venerdì 30 agosto 2013

La frustrazione di essere siriani, di Shady Hamadi



Abbiamo chiesto un contributo a Shady Hamadi sulla situazione siriana e ci ha, gentilmente, concesso di pubblicare questo testo uscito sul Corriere della sera il 21 agosto 2013. Ringraziamo tantissimo Shady Hamadi per aver condiviso anche con noi il suo articolo.



Dovreste essere siriani per un giorno per capire la nostra frustrazione. Dovreste aver vissuto per quarant’anni sotto un regime che incarcera chi agisce o pensa diversamente dalla dottrina di regime. Dovreste vivere la vita di quei figli di siriani nati all’estero, magari in Italia, che non sono mai stati in Siria perchè i loro genitori, trent’anni fa, si sono opposti al regime e provare la frustrazione di aver negate le vostre radici. C’è una costante in questi 28 mesi di rivoluzione in Siria: la frustrazione causata dall’abbandono.
Spesso mi capita di parlare con siriani dentro e fuori il Paese e il dato fisso che emerge è la loro solitudine, causata dallo sguardo dell’altro, dalla sua indifferenza e dall’incomprensione. La Siria interessa quando siamo coinvolti direttamente, solo allora se ne parla.
Quando non sono italiani o occidentali a morire ma, “semplicemente”, siriani, tutto cambia.
Penso a Ammar, 15 anni, morto qualche giorno fa a Homs. Quello stesso giorno in città morirono 20 persone, delle quali sappiamo-noi siriani- nomi, cognomi e storie di vita. Per i siriani, dare un nome e un volto agli oltre 100 mila morti è un dovere, non possono permettere che queste persone vengano disanimate ulteriormente. Per l’Occidente no, cento o cento mila siriani morti rimangono un dettaglio in tutta la vicenda. Si parla dei massimi sistemi: geopolitica, diplomazia e economia.
Però, a volte, i siriani riescono a fare notizia, a guadagnare le prime pagine.
Quando un tale, a Homs, addenta il cuore di un soldato morto e carica il video su youtube, addirittura la BBC cerca di intervistarlo, ma quando succedono cose più “normali”, come la mutilazione dei cadaveri di donne e bambini, rastrellamenti, bombardamenti di intere città, beh, questo rimane consueto e quindi non degno di essere notizia.
L’islamofobia detta lo sguardo su tutto quello che accade in Siria e in medioriente.
Quando un altro signore ad Aleppo, sconosciuto a tutti, carica un video su youtube dove lancia una fatwa nella quale vieta il consumo delle brioches anche questa diventa una notizia, mentre se a Quseyr viene compiuta una pulizia religiosa e gli ultimi abitanti sunniti della città sono costretti a una marcia forzata a piedi verso il nord, per salvarsi dal massacro di Hezbollah, nessuno ne parla. La giustificazione è che Assad è laico, quindi può permettersi di bombardare tutta la Siria, di creare 2 milioni di rifugiati e 5 milioni di profughi interni al paese. L’importante è che mantenga l’armonia religiosa all’interno della Siria perchè, dicono i benpensanti(anche italiani), “prima degli Assad non esisteva nessuna convivenza religiosa”.
Eppure Maalula, una cittadina dove si parla ancora l’aramaico, è lì vicino a Damasco da millenni e gli abitanti hanno sempre vissuto in pace con tutti. Questo non dimostra che la convivialità tra le fedi è il tesoro di questo popolo e che quindi trascende il regime?
Il senso di abbandono è anche dato dal fatto che: se un siriano scappa dal proprio Paese per sfuggire alla morte nessuno Stato gli concede il visto. Ma noi, culla della civiltà occidentale, come pensiamo di salvare questo popolo?
Ad esempio, perchè l’Italia non apre una quota d’accoglienza per 10 000 siriani? E perchè il governo italiano non ha ancora rintracciato tutti i capitali del regime investiti nel nostro Paese, per poi sequestrarli e devolverli a enti per la tutela dell’infanzia siriana e per il soccorso umanitario?
Essere siriani oggi, e scappare dal proprio Paese, vuol dire sapere che nessuno ti accoglierà. Questo a meno di fare un viaggio della speranza, con il rischio di morire in quella tomba dei migranti che è il mar Mediterraneo.
Solo quando arriveranno migliaia di siriani sui barconi a Lampedusa capiremo che la Siria deve essere una nostra priorità?
A quel punto i soliti partiti xenofobi in Italia grideranno all’invasione e a sparare con i cannoni contro quei barconi. Essere siriano oggi non è facile, perchè non ti puoi raccontare e se lo fai ti scontri con degli schemi precostruiti di una parte dell’opinione pubblica e politica.Ti viene detto qui in Europa, a te che sei siriano, che quello che avviene in Siria è un conflitto esclusivamente confessionale scoppiato nel 2011 e che bisogna cercare una soluzione politica. Nel 2011 rivolte pacifiche portarono il popolo in piazza per quasi un anno, 365 giorni in cui i pacifisti siriani vennero massacrati.
Perchè la comunità internazionale non cercò allora una soluzione politica ma la cerca oggi dopo un’ecatombe?
Si parla sempre della memoria. Da poco è ricorso l’anniversario di Srebrenica, dove sotto gli occhi della comunità internazionale si è compiuta una pulizia etnico-religiosa. Si è gridato “mai più”, ma a Quseyr, Banyas, Homs sta avvenendo la stessa cosa, anche grazie a un clero cristiano colluso con il regime – quasi a ripetere lo stesso scenario della dittatura militare in Argentina tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli Ottanta. La Chiesa di Roma dovrebbe richiamare quel clero che si è schierato, grazie a ingenti benefit, con la dittatura. La chiesa deve essere di tutti e per tutti perchè si può essere credenti nell’Islam ma innamorati di Gesù.
Cosa si può fare ora?
In questo momento è essenziale cominciare a supportare i giovani democratici siriani, quelli che nel 2011 diedero il via alla rivoluzione in nome di una Siria per tutti, democratica e laica. Questi siriani sono gli stessi che oggi si trovano isolati, schiacciati da una repressione feroce e un radicalismo che non rispecchia la Siria che vogliono ma, anzi, aiuta ad alimentare la propaganda di regime. Qui, in Occidente, abbiamo la memoria troppo corta. Ci siamo già dimenticati di Hamza al Khateeb, Ghayath Mattar e delle migliaia di siriani morti prima del 2011, quando Assad veniva accolto nei salotti della diplomazia internazionale perchè considerato un riformatore. Oggi, ora, è importante non alimentare la frustrazione dei siriani che sentono di non riuscire a raccontarsi e di non venir ascoltati.
(nella foto di Mohamed Abdullah per la Reuters, un giovane combattente dell’Esercito siriano libero)


