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martedì 8 luglio 2014

Cercando Lindiwe: senza memoria non c'è identità





Valentina Acava Mmaka è una scrittrice italo-sudafricana, giornalista e attivista per i diritti umani. E' da poco uscito un suo romanzo - già edito nel 2007 e ora ripubblicato per Kabiliana Press - intitolato Cercando Lindiwe. Lindiwe è una donna nera, costretta ad abbandonare il Sudafrica a causa del massacro di Shaperville, avvenuto nel 1960 quando decine e decine di manifestanti pacifici vengono massacrati perchè protestano contro il pass, il lasciapassare dei neri per poter uscire dai ghetti.

Dopo 33 anni di esilio, la protagonista torna in patria, con il nome di Ruth. Ritorna sul proprio Passato e su quello del Paese: sull'apartheid, sulle discriminazioni, sui delitti. Una donna che vuole ricomporre la propria idendità perchè, come scrive l'autrice: “Non esiste identità se non c'è memoria”.

Un romanzo che rapisce e indigna. Un romanzo che ridà speranza solo, però, dopo un percorso di consapevolezza e riconciliazione.



Abbiamo rivolto alcune domande a Valentina Acava Mmaka e la ringraziamo molto per questo suo intervento.



Ci può, brevemente, spiegare cosa significhi essere esiliati?



L’Esilio è l’esperienza migratoria più estrema e ineluttabile. L’esilio è una separazione non solo dalla propria casa, dagli affetti ma anche dal proprio passato.

Il poeta Wallace Stevens lo definisce una “mente invernale”, la tensione verso una stagione più mite è solo un’illusione per l’esule. L’esilio di Lindiwe, nel romanzo, rispecchia questa immagine, quasi di fissità, di congelamento, di irrigidimento. L’essere partiti con il biglietto di sola andata è una condizione psichica estrema che trasforma la percezione della realtà nuova, quella dell’esilio, e anche quella del passato lasciato alle spalle. Stuart Hall diceva che ogni migrazione, dunque anche l’esilio, è in ogni caso sempre un viaggio di sola andata.



Qual è il prezzo che la protagonista ha dovuto pagare in nome della propria libertà? E quella libertà è strettamente collegata ai concetti di “appartenenza” e di “identità” che attraversano tutta la narrazione?



Lindiwe paga il prezzo più alto dalla sua esperienza di esilio rinunciando in primis alla nozione di appartenenza. L’esilio spazza via tutte le certezze e la spinge in un limbo che la rende estranea persino alla causa per la quale ha sempre lottato. La sua idea iniziale di continuare la lotta nell’altrove, in un luogo più “sicuro” nel quale enfatizzare la causa anti segregazione, è morta nel preciso momento in cui la nave è partita dal porto di Durban. La mancanza di tangibilità con il luogo della sua lotta diventa un deterrente. L’esilio definisce l’esule in relazione al luogo a cui appartiene, dove è nato, dove custodisce gli affetti e nel quale gli viene spesso negata la libertà, un rapporto di amore e di odio al tempo stesso. Per estremo l’altrove le impone, direttamente e indirettamente, di vivere uno spazio disconnesso senza corrispondenze, anche la vicinanza con altri esuli non sortisce in lei alcuna empatia o riconoscimento, poiché l’esilio è una esperienza legata al luogo che si lascia e in quanto tale, alla lingua, alla storia, è un legame di di affinità, di corrispondenze. L’esilio rappresenta un’ “assenza” ed è in essa che nasce il conflitto identitario della protagonista, dove attraverso un gioco di sdoppiamento della persona, tenta di capire le ragioni della sua inerzia, del suo “inverno” interiore.



Che cosa si intende per “ubuntu”?



L’ubuntu fa riferimento all’etica secondo cui io sono ciò che sono perché gli altri sono. È un principio fondamentale che può prestarsi come premessa di una società basata sul rispetto, sulla solidarietà, sul confronto, sulla riconciliazione. Un’utopia allo stato attuale in cui si trovano le società mondiali.


Può approfondire anche il tema che riguarda l'importanza della Memoria? Memoria storica, Memoria collettiva...


La scrittrice Toni Morrison scrive che non si può dare una passata di bianco al passato. Per quanto doloroso, anzi, maggiore esso è doloroso, con maggior vigore la fiamma del suo ricordo va alimentata. La memoria storica è un bene cui la collettività non può e non deve rinunciare. E’ importante per una società stabilire una relazione permanente costante e continua con il proprio passato, ci permette di sapere dove vogliamo che la “nostra” storia personale si collochi .La memoria aiuta una comprensione più ampia della Storia. Essa seleziona e moltiplica i significati degli eventi e li pone sul piano dei sentimenti e delle emozioni. In questo senso la memoria collettiva è indispenssabile ai fini dell’identità che rischia altrimenti di essere corrosa dalla frentica corsa verso la globalizzazione del presente.

La scrittura è il luogo che incarna il mio ideale di libertà. La scrittura declina concetti come patria, casa, paese nell’unico modo accettabile. In essa trovo possibile tradurre la realtà interna ed esterna trasferendola ad un piano immaginario dove posso riscriverla. La scrittura è la mia coscienza e la mia responsbailità come artista e donna.

domenica 26 gennaio 2014

In memoria di Nelson Mandela



 
Nella storia dell'umanità, sono tanti i fatti e le persone da ricordare e da onorare perchè - in situazioni difficili, di guerra, di discriminazione - hanno cercato la pace, la riconciliazione, il rispetto di tutti. E noi, nel nostro piccolo, in questi giorni della memoria, vogliamo onorare Nelson Mandela, a poche settimane dalla sua scomparsa: un uomo che ha lasciato un esempio e un testamento morale importantissimi.

