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sabato 26 dicembre 2015

Se in Danimarca tramonta l'Europa



di Adriano Prosperi (da La Republica)




UN pagamento anticipato delle spese di asilo e di assistenza. È una notizia che merita di essere attentamente considerata da tutti i cittadini europei. È un passo ulteriore nell'inedito esperimento di rapporti tra popoli migranti e popoli stanziali in atto ai nostri giorni.
Non del tutto inedito, tuttavia. Esso ci richiama alla mente quella tripartizione di ruoli che secondo lo storico Raul Hilberg si disegnò ai tempi del genocidio nazista e divise i contemporanei dei fatti tra carnefici, vittime, spettatori. Ci si chiede se sia possibile applicare questa tripartizione ai nostri tempi. Quali siano le vittime è evidente: in Europa attendiamo fra poco l'arrivo del milionesimo migrante per chiudere il bilancio del raccolto di questo anno. L'estate scorsa se ne attendevano ottocentomila e sembravano già troppi. Nel conto ci sarebbe da considerare anche quelli morti per via. All'Università di Amsterdam si censiscono i casi di "Death at the borders of Southern Europe". È l'elenco dei caduti di una guerra senza fine. A differenza di quelli delle guerre mondiali europee del ‘900 questi morti sono rappresentanti con una infografica fatta di tanti puntini dai colori diversi: in blu chiaro quelli identificati, in blu scuro quelli senza nome. Soldati ignoti della grande guerra in atto. Ma le vittime non sono solo quelle morte in viaggio. La strada dell'Europa è dura e piena di imprevisti anche per via di terra. I piedi dei bambini e delle donne migranti fanno pensare a quelli della sirenetta di Andersen. La nostra Europa così poco unita sembra divisa solo dalla diversa asprezza delle prove a cui sottopone i dannati della terra. E gli europei, cioè noi, sembrano impegnati in mutevoli giochi di ruolo: oggi carnefici ieri spettatori. Pronti comunque anche a livello politico ufficiale a rigettare responsabilità sul vicino e sempre protetti da chi caccia le cattive notizie nelle pagine interne dei giornali: come quella dei cinque bambini annegati due giorni fa nelle acque turche. Bambini sì, ma migranti. Fossero stati figli di gitanti ne avremmo conosciuto nomi e nazionalità e visto le foto in prima pagina. Chi non ricorda il corpo del piccolo Aylan, quella sua t-shirt rossa e quei pantaloncini blu scuro? La donna che scattò la fotografia disse di essersi sentita pietrificata: e sembra che il premier inglese Cameron dopo averla vista abbia modificato la durezza delle sue posizioni sull'immigrazione. Ma oggi tira un vento diverso. Impallidiscono i colori delle buone intenzioni dell'estate passata . Quelle della Merkel, che permisero a tutti i tedeschi per una volta almeno di sentirsi buoni, per ora hanno incontrato più ostacoli che consensi. Alla prova dei fatti contano le mura, quelle materiali e quelle legali e burocratiche che sono state alzate davanti a ogni frontiera, specialmente ma non solo a quella orientale dell'Europa, dove intanto la Turchia svolge il lavoro sporco ma ben retribuito di cane da guardia. È bastata l'ombra del terrorismo, l'idea che sui barconi arrivino da noi dei fanatici votati al martirio stragistico e la paura ha fatto il resto, gonfiando le vele dei partiti xenofobi, cambiando di colpo il paesaggio politico francese.
Il rapporto tra parole e fatti può essere misurato da quello che è accaduto il 18 dicembre. Era il giorno della Giornata internazionale di solidarietà con i migranti, fissato a ricordo della data in cui l'Assemblea generale delle Nazioni Unite adottò nel 1990 la Convenzione internazionale per la tutela dei diritti dei migranti. Ma proprio in quel giorno, sulla festa delle buone intenzioni è calata dalla Danimarca l'ombra cupa del progetto di legge che abbiamo ricordato. In quel paese di una democrazia e di un welfare idoleggiati non solo dai migranti si avanza la legge che promette di essere la soluzione finale del problema. Il governo, espresso dal partito xenofobo Venstre, ha già fatto parecchio in questo senso.
Ora sta progettando un vero salto di qualità. Chi si presenterà alle frontiere sarà perquisito e si vedrà sequestrare danaro e ogni oggetto di valore. Si lasceranno le fedi nuziali, si dice: e non si arriverà certo a strappare ai migranti i denti d'oro, come i nazisti facevano alle loro vittime. È il danaro che conta: è questa la misura unica del valore nell'età del neoliberismo.
Anche se la violenza sui corpi non è una frontiera insuperabile. Proprio in questi giorni le cosiddette autorità europee hanno rimproverato quelle italiane per le mancate registrazioni delle impronte digitali dei migranti: e hanno imposto di permettere l'uso della forza per la raccolta delle impronte e di "trattenere più a lungo" i migranti che oppongono resistenza.
Dunque, guardiamo alla sostanza, ai duri fatti di un conflitto tra le ragioni della più elementare umanità e l'avanzare strisciante di un ritorno preventivo a misure che sono iscritte nelle pagine peggiori del nostro recente passato. Tocca a tutti noi come spettatori decidere se voltare altrove lo sguardo o resistere attivamente al degrado della realtà - questa sinistra realtà europea dei nostri giorni. I valori che sono in gioco non sono solo i soldi e gli oggetti preziosi dei migranti: sono quelli immateriali che dovrebbero costituire il fondamento di una costruzione europea oggi tutta da ripensare.

 

mercoledì 23 dicembre 2015

Burundi e Nigeria: tra Passato e Presente




Burundi
Mancato impegno dei governi africani nella gestione della crisi in Burundi


L'Associazione per i Popoli Minacciati (APM) esorta i governi africani a impegnarsi maggiormente per una soluzione politica della crisi in Burundi e per la tutela della popolazione civile dalle violazioni dei diritti umani. Non mancano certo gli appelli alla pace e al dialogo delle organizzazioni non governative e dei singoli politici, ma sia l'Unione Africana (UA), sia la Comunità dell'Africa orientale (EAC) sia la Conferenza Internazionale sulla regione dei grandi laghi sembrano muoversi con troppa esitazione, senza molte idee e con poca coerenza. Gli interessi nazionali , la concorrenza tra di loro e la mancante neutralità così come la mancanza di volontà politica e la divergenza di opinioni in questioni basilari intralciano ogni tentativo di trovare una soluzione politica per la crisi in Burundi. I governi africani hanno perso un'occasione per mostrare responsabilità in una situazione di crisi.

Il fallimento dell'EAC è probabilmente l'esempio più eclatante della mancata assunzione di responsabilità dei governi africani. Nel vertice dell'EAC previsto per lo scorso 30 novembre 2015 la presidenza dell'organizzazione sarebbe dovuta toccare al Burundi. Per evitare discussioni interne e non urtare il discusso governo del Burundi scegliendo un altro paese per la presidenza, l'EAC ha semplicemente rimandato il vertice a data da definire. L'atteggiamento con cui si è scelto di mettere la testa nella sabbia piuttosto che affrontare i problemi, certamente non può contribuire in modo costruttivo alla risoluzione della grave crisi che scuote il Burundi.

Anche l'Unione Africana (UA) ha per mesi mantenuto una posizione di attesa. Il presidente ugandese Yoweri Museveni incaricato dall'UA di mediare per un dialogo in Burundi sembra invece essere occupato più con la propria campagna elettorale che con la crisi in Burundi e la sua non sembra essere una posizione neutra. Il dialogo in questo modo non fa progressi. Inoltre nei colloqui finora tenuti sulla crisi in Burundi non si è mai tenuto conto della situazione della popolazione civile. Nonostante l'UA abbia deciso delle sanzioni contro il Burundi e il Consiglio di Sicurezza dell'Unione Africana abbia in ottobre 2015 proposto di prepararsi a un intervento delle truppe di pace africane, tale intervento rischia di creare maggiori tensioni per la mancata neutralità dei paesi vicini del Burundi. Inoltre non è chiaro se la missione di pace africana voglia far impiegare le truppe dell'"African Capacity for Immediate Response to Crises (ACIRC)" o dell'"African Standby Force (ASF)". Non manca certo il sostegno finanziario a entrambe le truppe, ma loro efficienza in situazioni di crisi è più che dubbia.


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IL DOCUMENTARIO “DEVIL COMES TO KOKO” al MUDEC di Milano






DEVIL COMES TO KOKO”, che si terrà all'Auditorium del Mudec mercoledì 23 dicembre 2015 alle ore 19.00.


Il Mudec - Museo delle Culture - presenta “Devil comes to Koko”, il documentario prodotto da Fabrica - centro di ricerca sulla comunicazione di Benetton Group - nell’ambito del programma di eventi a cura del Forum della Città Mondo.
Il documentario si concentra su due brutali episodi avvenuti in Nigeria, visti attraverso lo sguardo di Alfie Nze, regista teatrale nigeriano trasferitosi in Italia negli anni novanta.
Il film narra della sanguinosa invasione inglese di Benin City del 1897 e dello scandalo dei rifiuti tossici scaricati nel 1987 nel porto della città di Koko.
A partire dai due eventi drammatici, il regista percorre un viaggio alla ricerca di radici, di complessità intime, visioni oniriche e corto circuiti tra comunità locali e politiche internazionali.
La direzione creativa del progetto è di Alfie Nze, regista alla sua prima opera e già vincitore nel 2013 del Premio Mutti Amm, premio dedicato ai registi migranti attivi in Italia, e Cineteca di Bologna.
Prodotto da Fabrica, da sempre luogo di sperimentazione, di confronto, di crescita culturale e attento all'espressione libera di ogni arte.

