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venerdì 3 luglio 2015

La lotta contro l'oblio di un desaparecido argentino




 

Una storia d'amore che supera la categoria del Tempo: è quella fra Simòn e Emilia che, dopo trent'anni, si ritrovano, forse nella realtà, forse nella fantasia, ma si ritrovano.

Simòn Cardoso era morto da trent'anni quando Emilia Dupuy, sua moglie, lo incontrò all'ora di pranzo nella saletta riservata di Trudy Tuesday...Era rimasto fermo ai suoi trentatrè anni, e perfino gli abiti erano quelli di allora”: questo l'incipit del romanzo intitolato Purgatorio, dello scrittore Tomàs Eloy Martinez (Sur edizioni) in cui si racconta una vicenda privata intrecciata all'inverno del 1976, l'anno più tragico della dittatura argentina. Il protagonista, Simòn, viene arrestato dai militari di Tucumàn e da quel momento non si sa più nulla di lui fino alla sua ricomparsa agli occhi della moglie.

Mescola fantasy, realtà e indagine giornalistica, Martìnez nel comporre questa sinfonia che contrappone l'orrore del terrorismo di Stato alla forza incrollabile dei sentimenti. Nel testo si riconoscono i nomi di medici esistiti davvero, luoghi geografici precisi, così come il soggetto nasce dalla storia autentica dello stesso scrittore, costretto all'esilio durante la dittatura militare, affetto da un male incurabile, forse anche a causa della profonda nostalgia per il proprio Paese.

Lo stile narrativo risulta originale nel suo mescolare i generi, come detto, e anche per l'alternanza delle voci: il racconto, infatti, inizia in terza persona per poi passare alla prima persona, nella seconda parte e nel finale, come a dare maggiore verosomiglianza ai fatti narrati. Il personaggio di Emilia si identifica con quello dell' “io narrante” (l'autore?) e, insieme, rappresentano l'autocoscienza, la lucidità di una società ingannata e che, troppo spesso, ha fatto finta di non vedere e di non sentire. Ecco perchè diventa necessario il ritorno di Simòn: che sia di carne o di spirito, la sua presenza è importante per non far scadere la Storia nell'oblio, per ricordare - soprattutto alle nuove generazioni - la tragedia accaduta neanche tanti anni fa.

L'assurdità della nostra storia è diventata qualcosa di sorprendente, ma naturale, la frammentazione che ci veniva imposta dal Potere si è infiltrata nella nostra vita e ci ha trasfigurato in esseri incompleti...La valanga ha esiliato tutti noi che dissentivamo dal Potere, dentro e fuori: ci ha confinato alla scomparsa, ci ha obbligato all'inesistenza”, afferma Martìnez: il libro vuole restituire completezza agli individui di allora e a chi è rimasto, per ridare a tutti loro dignità e giustizia. Ricordando che “un desaparecido è un'incognita, non ha identità, non è né vivo né morto, non c'è. E' un desaparecido.” E dobbiamo essere noi la loro voce.

venerdì 23 gennaio 2015

L' Iran tra cotraddizioni forti e serena quotidianità





L'Iran de La signora melograno, edito da Calabuig, della scrittrice Goli Taraghi non è quello cui ci ha abituato la stampa ufficiale. Si tratta di un Paese difficile e contraddittorio , in cui spesso i diritti sono negati, ma nei racconti del testo emerge anche un Paese dove, a tratti, sono possibili serenità e leggerezza. Taraghi tratteggia profili, narra vicende familiari, descrive l'ostilità di un Paese straniero (la Francia) e, sullo sfondo, ci sono tutti gli avvenimenti anche terribili che hanno attraversato e segnato gli ultimi decenni della storia dell'Iran: da Mohammad Mossadeq allo Scià qajar, da Khomeini ad Ahmadinejad.Le storie narrate parlano di ragazzi turbolenti alle prese con padri severi, donne di ogni età che afferrano la consapevolezza di sé, quadretti familiari quotidiani che tratteggiano persone comuni che non lasciano spazio agli stereotipi.
Certo, qualcuno potrà dire che Goli Taraghi non si renda conto della situazione perchè appartiene a una categoria privilegiata, quella delle persone agiate e intellettuali. Ma forse non è così: si tratta di lasciare spazio, ogni tanto, alla vita, a quella parte dell'esistenza più tranquilla, a cui tutti avremmo diritto di aspirare.
Nell'ottima traduzione dal persiano di Anna Vanzan, c'è il riferimento al titolo del libro,
La signora melograno. Una anziana signora che non si è mai allontanata dall'isolato villaggio dell'interno vivendo dei frutti della sua terra, decide di raggiungere i figli emigrati in Svezia. La prima tappa del viaggio, dal villaggio a Teheran, è molto impegnativo e stancante ma non è nulla rispetto a ciò che l'aspetta per raggiungere in aereo Parigi e da lì la Svezia.