Vogliamo ricordare Madiba con la galleria di immagini di Cinzia Quadrati, una nostra lettrice che ce le ha mandate e che ringraziamo. Le fotografie sono state scattate, lo scorso dicembre, davanti all'abitazione di Mandela a Johannesburg e, nel tragitto  tra le città di Johannesburg, Durban e Cape Town, come testimonianza dell'affetto e della riconoscenza del popolo sudafricano per il suo leader.

 (Se volete, potete cercare su questo sito gli altri articoli correlati a questo argomento)










mercoledì 11 dicembre 2013

Obama e Mandela: un ideale passaggio di testimone


Un filo diretto lega il primo presidente nero americano al primo presidente nero sudafricano che ora non c'è più. Barack Obama ha pronunciato, ieri, un discorso intenso e profondo, in occasione della cerimonia in ricordo di Mandela a Johannesburg, in cui si sono avvertite, chiaramente, la commozione e la gratitudine per quel piccolo grande uomo che ha cambiato la Storia, che ha lottato per l'uguaglianza, che ha difeso la democrazia: ideali che il Presidente degli Stati Uniti vuole continuare ad affermare con forza, portando avanti quell'operato così importante per il bene di tutti e che Mandela ha esercitato per tutta la sua esistenza.
Vogliamo riportare il discorso tenuto da Obama perchè la scelta delle sue parole - e gli esempi dei grandi leader che ha citato - siano un monito per il nostro agire e per la politica e affinchè rimanga un po' di Madiba in ognuno di noi.




