17.9% è in possesso di iscrizione anagrafica a Firenze grazie al sostegno di parenti o amici.

Le persone che vivono all’interno di stabili occupati, siano esse italiane o straniere, subiscono una condizione di marginalità ed esclusione causata spesso dalla crisi economica in atto, aggravata in molti casi da un mancato accesso ai diritti socio-sanitari pur formalmente garantiti. In sintonia con quanto denunciato dalla stessa Agenzia ONU per i Rifugiati (UNHCR), MEDU chiede che venga garantita la possibilità di iscrizione anagrafica per tutte le persone vulnerabili che si trovano a dover vivere all’interno di edifici occupati e l’individuazione di adeguate soluzioni di accoglienza e integrazione per i numerosi rifugiati costretti nel nostro Paese a vivere in condizioni di grave precarietà abitativa.

Ufficio stampa – 3351853361 / 3343929765 / 0697844892 info@mediciperidirittiumani.org

Medici per i Diritti Umani (MEDU), organizzazione umanitaria indipendente, presta assistenza socio-sanitaria ai rifugiati in condizioni di precarietà dal 2004 nell’ambito del progetto Un camper per i diritti .

martedì 13 maggio 2014

Il VIDEO dell'incontro OPEN HEARTS, il cuore dei bambini di Emergency



Cari amici,

siamo felici di pubblicare per voi il video dell'incontro che l'Associazione per i Diritti Umani ha condotto con la Dott.ssa Manuela Valenti, pediatra che lavora per Emergency.

Abbiamo parlato del film OPEN HEARTS, candidato all'Oscar 2013, per riflettere sul tema della salute e di altri diritti. Ma è stata l'occasione per conoscere meglio anche alcune situazioni in Africa e in Afghanistan dove prestano il loro servizio i medici e Gino Strada.

Siamo certi che vi farà piacere.

L'incontro è stato organizzato da Fondazione AEM, Craem Milano e Associazione Libera Visionaria. Ringraziamo di cuore la Dott.ssa Valenti e gli organizzatori per questa opportunità.




Vi ricordiamo, infine, che tutti i video sono anche disponibili sul canale dedicato YOUTUBE dell'Associazione per i Diritti Umani

venerdì 18 aprile 2014

Lo Stato della follia




Vincitore del Premio “Ilaria Alpi”, nel 2013 e di molti altri riconoscimenti in Festival nazionali, il documentario Lo Stato della follia, del regista Francesco Cordio, apre le porte di alcuni ospedali psichiatrici giudiziari (OPG) italiani per denunciare le condizioni in cui versano le persone in essi detenute. Ma non solo: l'indagine si interroga anche sui motivi per cui alcuni vengono internati e troppo a lungo, sulle modalità di analisi delle loro condizioni psichiatriche, sul rapporto, del tutto burocratico, tra medici, magistrati e pazienti.



Abbiamo fatto, per voi, un'intervista a Francesco Cordio che ringraziamo molto per il tempo che ci ha voluto dedicare.





Il progetto nasce da una sua esperienza negli OPG a seguito dei lavori della Commissione parlamentare, commissione presieduta dal Senatore Ignazio Marino, sull'efficacia ed efficienza del Servizio sanitario Nazionale: come sono nati il suo interesse verso questo argomento e il progetto cinematografico?



Alcuni Senatori della Commissione d'inchiesta - che è una commissione straordinaria e non permanente – avevano visto dei miei lavori precedenti e, quando hanno deciso di andare a documentare in video quello che succedeva dentro gli ospedali psichiatrici giudiziari, mi hanno contattato.

Io non avevo alcuna conoscenza degli OPG e ho accettato un po' senza sapere dove mi stessero portando, ma dal primo ingresso che ho fatto non ho potuto fare altro, oltre allo shock, che appassionarmi al tema. Ho, quindi, chiesto ai Senatori di poter utilizzare quel materiale che stavo filmando per un loro lavoro interno (che per la prima volta nella storia della Repubblica è andato agli atti nei lavori della Commissione) anche un mio lavoro esterno più ampio, che potesse arrivare a un pubblico più vasto. La cosa mi è stata riconosciuta per cui, negli anni successivi, ho continuato ad occuparmi di questo tema e ho avuto la fortuna di di conoscere l'attore Luigi Rigoni che, invece, ha avuto la sfortuna di finire in un ospedale psichiatrico giudiziario, quello di Aversa, e ho deciso di far raccontare a lui la sua disavventura. Questo suo racconto si intreccia alle immagini che ho filmato dentro gli ospedali.



Il titolo del film può essere anche un gioco di parole: come può, lo Stato, ripristinare una psichiatria più democratica, che garantisca i diritti di base alle persone internate?

Ho optato per mettere nel titolo la “S” maiuscola perchè la cosa più assurda e paradossale è che sia lo Stato a rappresentare la parte folle: se devono essere curate delle persone che commettono un reato in uno stato di incapacità di intendere e di volere e, invece, vengono mandate ad ammalarsi o a peggiorare la propria situazione, allora vuol dire che è lo Stato ad essere folle.

Il percorso più opportuno da seguire, secondo me, potrebbe esserci suggerito dalla Spagna dove la persona incapace di intendere e di volere che compie un reato non può essere internata per un tempo più lungo della durata della pena di una persona che è in possesso delle proprie facoltà e che ha commesso un reato.

 

Qual è il nesso tra crimine e follia? E come mettere in pratica misure di sicurezza adeguate, tenendo conto della sentenza n. 139 della Corte Costituzionale del 1982 secondo la quale la pericolosità sociale “non può essere definita come un attributo naturale di quella persona o di quella malattia”?