Abbiamo rivolto alcune domande alla traduttrice, Anna Vanzan, che ringraziamo.




La letteratura è una forma di liberazione/emancipazione femminile, in Iran come in altri Paesi sotto dittatura?



Fin da tempi remoti le donne d’Iran si sono manifestate attraverso la letteratura, dapprima esclusivamente con la poesia, perlopiù a fondo mistico. Meditare e scrivere erano considerate attività “domestiche” e come tali plausibili per le signore della buona società islamo-persiana. Alcune di loro partecipavano a pubbliche tenzoni poetiche, sfidando i loro colleghi maschi. Molte immagini da loro usate erano volutamente mistiche ed esoteriche proprio per potersi esprimere liberamente. A metà del XIX secolo le donne hanno cominciato a usare la prosa, spesso colorandola di una chiara protesta nei confronti del patriarcato. In un secolo e mezzo le iraniane hanno conquistato la letteratura del loro Paese, trasformando una tradizione quasi esclusivamente lirica e scritta da uomini in una corrente prosastica il cui numero di autrici sovrasta ormai quello degli scrittori.




Come ha conciliato – Goli Taraghi – la sua esperienza di cittadina iraniana e di persona costretta all'esilio?



Goli Taraghi è una scrittrice nata e alla sua penna ha affidato pure le pene dell’esilio. Anche prima del suo trasferimento in Francia aveva sperimentato alcune forme letterarie (romanzo e racconti brevi) che però riflettevano soprattutto un viaggio alla ricerca di in sé stessa, vagamente venata da auto compiacimento. L’esilio ha modificato il suo stile, costringendola a un continuo ricordo che non è ripiegamento sul passato e/o autocommiserazione, ma un processo dinamico che usa il passato per proiettarsi in avanti.




Qual è lo stile narrativo dei racconti di questo libro e quale il motivo di questa scelta?



La narrazione di Goli Taraghi è apparentemente semplice e lineare, ma al contempo ricca e profondamente umana. I suoi racconti sono malinconici e comici al contempo, lei si rivolge soprattutto ai suoi connazionali coi quali condivide una straordinaria capacità di adattamento ad ogni difficoltà che la vita pone innanzi. I racconti di Taraghi sono paradigmatici di queste qualità che gli iraniani hanno sviluppato ed esercitato per millenni.




E' interessante, ad esempio, il racconto intitolato “Madame lupo”: ce lo può commentare?



E’ un ottimo condensato di alcune delle problematiche che si trova ad affrontare l’esule (non solo iraniano): complesso di inferiorità nei confronti della civiltà “ospitante”, risentimento per le umiliazione che il nuovo mondo lo costringe a subire, e, infine, la ribellione. Goli Taraghi esprime tutto ciò in modo estremante poetico, denso e vibrante.



Il tema della censura è centrale nel pensiero e nei testi di Goli Taraghi e di tanti autori iraniani...


La censura è un’istituzione plurimillenaria sull’altopiano iraniano. Al tempo dei sommi poeti Hafez e Sa’di non c’era un ufficio della censura come quello istituito ufficialmente a metà del XIX secolo dalla dinastia Qajar, poi trasformato sotto quella dei Pahlavi e ora diretto dalla Repubblica Islamica. Ma anche Hafez e Sa’di sapevano che, per sferzare i potenti, c’era bisogno di usare metafore e calibrare sapientemente le parole. Nulla è cambiato….

venerdì 7 novembre 2014

Farian Sabahi racconta le donne iraniane (e non solo)



Oggi, cari lettori, pubblichiamo per voi il video dell'incontro che l'Associazione per i Diritti Umani ha organizzato con la presentazione dei saggi di Farian Sabahi: Noi donne di Teheran e Il mio esilio.



Questo incontro e questo video sono dedicati a Reyhaneh Jabbari, condannata a morte e poi impiccata nel carcere di Teheran per l'uccisione, nel 2009, dell'uomo che tentò di stuprarla.



