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sabato 18 luglio 2015

Buone notizie da Addis Abeba


(da Rete Ong)


I rappresentanti dell'Associazione delle organizzazioni italiane di cooperazione e solidarietà internazionale (AOI), del Coordinamento Italiano Networks Internazionali (CINI) e di Link 2007 Cooperazione in Rete, presenti nella delegazione italiana alla terza conferenza sui finanziamenti per lo sviluppo in corso ad Addis Abeba, valutano positivamente gli impegni enunciati ieri nella capitale etiopica dal Presidente del Consiglio Matteo Renzi.
E' intanto da registrare come una buona notizia che l'Italia sia una delle poche nazioni ad essere rappresentata nell'assise internazionale dal capo del governo. Si accoglie con soddisfazione l'impegno ad aumentare in modo significativo le risorse destinate all'aiuto allo sviluppo fin dalla prossima legge di stabilità. L'obiettivo, ha detto Renzi, è fare sì che al prossimo vertice "G7" previsto in Italia nel 2017 il nostro paese non sia più all'ultimo posto per ciò che concerne la percentuale del Prodotto Interno Lordo destinata alla cooperazione internazionale.
Non possiamo poi che condividere l'affermazione fatta dal presidente del consiglio circa l'impegno morale, non negoziabile, di soccorrere e salvare i migranti in arrivo sulle nostre coste. Così come fondamentale saranno i progetti volti a costruire ponti tra le comunità migranti e i paesi di provenienza.
La Conferenza di Addis Abeba conferma l'ampiezza e la difficoltà delle sfide dei prossimi anni. Il nostro paese può e deve avere un ruolo di primo piano

Addis Abeba, 15 luglio 2015


L'ACCORDO DI ADDIS ABEBA:
RESPONSABILITA’ CONDIVISE E EQUITA’ FISCALE

La Terza Conferenza internazionale sul "Finanziamento per lo sviluppo" è stata chiamata a rispondere in modo chiaro ad alcune domande cruciali, quali: come verrà finanziata l’agenda “post 2015”?; quali impegni concreti da parte dei paesi più ricchi e dell’Unione Europea?; quali impegni da parte dei paesi partner e in particolare (ma non solo) africani?; quale ruolo per il settore privato nelle strategie globali di lotta alla povertà?
Paolo Dieci, presidente di Link2007, Cooperazione in Rete, che ha partecipato ai lavori della Conferenza, ne ha tratto alcune considerazioni interessanti.
La novità principale di Addis Abeba rispetto a Monterrey e Doha risiede nel maggiore accento posto sulle responsabilità condivise. E’ in questo quadro che si colloca l’enfasi posta sulla mobilitazione delle risorse domestiche, a partire da più efficienti ed equi sistemi fiscali. Così come in questa direzione va l’apertura al settore privato, dal quale si attendono investimenti a favore della crescita inclusiva e sostenibile. Al tempo stesso il “messaggio” di Addis Abeba è che l’aiuto pubblico allo sviluppo rimane uno strumento indispensabile nell’ottica dell’eliminazione della povertà assoluta entro i prossimi 15 anni.


Per un ulteriore approfondimento: Nino Sergi
http://www.onuitalia.com/2015/07/16/la-nuova-sfida-di-renzi-e-dellitalia-creare-occupazione-in-africa/




lunedì 11 maggio 2015

Il nostro sangue è buono solo per le guerre”: i Falasha denunciano il razzismo






di Monica Macchi


La scorsa domenica a Tel Aviv c’è stata una imponente manifestazione (10.000 persone secondo la stampa israeliana, 3000 secondo la polizia) per protestare contro i maltrattamenti inflitti dalla polizia a un soldato di origine etiope: il bilancio è stato di una cinquantina di poliziotti feriti e una trentina di manifestanti arrestati…e importanti strascichi politici. Infatti il Presidente Reuven Rivlin ha ammesso che “i manifestanti hanno rivelato una ferita aperta nel cuore della società israeliana” e ha dovuto riconoscere “gli errori del governo nel modo in cui tratta gli israeliani neri” e le numerose difficoltà di integrazione dei falasha, una delle dieci tribù perdute del regno di Israele (la cui “ebraicità” è stata riconosciuta solo nel 1975). Non solo: pochi giorni dopo l’Università Tafnit Holon ha sospeso un insegnante che, durante un dibattito con gli studenti ha detto: “Gli etiopi si dimenticano da dove vengono: meglio se se ne tornano in Etiopia. Stanno diventando insolenti: pochi anni fa non avrebbero osato neppure aprir bocca! Non capiscono che sono diversi da noi e lo devono accettare”.