E' fondamentale una valutazione psichiatrica più adeguata e,soprattutto, il percorso all'interno delle strutture ospedaliere deve avere una maggiore assistenza psichiatrica.

Se noi calcoliamo che dentro un OPG la visita dura in media 32 minuti...vuol dire che si è completamente abbandonati.

E' importante che gli psichiatri facciano valutazioni più appropriate nella fase della perizia ed è importante che, poi, i magistrati decidano confrontandosi di persona con gli psichiatri e con le persone che stanno per mandare in OPG perchè, spesso, magistrati e medici si relazionano tra loro solo tramite fax. E' tutto un fatto di carte e di burocrazia, ma in questo modo si gioca con la vita di persone deboli, indifese, che a volte non hanno una famiglia che le aspetta fuori. In questo senso lo Stato è molto colpevole.

Le misure di sicurezza risalgono ad un codice antico, al codice Rocco, e vengono comminate nel momento in cui la persona, incapace di intendere e di volere, compie un reato: se è minimo, la misura di sicurezza consta in due anni di internamento e, durante questo periodo, la Sanità nazionale dovrebbe curare l'internato per far scemare la sua pericolosità sociale. Se, al termine della misura di sicurezza, la nuova perizia stabilisce che la persona è ancora pericolosa, si può decidere per una eventuale proroga. E si arriva a 20,30 anni o ai famosi “ergastoli bianchi”.



Ci può riportare le voci di qualche persona rinchiusa, ad esempio, a Montelupo Fiorentino, a Reggio Emilia o ad Aversa, per citare solo poche strutture?



Tra le tante testimonianze che ho registrato, quella che più mi ha colpito è quella di un ragazzo internato a Reggio Emilia che, con grande lucidità, dice una frase: “ L'Uomo è un animale che può abituarsi a tutto, ma qua viene messo a dura prova”. Dopo qualche mese il ragazzo ha deciso di togliersi la vita.

Nei titoli di coda scrivo che il film è dedicato a lui e a tutti coloro che non ce l'hanno fatta.


giovedì 20 marzo 2014

Senzatetto non più per strada



Via Aldini 74, Milano: un indirizzo utile e un progetto di recupero. Nel rione Vialba, a Quarto Oggiaro, in una scuola comunale dimessa da oltre sei anni, oggi vengono ospitate persone senza fissa dimora, grazie alla Fondazione Progetto Arca e a Medici Senza Frontiere.

Si tratta della prima esperienza a livello nazionale: l'istituto scolastico è sttao trasformato in una struttura che accoglie circa 90 persone in stato di emarginazione e gravi difficoltà, (italiane e straniere), in un edificio che si va ad aggiungere agli altri già attivi sul territorio milanese, quali: il Centro di Aiuto Stazione Centrale o la Casa dell'Accoglienza di Viale Ortles, 69. Ma il valore aggiunto della “casa” di Via Aldini consiste nel fatto che qui è presente un laboratorio che fornisce l'assistenza sanitaria di base 24 ore su 24: Medici Senza Frontiere, infatti, monitora costantemente la salute degli ospiti e se qualcuno, alla prima visita, ha bisogno di cure approfondite o specialistiche, viene indirizzato presso gli ospedali della città. Al progetto lavorano anche l'associazione Mia Milano in Azione che si impegna ad accogliere i senzatetto e Fondazione Patrizio Paoletti che finanzia il rifornimento dei pasti caldi.

Loris De Filippi, presidente di Medici Senza Frontiere Italia, ha dichiarato: “ Nel 1999, MSF ha inaugurato il progetto Missione Italia per fornire assistenza sanitaria agli stranieri regolari e irregolari che si trovano nel nostro Paese con l'obiettivo di garantire l'accesso alle cure a queste persone e assistere chi sbarcava sulle nostre coste. Oggi, dopo oltre 13 anni di attività, le problematiche sociali, acuite a causa della attuale congiuntura economica, hanno spinto MSF a fare una riflessione sula necessità di intervenire non solo a favore dei migranti, ma delle persone più vulnerabili sul suolo italiano, senza distinzioni. L'invito da parte del Comune di Milano per un intervento medico sanitario all'interno del progetto di assistenza dei senzatetto nel periodo invernale ci è, dunque, sembrata l'occasione migliore per concretizzare un primo intervento di questa natura”. A queste parole si sono aggiunte quelle dell'assessore alle Politiche sociali, Pierfrancesco Majorino: “ Questa struttura e questo ambulatorio sono un piccolo miracolo, nato da un progetto sinergico che ha coinvolto il Comune e tre associazioni e che da solo rappresenta il modello di politiche sociali che vorremmo. Oltre ad arricchire l'offerta di posti letto nelle settimane di maggiore freddo, questo edificio - per anni inspiegabilmente inutilizzato e recuperato a tempo di record grazie al grande lavoro di numerosi volontari tra cui molti senzatetto - diventerà un punto di riferimento per l'accoglienza di chi si trova in difficoltà tutto l'anno. Abbiamo l'obiettivo di far diventare questo posto un pensionato sociale per famiglie bisognose. Aver recuperato questo grande e spazioso edificio è già un grande passo avanti...Un contributo significativo contro la povertà al di là delle stagioni”.


I numeri utili a cui segnalare casi di persone che dormono per strada o per informazioni sui servizi offerti sono: 02-884.47.645 / 02. 884.47.646 / 02. 884. 47.647 attivi tutti i giorni dalle ore 8.30 alle ore 23.00