Oggi, 7 novembre, è la giornata mondiale contro la violenza di genere. Ricordiamo che il numero italiano per denunciare o segnalare casi di violenza è il 1522.











Se apprezzate il nostro lavoro e i nostri incontri pubblici, potete sostenerci con una piccola donazione anche di 2 euro. Basta cliccare, in alto a destra, sulla dicitura “Sostienici” ed effettuare la donazione con Paypall o bonifico, è facile e sicurissimo. Grazie!

martedì 7 ottobre 2014

Mille farfalle nel sole: spiegare l'esilio ai bambini




"Sono cresciuta in una famiglia di origini per metà curde e per l'altra metà persiane, ad Abadan, in Iran, la città del fiume lento e delle palme svettanti. Era il posto dove tutta la mia famiglia aveva riso, ballato, pianto, fatto l'amore. Lì era sepolto mio nonno Abbas ed erano nati i miei zii, le zie, io e mia sorella. Era un altro Iran, quello degli scià, denso di ingiustizie e ombre inquietanti, ma abbastanza moderno e forte da tollerare la bellezza e la libertà delle donne. Mia madre Sedigheh era una giovane di ampie vedute e aveva potuto educare noi figlie all'occidentale. La sua cucina, con gli aromi di zafferano, riso ed erbe appena mondate, la tavola che cede sotto una cornucopia di frutta, era allora ed è oggi il mio rifugio. Con la Rivoluzione khomeinista tutto finì. Niente più capelli al vento, niente più vestiti, solo oscurantismo e violenza. Mio padre Bagher decise di portarci in salvo nel paese in cui aveva studiato, l'Inghilterra. Come migliaia di altri, scappammo per salvarci la vita. A ogni passo che la allontanava, mia madre avvertì un dolore mai provato prima, lo avevo nove anni e da allora ho ignorato le mie radici. Poi un giorno la voce dei ricordi mi ha chiamato e ho trovato la strada di casa."
Questo è un brano tratto dal romanzo Mille farfalle nel sole, di Kamin Mohammadi, edito da Piemme: un racconto accorato e lucido di un Paese e di una famiglia; un racconto di formazione e di consapevolezza.


Abbiamo rivolto alcune domande all'autrice che ringraziamo molto.





Come si può spiegare a una bambina di nove anni che deve lasciare il proprio Paese (la scuola, gli amici, i parenti) a causa di un guerra o di una rivoluzione?



Non posso davvero rispondere a questa domanda. Nessuno me lo ha spiegato, ce ne siamo solo andati via. Forse sarebbe stato meglio capire cosa stesse accadendo, ma in una situazione del genere gli adulti stessi sono cosi’ impotenti ed indifesi che non si puo’ pretendere che siano in grado di spiegare le cose in modo sensato ad un bambino. Penso che deve essere estremamente difficile.




Quali sono i ricordo più vividi, degli anni prima e post rivoluzione, che le hanno raccontato i suoi genitori?



Sono tutti nel libro. I miei genitori non hanno storie dell’Iran pre-rivoluzione perché io ho vissuto li e avevo i miei ricordi, ma mia madre spesso mi raccontava storie della sua infanzia in Abadan e i dispetti che i suoi fratelli facevano.




Adesso vive in Italia da cinque anni dopo aver vissuto a lungo anche a Londra: nota delle differenze – nei confronti degli stranieri, dei rifugiati – da parte delle persone oppure nelle politiche di inclusione?



Vorrei chiarire che divido il mio tempo tra Londra e l’Italia. Purtroppo per una Londinese, che è profondamente multiculturale e parte di una società molto aperta, tollerante e individualista, l’Italia e’ un po’ vecchio stile e provinciale nel suo approccio ai rifugiati ed immigranti. La Gran Bretagna aveva un impero grande e quindi si e’ abituata all’immigrazione dalle ex-colonie gia’ nei lontani anni 1950 quando c'erano scontri razziali e molti problemi con il razzismo istituzionalizzato. L’Italia ha solo vissuto l’immigrazione negli ultimi 10-20 anni, quindi e’ ancora una societa’ molto mono-culturale ed ha un lungo cammino da percorrere per eliminare il razzismo dalla sua cultura e trovare una forma di integrare i rifugiati nella sua societa’. E’ necessaria piu’ educazione.