La proiezione, della durata di circa 50 minuti, sarà ad
ingresso libero fino ad esaurimento posti, con prenotazione attraverso la piattaforma eventbrite al seguente link:


http://www.eventbrite.com/e/devil-comes-to-koko-proiettato-al-mudec-tickets-20033760517


mercoledì 9 dicembre 2015

Generazione Rosarno: dalla violenza alla legalità



Continuiamo ad occuparci di lotta alle mafie e vi proponiamo il libro intitolato Generazione Rosarno di Serena Uccello, per Melampo edizioni.




Si può nascere in una famiglia di 'ndrangheta eppure scegliere una strada alternativa e rigettare la violenza? Si può amare un padre in carcere e riuscire lo stesso a prenderne le distanze, immaginando per sé un destino diverso, di libertà e di rispetto vero? Vive e pulsa in questo libro una scuola superiore in cui vengono abbattuti antichi e nuovi pregiudizi e privilegi, dove non esistono figli di boss né figli di collaboratori o di testimoni di giustizia, dove mille ragazzi e ragazze si ritrovano ogni mattina tutti uguali, senza dover sopportare il peso delle storie personali. Dove una leggerezza gentile e sconosciuta è capace di generare nuova cultura. Una scuola che è un autentico fortino piantato in una periferia geografica e sociale, da cui insegna le opportunità e le promesse del mondo. Si chiama Rosarno ma diventa alla fine simbolo di tutto il Sud.






L'Associazione per i Diritti umani ha intervistato per voi l'autrice e la ringrazia.



Il libro è ambientato in Calabria, una terra bellissima e difficile. Quali sono i tratti della cultura tradizionale in cui affondano le radici della mentalità mafiosa?


Questa domanda richiede un’analisi di tipo antropologico che non sono in grado di fare, non ne ho gli strumenti, né la formazione. Posso però dare una chiave di lettura di tipo storico e sociale per spiegare perché la ‘ndrangheta è cresciuta così tanto in questi anni, in una situazione di sostanziale silenzio. In questo senso la spiegazione è l’isolamento della Calabria. Isolamento geografico e culturale, appunto. Prendo in prestito il procuratore Giuseppe Pignatone, già capo della Procura di Reggio Calabria, oggi capo della procura di Roma: “la società calabrese è realmente isolata dal resto del paese. Non esiste la Calabria, ma esistono le Ca­labrie: la provincia di Reggio è totalmente diversa da quella di Cosenza o dall’alto Catanzarese. L’isolamento tra le diverse province e dell’intera regione è innanzitutto fisico. La rete via­ria inadeguata, i cantieri dell’A3, le carenze della rete ferrovia­ria, lo sbarramento fisico dello Stretto amplificano l’isolamento geografico”. All’isolamento geografico c’è poi da aggiungere quello informativo. Negli ultimi anni sui giornali di ’ndran­gheta si è scritto, forse poco o forse in modo discontinuo, titoli e commenti e inchieste. Ma prima? Prima di Duisburg, la strage di Duisburg, quella in cui, nell’agosto del 2007, furono uccise sei persone, o prima di più recenti ope­razioni che hanno portato, soprattutto in Lombardia e nel nord Italia, all’arresto di centinaia di persone? Qualche titolo di tan­to in tanto e poco altro. Di fatto ha ragione il procuratore capo di Roma quando parla di “cono d’ombra” ricordando come “l’agenzia Ansa sia a Catanzaro, la sede Rai a Cosenza” e che “nessuna testata nazionale ha una redazione in Calabria”, men­tre “il quotidiano più diffuso, la Gazzetta del Sud è un giornale di Messina che pubblica pagine sulla Calabria”.

Quindi non saprei esattamente dire in quali tratti della cultura tradizione affondi la mentalità mafiosa, posso però dire che la mentalità mafiosa si nutre dell’isolamento e dell’assenza di cura da parte dello Stato e in questo isolamento cresce.



Da dove può o deve ripartire la cultura della legalità?


Il mio libro è sostanzialmente ambientato in una scuola. Un scuola sotto molti aspetti speciale perché è riuscita a compiere la sfida della inclusione. A far convivere cioè i figli di vittime, con i figli dei boss, con figli dei collaboratori. A far loro condividere tempo, spazio e sogni. Ecco la cultura della legalità deve, secondo me, essere meno slogan, meno pratica convegnistica, e più pedagogia del Bene. Come dice la ricercatrice Ombretta Ingrascì la pedagogia bianca che si oppone a quella nera della violenza.


Come si svolge la lotta alle mafie a Rosarno (e in altri luoghi)?


La lotta alle mafie è stata a lungo repressione. E l’aspetto repressivo è e deve restare centrale. In questi anni sono stati raggiunti risultati importantissimi. Tuttavia i risultati si sono cominciati a vedere anche su lungo periodo quando accanto alla repressione c’è la formazione. In questo caso uso le parole della scrittrice Evelina Santangelo che ho intervistato per il libro: “Non è un caso, credo, che in Sicilia il momento di maggiore forza della lotta alla mafia sia stato quando si è creata una saldatura tra il braccio operativo di chi deve condurre l’attività investigativa e repressiva e il mon­do della formazione. Perché è evidente che la lotta alla mafia è lotta alla sottocultura mafiosa. E questa lotta si può condurre solo se c’è collaborazione tra tutte le forze in campo”.



Quanto sono importanti le donne nel tramandare il valore della vita ?


Le donne sono fondamentali. Così come sono loro a tramandare il codice della violenza dai padri ai figli, sono loro che sempre in nome dei figli possono rompere la catena del sangue. E in questi ultimi anni in Calabria ma non solo abbiamo avuto diversi esempi. Penso a Lea Garofalo, ma anche a Maria Concetta Cacciola, che purtroppo hanno pagato con la vita la loro scelta di rottura. Ma penso anche a Giusy Pesce che invece è riuscita a salvare se stessa e i suoi figli scegliendo la strada della collaborazione.

Questo sono le sue parole che spiegano più di mille analisi.

Se io non cambio strada e non li porto con me, quando uscirò il bambino potrebbe già essere in un carcere mino­rile, e comunque gli metteranno al più presto una pistola in mano; le due bimbe invece dovranno sposare due uomi­ni di ’ndrangheta e saranno costrette a seguirli. Io voglio provare a costruire un futuro diverso per loro... Io potrei anche cavarmela con qualche anno di carcere ma nessuno libererebbe i miei figli da un destino già segnato. Quando il mio bambino, una volta, ha detto che da grande avrebbe voluto fare il carabiniere, suo zio l’ha preso a botte, poi gli ha promesso che una pistola gliel’avrebbe regalata lui... Un giorno che io gli chiesi a mio figlio ‘Che cosa vuoi fare quando sei veramente grande?’ E lui mi rispose ‘Il carabi­niere’, loro lo aggredirono: ‘Che stai dicendo, scemo, stor­to!’, tipo loro hanno questo carattere, parlavano così, con i bambini hanno una delicatezza particolare”.



Qual è l'operato dei giudici e delle istituzioni per salvare i giovani che appartengono a famiglie malavitose?


Anche in questo caso voglio rispondere raccontando un aneddoto che riporto nel libro. Un pomeriggio un piccolo gruppo di studenti del liceo Raffaele Piria di Rosarno sta partecipando a un seminario tenuto da Michele Prestipino allora procuratore aggiunto a Reggio Calabria, oggi a Roma. I ragazzi stanno lavorando su un libro, un romanzo La vita obliqua di Enzo Siciliano. E quel giorno in particolare stanno discutendo della vendetta, esattamente di qual è la differenza tra chiedere giustizia invece di vendetta. A un certo punto Prestipino si rivolge ad un ragazzo in prima fila e dice: “Vieni Carmelo, tu che pensi?”. Carmelo si avvicina e Prestipino lo tira a sé allungandogli un braccio sulle spalle. Il movimento di entrambi è spontaneo. E mi colpisce molto. Mi colpisce perché Carmelo è Carmelo Bellocco. Anche i Bellocco sono una famiglia sminuzzata tra morti, latitanti ed ergastolani. Alcuni di questi arresti portano pure la firma di Prestipino, così la na­turalezza con cui il primo ha accolto il secondo e il secondo si è fatto accogliere mi appare inedita e mi appare straordinaria. Ho così compreso che solo l’accoglienza può far passare il messaggio che non esiste una predestinazione al Male ma che ognuno può riscattare se stesso. L’accoglienza e anche il sostegno.