giovedì 29 agosto 2013

Anniversario di un discorso ancora attuale



...I have a dream that my four little children will one day live in a nation where they will not be judged by the color of their skin, but by the content of their character...”

Quanto sono ancora attuali e importanti le parole del celebre discorso che Martin Luther King pronunciò esattamente cinqunat'anni fa, il 28 agosto 1963. Parole importanti per il mondo e per un'Italia in cui si insultano ancora calciatori e ministri di colore.
A Washington decine di migliaia di persone si sono riunite davanti al Lincoln Memorial per celebrare l'anniversario del pastore protestante: un discorso, una preghiera a favore dei diritti civili dei neri. Quel giorno del '63 radunò 250.000 persone: 50.000 afroamericani e i “big six”, i sei rappresentanti delle più importanti organizzazioni internazionali che operavano per affermare i diritti civili. Quella fu denominata la “Marcia per il lavoro e la libertà”, una manifestazione pacifica, ma fondamentale con la quale furono avanzate richieste chiare, tra le quali: una precisa legislazione sui diritti civili; la fine della segregazione razziale, soprattutto nelle scuole; stipendi adeguati alle prestazioni di lavoro; e lo stop alla brutalità della polizia nei confronti degli attivisti.
Senza la marcia del 1963 e senza coloro che vi hanno parteciapto non sarei il Ministro della Giustizia”, ha affermato Eric Holder il primo afroamericano diventato Ministro negli Stati Uniti, il quale ha aggiunto: “...la nostra attenzione ora si è ampliata. Include le donne, i latinos, gli asiatici americani, i gay e le elsbiche, le persone disabili e tutti coloro che nel Paese reclamano ancora uguaglianza. Ritengo che nel 21mo secolo vedremo un'America più perfetta e giusta”.
Ieri hanno preso parte alle celebrazioni anche il Presidente Obama e Jimmy Carter, ma noi vogliamo chiudere ricordando anche le parole pronunciate dal figlio maggiore di M.L. King, Martin Luther King III: “ Non è il momento delle commemorazioni nostalgiche. E non è il momento delle autocelebrazioni. Il lavoro non è finito. Il viaggio non è completato, possiamo e dobbiamo fare di più”.