D’altro canto, gli italiani sono naturalmente piu’ caldi ed accoglienti con gli sconociuti – sono padroni di casa meravigliosi per noi che siamo ospiti. Credo che il problema a volte sia quando uno straniero non e’ piu’ solo un ospite e cerca di divenire parte della societa’ italiana. Penso che sembra quasi impossibile, a Londra ho incontrato molte persone del nord Africa che, dopo alcuni anni di vita in Italia come immigranti, se ne vanno per venire al Nord Europa perche’ capiscono che qui resteranno sempre immigranti, senza la possibilita’ di integrarsi veramente nella societa’ o un giorno chiamarsi italiani.



Quando sono in Italia vivo a Firenze, e a parte i turisti che non contano perche’ solo sono di passaggio e non contribuiscono positivamente alla cultura locale, non ci sono praticamente persone nere o di pelle scura che facciano lavori comuni, non ne ho mai visto neanche una lavorare in un bar. Certo, a Milano o Roma e’ diverso ma queste citta’ sono l’eccezione alla regola. Questo ancora mi sorprende, che in una citta’ cosi’ importante e sofisticata come Firenze ci siano cosi’ poche persone di altri ‘colori’ e culture che costituiscano parte della societa’ normale. Penso che questo sia un problema, specialmente in un paese che ha il piu’ basso tasso di natalita’ d’Europa e con la popolazione che piu’ rapidamente invecchia…




Cosa porta, dentro di sé, della doppia appartenenza, all'etnia curda e a quella persiana?



Non sono cosi’ distinte per noi. Dovete cercare di immaginare che queste due etnie sono entrambe parte della stessa principale – l’essere iraniani. Le diverse etnie d’Iran sono tutte parte delle definizione ‘essere iraniani’, e sebbene celebriamo la differenza – per esempio i piatti curdi, il costume tradizionale curdo e le danze – non sento molte diversita’ reale tra le due. Sono entrambe parti della mia stessa identita’ iraniana.




Qual è la differenza tra l'Iran contemporaneo e quello di suo nonno Abbas?


Questa e’ un’altra domanda che e’ davvero difficile da spiegare! Iran ha cambiato moltissimo da quei tempi – cosi’ come l’Italia e la Gran Bretagna! Vi consiglio di leggere il mio libro – tutte le risposte sono li’! E’ stato davvero il mio obiettivo mostrare l’enorme cambio che l’Iran ha attraversato negli ultimi 100 anni – nel paese di mio nonno Abbas la gente comune non aveva cognomi… – quindi e’ stato uno sviluppo alla modernita’ incredibilmente veloce, e penso che le tensioni di questo cambiamento accelerato siano esplose nella rivoluzione.


martedì 8 luglio 2014

Cercando Lindiwe: senza memoria non c'è identità





Valentina Acava Mmaka è una scrittrice italo-sudafricana, giornalista e attivista per i diritti umani. E' da poco uscito un suo romanzo - già edito nel 2007 e ora ripubblicato per Kabiliana Press - intitolato Cercando Lindiwe. Lindiwe è una donna nera, costretta ad abbandonare il Sudafrica a causa del massacro di Shaperville, avvenuto nel 1960 quando decine e decine di manifestanti pacifici vengono massacrati perchè protestano contro il pass, il lasciapassare dei neri per poter uscire dai ghetti.

Dopo 33 anni di esilio, la protagonista torna in patria, con il nome di Ruth. Ritorna sul proprio Passato e su quello del Paese: sull'apartheid, sulle discriminazioni, sui delitti. Una donna che vuole ricomporre la propria idendità perchè, come scrive l'autrice: “Non esiste identità se non c'è memoria”.

Un romanzo che rapisce e indigna. Un romanzo che ridà speranza solo, però, dopo un percorso di consapevolezza e riconciliazione.



Abbiamo rivolto alcune domande a Valentina Acava Mmaka e la ringraziamo molto per questo suo intervento.



Ci può, brevemente, spiegare cosa significhi essere esiliati?



L’Esilio è l’esperienza migratoria più estrema e ineluttabile. L’esilio è una separazione non solo dalla propria casa, dagli affetti ma anche dal proprio passato.

Il poeta Wallace Stevens lo definisce una “mente invernale”, la tensione verso una stagione più mite è solo un’illusione per l’esule. L’esilio di Lindiwe, nel romanzo, rispecchia questa immagine, quasi di fissità, di congelamento, di irrigidimento. L’essere partiti con il biglietto di sola andata è una condizione psichica estrema che trasforma la percezione della realtà nuova, quella dell’esilio, e anche quella del passato lasciato alle spalle. Stuart Hall diceva che ogni migrazione, dunque anche l’esilio, è in ogni caso sempre un viaggio di sola andata.