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lunedì 7 dicembre 2015

L’Ufficio della Schiavitù Sessuale



di Eve Ensler (da La Repubblica)

A Yanar e alle mie sorelle in Iraq e in Siria



Penso al listino del mercato delle schiave sessuali dell’ISIS in cui donne e bambine sono prezzate come il bestiame.
L’ISIS ha dovuto calmierare i prezzi per timore di un calo del mercato: 40 dollari per le donne tra i 40 e i 50 anni, 69 dollari per le trenta-quarantenni, 86 per le venti-trentenni fino a 172 per le bimbe da 1 a 9 anni. Le ultracinquantenni non compaiono neppure in lista, considerate prive di valore di mercato. Vengono gettate via come i cartoni di latte scaduti. Ma non ci si limita ad abbandonarle in qualche fetida discarica.
Prima probabilmente vengono torturate, decapitate, stuprate, poi gettate su un cumulo di cadaveri in putrefazione.
Penso al corpicino in vendita di una bambina di un anno, a un soldato trentenne corpulento, affamato di guerra e di sesso che la compra, la incarta e se la porta a casa, come un televisore nuovo. Cosa proverà o penserà scartando quella carne bambina e stuprandola con un pene delle dimensioni del suo corpicino? Penso che nel 2015 sono qui a leggere un manuale online sul modo corretto di praticare la schiavitù sessuale, con tanto di istruzioni e regole puntigliose su come trattare la propria schiava, pubblicato da un’istituzione molto ben organizzata(l’Ufficio della schiavitù sessuale) di un governo canaglia, incaricata senza alcun imbarazzo di regolamentare gli stupri, le percosse, l’acquisto e la riduzione in schiavitù delle donne. 
Cito qualche esempio tratto dal manuale: "E’ permesso percuotere la schiava come [forma di ] darb ta'deeb [percosse disciplinari], [ma ] è vietato [ricorrere alle ] darb al-takseer [letteralmente percosse massacranti], [darb] al-tashaffi [percosse allo scopo di ottenere gratificazione], oppure [darb] al-ta'dheeb [percosse come tortura]. Inoltre è proibito colpire al volto. "
Mi chiedo come facciano i burocrati dell’ISIS a distinguere i pugni, i calci e lo strangolamento inflitti a scopi disciplinari dagli atti mirati alla gratificazione sessuale. Ogniqualvolta una schiava verrà picchiata interverrà una squadra a verificare se c’è erezione?
E come faranno a stabilire cosa esattamente l’ha provocata? Certi uomini si eccitano soltanto nel momento in cui affermano il proprio potere.
E se verrà stabilito che il soldato picchia, strangola e prende a calci la sua schiava per puro piacere, in che modo sarà punito?
Lo costringeranno a restituire la schiava perdendo il deposito, a pagare una multa salata, o semplicemente dovrà pregare di più?
Penso alla facilità con cui si considera l’ISIS una mostruosa aberrazione quando in realtà è l’esito di una lunga serie ininterrotta di crimini e disordini. Le atrocità sessuali inflitte dall’ISIS si differenziano solo nella forma e nella prassi da quelle perpetrate da molti altri signori della guerra in altri conflitti. Sconvolgente e nuovo è lo sfoggio sfrontato e impudente che si fa questi crimini pubblicizzati su internet, lo sdoganamento commerciale di queste atrocità, le app in cui il sesso è usato come mezzo di reclutamento. Le azioni e la rapida proliferazione dell’ISIS non nascono dal nulla, sono frutto di un’escalation legittimata da secoli di impunità della violenza sessuale dilagante .
Mi vengono in mente le Comfort women, le prime schiave sessuali dell’era moderna, giovani donne asiatiche rapite nel fiore degli anni dall’esercito imperiale giapponese durante la seconda guerra mondiale e detenute nelle ‘stazioni di conforto’, per soddisfare le esigenze sessuali dei sodati al servizio del loro paese.
Le donne subivano anche 70 stupri al giorno. Quando, esauste, non riuscivano più a muoversi, venivano incatenate al letto e stuprate ancora come sacchi molli. A queste donne la vergogna ha tappato la bocca per quarantacinque anni e per altri venticinque hanno marciato e atteso, vigili, sotto la pioggia, chiedendo giustizia. 
Sono rimaste in poche ormai e non più tardi di un mese fa il primo ministro giapponese Shinzo Abe ha perso l’ennesima occasione di fare ammenda. Penso all’inerzia, al silenzio, alla paralisi che ha bloccato e impedito le indagini e l’incriminazione nei casi di abuso sessuale ai danni delle donne musulmane, croate e serbe stuprate nei campi dell’ex Yugoslavia, delle donne e delle bambine afroamericane stuprate nelle piantagioni del Sud, delle donne e delle bambine ebree stuprate nei campi di concentramento tedeschi, delle donne e delle bambine native americane stuprate nelle riserve degli Stati Uniti. Ascolto le urla delle anime in pena delle donne e delle bambine violate in Bangladesh, Sri Lanka, Haiti, Guatemala, Filippine, Sudan, Cecenia, Nigeria, Colombia, Nepal e la lista si allunga.
Penso agli ultimi otto anni che ho trascorso nella Repubblica Democratica del Congo dove un’analoga conflagrazione di capitalismo rapace, secoli di colonialismo, guerra e violenza senza fine ha lasciato migliaia di donne e bambine prive di organi, salute mentale, famiglia o futuro.
E penso che lo stupro ormai sia un’azione reiterata. 
Penso che scrivo queste cose da vent’anni.
Ho provato a farlo con i numeri e con distacco, con passione e suppliche, con disperazione esistenziale e anche adesso, scrivendo, mi chiedo se abbiamo creato un linguaggio adatto a questo secolo che sia più potente del pianto. 
Penso che le istituzioni patriarcali non hanno saputo intervenire in maniera efficace e che le strutture come L’ONU amplificano il problema nel momento in cui le forze di pacekeeping che dovrebbero proteggere le donne e le bambine si macchiano a loro volta di stupri. 
Penso all’operazione Shock and Awe (colpisci e terrorizza)e a come ha contribuito a scatenare questa, che potremmo definire Stupra e decapita.
Quando noi cittadini, a milioni, in tutto il mondo, manifestavamo contro la guerra inutile e immorale in Iraq restando inascoltati , eravamo perfettamente consapevoli del dolore, dell’umiliazione e dell’oscurità che avrebbero generato quei letali 3000 missili Tomahawk americani. 
Penso al fondamentalismo religioso a Dio padre, a quante donne sono state stuprate in suo nome , a quante massacrate e assassinate.
Penso al concetto di stupro come preghiera e alla teologia dello stupro, alla religione dello stupro.
Penso che è una delle maggiori religioni mondiali, in crescita con centinaia di conversioni al giorno, dato che un miliardo di donne nella sua vita subirà percosse o uno stupro (dati ONU). Penso alla velocità folle a cui si moltiplicano nuovi e grotteschi metodi per mercificare e profanare i corpi delle donne in un sistema in cui ciò che più è vivo, sia esso la terra o le donne, deve essere ridotto a oggetto e annichilito per aumentare i consumi, la crescita e l’amnesia. Penso alle migliaia di giovani occidentali, uomini e donne, tra i 15 e i 20 anni, che si sono arruolati nell’ISIS.
In cerca di cosa, in fuga da cosa? Povertà, alienazione, islamofobia, desiderio di avere un senso e un obiettivo? Penso a quello che mi ha detto mia sorella, attivista, in una conversazione su Skype da Baghdad questa settimana: “L’Isis è un virus e l’unica cosa da fare con i virus è sterminarli.” Mi chiedo come si stermina una mentalità, come si bombarda un paradigma, come si fanno saltare la misoginia, il capitalismo, l’imperialismo e il fondamentalismo religioso. Penso, o forse non riesco a pensare, prigioniera come sono della confusione mentale imperante in questo secolo. Sono consapevole da un lato che l’unico modo per andare avanti è riscrivere da zero la storia attuale, procedere a un esame collettivo approfondito e ponderato delle cause che stanno alla base delle varie violenze in tutte le loro componenti economiche, psicologiche, razziali, patriarcali, che richiedono tempo e contemporaneamente so che, in questo preciso istante, tremila donne yazide subiscono percosse, stupri e torture. 
Penso alle donne, alle migliaia di donne che in tutto il mondo hanno operato senza pausa per anni e anni, esaurendo ogni fibra del loro essere per denunciare lo stupro, per porre fine a questa patologia di violenza e odio nei nostri confronti , e la razionalità , la pazienza, l’empatia, la mole della ricerca, le cifre che mostriamo, le sopravvissute che curiamo, le storie che ascoltiamo, le figlie che seppelliamo, il cancro di cui ci ammaliamo non contano, la guerra contro di noi infuria ogni giorno più metodica, più sfacciata, brutale, psicotica.
Penso che L’ISIS come l’aumento del livello dei mari, lo scioglimento dei ghiacciai, le temperature assassine sia forse il segnale che per le donne si approssima lo scontro finale. E’ giunta l’ora in cui secoli eterni di rabbia femminile si fondano in un’ impetuosa forza vulcanica, scatenando la furia globale della vagina delle divinità femminili Kali, Oya, Pele, Mama Wati, Hera, Durga, Inanna e Ixchel, lasciando che sia la nostra ira a guidarci. Penso alla cantante folk yazida Xate Zhangali che dopo aver visto le teste delle sue sorelle penzolare dai pali nella piazza del suo villaggio ha chiesto al governo curdo di armare e addestrare le donne e alle Sun Girls, la milizia femminile da lei creata, che combatte l’ISIS sulle montagne del Sinjar. E in questo momento, dopo anni di attivismo contro la violenza, sogno che migliaia di casse di ak47, cadano dal cielo sui villaggi, i centri, le fattorie e le terre delle donne, questi guerrieri con il seno che insorgono combattendo per la vita. Sono arrivata così a pensare all’amore, a come il fallimento di questo secolo sia un fallimento dell’amore.
Cosa siamo chiamati a fare, di che cosa siamo fatti tutti noi che siamo in vita su questo pianeta oggi.
Che tipo di amore serve, quanto deve essere profondo, intenso e bruciante. Non un amore ingenuo sentimentale neoliberale, ma un amore ossessivamente altruista.
Un amore che sconfigga i sistemi basati sullo sfruttamento di molti a vantaggio di pochi.
Un amore che trasformi il nostro disgusto passivo di fronte ai crimini contro le donne e l’umanità in una resistenza collettiva inarrestabile.
Un amore che veneri il mistero e dissolva la gerarchia.
Un amore che trovi valore nella connessione e non nella competizione tra noi.
Un amore che ci faccia aprire le braccia ai profughi in fuga invece di costruire muri per tenerli fuori, bersagliarli con i lacrimogeni o rimuovere i loro colpi enfiati dalle nostre spiagge.
Un amore che bruci di fiamma viva tanto da pervadere il nostro torpore, squagliare i nostri muri, accendere la nostra immaginazione e motivarci a uscire infine, liberi, da questa storia di morte.
Un amore che ci dia la scossa, spingendoci a dare la nostra vita per la vita, se necessario.
Chi saranno i coraggiosi, furibondi, visionari autori del nostro manuale di amore rivoluzionario?