Per Graça Machel e la famiglia Mandela, al Presidente Zuma e membri del governo, ai capi di Stato e di governo, passati e presenti, gli ospiti illustri – è un onore singolare di essere con voi oggi, per celebrare una vita diversa da qualsiasi altra…
Per il popolo del Sud Africa – persone di ogni razza e ceto sociale – il mondo vi ringrazia per la condivisione di Nelson Mandela con noi.La sua lotta è la vostra lotta. Il suo trionfo è stato il tuo trionfo. La vostra dignità e speranza trovarono espressione nella sua vita, e la vostra libertà, la vostra democrazia è la sua eredità amato.
E ‘difficile per elogiare un uomo – per catturare in parole non solo i fatti e le date che fanno una vita, ma la verità essenziale di una persona – le loro gioie e dolori privati, ai momenti di quiete e qualità uniche che illuminano l’anima di qualcuno.
Quanto più difficile farlo per un gigante della storia, che si è trasferito una nazione verso la giustizia, e nel processo si trasferisce miliardi in tutto il mondo.
Nato durante la prima guerra mondiale, lontano dai corridoi del potere, un ragazzo cresciuto immobilizzare i bovini e istruito dagli anziani della sua tribù Thembu – Madiba sarebbe emerso come l’ultimo grande liberatore del 20 ° secolo.
Come Gandhi, che porterebbe un movimento di resistenza – un movimento che al suo inizio ha tenuto poche possibilità di successo. Come re, avrebbe dato potente voce alle rivendicazioni degli oppressi, e la necessità morale della giustizia razziale.
Avrebbe sopportare una reclusione brutale che ha avuto inizio al tempo di Kennedy e Krusciov, e ha raggiunto gli ultimi giorni della Guerra Fredda. Emergendo dal carcere, senza la forza delle armi, avrebbe – come Lincoln – tenere il suo paese insieme quando minacciava di rompersi.
Come padri fondatori dell’America, avrebbe eretto un ordinamento costituzionale di preservare la libertà per le generazioni future – un impegno per la democrazia e Stato di diritto ratificato non solo dalla sua elezione, ma dalla sua volontà di dimettersi dal potere.
Data la scansione della sua vita, e l’adorazione che egli giustamente guadagnato, si è tentati poi ricordare Nelson Mandela come icona, sorridente e sereno, distaccato dalle vicende cattivo gusto degli uomini inferiori. Ma Madiba si è fortemente resistito un ritratto tale senza vita.
Invece, ha insistito per aver condiviso con noi i suoi dubbi e le paure, i suoi errori di calcolo insieme con le sue vittorie. ”Non sono un santo», disse, «a meno che non si pensa di un santo, come un peccatore che continua a provarci.”
E ‘proprio perché poteva ammettere di imperfezione – perché poteva essere così pieno di buon umore, anche male, nonostante i pesanti fardelli che portava – che abbiamo amato così. Non era un busto di marmo, era un uomo di carne e sangue – un figlio e il marito, un padre e un amico. Ecco perché abbiamo imparato tanto da lui, è per questo che possiamo imparare da lui ancora.
Per niente ha conseguito era inevitabile. Nell’arco della sua vita, vediamo un uomo che ha guadagnato il suo posto nella storia attraverso la lotta e l’astuzia, la persistenza e la fede. Egli ci dice che cosa è possibile, non solo nelle pagine dei libri di storia polverosi, ma nelle nostre vite.
Mandela ci ha mostrato il potere di azione, di rischiare in nome dei nostri ideali. Forse Madiba era giusto che ha ereditato “, una ribellione orgoglioso, un senso ostinato di equità” da suo padre. Certamente ha condiviso con milioni di neri e colorati sudafricani la rabbia nato, “mille offese, mille umiliazioni, mille momenti non ricordati … il desiderio di combattere il sistema che imprigionava la mia gente.”
Ma come altri primi giganti della ANC – i Sisulus e Tambos – Madiba disciplinato la sua rabbia, e incanalata il suo desiderio di combattere in organizzazione e le piattaforme, e le strategie di azione, così gli uomini e le donne potrebbero stand-up per la loro dignità.
Inoltre, ha accettato le conseguenze delle sue azioni, sapendo che in piedi fino agli interessi potenti e ingiustizie ha un prezzo. ”Ho combattuto contro la dominazione bianca e ho combattuto contro la dominazione nera”, ha detto al suo processo 1964. ”Ho accarezzato l’ideale di una società democratica e libera in cui tutte le persone vivano insieme in armonia e con pari opportunità. E ‘un ideale che spero di vivere e di raggiungere., Ma se necessario, è un ideale per che sono pronto a morire. “
Mandela ci ha insegnato il potere di azione, ma anche di idee, l’importanza della ragione e degli argomenti, la necessità di studiare non solo quelli siete d’accordo, ma chi non lo fai. Ha capito che le idee non possono essere contenute da muri della prigione, o estinte dal proiettile di un cecchino. Girò il suo processo in un atto d’accusa di apartheid a causa della sua eloquenza e passione, ma anche la sua formazione come un avvocato.
Ha usato decenni in carcere per affinare le sue argomentazioni, ma anche per diffondere la sua sete di conoscenza ad altri nel movimento. E ha imparato la lingua ei costumi del suo oppressore modo che un giorno avrebbe potuto meglio trasmettere a loro come loro libertà dipendeva la sua.
Mandela ha dimostrato che l’azione e le idee non bastano, non importa quanto a destra, devono essere cesellato in leggi e istituzioni.
Lui era pratico, testando le sue convinzioni contro la superficie dura della circostanza e della storia. Su principi fondamentali era inflessibile, ed è per questo poteva respingere le offerte di liberazione condizionale, ricordando il regime dell’apartheid che “i detenuti non possono stipulare contratti.” Ma, come ha dimostrato nei negoziati scrupoloso per trasferire il potere e redigere nuove leggi, non aveva paura di compromettere per il bene di un obiettivo più grande.
E perché non era solo un leader di un movimento, ma un politico abile, la Costituzione che è emerso era degno di questa democrazia multirazziale, fedele alla sua visione di leggi che proteggono minoranza nonché i diritti di maggioranza, e le preziose libertà di ogni Sud Africano.
Infine, Mandela capì i legami che legano lo spirito umano. C’è una parola in Sud Africa-Ubuntu – che descrive il suo dono più grande: il suo riconoscimento che siamo tutti legati insieme in modi che possono essere invisibili a occhio, che c’è una unità per l’umanità; che otteniamo noi stessi, condividendo con noi gli altri, e la cura per chi ci circonda. Noi possiamo mai sapere quanto di questo era innata in lui, o quanto di è stata sagomato e brunito in una cella di isolamento scuro.
Ma ricordiamo i gesti, grandi e piccoli – introduzione suoi carcerieri come ospiti d’onore al suo insediamento, tenendo il passo in uniforme Springbok, girando strazio della sua famiglia in una chiamata a lottare contro l’HIV / AIDS – che ha rivelato la profondità della sua empatia e comprensione . Egli non solo ha incarnato Ubuntu, ha insegnato milioni di scoprire che la verità dentro di sé.
Ci è voluto un uomo come Madiba per liberare non solo il prigioniero, ma il carceriere e, per dimostrare che è necessario fidarsi degli altri in modo che possano fidarsi di voi, per insegnare che la riconciliazione non è una questione di ignorare un passato crudele, ma un mezzo di confrontarsi con l’inclusione, generosità e verità. Ha cambiato le leggi, ma anche i cuori.
Per il popolo del Sud Africa, per chi ha ispirato in tutto il mondo – la scomparsa di Madiba è giustamente un momento di lutto, e un tempo per celebrare la sua vita eroica. Ma credo che dovrebbe anche indurre in ciascuno di noi un momento di auto-riflessione. Con onestà, a prescindere dalla nostra stazione o circostanza, dobbiamo chiederci: quanto bene ho applicato le sue lezioni nella mia vita?
E ‘una domanda che mi pongo – come uomo e come presidente. Sappiamo che, come il Sud Africa, gli Stati Uniti ha dovuto superare secoli di sottomissione razziale. Come era vero qui, ha preso il sacrificio di innumerevoli persone – conosciuti e sconosciuti – di vedere l’alba di un nuovo giorno. Michelle e io siamo i beneficiari di quella lotta.
Ma in America e Sud Africa, e paesi in tutto il mondo, non possiamo permettere che il nostro progresso nuvola del fatto che il nostro lavoro non è finito. Le lotte che seguono la vittoria di uguaglianza formale e suffragio universale non possono essere come piene di dramma e chiarezza morale di quelli che è venuto prima, ma non sono meno importanti.
Per tutto il mondo di oggi, vediamo ancora i bambini che soffrono la fame e le malattie, le scuole degradate, e poche prospettive per il futuro. In tutto il mondo oggi, uomini e donne sono ancora in carcere per le loro convinzioni politiche, e sono tuttora perseguitati per quello che sembrano, o come adorano, o che amano.
Anche noi, dobbiamo agire a favore della giustizia. Anche noi, dobbiamo agire in nome della pace. Ci sono troppi di noi che felicemente abbracciare l’eredità di Madiba della riconciliazione razziale, ma con passione resistere anche modeste riforme che avrebbero sfidare la povertà cronica e crescente disuguaglianza. 
Ci sono troppi leader che sostengono la solidarietà con la lotta di Madiba per la libertà, ma non tollerano il dissenso dal loro stesso popolo. E ci sono troppi di noi che stanno in disparte, confortevole compiacimento o cinismo quando le nostre voci devono essere ascoltate.
Le questioni che abbiamo di fronte oggi – come promuovere l’uguaglianza e la giustizia, per difendere la libertà ei diritti umani, per porre fine dei conflitti e settario la guerra – non hanno risposte facili. Ma non c’erano risposte facili di fronte a quel bambino in Qunu. Nelson Mandela ci ricorda che sembra sempre impossibile fino a quando si è fatto. Sud Africa ci mostra che è vero.
Sud Africa ci mostra che possiamo cambiare. Possiamo scegliere di vivere in un mondo non definito dalle nostre differenze, ma le nostre speranze comuni.Possiamo scegliere un mondo non definito da conflitti, ma per la pace e la giustizia e di opportunità.
Non riusciremo mai a vedere artisti del calibro di Nelson Mandela di nuovo.Ma lasciatemi dire ai giovani dell’Africa, e dei giovani di tutto il mondo – si può fare il lavoro della sua vita tua.
Più di trent’anni fa, quando era ancora studente, ho imparato di Mandela e le lotte in questa terra. Si agita qualcosa in me. E mi ha svegliato alle mie responsabilità – per gli altri, e per me – e mi mise in un viaggio improbabile che mi trovi qui oggi. E mentre io sarò sempre a corto di esempio di Madiba, fa venire voglia di essere migliore.
Egli parla di ciò che è meglio dentro di noi. Dopo questo grande liberatore si riposa, quando siamo tornati alle nostre città e villaggi, e ricongiunto nostra routine quotidiana, cerchiamo di ricerca, quindi per la sua forza – per la sua grandezza di spirito – da qualche parte dentro di noi.
E quando la notte fa buio, quando l’ingiustizia pesa sui nostri cuori, o dei nostri migliori progetti sembrano fuori dalla nostra portata – pensare di Madiba, e le parole che lo hanno portato conforto tra le quattro mura di una cella:
Non importa quanto sia stretta la porta,
quanto piena di castighi la vita,
io sono il padrone del mio destino:
io sono il capitano della mia anima.