Qual è il prezzo che la protagonista ha dovuto pagare in nome della propria libertà? E quella libertà è strettamente collegata ai concetti di “appartenenza” e di “identità” che attraversano tutta la narrazione?



Lindiwe paga il prezzo più alto dalla sua esperienza di esilio rinunciando in primis alla nozione di appartenenza. L’esilio spazza via tutte le certezze e la spinge in un limbo che la rende estranea persino alla causa per la quale ha sempre lottato. La sua idea iniziale di continuare la lotta nell’altrove, in un luogo più “sicuro” nel quale enfatizzare la causa anti segregazione, è morta nel preciso momento in cui la nave è partita dal porto di Durban. La mancanza di tangibilità con il luogo della sua lotta diventa un deterrente. L’esilio definisce l’esule in relazione al luogo a cui appartiene, dove è nato, dove custodisce gli affetti e nel quale gli viene spesso negata la libertà, un rapporto di amore e di odio al tempo stesso. Per estremo l’altrove le impone, direttamente e indirettamente, di vivere uno spazio disconnesso senza corrispondenze, anche la vicinanza con altri esuli non sortisce in lei alcuna empatia o riconoscimento, poiché l’esilio è una esperienza legata al luogo che si lascia e in quanto tale, alla lingua, alla storia, è un legame di di affinità, di corrispondenze. L’esilio rappresenta un’ “assenza” ed è in essa che nasce il conflitto identitario della protagonista, dove attraverso un gioco di sdoppiamento della persona, tenta di capire le ragioni della sua inerzia, del suo “inverno” interiore.



Che cosa si intende per “ubuntu”?



L’ubuntu fa riferimento all’etica secondo cui io sono ciò che sono perché gli altri sono. È un principio fondamentale che può prestarsi come premessa di una società basata sul rispetto, sulla solidarietà, sul confronto, sulla riconciliazione. Un’utopia allo stato attuale in cui si trovano le società mondiali.


Può approfondire anche il tema che riguarda l'importanza della Memoria? Memoria storica, Memoria collettiva...


La scrittrice Toni Morrison scrive che non si può dare una passata di bianco al passato. Per quanto doloroso, anzi, maggiore esso è doloroso, con maggior vigore la fiamma del suo ricordo va alimentata. La memoria storica è un bene cui la collettività non può e non deve rinunciare. E’ importante per una società stabilire una relazione permanente costante e continua con il proprio passato, ci permette di sapere dove vogliamo che la “nostra” storia personale si collochi .La memoria aiuta una comprensione più ampia della Storia. Essa seleziona e moltiplica i significati degli eventi e li pone sul piano dei sentimenti e delle emozioni. In questo senso la memoria collettiva è indispenssabile ai fini dell’identità che rischia altrimenti di essere corrosa dalla frentica corsa verso la globalizzazione del presente.

La scrittura è il luogo che incarna il mio ideale di libertà. La scrittura declina concetti come patria, casa, paese nell’unico modo accettabile. In essa trovo possibile tradurre la realtà interna ed esterna trasferendola ad un piano immaginario dove posso riscriverla. La scrittura è la mia coscienza e la mia responsbailità come artista e donna.

venerdì 7 febbraio 2014

La guerra e l'amore, l'orrore e la bellezza: le poesie di Golan Haji






Golan Haji è un giovane poeta curdo siriano, patologo di professione, ma poeta di fama riconosciuta, vincitore di molti premi letterari e collaboratore per diversi organi di stampa libanesi anche se ora vive in esilio in Francia a causa della guerra civile nel suo Paese d'origine.

In questi giorni è uscita la raccolta dal titolo “L'autunno, qui, è magico e immenso”, ed. Il Sirente, in cui l'autore propone le sue liriche, scritte negli ultimi due anni e pubblicate per la prima volta in italiano e con testo arabo originale a fronte. 

La guerra è fatta di lance che trasfigurano il corpo della terra; l'orrore comporta paura, solitudine e abbandono; l'esilio può essere ironia e la bellezza, cosa può essere la bellezza se non lo sguardo di un bambino e un desiderio nascosto dietro la spalla e sotto le ciglia?