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venerdì 4 dicembre 2015

Nigeria: la lotta al terrorismo causa un elevato numero di morti



L'Associazione per i Popoli Minacciati (APM) ha chiesto al governo nigeriano maggiore trasparenza e protezione per la popolazione civile nella lotta al terrorismo. La lotta alle milizie di Boko Haram nella Nigeria nordorientale avviene nel riserbo più assoluto. Nelle regioni del conflitto non sono ammessi né giornalisti né aiuti umanitari per la popolazione civile rimasta.

Secondo i dati forniti dall'aviazione militare nigeriana, tra settembre e ottobre 2015 l'aviazione militare ha compiuto 1.488 raid aerei contro presunte postazioni di Boko Haram. Secondo l'APM è più che realistico presumere che durante i bombardamenti vi siano state anche vittime civili. Poiché l'esercito nigeriano finora non ha mai comunicato il numero dei morti conseguente alle sue azioni, l'APM presume che il numero dei morti civili causati dal conflitto con Boko Haram sia molto più alto di quanto ufficialmente dichiarato.

Secondo i dati dell'Indice globale sul terrorismo pubblicati ieri 17 novembre dall'Institute for Economics and Peace, nel 2015 la Nigeria ha avuto 6.644 morti per attacchi terroristici. Nel 2014 i morti per terrorismo erano stati 7.512. Solo ieri 17 novembre un attentato di Boko Haram nella città di Yola (stato federale di Adamawa) ha causato altri 32 morti. Per riportare un'immagine realistica del terrore causato da Boko Haram bisogna però tenere conto anche della sanguinosa lotta anti-terrorismo condotta dalle forze istituzionali e dalle milizie alleate. Infatti, in Nigeria la popolazione civile ormai teme la violenza dell'esercito tanto quanto la violenza cieca di Boko Haram.

Circa 2,5 milioni di persone, cristiani quanto musulmani, sono in fuga dal terrore e dal contro-terrore che insanguinano il paese. 2,15 milioni di persone sono profughi interni che sono riusciti a trovare rifugio presso amici e parenti, ma la situazione dei profughi è catastrofica. La corruzione diffusa fa sparire buona parte degli aiuti umanitari promessi ai profughi. L'APM chiede quindi che la comunità internazionale esiga maggiore trasparenza nella gestione degli aiuti umanitari e contemporaneamente che vengano garantiti gli aiuti necessari affinché la popolazione vittima della violenza possa ricostruirsi una vita. Senza reali aiuti umanitari, senza lotta alla corruzione, alla povertà e all'abuso di potere non vi potrà essere una pace stabile e duratura nel paese africano già scosso da disastri ambientali e conseguenze del cambiamento climatico.

Boko Haram si è ufficialmente associato allo Stato Islamico nel marzo 2015 e ha proclamato la "provincia africana occidentale dello Stato islamico".





Vedi anche in gfbv.it: www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150413it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2015/150217it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2014/141201it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2014/140926it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2014/140912it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2014/140716it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2014/140304it.html | www.gfbv.it/2c-stampa/2014/140213it.html | www.gfbv.it/3dossier/africa/nigeria-it.html
in www: www.economicsandpeace.org | it.wikipedia.org/wiki/Delta_del_Niger | http://it.wikipedia.org/wiki/Nigeria

sabato 28 novembre 2015

Stay human - Africa: Cosa succede in Burundi?


di Veronica Tedeschi


Trovare notizie chiare su quello che sta succedendo in Burundi in questi ultimi mesi è abbastanza difficile, la guerra che sta vivendo questa popolazione sta passando in secondo piano, almeno nel giornalismo italiano.

Questo non significa che sia una guerra “meno importante” o con “meno morti”: da aprile 2015, quando sono scoppiate le violenze tra il governo e gli oppositori per la candidatura ad un terzo mandato del Presidente Pierre Nkurunziza, sono morte circa duecento persone.

Duecento persone che rappresentano un popolo che non ha nessuna intenzione di mollare, che non vuole sottostare al comando di un Presidente completamente disinteressato al benessere della sua popolazione, colpita per il 66% da denutrizione e caratterizzata da un tasso di povertà altissimo.



Lunedì mattina abbiamo assistito quasi 60 feriti arrivati al pronto soccorso in un breve lasso di tempo” spiega Richard Veerman, responsabile dei progetti Medici Senza Frontiere in Burundi. “Abbiamo aperto una seconda sala operatoria ed eseguito cinque interventi chirurgici d’emergenza nelle ore immediatamente successive. Ci impegniamo a portare cure mediche di qualità alle persone, senza distinzioni di razza, religione o orientamento politico”.



Per la prima volta la guerra in Burundi non riguarda solo le differenze etniche ma è legata soprattutto ad una lotta di potere. Nel maggio scorso ci fu un colpo di Stato, fallito, che vide i responsabili arrestati poco dopo. Nonostante questo, le manifestazioni e le morti sono continuate, tra il 3 e il 4 ottobre sono morte 15 persone negli scontri a Bukumbura tra la polizia e alcuni giovani che si opponevano al terzo mandato di Nkurunziza. Il 13 ottobre, almeno 7 persone sono morte per colpi di granata e arma da fuoco e ancora, altre 3 persone hanno perso la vita lo scorso 27 ottobre, giorno in cui il Presidente ottenne un terzo mandato. La violenza è ormai norma nel paese, dilaniato da una crisi politica di livelli eccezionali che ha costretto 200mila burundesi a lasciare il paese.

In quest’ottica si può leggere la creazione di una nuova polizia antisommossa, istituita il mese scorso e chiamata ad intervenire in caso di rivolte; secondo alcune fonti di stampa, sarebbe composta da 300 uomini, tra tiratori scelti e ufficiali al comando. La polizia da sola non regge più il peso di queste manifestazioni che, ormai, continuano da ben 8 mesi e che non cesseranno facilmente.

Il 7 novembre è scaduto l’ultimatum di cinque giorni dato dal Presidente ai suoi oppositori per consegnare le armi spontaneamente in cambio di un’amnistia. Questo invito di Nkurunziza non è stato accolto, infatti, nella notte tra il 7 e l’8 novembre altre 9 persone sono state uccise in un bar a Bukumbura.

Il 9 novembre è iniziata l’operazione di disarmo avviata dalla polizia in quartieri controllati dall’opposizione, il giorno stesso durante tali eventi sono morte altre 2 persone.

La situazione in Burundi peggiora progressivamente senza che la comunità internazionale riesca (o voglia) fermare la spirale di violenza che sta travolgendo questo paese.

Ricordiamo, inoltre, che nei prossimi mesi anche le popolazioni di Rwanda e Repubblica Democratica del Congo saranno chiamate alle urne, nella speranza che le conseguenze della guerra in Burundi non invadano anche gli altri Stati africani.




Il Burundi è un paese fragile e il modo in cui questa crisi verrà risolta avrà sicuramente ripercussioni sia sulla popolazione che sulle conquiste politiche future. Il tutto potrebbe concludersi con soluzioni militari molto pericolose, non solo per il Burundi ma per tutta la regione.



martedì 17 novembre 2015

Bollino rosso



di Mayra Landaverde



Finchè non sono arrivata in Italia non ero pienamente consapevole di tutti i diritti che venivano negati sistematicamente alle donne in Messico. Non che in Italia non ci siano problemi di violenza sulle donne ma obiettivamente si sta meglio da queste parti.

Nel mio primo ritorno al mio Paese ho capito che non sarei stata capace di rimanere per lunghi periodi.

Una sera mentre aspettavo per strada un taxi , mi sono accesa una sigaretta. Due signore mi hanno insultato perché era ignobile guardare una donna fumare in pubblico, che svergognata!