Che una grande anima che era. Ci mancherà profondamente. Che Dio benedica il ricordo di Nelson Mandela. Dio benedica il popolo del Sud Africa.”


sabato 7 dicembre 2013

Nelson Mandela: un uomo, un'icona









 









Un numero: 46664. Più volte ripreso, fotografato, ricordato, scritto.
E' il numero che Nelson Mandela portava sulla sua giubba durante la sua lunga permanenza in carcere; la stessa cifra riportata infinite volte – sul palco, sugli spalti dello stadio, sui corpi e sulle magliette dei partecipanti – durante il mega concerto che si è tenuto a Londra nel 2008 in occasione del novantesimo compleanno del grande leader.
Quel numero è un simbolo come lo è colui che lo ha portato addosso per tanto tempo: Nelson, Madiba, Rolihalha (“combina guai”) premiato con il Nobel per la pace; l'uomo che si è battuto, per una vita intera, per i diritti di tutti, per la libertà e per la giustizia.
Se ne va a 95 anni, probabilmente a causa di problemi respiratori dovuti alla tubercolosi contratta durante la sua prigionia a Robben Island. Negli ultimi mesi, Mandela era stato ricoverato più volte per poi essere dimesso per ricevere le cure e le attenzioni necessarie nella sua casa, a Johannesburg.
Molti i messaggi di cordoglio per la perdita di una persona che lascia un'eredità etica, morale e politica così importante. Il Presidente americano, Barack Obama, primo Presidente nero garzie anche alla lotta di mandela contro ogni discriminazione, ha affermato: “ Nelson Mandela è vissuto per un ideale e l'ha reso reale. E' uno dei personaggi più coraggiosi della nostra era. Appartiene al tempo, alla storia. Ha trasformato il Sudafrica e tutti noi. Il suo lavoro ha significato moltissimo. Noi troviamo fonte di esempio e di rinnovamento nella riconciliazione e nello spirito di resistenza che ha fatto dell'azione di Mandela una cosa vera”. Il leader cubano, Raul Castro ha definito Mandela “un caro compagno”; il Presidente palestinese, Mahmoud Abbas ha dichiarato che: “ Mandela è stato un simbolo della liberazione dal colonialismo e dall'occupazione per tutti i popoli che aspirano alla libertà”; dalla Cina arrivano, via web, le parole di un altro Premio Nobel per la Pace, Liu Xiaobo, che sta scontando una pena detentiva di 11 anni per l'accusa di “sovversione”, il quale scrive: “ Stiamo ricordando una persona che ha rispettato e si è battuta per anni per i diritti umani, la libertà e l'uguaglianza”.
In Italia, il Ministro per l'integrazione, Cècile Kyenge, ha così espresso il suo dispiacere per la morte di Mandela: “ Una giornata triste perchè solo la sua presenza dava forza ai valori della lotta contro il razzismo e l'apartheid non solo per il continente africano, ma per tutto il mondo”.

Per ringraziare, a modo nostro, “Madiba” riportiamo la recensione di una ricca mostra sul tema dell'apartheid, allestita l'estate scorsa a Milano. Anche la Cultura, il materiale fotografico, video, i documenti scritti, contribuisco a mantenere viva la Memoria, l'operato, ma soprattutto, gli insegnamenti di questo piccolo-grande eroe contemporaneo.

L' apartheid raccontata in una mostra al PAC di Milano



Mentre sono critiche le condizioni di salute di Nelson Mandela, a Milano approda una grande esposizione che racconta uno dei periodi storici più significativi del '900: l'apartheid e le sue conseguenze, ieri come oggi.
Rise and fall of Apartheid: Photography and the Bureaucracy of Everyday Life” (“Ascesa e declino dell'Apartheid: fotografia e burocrazia della vita quotidiana): questo il titolo di un percorso visivo e culturale ricco, complesso, emozionante.
Frutto di oltre sei anni di ricerche, il progetto raccoglie le opere di quasi 70 fotografi, artisti e registi per proporre al pubblico - attraverso immagini, illustrazioni, posters, filmati, opere d'arte - un'analisi profonda della nascita dell'apartheid, della lotta per debellarla e delle sue conseguenze.