Riprendendo la lezione di Italo Calvino nelle sue “Lezioni americane”, la poesia, nel testo di Haji, si pone, nei confronti della guerra, come Perseo di fronte alla testa della Gorgone: il poeta non rimane pietrificato perchè non guarda la testa, ma i suoi riflessi nello scudo. Un poeta, Haji, fortemente ancorato alla contemporaneità, ma che non permette all'orrore di pietrificare anche la libertà insita nel fare poesia. Nei suoi versi orizzonti, corpi e anime sono composti dalla stessa materia e quelle pietre o quelle lance possono farsi nuvole.

L'autore, infatti, dice: “Per uno scrittore in una situazione come quella della Siria, usando l'uscita di sicurezza dell'incubo per superare le lacrime e il dolore, è importante riuscire a vedere noi stessi in modo diverso, la nostra memoria e il nostro passato. Dobbiamo meditare e contemplare il passaggio di tempo degli ultimi due anni e interrogarci”.


Dal corpo della terra evaporare

le piogge gli avevano insegnato,

all'ombra delle rose addormentarsi

i gatti gli avevano insegnato;

e il pozzo lo guidava ad occultarsi.

Gialle le foglie in giro volano e urlano;

e l'affanno dell'albero lui ascolta.

Il mondo è lacerante come le punte delle lance,

brandelli sventolano come stendardi nell'arena

dove i folli nuotavano nelle nostre ferite

pregandole di rimanere aperte;

e nulla questo sangue fermerà

escluso il sole e il vento.




Da: L'autunno, qui, è magico e immenso

giovedì 24 ottobre 2013

In piazza con i cittadini eritrei








Un appello e una manifestazione che, come Associazione per i Diritti Umani, ci sentiamo di sostenere. Il testo e l'appello sono firmati dal Coordinamento Eritrea Democratica e altre associazioni (che leggete in calce) che ci hanno chiesto di pubblicarli.



La morte di queste persone si doveva e si poteva evitare.
All’interno dell’Unione europea si susseguono appelli, i politici ripetono frasi di circostanza, a cui però non seguono i fatti. Bisogna invece offrire un’alternativa a queste persone in fuga dalla dittatura, da guerra e violenze, altrimenti sono costrette ad affidarsi ai trafficanti di morte.
I morti continueranno a esserci finché non offriremo reali alternative di accoglienza.
Questo è l'ennesimo naufragio: dal 1998 oltre 20.000 esseri umani sono stati inghiottiti dalle acque del Mar Mediterraneo, e oltre 5.000 sono caduti vittime del traffico di organi umani nel Sinai; un numero imprecisato ha trovato la morte nel viaggio disperato nelle sabbie del Sudan e dell'Egitto. È ora di fermare una carneficina che dura da troppi anni.
Perché queste persone partono? Cosa le spinge ad assumersi rischi enormi nella traversata di deserti e mari? Più concretamente, osservando ad esempio che una grande percentuale di coloro che sbarcano sulle nostre coste arrivano dal Corno d'Africa, qual è la nostra posizione politica nei confronti dei governi di quei Paesi?
L'Eritrea è un carcere a cielo aperto: più di 10.000 perseguitati, buona parte rinchiusi in prigioni disumane, prigionieri per reati di opinione o politici. Si ignora quanti siano ancora in vita, quanti siano stati uccisi e/o siano deceduti. L'Eritrea è un paese chiuso a qualsiasi controllo umanitario, privo di stampa e di informazione libera, se non quella del regime. L'economia dell'Eritrea è morta a causa della completa militarizzazione del Paese. Le poche risorse provengono dalle rimesse degli emigrati. Bambini soldati e/o schiavi sono costretti ai lavori forzati e sottoposti a lavaggio del cervello. Un quarto della popolazione eritrea vive all’estero, il che ne fa uno dei Paesi con il più alto numero di rifugiati all'estero del mondo. I parenti in patria sono sottoposti a ricatti economici impossibili da pagare (in particolar modo l’odiosa imposta del 2% che grava sui redditi prodotti all’estero dalla diaspora), destinati alla tortura e alla galera.
In Eritrea Isayas Afeworki è al potere da esattamente vent'anni. È un uomo che viola
sistematicamente i diritti del suo popolo. Nonostante ciò l'Italia ha fatto e fa ottimi affari con lui.