Un vecchio mi ha chiesto se ero prostituta ed io ho deciso di spegnere la sigaretta. Avrei fumato comunque nel locale con le mie amiche.

Trovato il taxi, ovviamente guidato da un maschio che non ha smesso di farmi dei “complimenti” e di provarci insistentemente, sono arrivata al locale, pieno di ragazze in minigonna, tacchi alti, truccate. Si fumava si beveva e si ballava. Tutti, maschi e femmine.

Finalmente, eravamo tutti dei giovani con la voglia di divertirci, ero sicura di passare una bella serata con gli amici. Lì nessuno mi ha detto niente. Fumavo tranquilla, ho bevuto la birra e ho ballato. Pensavo che dopo tutto il Messico non era male, che a volte qualcuno ti diceva qualcosa in merito al tuo corpo ma non per offenderti. O sì?

 

Da tutte le conversazioni che ho sostenuto con le donne in questo mio viaggio, nove su dieci avevano subìto in qualche modo degli abusi fisici o psicologici da parte di un maschio.



Insomma se voglio andare avanti al lavoro devo lasciarmi palpeggiare dal capo ogni volta che ci passo vicina. Ma non c’è la faccio più, dovrò per forza trovarmi un altro impiego”: questo lo raccontava A mentre eravamo in bagno al locale. Io sono rimasta stupita che la cosa che più preoccupava la ragazza non fosse il fatto dell’abuso di potere del capo nei suoi confronti nè l’umiliazione subìta in quanto donna. No, la cosa che la preoccupava di più era che cambiare lavoro sarebbe stato difficile. Certo che pensava a quello, ha un bambino, ha un mutuo, deve mangiare, deve pagare le bollette, quindi la violenza di genere in questo caso passa in secondo piano. Ed è sempre così. Ormai noi donne pensiamo che il nostro corpo sia un oggetto. Ce l’hanno sempre detto, allora sarà vero. Vediamo donne- oggetto in tv, nelle pubblicità, ovunque. E se il capo ti molesta o stai zitta e glielo fai fare oppure cambi lavoro. Ma di lavoro ce n'è pochissimo.



La vicina di casa di mia sorella era convinta (e forse lo è ancora adesso) che il marito potesse forzarla ad avere rapporti sessuali solo in quanto è suo marito: le ho spiegato che quello si chiama stupro ma lei quasi offesa mi ha chiesto ma come fa a violentarmi? Lui è mio marito! .

In Messico ogni 4 minuti e mezzo viene stuprata una donna e, nella maggior parte dei casi avviene in casa, da parte del coniuge. Le denunce di questi casi sono in pratica inesistenti.



Quest’anno il Ministero degli Interni ha annunciato alerta de género in 11 località del paese.

La “alerta de género” è una specie di bollino rosso che nomina le città in cui più donne muoiono in modo violento, per stupri, torture, sequestri ecc. Violenza sulle donne. Soltanto quest’anno se ne parla apertamente.



Il governo messicano forse si sta dimenticando dei femminicidi di Cd. Juarez.

Dal 1993 si contano più di 700 donne violentate, torturate, uccise e abbandonate nel deserto.

Le primissime vittime erano tutte bambine.

Nel 2006 hanno trovato il corpo irriconoscibile di una bambina di tre anni.

Nello stesso anno la polizia messicana arrestò e incarcerò un cittadino egiziano di nome Omar Sherif Latifh con l'accusa di guidare una banda di delinquenti e stupratori. Secondo le indagini avrebbero fatto tutto; stranamente le donne hanno continuato a sparire da vive e ritrovate da morte. Anche adesso nel 2015.

Davanti a così tanta corruzione e indifferenza mi sembra inutile scrivere su tutte le altre false indagini e arresti che la Polizia ha fatto. Nessuna ha portato a niente. Le donne vengono lasciate morire dallo Stato. Vengono lasciate anche le famiglie che, al contrario delle istituzioni governative, si sono ben organizzate per protestare, chiedendo una reazione forte da parte dello Stato.

Stiamo ancora aspettando risposte. Anzi stiamo ancora aspettando azioni concrete che fermino la violenza smisurata sulle donne messicane. Metterci su un bollino rosso come allarme non serve a nulla. Servono delle azioni reali. Ora.






domenica 15 novembre 2015

Il Presidente delle comunità arabe in Italia commenta i fatti di Parigi





Foad Aodi ha rilasciato, per i nostri lettori, un commento sui fatti di Parigi. Ringraziamo molto Foad Aodi per la sua disponibilità.



A nome di Co-Mai (Amsi e Uniti per Unire) esprimiamo solidarietà ai francesi - come abbiamo fatto, purtroppo, in occasione anche dello scorso attentato, davanti all'Ambasciata - e con la solidarietà esprimiamo anche la nostra condanna di ogni forma di violenza e di terrorismo.

Vogliamo ribadire che l'Islam non c'entra con questi movimenti estremisti; come musulmani non abbiamo mai visto una violenza come questa, una violenza cieca contro Paesi civili e democratici.

L'Isis ha l'obiettivo di prendere il primato del Consorzio del terrore, combattendo due guerre: una interna – nei confronti di altri movimenti estremisti nei vari Paesi – e utilizzando anche il franchising del terrorismo formato da tanti lupi solitari che seguono la propaganda, senza nemmeno sapere bene cosa vogliono (e questo è il pericolo maggiore).

Concordo con Papa Francesco che si tratti di una terza guerra mondiale e credo che si debba agire in fretta su due binari: da una parte le comunità del mondo arabo, le comunità musulmane, ebree e cristiane devono unirsi per promuovere il dialogo interreligioso e, dall'altra, sono importanti anche le azioni diplomatiche e delle forze politiche che devono agire subito per fermare l'avanzamento dell'Isis, anche perchè tutti noi non sappiamo ancora rispondere a tre domande: Com'è nato? Chi lo sponsorizza? Dove vuole arrivare?

giovedì 5 novembre 2015

Una lettura psicoanalitica di Alla Ricerca di Fatima: Una Storia palestinese, memoir di Ghada Karmi




"Alla ricerca di Fatima: una storia palestinese" narra la vita di Ghada Karmi, medico palestinese, che trascorre l'infanzia in un sobborgo benestante di Gerusalemme con due fratelli, i genitori e il cane Rex, affidata alle cure della domestica Fatima. Quando la famiglia è costretta a fuggire in Inghilterra a causa delle crescenti violenze degli ebrei nei confronti della popolazione araba, Ghada deve imparare a convivere con la perdita progressiva e definitiva del paese in cui è nata, sostituito da Israele. L'impatto con l'Inghilterra non è troppo traumatico: la scelta di privilegiare l'identità inglese è naturale e all'inizio risolutiva. Quando, ormai laureata in medicina, sceglie di sposare un inglese, Ghada difende il suo matrimonio agli occhi della famiglia tradizionalista e giudicante, difendendo allo stesso tempo la fittizia identità inglese che ha attribuito a se stessa e rifiutando in toto quella araba. Ma ben presto le contraddizioni di una tale decisione esplodono in tutta la loro violenza: durante la guerra dei Sei giorni Ghada farà i conti con l'indifferenza, o addirittura l'ostilità, di tutti quelli che credeva vicini, marito incluso. Consapevole di non potersi più nascondere e convinta di dover cercare se stessa scavando nel passato, Ghada si getta anima e corpo nell'impegno politico, quasi cercasse un'assoluzione per aver trascurato la storia del suo popolo: negli anni Settanta inizia a lottare per far sentire la voce dimenticata degli esuli palestinesi, si reca nei campi...



Una lettura psicoanalitica di Alla Ricerca di Fatima: Una Storia palestinese, memoir di Ghada Karmi







di Flavia Donati



La vita di Ghada Karmi ha attraversato gli snodi drammatici della storia del suo popolo ed è stata attraversata e travolta insieme alla sua famiglia e alla sua comunità.
Parlo di una donna. Parlo di una storica.
Historia, nel suo significato originale usato da Erodoto, vuole dire "conoscenza".
Ghada Karmi ha attraversato il trauma della catastrofe del suo popolo, superando, come mostrerò, il diniego transgenerazionale ed arrivando con la sua scrittura a rendere testimonianza dell'orrore che è accaduto "là e allora".
I disastri causati dall'uomo e dalla mano dell'uomo, le guerre, le persecuzioni politiche ed etniche, mirano all'annichilimento dell'esistenza sociale e individuale dell'essere umano. Questa è la de-umanizzazione cui il lavoro paziente dello storico si oppone. Lo storico integra le esperienze traumatiche in un atto narrativo.
Questo ha fatto, questa donna-studiosa, Ghada, di cui vi parlerò.
Il mio scriverne è un rendergliene grazia.
Lo storico Walid Khalidi ha dovuto scrivere “All That Remains: The Palestinian Villages Occupied and Depopulated by Israel in 1948”, pubblicato nel 1992, per salvare alla memoria ciò che il sionismo e, poi, lo stato israeliano hanno rubato (case, terre, acqua, alberi, ulivi millenari) hanno distrutto (vite umane, villaggi popolati e inermi) hanno espulso (centinaia di migliaia di abitanti resi profughi o esuli come Ghada) per costruirci sopra cancellandone i nomi arabi per azzerarne anche il ricordo. Per negarne l’ esistenza.
La vita di Ghada inizia come una bimbetta riflessiva, con tanti legami affettivi ben radicati nella comunità di appartenenza, con una nutrice che è per lei una vera àncora di accoglienza e sicurezza e con un cane, Rex, compagno di giochi e di intesa. Parlerò della sua famiglia e dell’intreccio con le complessità di lutti e della loro impossibile elaborazione.
Questa bimbetta un giorno perde tutto. Messa di fretta in un taxi, lasciando Gerusalemme senza il tempo per capire e per un vero addio, vede per l’ ultima volta, una mattina all’alba, Fatima, la nutrice e Rex; li vede figure sempre più piccole in lontananza finché si perdono. Non le vedrà mai più e non saprà nemmeno mai quale fu il loro destino (pag. 113). Era l’ aprile del 1948. La nakba, la catastrofe. Confusi, storditi, ammassati, annegati nel dolore e nella paura, prima tappa Damasco, poi Londra.