Dopo le tre diverse Aliah (ritorno nella terra promessa d’Israele in uno Stato che nega il diritto al ritorno dei Palestinesi…) dell’Operazione Mosè del 1985 (organizzato sotto la supervisione del Mossad), dell’Operazione Salomone del 1991 e dell’Operazione Ali di Rondini del 2010, Israele ha formalmente messo fine a questa politica il 28 agosto 2013 con un comunicato ufficiale del delegato dell'Agenzia Ebraica in Etiopia, Asher Sejum con l’impegno di riorientare le risorse finanziarie per migliorare le condizioni di vita dei Falasha già presenti in Israele e di esaminare caso per caso “ricongiungimenti familiari e questioni umanitarie specifiche”. Si calcola che attualmente ci siano circa 130.000 ebrei di origine etiope che, nonostante beneficino de iure della piena cittadinanza israeliana soffrono di bassi livelli di istruzione, alti livelli di disoccupazione (quasi il 60% delle famiglie dipendono dall'assistenza sociale e vivono al di sotto della soglia di povertà), proporzione di detenuti superiore alla media. Inoltre negli anni 2000, per ottenere il diritto di emigrare in Israele, le donne hanno dovuto sottoporsi a iniezioni di Depo-Provera, un contraccettivo che provoca sterilità “temporanea” con obbligo di ripetere il trattamento in Israele e così il tasso di natalità nella comunità Falasha è sceso del 50% negli ultimi dieci anni ...



Giusto due settimane fa è uscito in inglese “How The World Turned White” (pubblicato in ebraico l’anno scorso vincendo il premio Ramat Gan come miglior opera prima) di Dalia Betolin-Sherman che racconta il viaggio della sua famiglia sotto il regno di Haile Selassie da Ambover, (un villaggio ebraico nel nord dell'Etiopia) verso il Sudan e da lì in Israele.



 
 
 

domenica 25 gennaio 2015

Difret: il film che omaggia le donne etiopi






Dal 22 gennaio nelle sale cinematografiche italiane, Difret – Il coraggio di cambiare parla di diritti e di donne, di forza e di violenza.

Hirut è una ragazza di quattordici anni, una studentessa che vive in un villaggio alle porte di Addis Abeba ed è la seconda di tre sorelle. All'uscita da scuola, un giorno come un altro, viene aggredita da un gruppo di uomini a cavallo: uno di loro la violenta perchè ha deciso di prenderla in moglie.

Hirut, nonostante la violenza, afferra un fucile e spara, uccidendo Tadele, l'uomo che ha abusato di lei. Il destino di Hirut si sovrappone a quello della sorella maggiore rimasta vittima, in passato, di un'atroce tradizione, quella della “telefa”, il sequestro di una giovane donna come rituale per il matrimonio forzato.

Ma la sofferenza della protagonista (la parte è recitata da una ragazza del posto che ha seguito un workshop di preparazione per le riprese del film) non termina con l'uccisione del suo aggressore, anzi: verrà portata davanti a un tribunale con il rischio di essere condannata a morte per il reato compiuto.

Questa la trama del racconto filmico. Ma il racconto è tratto da una storia realmente accaduta nel 1996: il regista, Zeresenay Berhane Mehari, ha scelto di portarla sul grande schermo per porre al centro dell'interesse pubblico la questione delle tradizioni tribali, della violenza di una cultura patriarcale, della mancanza di una cultura e di una educazione sanitaria e della coscienza di sé da parte femminile in alcuni Paesi del mondo. Mehari ha studiato cinema negli Stati Uniti, ma è nato e cresciuto in Etiopia; il suo, quindi, è uno sguardo “da dentro”, non superficiale e che rende il risultato cinematografico realistico e sincero. Pensiamo, ad esempio, alla sequenza di apertura: si parla di un caso di violenza domestica, per entrare subito in argomento. Una donna, Meaza, si trova in prima linea per difendere i diritti di un'altra donna che ha deciso di sporgere denuncia contro il marito. Il regista segue la vittima fin sul luogo di lavoro del coniuge, dove lo affronta, circondata da altri uomini, con coraggio e fierezza. Interessante anche il personaggio dell'avvocatessa: Meaza Ashenafi non è solo un personaggio di finzione, ma è un legale di Addis Abeba che ha creato una rete di sostegno per donne e bambine maltrattate e che necessitano di assistenza gratuita. Con la sua associazione, ANDENET, si batte ogni giorno per difendere i diritti dei più deboli.