Apartheid” è parola olandese, composta da “separato” (apart) e “quartiere” (heid) ed è stata, in concomitanza con la seconda guerra mondiale, la piattaforma del nazionalismo afrikaner che ha portato alla segregazione razziale con lo scopo di mantenere il potere nelle mani dei bianchi. Dopo la vittoria dell'Afrikaner National Party, nel 1948, l'apartheid impone una serie di programmi legislativi che incidono sulla psicologia dei cittadini del Sudafrica, ma anche sulle strutture civili, economiche e politiche fino a coinvolgere ogni aspetto dell'esistenza e della quotidianità: dalle abitazioni, al tempo libero, dai trasporti ai commerci, dall'istruzione al turismo. Il sistema dell'apartheid è, quindi, diventato sempre più spietato nei confronti degli africani, dei meticci e degli asiatici, arivando a negare e a privarli dei loro diritti umani e civili.
Il lavoro dei membri del Drum Magazine, degli anni '50, dell'Afrapix Collective, degli anni '80 e del Bang Bang Club; le opere di fotografi sudafricani all'avanguardia, quali ad esempio, Eli Weinberg, Omar Badsha, Peter Magubane, Gideon Mendel, Kevin Carter, Sam Nzima; e ancora le immagini dei nuovi talenti come Thabiso Sekgale e Sabelo Mlangeni testimoniano, documentano e approfondiscono il tema, facendo dell'immagine uno strumento di critica politica e sociale.
La mostra è ideata dall'ICP International Center of Photography di New York e curata da Okwui Enwezor, direttore della Haus der Kunst di Monaco; per l'Italia è stata promossa e prodotta dal Comune di Milano, PAC e CIVITA e sarà allestita, al Padiglione d' Arte Contemporanea, fino al 15 settembre. E, per l'occasione, non potevano mancare anche dieci video di William Kentridge, che non ha bisogno di presentazioni.




martedì 3 settembre 2013

Contro le mutilazioni genitali femminili, di Valentina Acava Mmaka


Ringraziamo tantissimo l'autrice per averci mandato questo suo contributo da condividere con tutti voi.



Ho da poco concluso la prima parte di un tour in Italia cominciato a marzo di quest’anno in cui ho portato in giro una performance poetico-teatrale “The Cut-Lo Strappo” che è nata da una esperienza che ho fatto in Sudafrica a Cape Town. Nel 2011 ho dato vita ad un collettivo di donne con le quali volevo lavorare ad un progetto di scrittura e diritti umani. Nel corso del periodo in cui abbiamo lavorato insieme, sono state tante le tematiche affrontate, quella che alla fine ha preso il sopravvento sulle altre è stata le Mutilazioni Genitali Femminili (MGF). Il tema non mi era nuovo, avevo già scritto di MGF, avevo già avuto modo anni addietro di incontrare donne infibulate. Ma questa volta è stato diverso, perché questa volta si è presentata a me in modo inaspettato. Nel corso del lavoro una donna del collettivo mi ha confidato di essere stata vittima del “taglio”. Ad un certo punto del nostro lavoro, nel momento in cui riflettevamo sulla percezione di limiti e divieti imposti dalla società, si deve essere creato in lei un conflitto tra la sua esperienza e la possibilità di condividerla con il gruppo di lavoro. Era sorto in lei un dubbio (è possibile condividere un tabu’?), che al tempo stesso era una richiesta (come uscire dal dolore? come riappropriarsi o costruirsi una vita senza una parte di sé?). Sicuramente il potere della parola, dell’immaginario hanno sortito in lei la consapevolezza che l’arte può essere rappresentativa di una presa di posizione, di un’idea, di un cambiamento. Lei aveva percepito, anche se non completamente a livello conscio, che per cambiare si deve dire di NO a ciò che ad un certo punto della tua vita ha impedito una scelta.
Oggi sono 140 milioni circa le vittime nel mondo. Due milioni le bambine che ogni anno nel mondo vengono sottoposte alle Mutilazioni Genitali Femminili, denominazione entro cui rientrano diverse pratiche: dal taglio del clitoride, l’escissione, l’infibulazione. Sono tutte pratiche invalidanti e irreversibili, questo significa che la donna mutilata è una donna che porta sul suo corpo il dolore fisico nel quotidiano; il semplice urinare, il ciclo mestruale, la maternità, sono tutti eventi in cui la donna patisce rischiando continuamente la sua vita a causa di infezioni, setticemia, tetano, senza contare che le mutilazioni aumentano il rischio di infertilità.
Le MGF vengono praticate per diversi motivi: inibire il piacere sessuale nella donna, che deve essere esclusivo dell’uomo; controllare la fedeltà della donna (il dolore che la donna prova nel rapporto sessuale e il suo piacere inibito, scoraggiano la donna a intraprendere relazioni adulterine); rendere la donna pura asportando quella parte del corpo ritenuta imperfetta. E’ importante sottolineare che le MGF non sono una pratica prescritta da alcuna religione, né tantomeno sono un problema solamente africano. Certamente l’Africa è il continente con il maggior numero di paesi dove sono praticate, ma ricordo che l’Indonesia, l’India, il Sud America sono tra i le aree geografiche dove le MGF sono una pratica tradizionale presso alcuni popoli. Uno degli aspetti raramente condivisi e sottolineati è l’implicazione che questa pratica ha non solo a livello culturale ma anche socio economico. Le MGF praticate nei paesi di origine, non rispondo solo alla necessità di ribadire un ideale che vuole la donna facilmente controllabile dall’uomo, ma anche ad una esigenza di tipo economico. Innanzi tutto la daya che pratica le MGF vive di questo, viene pagata per farlo, è il suo lavoro. Quindi al di là del ruolo di prestigio sociale tramandato, la daya svolge una professione che è la sua fonte di guadagno. Inoltre la bambina senza il taglio è una bambina che non potrà mai accedere al mondo femminile delle sue coetanee tagliate, non potrà cioè sposarsi e questo vuol dire per la famiglia niente dote, altra implicazione di tipo economico. Un altro degli aspetti sconcertanti è che in alcune situazioni, soprattutto là dove le mutilazioni sono praticate in altissima percentuale, talvolta sono le bambine stesse a richiederla per non essere discriminate a scuola o addirittura per andare a scuola visto che chi non si sottopone al taglio, viene bandito dalla frequenza della scuola. Questo è inquietante perché significa che è una pratica talmente radicata e stigmatizzata che la mancanza di partecipazione finisce per diventare una ulteriore condanna dalla società, significa diventare ad un tratto delle “invisibili”, delle “fuori casta” con le conseguenze del caso: discriminazione, impossibilità di studiare, allontanamento della famiglia dal resto della società. In questi casi estremi sembra 0non esserci una via d’uscita. Ci sono due punti su cui mi piace riflettere: da una parte c’è l’aspetto dei diritti umani che vanno tutelati in toto, ad esempio, condannando anche qualunque tipo di rito alternativo lieve come quello proposto dal medico somalo Omar Abdulcadir. E su questo tema ci sarebbe molto da dire perché il concetto di Diritti Umani non è riconosciuto universalmente allo stesso modo ovunque. Essendo i diritti umani non riconosciuti universalmente occorre legittimarli attraverso il confronto pluralista con le culture che non li contemplano nel loro sistema sociale tradizionale. Dall’altra è il ruolo dei migranti nei paesi di immigrazione rispetto a questa pratica. La pratica delle MGF si è diffusa a livello mondiale nella nostra contemporaneità grazie ai flussi migratori di persone provenienti da paesi dove essa è parte della tradizione socio culturale. Anche in Sudafrica dove le MGF non sono precipue delle culture locali, capitolo a parte i Venda che la praticano, ho incontrato migranti provenienti dall’Africa orientale e occidentale che continuavano a “tagliare” le loro bambine. 