Il libro intreccia la grande storia e la storia personale. Ghada Karmi è medico e storica accurata, dallo sguardo ampio ed è mossa da una dolorosa sincerità personale sui suoi percorsi, ingenuità, errori, illusioni, fallimenti e ritrovamenti della strada perduta.
La cornice della grande storia: La Dichiarazione di Balfour novembre 1917, in merito alla spartizione dell’ impero ottomano, venne mandata dall’allora Ministro degli Esteri inglese Balfour a Lord Rothschild inteso come rappresentante della comunità ebraica inglese e referente del movimento sionista. In questo documento ufficiale il governo inglese guardava con favore alla creazione di un focolaio ebraico in Palestina. Dice Ghada Karmi: ”con quella dichiarazione il governo inglese aveva promesso ad un popolo la terra di un altro, benché non potesse rivendicare alcun diritto di proprietà su quella terra” (pag. 71). La Dichiarazione di Balfour fu inserita nel trattato di Sevres del 1920 che stabiliva la fine delle ostilità con la Turchia e assegnava la Palestina al Regno Unito, successivo titolare del Mandato della Palestina. Nei primi capitoli del libro si seguono le vicende prima della trasformazione di Gerusalemme nel XIX secolo: “quando si stabilirono le prime missioni cristiane…in appena cinquant’anni costruirono centinaia di chiese, scuole, ospedali…” (pag. 31) . La ferrea occupazione del mandato inglese, attivamente contrastata da movimenti di resistenza palestinese “dal 1936 al 1939 la protesta palestinese contro la linea politica seguita dalle autorità del mandato britannico che governavano il paese era inarrestabile…ma i capi della rivolta non riuscirono ad accordarsi su una strategia comune per sconfiggere l’ avanzata ebraica né tantomeno gli inglesi...” (pag. 10-11) “i due partiti pro Husseini e pro Nashashibi, ai ferri corti, stavano conducendo la resistenza palestinese alla disfatta, lasciando il campo agli ebrei immigrati, ogni giorno più decisi a prendere il potere” (pag. 44). La progressiva migrazione ebraica in Palestina: “Prima dell’ inizio dell’immigrazione ebraica in Palestina nel 1880 la comunità (ebraica ndr) contava circa 3.000 persone, su un totale di 350.000 abitanti nel paese” (pag. 37). Quella piccola comunità che Ghada Karmi chiama “i nostri ebrei” era indistinguibile dagli arabi, perché ne parlava la lingua ed era fisicamente indistinguibile. Ma si ingrossò il fiume della migrazione ebraica sotto gli occhi dell’ occupazione militare del mandato inglese. Ebrei poveri degli anni ’20-’30…ma anche ebrei benestanti “ricevevano sostanziosi aiuti economici dal governo britannico” (pag. 13) diventavano sempre più possidenti. Ghada dice: “lasciati a se stessi, i popoli si mescolano. Matrimoni misti, amicizie tra i vicini di casa …..” ( pag. 45)…..
Ma i sionisti avevano un altro piano. Il JNF (il Fondo Nazionale Ebraico) fondato nel 1901 al congresso sionista di Basilea, mappò la terrà e pianificò la sua espropriazione. Le strutture politiche e militari sioniste, inizialmente addestrate ed armate dall’esercito inglese, progressivamente diventarono il braccio armato (Haganah, esercito clandestino, Irgun, Banda Stern) contro la popolazione palestinese e contro l’esercito inglese che divenne obbiettivo di attacchi sanguinari (ad es King David Hotel quartier generale del governo britannico in Palestina fu devastato da una bomba nel luglio 1946 (pag. 54), o per es la Goldsmith House sede degli ufficiali britannici (pag. 61). Dice Ghada Karmi: “Le autorità inglesi sembravano sopraffatte dalla ferocia delle aggressioni degli ebrei”.

La popolazione palestinese, la comunità intorno a Ghada, la sua famiglia divennero sempre più terrorizzate dagli attacchi delle milizie sioniste (ai mezzi pubblici ad Haifa, alla folla alla Porta di Damasco, ai cinema, ai caffè, agli Hotel ritenuti sedi delle deboli organizzazioni palestinesi di resistenza, divise e malamente organizzate e dirette, il massacro di Deir Yassin il 9 aprile 1948…) fino a quel giorno di aprile del 1948 quando per non morire, lasciarono la loro terra.
Lascio alle pagine di Ghada la storia della fine del Mandato britannico e la Dichiarazione Onu e il dramma della popolazione palestinese, di quella che rimase nel territorio e di quella che diventò esule, 800.000 donne, uomini e bambini e dei 531 villaggi distrutti.


Io mi devo occupare della storia piccola, della storia personale che si dipana in questa grande storia. Vorrei proporvi 4 aree di lettura di questa storia per entrare nei suoi aspetti psicologici, per come io ho cercato di comprenderli. Spero che Ghada senta il mio rispetto per lei e per l’onestà del suo racconto, lo senta anche se devo concentrare in pochi paragrafi l’ entrare in grandi complessità e in intense emozionalità e ciò lo sento rischioso.



1)Aree di fragilità pre-nakba
2) Il trauma ed i suoi fattori PRE-disponenti l’impossibilità di una elaborazione compiuta
3) I tentativi difensivi (per es: pseudo-integrazione post-migratoria)
4) La riconnessione con la propria storia




La bambina Ghada viveva nella sua famiglia con il papà, la mamma, una sorella nata nel ‘32 ed un fratello nato nel ’36 più grandi di lei nata nel nov ’39 . Immersa, radicata in una comunità ricca di scambi umani e di attività commerciali.
Ghada guarda alla sua storia da adulta e la pietà per i dolori della vita dei suoi genitori le permette di ricordare con tenerezza aspetti della dinamica intra-famigliare che avrebbero potuto essere ricordati con venature critiche che si permette solo in alcune pagine, dimostrando la sua profonda consapevolezza e sincerità.