Testo del discorso di Martin Luther King

Sono felice di unirmi a voi in questa che passerà alla storia come la più grande dimostrazione per la libertà nella storia del nostro paese. Cento anni fa un grande americano, alla cui ombra ci leviamo oggi, firmò il Proclama sull’Emancipazione. Questo fondamentale decreto venne come un grande faro di speranza per milioni di schiavi negri che erano stati bruciati sul fuoco dell’avida ingiustizia. Venne come un’alba radiosa a porre termine alla lunga notte della cattività.
Ma cento anni dopo, il negro ancora non è libero; cento anni dopo, la vita del negro è ancora purtroppo paralizzata dai ceppi della segregazione e dalle catene della discriminazione; cento anni dopo, il negro ancora vive su un’isola di povertà solitaria in un vasto oceano di prosperità materiale; cento anni dopo; il negro langue ancora ai margini della società americana e si trova esiliato nella sua stessa terra.
Per questo siamo venuti qui, oggi, per rappresentare la nostra condizione vergognosa. In un certo senso siamo venuti alla capitale del paese per incassare un assegno. Quando gli architetti della repubblica scrissero le sublimi parole della Costituzione e la Dichiarazione d’Indipendenza, firmarono un “pagherò” del quale ogni americano sarebbe diventato erede. Questo “pagherò” permetteva che tutti gli uomini, si, i negri tanto quanto i bianchi, avrebbero goduto dei principi inalienabili della vita, della libertà e del perseguimento della felicità.
E’ ovvio, oggi, che l’America è venuta meno a questo “pagherò” per ciò che riguarda i suoi cittadini di colore. Invece di onorare questo suo sacro obbligo, l’America ha consegnato ai negri un assegno fasullo; un assegno che si trova compilato con la frase: “fondi insufficienti”. Noi ci rifiutiamo di credere che i fondi siano insufficienti nei grandi caveau delle opportunità offerte da questo paese. E quindi siamo venuti per incassare questo assegno, un assegno che ci darà, a presentazione, le ricchezze della libertà e della garanzia di giustizia.
Siamo anche venuti in questo santuario per ricordare all’America l’urgenza appassionata dell’adesso. Questo non è il momento in cui ci si possa permettere che le cose si raffreddino o che si trangugi il tranquillante del gradualismo. Questo è il momento di realizzare le promesse della democrazia; questo è il momento di levarsi dall’oscura e desolata valle della segregazione al sentiero radioso della giustizia.; questo è il momento di elevare la nostra nazione dalle sabbie mobili dell’ingiustizia razziale alla solida roccia della fratellanza; questo è il tempo di rendere vera la giustizia per tutti i figli di Dio. Sarebbe la fine per questa nazione se non valutasse appieno l’urgenza del momento. Questa estate soffocante della legittima impazienza dei negri non finirà fino a quando non sarà stato raggiunto un tonificante autunno di libertà ed uguaglianza.
Il 1963 non è una fine, ma un inizio. E coloro che sperano che i negri abbiano bisogno di sfogare un poco le loro tensioni e poi se ne staranno appagati, avranno un rude risveglio, se il paese riprenderà a funzionare come se niente fosse successo.
Non ci sarà in America né riposo né tranquillità fino a quando ai negri non saranno concessi i loro diritti di cittadini. I turbini della rivolta continueranno a scuotere le fondamenta della nostra nazione fino a quando non sarà sorto il giorno luminoso della giustizia.
Ma c’è qualcosa che debbo dire alla mia gente che si trova qui sulla tiepida soglia che conduce al palazzo della giustizia. In questo nostro procedere verso la giusta meta non dobbiamo macchiarci di azioni ingiuste.
Cerchiamo di non soddisfare la nostra sete di libertà bevendo alla coppa dell’odio e del risentimento. Dovremo per sempre condurre la nostra lotta al piano alto della dignità e della disciplina. Non dovremo permettere che la nostra protesta creativa degeneri in violenza fisica. Dovremo continuamente elevarci alle maestose vette di chi risponde alla forza fisica con la forza dell’anima.
Questa meravigliosa nuova militanza che ha interessato la comunità negra non dovrà condurci a una mancanza di fiducia in tutta la comunità bianca, perché molti dei nostri fratelli bianchi, come prova la loro presenza qui oggi, sono giunti a capire che il loro destino è legato col nostro destino, e sono giunti a capire che la loro libertà è inestricabilmente legata alla nostra libertà. Questa offesa che ci accomuna, e che si è fatta tempesta per le mura fortificate dell’ingiustizia, dovrà essere combattuta da un esercito di due razze. Non possiamo camminare da soli.