È possibile che uno Stato come l’Italia, firmatario della Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, collabori con associazioni e
consolati legati al regime eritreo che di fatto ledono diritti fondamentali e inderogabili?
È giusto che in uno stato di diritto i cittadini eritrei subiscano una doppia imposizione fiscale, frutto di persecuzioni e intimidazioni imputabili ai consolati o alle suddette associazioni o a persone fedeli alla politica del regime, residenti nel territorio italiano, che operano come veri e propri esattori di tasse in nome e per conto dello stato Eritreo?
Noi chiediamo una protezione completa e non parziale.
Che vengano valutate le ragioni della esistenza di ambasciata/consolati eritrei in Italia, presenza nociva e diseducativa per una convivenza civile e pacifica.
Crediamo sia interesse nazionale Italiano proteggere i suoi cittadini, pertanto chiediamo:

  1. Che l'Italia chiarisca la sua posizione con il governo eritreo

  1. Un indagine accurata sul sistema di tassazione eritrea del 2%, sul sistema di rilascio dei documenti e sulle garanzie di tutela ai cittadini eritrei


CHIEDIAMO INOLTRE ALL'ITALIA

  1. Che la legge Bossi-Fini venga modificata - integrata con nuove norme per i RIFUGIATI POLITICI e che si preveda una legge organica sull'asilo.
  2. Che si crei un corridoio umanitario per il DIRITTO D'ASILO EUROPEO (che permetta ai migranti bloccati in “paesi terzi” di raggiungere legalmente l’Europa) e che i pattugliamenti diventino azioni di soccorso e non di respingimento o rimpatrio forzato.
  3. Che si rafforzi la politica di accoglienza europea perché i paesi di approdo, come l'Italia, possano essere luoghi di prima accoglienza dove siano possibili i ricongiungimenti familiari con i parenti residenti in altri paesi europei per poter costruire un futuro.
  4. Per i defunti: chiediamo la RESTITUZIONE DELLE SALME alle loro famiglie in Eritrea, perché possano essere onorati almeno da morti.

Il regime attuale ci ha tolto la libertà conquistata per noi dai patrioti con la lotta di liberazione. La nostra presenza in Italia è la testimonianza del nostro involontario esilio.



Coordinamento Eritrea Democratica
Eritrean Youth Solidarity for National Salvation Italy
ASPER-ERITREA.Associazione per la tutela dei diritti umani del Popolo Eritreo
ENCDC Europe
MOSSOB Comitato Italiano per Eritrea Democratica

martedì 16 aprile 2013

I disorientati: l'ultimo romanzo di Amin Maalouf




Autobiografia e finzione; Passato e Presente; Oriente e Occidente; vita e morte; storia individuale e riflessione universale: tutto questo ne I disorientati, l'ultimo lavoro editoriale di Amin Maalouf, pubblicato da Bompiani.
Il Libano non viene mai chiamato così, ma si parla, nel testo, di “Levante”, e dal Levante prende l'avvio la storia di Adam, fuggito dalla guerra e ora insegnante di Storia a Parigi. All'annuncio della morte dell'ex amico Mourad, Adam è costretto a ritornare nel proprio Paese d'origine dove tutto è rimasto uguale e dove il tempo sembra essersi fermato. Sembra: è rimasto, forse, il Circolo dei Bizantini, quel gruppo di ragazzi che voleva cambiare il mondo, ma a cambiare sono stati proprio loro. Il conflitto li ha separati e spinti verso strade diverse; c'è chi è andato all'estero, chi è rimasto in patria, imbrigliato nelle maglie corrotte della politica e chi ha deciso di partecipare alla guerra civile. Adam cerca di radunare i sopravvissuti: emergono, così, i rancori sopiti e le verità non dette, ma il confronto, sincero anche se difficile, cambierà il presente del protagonista.
Amin Maalouf è uno scrittore libanese, illuminista arabo che, nel 2011, ha ricevuto la spada di Accademico sulla cui lama ha fatto incidere i simboli della sua doppia identità: la Marianna della Rèpublique e il cedro del Libano. Quel riconoscimento è stato, per lo scrittore, importantissimo perchè ha sancito il suo ingresso nell'istituzione fondata dal cardinal Richelieu per codificare e salvaguardare la lingua francese. Libanese e francese, mediorientale ed europeo: Adam è l'alter ego di Maalouf che, narrando la propria vicenda in prima persona, riporta il clima intellettuale della giovinezza dell'autore, le sue aspirazioni e le speranze dei suoi coetanei in un momento di grande fervento storico e politico. Ma la guerra, durata dal 1975 al 1990, ha distrutto ogni possibilità di cambiamento. In un'intervista a Famiglia Cristiana, Maalouf racconta: “ La guerra è iniziata il 13 aprile del 1975, di domenica, con due massacri. Uno, la sparatoria contro l'autobus dei militari palestinesi in un quartiere di Beirut, è avvenuto sotto la finestra di casa mia, a trenta metri. Ero un giornalista appena tornato dal Vietnam, ma ricordo con terrore quella decina di secondi, appoggiato al muro per proteggermi, che causarono oltre venti morti. Non volevo far crescere i miei figli in un posto dove, a 14 anni, si può prendere il fucile per ammazzare una persona”. Infatti, lo scrittore, allo scoppio della guerra, scappa dal Libano e ora vive a Parigi. Ma per circa una trentina d'anni non ha voluto parlare o scrivere della propria esperienza e fare i conti con la Memoria individuale. Lo fa ora, con questo romanzo. Perchè adesso è in grado di affrontare il senso di colpa causato dal fatto di essere andato via, di aver scelto la strada più facile. Ritornano, nel libro, i temi a lui più cari: l'esilio, appunto, l'incontro tra due culture differenti, il confronto religioso, la ricerca della propria identità. Ma, in questo suo ultimo lavoro, lo scrittore aggiunge un argomento importante: dalla cultura greca classica, dall'Occidente, riprende la riflessione sul “nostos”, sul ritorno. Il ritorno alle proprie radici, alla propria Terra, per guardarsi in faccia e ammettere che, forse, anche lui stesso è un dis-orientato.
Amin Maalouf