Ma non solo questo: questo sguardo pietoso è un primo movimento di elaborazione del lutto che le permette di attingere alla memoria sia della sua storia individuale sia alla grande storia.
Ghada chiede a Fatima “dimmi cosa succede?” (pag. 107) quando l’angoscia nella comunità cresce. Non lo chiede alla madre, non lo chiede al padre. Per lei l’àncora è Fatima. La madre è una donna volitiva e intelligente ma sembra distratta dalla sua intensa necessità di interazioni sociali che inseriscono la famiglia in un tessuto affettivo sociale stretto ma lasciano Ghada un po’ solitaria. Ghada dice: “io non venivo notata da nessuno, mi vedevo pelle ed ossa, mi sentivo brutta ed ero gelosa marcia” dei cuginetti coccolati dalla madre e dei maschi che avevano diritto a trattamenti speciali (pag. 22)...“dai bambini, come dagli adulti ci si aspettava che se la cavassero da soli”….”la vita senza Rex e Fatima era impensabile” (pag. 76).
Queste frasi danno l’ immagine di una bambina che non trovava sufficiente accoglimento e attenzione e che non si sentiva vista dagli occhi della madre. E quindi poteva trovare difficoltà nella formazione dell’immagine di sé. Un vissuto di svalutazione, di insufficiente rispecchiamento e rassicurante conferma che può rendere il bambino più esposto a inquietudini-insicurezza-autocriticità nel suo senso di sé stesso e all’ ansia di rifiuto nella relazione con il mondo esterno. L’ancoraggio a Fatima è di tipo affettivo-protettivo, una grande tenerezza calda. Fatima era una donna saggia ma nella società palestinese del tempo la posizione di Fatima era svalutata: “Anche se ero piccola avevo già assimilato la tripartizione usuale della società palestinese: in fondo alla scala c’era la gente di campagna, poi i proprietari terrieri e in cima gli abitanti delle città” (pag. 17)… “fin dall’ inizio considerai Fatima come mia madre…sapevo che lei non era la mia vera madre ma nutrivo un affetto così profondo che i miei fratelli mi canzonavano: Non sei mica nostra sorella…Ti abbiamo trovata in giardino…i tuoi genitori sono contadini come Fatima…prima o poi ti rimandiamo da loro...”… “piangevo disperata”...”mia madre li rimproverava”…”Ma il mio strazio era solo in parte dovuto al fatto di non voler essere considerata una reietta nella mia stessa famiglia. In maggior misura mi turbava l’ idea di essere associata ai contadini”...( pag. 16). Quindi già da allora il modellamento sull’immagine della figura femminile di riferimento era complessa. Complessa la formazione dell’ immagine di sé. Da una parte Ghada trovava la sicurezza, pace, tenerezza e accoglienza incondizionata con Fatima, dall’altra era in conflitto con quell’ immagine di riferimento da introiettare in quanto svalutata e che l’avrebbe messa fuori dalla famiglia.
Il rapporto con il padre è tenero. Siede sulle sue ginocchia quando la madre esce e lui legge, gli parla anche se lui non si sa quanto ascolti. E’ un uomo responsabile con aspirazioni intellettuali e lavora all’interno dell’ entourage inglese cosa che gli crea forti imbarazzi per la sua forte collocazione leale dentro la sua comunità. Una complicazione che lo accompagnerà anche dopo la migrazione in Inghilterra perché troverà lavoro nella divisione araba della BBC. Ghada dice: “i padri hanno un’importanza cruciale nella nostra cultura. Rappresentano la principale figura di riferimento, l’ autorità, sono gli artefici della reputazione della famiglia, l’ unico suo mezzo di sostentamento economico e la base della sua identità” (pag. 76). Ma il padre, lui stesso vittima della grande storia che si abbatte sulla sua terra dice: “non andremo da nessuna parte e nessuno farà nulla ai miei libri” (pag. 83). E quindi che cosa succede alla bambina Ghada verso questa autorità che doveva essere, per lei ancora piccola, guida autorevole nella lettura della realtà ed efficace protezione consapevole? Lo si perdona in quanto vittima ma: che ferita lascia? Quanto traumatica è la perdita improvvisa dell’aura di onnipotenza che i nostri genitori dovrebbero perdere un po’ alla volta nel corso della nostra adolescenza mentre ci attrezziamo a navigare da soli la realtà?
Queste considerazioni ci aiutano a capire meglio il senso di fragilità e di dubbio identitario che sarà parte della fase successiva, post-migratoria.
Sia la mamma che il papà di Ghada hanno difficoltà a parlare delle esperienze e di ciò che succede a loro e nei loro figli sia prima della nakba che negli anni del post-migrazione. Ghada ne parla con stupore, con tristezza, a volte con dolore arrabbiato. “nessuno dei due sembrava interessato alle nostre vite” (pag. 205) “non riesco a perdonare i miei genitori per averci gettato con tanta noncuranza in simili sabbie mobili culturali e politiche” (pag. 191) “lacrime di papà per che cosa? Era impossibile dirlo perché papà non parlava mai dei suoi sentimenti” (pag. 144). Noi lettori possiamo cercare di immaginare lo stato di angoscia continua e sotterranea nel quale i genitori vivevano intuendo, forse non a livello conscio, che il loro mondo era minacciato e sarebbe stato distrutto. Forse non erano in grado di ascoltare perché non potevano dare risposte. Non potevano avvicinarsi al lutto che stavano per vivere, stavano vivendo, avevano vissuto e avrebbero continuato a vivere. Ma se guardiamo l’esperienza dalla parte di Ghada possiamo sentirci vicini alla sua esperienza interiore. I bambini hanno bisogno di essere aiutati a mettere in parole le loro esperienze perché vengano accolte senza reprimerne le emozioni, anzi per aiutarli a capirle e collegarle, per validare le loro risorse per poter affrontare le sfide, per non vergognarsi della paura, per non dover far finta di…. e per consolidare il senso della propria identità. Gli attacchi di panico di cui Ghada ci racconta soffrirà a Londra per molti anni (pag. 186) iniziati al museo delle cere di Madame Tussauds (forse non per caso: tutti come morti, come un cimitero) rimandano forse a questa scissione tra forti emozioni e un insufficiente tentativo di contenimento negli anni formativi attraverso l’ascolto-rassicurazione attraverso la sintonizzazione dell’ adulto-affidabilità della parola dell’ altro.
Gli impatti forti della nostra vita vanno a mettere in evidenza le nostre aree deboli e poi, come Ghada arriverà a fare nel suo percorso, se riusciamo a riconnetterci con le nostre risorse e le correnti dinamiche autentiche della nostra identità abbiamo l’opportunità di riparare, di occuparci in modo curativo di quelle aree friabili.



2) Il trauma: Palestina Damasco Londra
Perdita del mondo che è la sua vita. Affetti, legami identitari, comunità di riferimento. Odori. Suoni. Paesaggi. Fisionomie. Arriva l’ Aprile 1948.
Prima il montare di una paura che impregna tutti. I genitori erano terrorizzati (pag. 104) i bambini non possono contare su alcuna rassicurazione, conforto, spiegazione su ciò che sta avvenendo e potrà essere di loro: “nemmeno il tempo di dire addio alla nostra casa, al nostro paese a tutto ciò che avevamo amato un tempo” (pag. 113). La fuga a Damasco dove c’erano i nonni.
C’è un dolore che tutto pervade ma un meccanismo difensivo, la negazione, che illusoriamente protegge dal dolore ma ne complica enormemente la possibilità di elaborarlo senza eccessive scissioni che invece congelano parti del proprio mondo interno con conseguenze complesse emotive-cognitive-relazionali: “dopo il nostro arrivo a Damasco, nessuno accennò più alla vita di prima. I nostri genitori non parlavano più né di Fatima….nè della casa o di Gerusalemme. Mi sembrava di essere l’ unica a serbarne il ricordo…così stordita e confusa decisi di seguire il loro esempio e tenni per me la confusione. La mia devozione a Fatima, alla nostra casa e alla mia infanzia divennero una questione privata, un segreto da custodire e proteggere.” (pag. 126)…”i ricordi congelati nel tempo” (pag. 161).
“Scappare è fare il gioco degli ebrei, rimanere è esporre i figli alla morte” (pag. 82). Fuggiti lasciando gli anziani indietro per salvare i bambini: come si può elaborare o convivere con una tale colpa? Come affiorerà o si cercherà di non farla affiorare?
Poi, dopo varie traversie, e “una temporanea follia dei genitori” (pag. 145) la famiglia arriva a Londra. A Londra la famiglia Karmi tiene una stretta routine araba; la infelicissima mamma entra in una vera fase depressiva (pag. 167): isolata, rifiuta per anni di attrezzare con il riscaldamento la casa gelida e umida; rifiuta di considerare quella casa, quel luogo come destinazione permanente, definitivo, finale. Non imparerà mai l’inglese, e non stringerà mai amicizie con gli inglesi. Molto diversamente da come aveva fatto in Palestina dove le porte di casa erano sempre aperte e i vicini di casa erano amici al di là di appartenenze e caratteri. Mai mise piede nella scuola dei figli (pag. 179) e spegneva la musica classica che sempre aveva allietato la casa in Palestina (pag. 183).
Come si può elaborare una perdita così globale e drammatica? Il fallimento della migrazione nella generazione adulta si appoggia su una prevalenze di un dolore che eccede la proprie capacità di sopportarlo, sulla negazione come mezzo difensivo
prevalente, sulla natura obbligata dell’esilio, sulla globalità della perdita di ciò che ancora esiste ma è stato devastato e rubato. Gli invasori vivono nella loro casa. Il presente viene congelato perché non è più il passato e perché non deve diventare quel futuro. Congelamento dell’oggetto perduto insieme a ciò che di noi si esprimeva nella relazione con esso.
Idealizzazione del mondo perduto-estraniazione e denigrazione del mondo presente sono oscillazioni che rendono difficile la vita anche ai ragazzi che invece escono da casa, vanno a scuola, devono imparare la lingua e devono negoziare il loro inserimento in una nuova cultura, con nuovi valori, abitudini, validazioni.
Infatti come scrive Faimberg (2006) una negazione trasmessa di generazione in generazione impedisce il più delle volte di elaborare il lutto delle varie catastrofi del ‘900. La cripta di questo lutto incistato, chiusa quasi irrimediabilmente, dà luogo ad uno spazio intra-soggettivo e inter-soggettivo dove ciò che è negato ritorna nella forma di una mutilazione, in senso stretto ed in senso lato. Ma non sono solo i bambini ad essere “mutilati” della possibilità di affidarsi ai genitori: i genitori sono a loro volta “mutilati” non solo della loro patria ma della possibilità di essere per i loro figli punti di riferimento forti. Il terrore li fissa nella negazione. Gli adulti, si sa, sono meno plastici dei bambini, incistano il trauma in una cripta irrevocabilmente.
Quali operazioni mentali Ghada deve fare per poter continuare a vivere?