E mentre avanziamo, dovremo impegnarci a marciare per sempre in avanti. Non possiamo tornare indietro. Ci sono quelli che chiedono a coloro che chiedono i diritti civili: “Quando vi riterrete soddisfatti?” Non saremo mai soddisfatti finché il negro sarà vittima degli indicibili orrori a cui viene sottoposto dalla polizia.
Non potremo mai essere soddisfatti finché i nostri corpi, stanchi per la fatica del viaggio, non potranno trovare alloggio nei motel sulle strade e negli alberghi delle città. Non potremo essere soddisfatti finché gli spostamenti sociali davvero permessi ai negri saranno da un ghetto piccolo a un ghetto più grande.
Non potremo mai essere soddisfatti finché i nostri figli saranno privati della loro dignità da cartelli che dicono:”Riservato ai bianchi”. Non potremo mai essere soddisfatti finché i negri del Mississippi non potranno votare e i negri di New York crederanno di non avere nulla per cui votare. No, non siamo ancora soddisfatti, e non lo saremo finché la giustizia non scorrerà come l’acqua e il diritto come un fiume possente.
Non ha dimenticato che alcuni di voi sono giunti qui dopo enormi prove e tribolazioni. Alcuni di voi sono venuti appena usciti dalle anguste celle di un carcere. Alcuni di voi sono venuti da zone in cui la domanda di libertà ci ha lasciato percossi dalle tempeste della persecuzione e intontiti dalle raffiche della brutalità della polizia. Siete voi i veterani della sofferenza creativa. Continuate ad operare con la certezza che la sofferenza immeritata è redentrice.
Ritornate nel Mississippi; ritornate in Alabama; ritornate nel South Carolina; ritornate in Georgia; ritornate in Louisiana; ritornate ai vostri quartieri e ai ghetti delle città del Nord, sapendo che in qualche modo questa situazione può cambiare, e cambierà. Non lasciamoci sprofondare nella valle della disperazione.
E perciò, amici miei, vi dico che, anche se dovrete affrontare le asperità di oggi e di domani, io ho sempre davanti a me un sogno. E’ un sogno profondamente radicato nel sogno americano, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue convinzioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali.
Io ho davanti a me un sogno, che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza.
Io ho davanti a me un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno stato colmo dell’arroganza dell’ingiustizia, colmo dell’arroganza dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e giustizia.
Io ho davanti a me un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho davanti a me un sogno, oggi!
Io ho davanti a me un sogno, che un giorno ogni valle sarà esaltata, ogni collina e ogni montagna saranno umiliate, i luoghi scabri saranno fatti piani e i luoghi tortuosi raddrizzati e la gloria del Signore si mostrerà e tutti gli essere viventi, insieme, la vedranno. E’ questa la nostra speranza. Questa è la fede con la quale io mi avvio verso il Sud.
Con questa fede saremo in grado di strappare alla montagna della disperazione una pietra di speranza. Con questa fede saremo in grado di trasformare le stridenti discordie della nostra nazione in una bellissima sinfonia di fratellanza.
Con questa fede saremo in grado di lavorare insieme, di pregare insieme, di lottare insieme, di andare insieme in carcere, di difendere insieme la libertà, sapendo che un giorno saremo liberi. Quello sarà il giorno in cui tutti i figli di Dio sapranno cantare con significati nuovi: paese mio, di te, dolce terra di libertà, di te io canto; terra dove morirono i miei padri, terra orgoglio del pellegrino, da ogni pendice di montagna risuoni la libertà; e se l’America vuole essere una grande nazione possa questo accadere.
Risuoni quindi la libertà dalle poderose montagne dello stato di New York.
Risuoni la libertà negli alti Allegheny della Pennsylvania.
Risuoni la libertà dalle Montagne Rocciose del Colorado, imbiancate di neve.
Risuoni la libertà dai dolci pendii della California.
Ma non soltanto.
Risuoni la libertà dalla Stone Mountain della Georgia.
Risuoni la libertà dalla Lookout Mountain del Tennessee.
Risuoni la libertà da ogni monte e monticello del Mississippi. Da ogni pendice risuoni la libertà.
E quando lasciamo risuonare la libertà, quando le permettiamo di risuonare da ogni villaggio e da ogni borgo, da ogni stato e da ogni città, acceleriamo anche quel giorno in cui tutti i figli di Dio, neri e bianchi, ebrei e gentili, cattolici e protestanti, sapranno unire le mani e cantare con le parole del vecchio spiritual:“Liberi finalmente, liberi finalmente; grazie Dio Onnipotente, siamo liberi finalmente”.