Credo che il cambiamento sia possibile come è già avvenuto in alcuni paesi e presso diverse comunità, soprattutto africane, nella diaspora. Cambiare significa dire di NO non solo a livello individuale, come scelta e decisione personale ma a livello familiare e collettivo dell’intera comunità di appartenenza. L’opposizione del singolo non porta all’abbandono collettivo della pratica, tuttavia alzarsi in piedi e rivendicare i propri diritti che sono i dritti fondamentali come quelli alla salute, a condurre una vita completa, è fondamentale, può offrire una occasione per altre donne di confrontarsi con la possibilità di cambiare collettivamente. Lavorare sul cambiamento è possibile grazie ad un percorso di conoscenza ed emancipazione nei paesi dove le mutilazioni sono praticate. Le donne che si oppongono alle MGF vengono emarginate e non godono più di quel sostegno economico che una famiglia può darle per sopravvivere. Ecco che sradicare la pratica del taglio deve nascere da un percorso dove la donna viene messa nella condizione di scegliere e questa condizione prevede l’accesso all’istruzione e l’acquisizione di una autonomia economica sostenibile che le permetta di non doversi più sottomettere all’autorità maschile. Il miglioramento della condizione femminile all’interno della propria società originaria porta di riflesso anche ad una diversa percezione delle tradizioni culturali e quindi ad esaminare credenze e valori optando per un cambiamento nella loro pratica.
Un ruolo determinante è quello rappresentato dalle comunità dei migranti. I migranti che provengono da aree geografiche dove le MGF sono praticate anche contro la legge, possono diventare mediatori di un cambiamento. Vivere l’altrove inevitabilmente mette la persona nella situazione di rapportarsi a nuove idee, a nuovi “modelli”, a un concetto diverso della donna e dei suoi diritti. Conoscere significa prendere coscienza. Se nell’altrove le comunità migranti riescono ad acquisire consapevolezza circa la dannosità di questa pratica e riescono, attraverso i loro figli, quindi i migranti di seconda generazione, a interrompere il supplizio, allora possono diventare gli interlocutori-fautori del cambiamento anche nei loro paesi originari. Anche in questo caso, statisticamente si evidenzia che le donne che godono di una istruzione di livello superiore e hanno comunque una autonomia economica derivante dal lavoro, non sottopongono le loro figlie alle MGF. Quindi anche nella diaspora, tali condizioni di emancipazione vanno garantite in modo da creare mediatrici efficaci di un cambiamento sostenibile in patria.
E’ un passaggio fondamentale, il cui primo scoglio da superare è proprio la condivisione. Le MGF sono un tabù, le comunità che le praticano non ne parlano, difficile immaginare una dodicenne che condivida questa esperienza con una coetanea in una scuola italiana, inglese o spagnola. Sono comprensibili anche i motivi: innanzi tutto si prova un senso di vergogna perché il proprio corpo è stato mutilato mentre il corpo delle altre bambine no, poi esiste un disagio evidente fisico, un trauma psicologico derivato dall’impossibilità di condurre una vita attiva pari a quella condotta fino al taglio. Inoltre c’è il dubbio giustificato di come si possa condividere qualcosa che altri non potrebbero capire o addirittura che potrebbero giudicare? La scuola secondo me dovrebbe essere il luogo primario da cui cominciare a riflettere sulla tematica fornendo ai ragazzi una documentazione completa sulle MGF, degli strumenti da utilizzare insieme agli educatori e alle famiglie per avvicinarli al problema con la consapevolezza che sta alla base di ogni cambiamento sostanziale. Di MGF si parla solo quando la cronaca riporta notizie drammatiche come quella della bambina egiziana Suahir morta dopo essere stata infibulata. La letteratura che ne parla in Italia è insufficiente anche perché è quasi tutta incentrata sugli aspetti antropologici della pratica, manca ad esempio una letteratura per ragazzi, a parte il libro di Silvana de Mari Il gatto dagli occhi d’oro, non ho trovato una pubblicazione per bambini/ragazzi che tratti l’argomento sotto forma di racconto-favola-fiaba. Sempre in Italia, e sempre secondo la mia esperienza, i consultori sono privi di materiale informativo sulle MGF, forse qualche eccezione saranno i consultori delle grandi città, ma realmente manca ogni possibilità di “sentire” che questo problema esiste anche qui. La legge del 2006 prevedeva uno stanziamento economico di diversi milioni di euro da destinare alla formazione del personale medico sanitario e alla realizzazione di opuscoli informativi, e sportelli di accesso per le donne vittime del taglio. Resta inteso che tali finanziamenti non sono stati investiti come previsto.
E’ per questo motivo, con uno sguardo speciale rivolto al mondo dei giovani, che io e il documentarista Lorenzo Moscia stiamo cercando di realizzare un film documentario che parli di MGF sempre però bypassando l’argomento attraverso i diversi linguaggi dell’arte che meglio di altri, sa veicolare il dolore e stimolare un pensiero creativo e sensibile. Il film documentario vuole essere uno strumento di dialogo e confronto, un’occasione per cominciare a riflettere sulla tematica coinvolgendo tutte le parti della società, e offrire anche proposte per un cambiamento sostenibile che abbatta gli stereotipi e i pregiudizi che purtroppo non aiutano le vittime ad aprirsi verso una possibilità di confronto. Il progetto di questo lavoro si chiama Breaking The Cut e per poterlo realizzare si avvale anche di un sistema di sottoscrizione popolare attraverso cui le persone diventano co-produttori del documentario. Una formula che oltre a permettere la realizzazione dello stesso, pone in essere un interesse nella gente che partecipando al progetto sostiene questa causa di impegno civile. Stiamo anche coinvolgendo artisti in giro per l’Italia che vogliono sostenerci con delle serate di poesia, musica, teatro, danza, una sorta di staffetta “Artisti contro le MGF” .