3) La pseudo-integrazione post-migratoria
Non può accettare la denigrazione del presente se vuole vivere, congela ricordi e perdite e gli elementi fondanti la sua identità culturale. “iniziai a cancellare il passato come se non fosse mai esistito...mi chiedo se i nostri genitori stessero cercando di favorire quella cancellazione un po’ per non rivivere il dolore e il trauma e un po’ forse, per una ragione più oscura e diversa. Magari a spingerli era la vergogna per aver disertato la madre patria, per averla lasciata, indifesa, nelle mani dell’invasore” (pag. 193). Verso chi era stato abbandonato, lasciato là. Inizia per Ghada un lungo processo di adattamento che potremmo chiamare camaleontico, facilitato dalla sua frequenza in una scuola cattolica dove le suore la trattavano con una certa dolcezza, un gusto di accoglienza femminile quasi un’associazione a Fatima. La sua migliore amica è Leslie e viene ben accolta dalla sua famiglia ebrea.
“Mi ero fatta l’ idea che tutto quello che era arabo…era mediocre e non meritava il mio interesse” (pag. 208). La svalorizzazione è tra i sintomi del lutto patologico. “avevo fatto mio il risentimento verso gli immigrati, come se io e la mia famiglia appartenessimo alla popolazione indigena…secondo lo stesso principio volevo confondermi con gli inglesi, imitare il loro comportamento, il loro modo di vivere….non mi sfiorò mai il pensiero di essere io stessa oggetto di quel disprezzo che gli inglesi provavano per i miei compagni immigrati e nemmeno che, in quanto palestinese, era proprio a loro che dovevo la perdita recente del mio paese…(208-209).
Qui va messo in luce il doppio livello della scissione e della negazione: una negazione della perdita da parte dei genitori e una negazione della storia del popolo palestinese da parte degli inglesi, nei media e nell’insegnamento scolastico, che volevano dimenticare il loro ruolo pre-nakba e stavano sempre di più promuovendo, per associazione coloniale, Israele a paese amico dimenticando tutta la storia del mandato britannico in Palestina finita con il loro sangue oltre a quello palestinese. Infatti i due momenti cruciali di rottura del suo percorso “adattativo” dal ’49 al ‘67 sono legati alla guerra per lo stretto di Suez del ottobre-novembre 1956 e alla cosiddetta guerra dei 6 giorni del 1967. Queste crisi internazionali vedono emergere nell’ambiente sociale e scolastico intorno a Ghada forti spinte di alleanza tra gli ebrei inglesi e Israele in aperta ostilità anti-araba e contro l’Egitto di Nasser, e una chiara collocazione inglese in alleanza anti-araba insieme agli altri stati post e neo-coloniali. “gli ebrei inglesi iniziarono con il ‘67 il loro coming out per appartenenza religiosa e per i loro legami con Israele (pag. 351). Ghada subisce penose esperienze di bullismo a scuola (pag. 262) e raffreddamenti nelle sue relazioni sociali: si sente dire “ti sembra giusto quello che ha fatto il vostro Nasser?” (pag. 252). Scrive: “Mi ci sarebbero voluti un altro decennio e un’altra crisi profondissima perché quell’edifico alla fine crollasse. Ma, senza che lo sapessi, a seguito della guerra di Suez, le prime crepe si erano già aperte.” (pag. 268).
Ghada per un po’ non aveva avuto scampo: aveva cercato di inserirsi per assimilazione. Ha la cittadinanza nel ’52. Vive come se avesse una doppia vita. Si accentua un distacco affettivo dai suoi genitori che vivono in un mondo a parte, soprattutto la madre. Ad un certo punto viene accolta con affetto e calore dalla famiglia di John che la vuole sposare. Ghada tentenna perché “sa” che John per lei è la casa inglese che le dà un senso di appartenenza ma, credo, sentisse la voragine che sottostava al suo rapporto. Quel senso di appartenenza si basava sulla negazione della sua storia - di cui non si parlava - della sua identità araba originaria e delle ragioni storiche della sua forzata migrazione delle quali non si parlava (pag. 332).
Ghada sceglie inconsapevolmente come data per le nozze il 15 maggio: la data della nakba. La data della perdita della sua terra ora diventa anche la data del distacco dalla sua famiglia che non riesce ad accettare la sua scelta. Forse il sovrapporre le date è nella scia della negazione. O all’ opposto accendere i riflettori sulla storia.
Ma la grande storia entra di nuovo nella sua vita questa volta ridandole una nuova possibilità di elaborazione e di integrazione personale. È la guerra delle 3 ore…chiamata dei 6 giorni con la disfatta araba e il trionfo di Israele. Nel 1967. Si afferma nel mondo la saldatura tra i colonialismi in funzione anti-araba con la possibilità di oscurare la responsabilità europea nell’olocausto passando agli arabi il ruolo di minaccia agli ebrei.
Momento cruciale con John che le dice: “non posso non ammirare Israele” . Il matrimonio viene travolto ma Ghada fa soprattutto precipitare dentro di sé una crisi profonda, difficile: “adesso mi sentivo doppiamente sola. Era come se quella settimana di guerra mi avesse smascherata. Mi chiedevo chi fossi in realtà”, (pag. 344). Pagine dolorose, turbolente ma che indicano quel lavoro di riconnessione interna alla realtà della propria storia e ai propri legami culturali sotterrati.
Le aree di ambiguità che dobbiamo mantenere - per permettere un adattamento che viene associato alla sopravvivenza, scindendo e sopprimendo aree importanti della nostra identità - è proporzionale alla fragilità della nostra identità, alla quota di vergogna e di autodenigrazione che la minaccia, alle dinamiche collusive dell’ambiente circostante (nella negazione, nella denigrazione, nell’ amnesia) alla violenza dell’esclusione sociale e della punizione in caso di manifestata diversità o critica.
L’integrazione interna (eredità, appartenenza, modelli identificatori, transgenerazionali, la nostra individuazione=creazione della nostra originalità nella fase infantile, i suoi dilemmi…) è l’ unico presupposto per un‘integrazione esterna che non sia basata sulla perdita di parti importanti di noi stessi e su un camaleontismo superficiale.
Israele riuscì attraverso un’articolata e abilissima strategia politico-mediatica a trasformare l’immagine del popolo palestinese, la vittima che era stato espulsa dalla sua terra, nell'immagine di una presenza senza diritti, intrusoria, aggressiva, che andava annullata e distrutta in quanto minacciosa. Gli stati arabi, divisi, con poteri autocratici miopi e disorganizzati, non ebbero mai, dopo Nasser, alcun ruolo nello scacchiere geo-politico dell’area medio-orientale e mediterranea. Ora in Israele con la legge del marzo 2011 lo Stato toglie i fondi statali a quelle istituzioni che commemorino il giorno della fondazione dello stato di Israele come giorno di un loro lutto. Parlare della nakba è proibito a scuola. Cioè i migliaia di palestinesi che sono rimasti in quello che è diventato lo Stato ebraico, non possono ricordare il giorno in cui hanno perso la loro coesione comunitaria e migliaia di loro amici e parenti sono diventati profughi permanenti, alcuni esuli sparsi per il mondo (come la famiglia di Ghada), molti altri, milioni di altri ora vivono ancora in campi profughi senza diritti e senza identità nazionale. Il vero “negazionismo” impedisce alla vittime di essere riconosciute: Ghada scrive “compresi amareggiata che non avevo solamente perso la mia patria ma anche il diritto di piangerla e di volerne a qualcuno perché se ne era appropriato” (pag. 354).


4) Riconnessione alla propria storia

Ghada inizia un’attività politica che non è più terminata a tutt’oggi. E da medico diventa una storica e una studiosa. Questa parte della sua vita ci è più nota. La porta ad un certo punto a pensare di voler vivere e lavorare come medico in Siria, rientrando in un mondo culturale arabo. Sperimenta come sa chi vive, attraversa e studia la complessità del processo migratorio, che l’ individuo diventa un individuo originale che deve accettare di non collocarsi perfettamente né nella cultura di origine né in quella di arrivo. E lei è mossa da necessità di restituire alla storia la storia.
La enorme fatica elaborativa che ha fatto sul piano personale dà le radici ad un suo pensiero coraggioso ed originale, una sua proposta strategica che è stata espressa nel suo libro “Sposata ad un Altro Uomo” (così fu descritta la Palestina dai due inviati dal primo congresso sionista del 1897 di Basilea, cioè che era una terra già abitata, rivendicata da una popolazione nativa arabo-palestinese della quale era madrepatria) che Ghada venne a presentare in Italia 4 anni fa. Ghada dice: “Sono consapevole che l’ipotesi di uno Stato unico non sia un argomento del quale scrivere facilmente. Si finisce immediatamente per far parte di una minoranza marginale e si è oggetto di accuse di utopismo, antisemitismo, e persino di tradimento. Si tratta di pregiudizi per evitare di pensare idee in contrasto con quelle divenute familiari, convenzionali, o che servono interessi costituiti. Al contrario, l’ipotesi di uno Stato unico, laico e democratico nella Palestina storica, è da affrontare con un dibattito onesto perché, come spero, di dimostrare è l’unica strada possibile tanto per i palestinesi quanto per gli israeliani”.
Grazie Ghada e grazie Fatima che, credo, Ghada abbia ritrovato dentro di sé come un nucleo caldo e amorevole grazie al quale è riuscita, nonostante la sua terra sia stata distrutta e lei ripetutamente ferita, a portare al suo popolo un messaggio costruttivo e di speranza.
…… Cesare Pavese “ Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”
“La Luna e i Falò” Einaudi 1950
Flavia Donati , psichiatra e psicoanalista SPI-IPA

Roma, 5 maggio 2014
Relazione richiesta da ISM-Italia e presentata in occasione del tour in Italia del maggio 2014 per la presentazione del libro memoir di Ghada Karmi “Alla Ricerca di Fatima - Una Storia Palestinese”, Atmosphere Libri 2013.