mercoledì 28 agosto 2013

Il lato amaro del the

Il lato amaro del the


Questa storia ci è stata segnalata da Giulia Doriguzzi, che ringraziamo


L'India è il paese multiculturale per eccellenza: con i suoi 1 miliardo e 270 milioni di abitanti racchiude all'interno del suo vasto territorio un vero e proprio crogiolo di popoli con lingue, culture, religioni e tradizioni completamente diverse l'una dall'altra. L'8% della variegata popolazione indiana è costituita dai cosiddetti adivasi, i discendenti delle antiche popolazioni tribali che abitavano l'India più di 3.000 anni fa. Sebbene racchiusi sotto un'unica etichetta linguistica, gli adivasi non costituiscono affatto una realtà culturalmente ed etnicamente omogenea: sono suddivisi in circa 450 gruppi, sparsi su tutto il territorio indiano, ognuno dei quali possiede una sua specifica identità ed è caratterizzato da particolari usi e costumi. Sono popoli che hanno sempre vissuto in stretta simbiosi con la natura, per la quale nutrono un profondo rispetto e da cui ricavano tutto il necessario per sopravvivere.
L'Assam è uno stato situato nell'estremo Nord-Est dell'India che, assieme al vicino Arunachal Pradesh, ospita il 7,5% di tutta la popolazione adivasi indiana. Dal momento che i due stati si trovano in una posizione geograficamente isolata rispetto al resto del paese, gli adivasi originari dell'Assam sono riusciti a mantenere abbastanza intatta la propria cultura. Tuttavia, una parte degli adivasi che vive in questo territorio è costituita da tribù provenienti da diverse zone dell'India, che si sono stabilite in Assam a partire dalla seconda metà dell'800. La storia di questi popoli è strettamente connessa a quella dell'industria indiana del té.