giovedì 14 febbraio 2013

Il festival di Sanremo: non solo "canzonette"?


Il festival nazional-popolare delle “canzonette” quest'anno offrirà un regalo: venerdì 15 febbraio Caetano Veloso sarà ospite d'onore della manifestazione. Il pezzo che si potrà ascoltare è tratto dal suo ultimo CD, Abraçaço , e ha come titolo: Um Comunista.
Il nuovo lavoro del cantante brasiliano chiude una trilogia in cui ha lavorato, per la musica, con una nuova band che veicola un linguaggio musicale rock, diretto e ruvido. Ma è il testo della canzone che può interessare:
Un mulatto baiano, molto alto e mulatto, figlio di un italiano e di una nera hauçá, ha imparato a leggere guardando il mondo intorno a lui, facendo attenzione a quello che non si vedeva. Così nasce un comunista. Um mulatto baiano, che morì a San Paolo, ammazzato da uomini del potere militare, nelle fisionomie nate sul suolo americano, la cosiddetta guerra fredda, Roma, Francia e Bahia. I comunisti custodivano sogni. I comunisti! I comunisti!”
Queste sono le due strofe che aprono il brano e in cui si ritrova la poetica e la cultura di Veloso: il brano più lungo di tutto l'album che racconta la storia di Carlos Marighella, nato a Bahia, ma di origini italiane per padre e africane da parte di madre. Molto amico di Jorge Amado, Marighella organizzò la lotta armata con la Ação Libertadora Nacional (ALN), un'organizzazione che si oppose alla dittatura di Luiz de França Oliveira. Carlos Marighella fu ucciso a San Paolo nel 1969, proprio dagli uomini del generale Oliveira.
Caetano Veloso non ha mai conosciuto il protagonista della sua canzone, ma anche lui è stato in esilio, ha avuto molti amici torturati e ha intrapreso, con gli anni, un faticoso cammino di riconciliazione nazionale e,oggi, ha deciso di fare questo omaggio a un mulatto mezzo italiano e rivoluzionario. In un'intervista rilasciata al maggior quotidiano brasiliano, il Folha de São Paulo, si legge che: “ E' una canzone tradizionale di protesta, volutamente lunga, con un tono narrativo ed esplicativo, anche se poi è più complessa di così”, una canzone che esce in concomitanza con la pubblicazione di una biografia su Marighella, un film documentario e un pezzo hip-hop.
Anche l'attuale presidente del Brasile, Dilma Roussef, è stata incarcerata e torturata durante il regime e, dopo quasi trent'anni di democrazia, il Paese deve e vuole ancora ricordare e riflettere.
E non c'è bisogno di essere “comunisti” per venire a conoscenza di una vicenda di coraggio, di libertà e di un pezzo di Storia recente... anche attraverso una canzone.