Il regista e l'avvocatessa realizzano un'opera genuina, attenta ai volti delle persone inquadrate, testimoni e vittime di forti ingiustizie, spesso lacerate dalla dicotomia tra rispetto per la tradizione e diritto alla vita. Ma l'epilogo regala una speranza seppur amara: Hirut, protetta fino a quel momento all'interno di un istituto per ragazzi abbandonati, scende da un'auto e fa ritorno alle proprie radici, ripresa di spalle e in mezzo alla folla, mentre una barca sta affondando...




sabato 23 febbraio 2013

Morire di nostalgia a 14 anni (e un film come dedica)


Habtamu Scacchi aveva solo 14 anni. Era di origini etiopi ed era stato adottato da due coniugi italiani che lo amavano moltissimo.
L'altro ieri si è tolto la vita, impiccandosi.
Era residente a Paderno Dugnano e il suo corpo è stato ritrovato in un campo di Biassono, abbastanza vicino al luogo in cui viveva e studiava.
Ma in precedenza si era già allontanato da casa: un anno fa si trovava in villeggiatura sul lago D'Orta, nel novarese, e da lì era scappato, portando con sé una cartina geografica, e agli agenti che lo avevano fermato, per poi ricondurlo dai suoi genitori, aveva detto di provare una forte nostalgia e di desiderare di rivedere i familiari rimasti in Etiopia.
Il 15 febbraio scorso il ragazzino si era allontanato di nuovo dalla cittadina di residenza, senza documenti né telefono cellulare, e i genitori avevano subito dato l'allarme perchè preoccupati da un biglietto lasciato dal figlio. Sul foglio di carta, infatti, Habtamu aveva scritto: “Non ce la faccio più a vivere in Italia, voglio morire”. E così, purtroppo, è stato.
Un adolescente che, oltre alle inquietudini proprie dell'età, portava dentro di sé il peso dello strappo dalle proprie origini e dai propri affetti e, probabilmente, anche il disagio – non ancora risolto – di una doppia appartenenza, di una doppia identità.

Ad Habtamu vogliamo dedicare la recensione del romanzo e dell'omonimo film Vai e vivrai di Radhu Mihaileanu (editi entrambi da Feltrinelli). Nei film e in letteratura, spesso, c'è il lieto fine; nella realtà, altrettanto spesso, purtroppo, no.

VAI e VIVRAI di Radhu Mihailenau



Tra il 1984 e il 1985, migliaia di africani aspettano di essere imbarcati sugli aerei per essere portati in salvo in Israele. Sì, perchè quegli africani sono ebrei etiopi, i falasha.
Molti di loro non riescono, per vari motivi, a scappare dalla carestia e rimangono al campo profughi in Sudan e, quasi sicuramente, andranno comunque incontro alla morte, per fame, per sete, per malattia. Proprio per evitare questo, una madre cristiana spinge il proprio bambino verso un'altra donna, affidandoglielo e chiedendole di portalo con sé in Terra Santa, come un falasha. Il bambino dovrà abbandonare il proprio vero nome – si farà chiamare Schlomo – la propria religione, il proprio Passato.
Una volta giunto in Israele , dove viene adottato da una famiglia di ebrei illuminati, la sua esistenza non sarà facile: ogni successiva conquista avverrà a seguito di dolore e di sofferenza perchè è un bambino nero in una società di bianchi, una società complessa caratterizzata dal razzismo tra ebrei askenaziti e sefarditi, un conflitto – questo – che si va ad aggiungere a quello con i palestinesi.
Lo stesso Mihaileanu, nato da una famiglia di ebrei rumeni, è dovuto scappare dal regime di Ceausescu e ora vive a Parigi e, dopo il successo di Train de Vie, ha proposto la storia dei falasha, una storia poco conosciuta, ma molto interessante. Nel caso degli ebrei etiopi, infatti, è la prima volta nella storia dell'umanità, secondo l'opinione del regista, che dichiararsi ebrei può servire per salvarsi la vita, anche se sempre a caro prezzo.
Lo stile del racconto cinematografico (ma anche il libro è altrettanto profondo) mescola il documentarismo con l'epopea per scandagliare gli stati d'animo del protagonista che viene seguito in tutte le tappe della vita. Il titolo originale della pellicola, infatti, è Va, vis, deviens: Va, vivi e diventa. Schlomo è un bambino, poi un adolescente e poi un giovane uomo e, nel corso degli anni, porta sempre dentro di sé la nostalgia per la propria terra, per la propria cultura, per la propria madre che cerca nel cielo, guardando le fasi della luna.
Il film e il romanzo riportano un testo universale, quindi: si parla della ricerca di equilibrio tra due identità diverse; si parla della ricchezza potenziale che due appartenenze veicolano; e si parla di maternità: Schlomo si confronta con tre madri. La madre biologica, quella adottiva (importantissima la scena in cui la donna lecca il viso del figlio per dimostrare ai genitori razzisti dei compagni di scuola che essere neri non significa avere qualche malattia) e Sara, la donna che lo farà diventare padre.
Ma, soprattutto, la Mamma Africa: quella che ha generato lui e tutti quelli come lui, quella terra e quella cultura che gli ha dato i tratti somatici e la fierezza, i moti dell'anima e il suo Passato. Per andare incontro al futuro, e a una nuova vita, Schlomo dovrà fare ritorno alle proprie radici,  camminare a piedi nudi, come in pellegrinaggio, sulla terra arida del proprio Paese per riabbracciare colei da cui tutto è partito.