L'Assam, grazie alle caratteristiche del suo territorio e alle sue condizioni climatiche, costituisce una zona ideale per la coltivazione del té, che viene prodotto principalmente nella grande pianura alluvionale del fiume Brahmaputra. Con le sue numerosissime piantagioni, l'Assam produce oggi il 65% di tutto il té prodotto in India.
La Camelia Assamica è la pianta di té tipica dell'Assam. Anche prima che venissero create le grandi piantagioni, questa pianta cresceva già spontaneamente in diverse zone della stato. In natura la pianta può raggiungere i 20 metri di altezza ma, quando viene coltivata, si fa in modo che non cresca più di un metro e mezzo, in modo da rendere più agevole la raccolta. Quando la pianta inizia a germogliare, le sue foglie sono pronte per essere raccolte. A seconda della frequenza con cui una pianta germoglia, la raccolta può venire effettuata diverse volte in un anno. L'operazione dura circa 15 giorni e viene svolta interamente a mano, quasi esclusivamente dalle donne. Vengono raccolte in media da 2.000 a 3.000 foglie di té, che vengono subito portate nelle fabbriche accanto alle piantagioni per essere lavorate. A seconda della qualità di té che si desidera ottenere, le fasi che compongono il processo di lavorazione risultano differenti. Il famoso Té Assam è una qualità di té nero dal gusto forte e deciso, la cui lavorazione richiede diverse fasi. Le foglie vengono fatte essiccare e, mentre sono ancora morbide, vengono arrotolate su loro stesse. In seguito vengono essiccate per una seconda volta e poi macerate. Infine vengono sottoposte ad un processo di fermentazione, che verrà poi fermato attraverso un'ultima essiccazione, mediante la somministrazione di calore. Seppur in minor quantità, in Assam vengono anche prodotti té verdi e té bianchi, ottenuti senza sottoporre le foglie ad alcun processo di fermentazione.

La massiccia coltivazione del té nei territori dell'Assam fu avviata dalla Compagnia Britannica delle Indie Orientali, una delle più potenti compagnie commerciali europee, nel tentativo di sottrarre alla Cina il monopolio mondiale sulla produzione del té. La Compagnia arrivò in Assam nel 1826 e, nel 1837, rese operativa la prima piantagione di té. Dal 1850 l'industria del té vide una rapidissima espansione, con un enorme aumento della produzione. Vaste aree furono disboscate per creare nuove piantagioni e, ai primi del '900, l'Assam divenne la principale regione produttrice di té al mondo.
Per poter coltivare tutte queste piantagioni era necessario l'impiego di un grandissimo numero di persone. Poiché in Assam non c'era sufficiente forza lavoro da poter sfruttare, gli inglesi cominciarono a reclutare adivasi provenienti da diverse regioni dell'India. Questi erano tutte persone i cui territori erano stati utilizzati dai colonizzatori per la costruzione di fabbriche, la creazione di piantagioni, lo sfruttamento di risorse naturali. Per portare avanti il processo di industrializzazione del paese gli inglesi si appropriarono indebitamente delle terre degli adivasi, privandoli della loro unica fonte di sostentamento e condannandoli ad una vita di povertà. Per gli inglesi non fu difficile reclutare forza lavoro fra i membri di queste tribù, incapaci di adattarsi ad una società a cui non appartenevano e di trovare nuovi mezzi di sussistenza. In molti casi, tuttavia, i reclutamenti avvennero con l'uso dell'inganno e della violenza. Gli adivasi erano analfabeti e gli inglesi riuscirono facilmente a far loro firmare contratti di lavoro che prevedevano terribili condizioni di sfruttamento. Oltre alle frodi e ai reclutamenti forzati, vi furono anche diversi casi di rapimenti e di costrizione tramite tortura. Gli adivasi furono privati di ogni diritto e costretti a lavorare nei campi in condizioni di semi-schiavitù, senza nessuna possibilità di opporsi. All'inizio del '900, il numero di adivasi strappati con la forza alle loro terre raggiunse le 110.000 persone.
Solo nel 1951, dopo che l'India ottenne l'indipendenza, il governo emise il Plantation Labour Act, una raccolta di leggi che tutelavano gli interessi degli adivasi impiegati nelle piantagioni di té. Nonostante questo, la scarsità dei controlli favorisce ancora oggi il proliferare di violazioni legislative di ogni genere da parte dei proprietari terrieri e, di conseguenza, le condizioni dei lavoratori sono lungi dall'essere regolamentate in maniera equa. Gli adivasi lavorano tutto il giorno nelle piantagioni, ricevendo paghe irrisorie, appena sufficienti a consentir loro di sopravvivere. Perciò, lontani dalle loro terre originarie, senza possibilità di farvi ritorno e senza l'istruzione necessaria per trovare un lavoro migliore, il più delle volte gli adivasi sono costretti ad accettare una vita di povertà estrema, senza intravedere alcuna possibilità di cambiamento.