Per informazioni

venerdì 5 luglio 2013

L' apartheid raccontata in una mostra al PAC di Milano



Mentre sono critiche le condizioni di salute di Nelson Mandela, a Milano approda una grande esposizione che racconta uno dei periodi storici più significativi del '900: l'apartheid e le sue conseguenze, ieri come oggi.
Rise and fall of Apartheid: Photography and the Bureaucracy of Everyday Life” (“Ascesa e declino dell'Apartheid: fotografia e burocrazia della vita quotidiana): questo il titolo di un percorso visivo e culturale ricco, complesso, emozionante.
Frutto di oltre sei anni di ricerche, il progetto raccoglie le opere di quasi 70 fotografi, artisti e registi per proporre al pubblico - attraverso immagini, illustrazioni, posters, filmati, opere d'arte - un'analisi profonda della nascita dell'apartheid, della lotta per debellarla e delle sue conseguenze. 


Apartheid” è parola olandese, composta da “separato” (apart) e “quartiere” (heid) ed è stata, in concomitanza con la seconda guerra mondiale, la piattaforma del nazionalismo afrikaner che ha portato alla segregazione razziale con lo scopo di mantenere il potere nelle mani dei bianchi. Dopo la vittoria dell'Afrikaner National Party, nel 1948, l'apartheid impone una serie di programmi legislativi che incidono sulla psicologia dei cittadini del Sudafrica, ma anche sulle strutture civili, economiche e politiche fino a coinvolgere ogni aspetto dell'esistenza e della quotidianità: dalle abitazioni, al tempo libero, dai trasporti ai commerci, dall'istruzione al turismo. Il sistema dell'apartheid è, quindi, diventato sempre più spietato nei confronti degli africani, dei meticci e degli asiatici, arivando a negare e a privarli dei loro diritti umani e civili.
Il lavoro dei membri del Drum Magazine, degli anni '50, dell'Afrapix Collective, degli anni '80 e del Bang Bang Club; le opere di fotografi sudafricani all'avanguardia, quali ad esempio, Eli Weinberg, Omar Badsha, Peter Magubane, Gideon Mendel, Kevin Carter, Sam Nzima; e ancora le immagini dei nuovi talenti come Thabiso Sekgale e Sabelo Mlangeni testimoniano, documentano e approfondiscono il tema, facendo dell'immagine uno strumento di critica politica e sociale.
La mostra è ideata dall'ICP International Center of Photography di New York e curata da Okwui Enwezor, direttore della Haus der Kunst di Monaco; per l'Italia è stata promossa e prodotta dal Comune di Milano, PAC e CIVITA e sarà allestita, al Padiglione d' Arte Contemporanea, fino al 15 settembre. E, per l'occasione, non potevano mancare anche dieci video di William Kentridge, che non ha bisogno di presentazioni.


La mostra “Rise and Fall of Aparheid” proseguirà al PAC fino a domenica 15 settembre 2013, con i seguenti orari: da martedì a domenica dalle 9.30 alle 19.30, giovedì dalle 9.30 alle 22.30 (lunedì chiuso). L’esposizione sarà aperta anche a Ferragosto, dalle 9.30 alle 22.30
Il biglietto d’ingresso ha un costo di 8 euro (6,50 euro il ridotto). Per ulteriori informazioni: 02/88446359-360.




sabato 18 maggio 2013

Uno sguardo sull'apartheid: le fotografie di Pino Ninfa

Dal 2 al 15 maggio è stata allestita, nel foyer dello Spazio Oberdan a Milano, la mostra Round about township del fotografo Pino Ninfa, promossa dalla Provincia. Luoghi storici e periferie urbane delle due grandi città del Sudafrica: Città del Capo e Johannesburg. Qui esiste ancora l'apartheid, ma si possono trovare anche segni di grande solidarietà e di dignità profonda.
Pino Ninfa ha tenuto anche un workshop con i ragazzi che vivono nelle township e le immagini sono state raccolte in pannelli che hanno arricchito l'esposizione milanese.