Ma le persone che più di ogni altra pagano le conseguenze di questa situazione sono i bambini. I loro genitori sono impegnati tutto il giorno nelle piantagioni e, pertanto, anche i bambini più piccoli sono, per la maggior parte del tempo, abbandonati a loro stessi. Molti si ammalano di malattie comuni e facilmente curabili, che vengono però trascurate a causa della difficoltà di accesso ai servizi sanitari e, aggravandosi, possono portare anche alla morte. I genitori, inoltre, spesso non possiedono un'adeguata educazione sanitaria e non conoscono le principali norme di igiene e di prevenzione delle malattie.
I bambini non hanno la possibilità di frequentare la scuola: senza un'istruzione, non potranno far altro che rimanere a lavorare nelle piantagioni come i loro genitori.
E' difficile immaginare che una bevanda dolce come il té possa avere un lato tanto amaro...!

La Fondazione Fratelli Dimenticati Onlus, nel 1999, ha aiutato i Salesiani a costruire una scuola nel villaggio di Rangajan, nell'Assam orientale, in modo da dare ai bambini la possibilità di ricevere quell'istruzione che i loro genitori non hanno mai potuto avere. La scuola accoglie 631 studenti provenienti dai 31 villaggi circostanti, e il loro numero è in continuo aumento. La scuola di Rangajan costituisce per tutti i bambini adivasi della zona l'unica opportunità per imparare a leggere e a scrivere, l'unica speranza di cambiare la propria vita.
Recentemente è stato inoltre avviato un progetto di sostegno alimentare per poter garantire ai bambini dei pasti giornalieri, in modo da scongiurare il pericolo della malnutrizione. I periodi più critici sono i mesi di agosto, settembre e ottobre, in cui la disponibilità di cibo è più scarsa. In questo periodo, i piccoli adivasi arrivano a scuola fisicamente spossati, pieni di mal di testa e con una fame costante.


Per informazioni sul sostegno a distanza: http://www.fratellidimenticati.it/sostegno-a-distanza

martedì 27 agosto 2013

Morsi, iconografia di un martire annunciato, di Laura Silvia Battaglia


Pubblichiamo questo articolo di Laura Silvia Battaglia (www.battgirl.info), ringraziandola tantissimo