Riportamo le parole del fotografo e alcune sue immagini

 
 In che forme è ancora presente l'apartheid in Sudafrica?

L’apatheid è presente in molte forme.
In quelle zone bianche del Sudafrica che non hanno accettato la fine dell’apartheid e anche una apartheid al contrario dove i neri, che hanno una posizione di un certo rilievo (nella polizia per esempio), la esercitano con una certa discriminazione verso i bianchi.
Io ho vissuto un esperienza di questo genere: sono stato fermato con tentativo di arresto solo perchè fotografavo un cartello in prossimità di una stazione.
Non c'era nessun divieto,ma anche se vi fosse stato i modi e i metodo usati erano quelli di chi vuol fare pagare a qualcuno per i torti subiti in passato o per il colore della pelle.Per fortuna non tutti la pensano così.


Com'è stata la sua esperienza con i ragazzi che vivono nelle township? Ci può raccontare la storia di qualcuno di loro?

Nascono tutti in condizioni di estrema povertà.
Cercano di fare tanti piccoli lavoretti per vivere, un po' come dappertutto: scaricano, portano in giro volantini, e in rari casi, fanno i commessi. Pochi vanno a scuola.
Edward, però, che ha frequentato il corso che ho tenuto con loro, ha cercato col tempo di di mettere via i soldi per acquistare una macchina fotografica e per cercare di realizzare il suo sogno: quello di diventare fotografo. Adesso inizia a girare e a proporsi.

Quali interventi sarebbero necessari per migliorare le condizioni della loro vita?

Innanzitutto una ridistribuzione delle ricchezze.
Inoltre, bisogna avere senso civile per dare un aiuto concreto, cercando di capire bene con chi si ha che fare (le persone da aiutare),studiandone le abitudini, i bisogni, e i motivi della loro emarginazione.
Di solito le township sono abitate da persone che arrivano da fuori, senza reddito,senza nulla,quindi per migliorare le loro condizioni di vita basta qualsiasi cosa, a cominciare dalle priorità: il cibo e il lavoro. Bisogna, in questo caso, anche insegnare loro il modo di potersi proporre quando si va alla ricerca di lavoro o si vuole mostrare la propria competenza.

La fotografia, oggi, riesce a coniugare l'aspetto poetico con la documentazione della realtà?

Secondo me sì. Per quanto mi riguarda una fotografia che non riesce a toccare anche i ritmi del cuore e della poesia, manca di una parte importante.
Documentare la realtà è anche raccontarla e un racconto senza poesia molto spesso perde subito di interesse.

Quanto, il suo lavoro, è ispirato all'arte pittorica?

Sono un appassionato di arte in genere. La pittura per me è stato uno strumento importante per avvicinarmi in profondità alle cose della vita. Che sia la luce, il ritratto,la forma in genere. Con l’arte si incontra spesso il lato nascosto delle cose e lo si esplora.
La pittura mi ha fornito questa possibilità. 






 

lunedì 25 febbraio 2013

William Kentridge: riflettere sulla contemporaneità




Sudafricano di Johannesburg, classe 1955, William Kentridge è un artista completo, eclettico e profondo. Disegnatore, incisore, cineasta crea installazioni oniriche e visionarie, film animati contaminati dalla musica e dalla danza, dalla poesia e dal teatro: per esplorare la contemporaneità.
La sua Arte è in mostra al MAXXI (Museo nazionale delle arti del XXI secolo) di Roma, fino al 3 marzo 2013 con un'esposizione intitolata William Kentridge. Vertical Thinking, a cura di Giulia Ferracci. Il nucleo della mostra è dato dall'installazione “The refusal of Time” ed è, come racconta la curatrice: “Un'istallazione colossale, un'esplosione di musica, immagini, ombre cinesi con, al centro dello spazio, una scultura lignea che ricorda le macchine di Leonardo Da Vinci”. Si tratta, infatti, di una riflessione sul tempo standardizzato dalle convenzioni globali.
Ma Kentridge, oltre a proporre riflessioni metafisiche, sa anche calarsi nella realtà, intrecciando, ad esempio, gli avvenimenti del suo Paese d'origine (il Sudafrica) con i lavori dei grandi maestri del Passato e marchiando le opere con il proprio stile, uno stile che mescola acqueforti e intagli, disegni e materiali di archivio, video e fumetto. L'argomento che gli sta più a cuore è il tema dell'apartheid, la “roccia”, come lui ama definire la segregazione razziale, quella roccia, quel macigno contro cui anche l'arte è destinata a scontrarsi. Come molti altri artisti, anche suoi connazionali (quali, ad esempio, la Gordimer e Coetzee), Kentridge non affronta spesso l'apartheid in maniera diretta e frontale, ma lo fa attraverso artifici artistici che restituiscono agli spettatori sensazioni e vertigini, che suggeriscono associazioni di idee, che costringono ad andare oltre l'apparenza per scoprire il significato nascosto della sua analisi e della sua riflessione. Ecco, quindi, che, in “Zeno Writing”, la vicenda del protagonista del romanzo “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo diventa metafora della società sudafricana contemporanea; oppure in “Flagellant”, liberamente tratto da “Ubu Roi” di Alfred Jarry, torna il tema della segregazione; oppure nel grande arazzo “North Pole Map” viene evocato l'attraversamento dei confini.
Uno sguardo sul Presente, quello dell'artista sudafricano, sensibile e raffinato, per un giudizio implacabile.