ll ritratto di Mohamed Morsi campeggia ovunque. Sui volantini distribuiti dopo la preghiera dell'alba, sugli autobus bianchi dei Fratelli Musulmani parcheggiati all'ingresso del grande campo di Rabaa al-Adawjia, sui carretti della distribuzione di the, acqua, bevande e succo di melograno che punteggiano la via per arrivare alla roccaforte della protesta anti-generali.
Il volto del politico che Time incoronò "uomo dell'anno" nel 2012 è replicato ossessivamente, come in un videogioco a punti con una grafica splatter, sopra, sotto e di fronte alle migliaia di tende che ricoprono questa superficie di quasi quattro chilometri quadrati al Cairo brulicante di supporters dell'ex presidente egiziano dal 3 luglio 2012, data del suo arresto con l'accusa di cospirazione.
Mohamed Morsi qui è onnipresente, guarda i suoi fedeli dall'alto del suo ritratto peggiore, ingessatissimo nel fermo immagine che sancisce la sua sacralità. Così replicato ovunque appare come un cento occhi e centoteste, una creatura medievale dalla faccia presentabile che si allunga sugli esiti del colpo di stato di un mese fa. Un colpo di stato che chiunque si guarda bene, qui, a Rabaa al-Adawjia, dal definire seconda rivoluzione o contro-rivoluzione.
Mohamed Morsi, ora prigioniero a Nord del Cairo, dove si trova il ministero della Difesa, è colui nel cui nome si circoscrive la preghiera dell'alba di Eid, e che nel giorno più importante dell'anno per la Umma sunnita si manifesta al campo di Rabaa nel pomeriggio, per interposta persona: la moglie Nagla Mahmoud.
Per lui si chiede la liberazione e nel suo nome viene già giustificata la resistenza dei Fratelli musulmani verso l'apparato di potere dei generali, che ha utilizzato l'esito delle votazioni prima, il temporeggiamento dei Fratelli poi, la loro interpretazione integralista della futura costituzione, per riprendere con la forza il controllo di un Paese ormai allo sbando, economicamente piegato da una credibilità ai suoi minimi storici.
"Io amo Morsi"; "Morsi, Morsi, in te la speranza"; "Morsi Morsi sempre Morsi, mai più Al Sisi": sono alcuni degli slogan che campeggiano insieme all'immagine dell'ex presidente egiziano. Si alternano anche sulle fasce - verdi, nere, marroni - che la gioventù ihwanizzata sfoggia intorno alla testa, replicando l'iconografia jihaddista in forme moderate: "Il popolo arabo è la comunità islamica". "Siamo arabi, moriremo islamici".
L'appartenenza alla Umma sunnita, per i Fratelli musulmani, non si discute. Vale per tutti, da qualsiasi grado di vicinanza o distrazione del partito e dalle sue istanze si stia parlando. Ed è perfettamente connaturata con l'interpretazione del rispetto dei diritti umani che, per i supporters di Morsi, discende solo da Dio ed è strettamente collegata alla legge di natura che segue i dettami di Allah, secondo quanto ne rivelò Mohammed.
Lo dice senza tema Sara Hassan, ventenne di El-Adwah, la città di nascita dell'ex presidente oggi ostaggio di Al Sisi. La sua famiglia è cresciuta accanto a Morsi. In senso letterale, perchè sono sempre stati suoi vicini di casa. Hanno piantato una tenda da giorni e hanno pure affittato un appartamento in zona per stare più comodi. Ci sono tutti: padre, madre, cugini, fratelli e sorelle, zie e nipoti. Morsi per tutti, tutti per Morsi, insomma. Ma la motivazione che li spinge fin qui non è squisitamente politica. L'ideale di famiglia e l'appartenenza alla Umma sono abbastanza. Ma la conoscenza diretta del personaggio spiega ancora di più la scelta di stare dalla sua parte, costi quel che costi. Dice Sara: "Noi lo conosciamo: è un uomo buono. L'hanno esposto e ne paga il prezzo. Adesso è in carcere e siamo certi che il trattamento riservatogli non è umano".
Chiediamo che tipo di valenza ha il concetto di rispetto dei diritti umani per i Fratelli Musulmani. Risponde: "Il rispetto dell'uomo viene dal fatto che l'uomo appartiene a Dio". E chi non appartiene a quel Dio? "Non saprei. Quel che so è che l'Egitto è un Paese islamico, noi siamo islamici e Morsi è il nostro presidente. Nell'Islam il rispetto dell'uomo viene dalla sua conoscenza di Dio. Morsi è un uomo timorato di Dio, ha portato avanti la nostra causa, noi dobbiamo adesso batterci per lui".
Sara è una ragazza laureata, progressista, una giovane donna musulmana tosta, pronta per fare una buona carriera nei quadri dei Fratelli, se le fosse data la possibiità. Morsi per lei è già un mezzo martire. E lo è per tutte le persone, che, sulla strada del campo, lastricata da molte buone intenzioni, lo hanno eletto a icona della rivoluzione incompiuta o, meglio, ingiustamente ribaltata. La sua detenzione, nonostante Morsi sia inizialmente asceso al ruolo di guida dei Fratelli quasi come un ripiego necessario, ne ha già fatto un gigante morale.
Se il nuovo governo non dovesse scarcerarlo, se lo processasse o se in qualche modo se ne favorisse la morte, gli effetti saranno amplificati sugli ihwan egiziani ma anche su tutti gli arabi sunniti del Medio Oriente. Alla causa palestinese per la quale tutti i popoli arabi si sono sentiti in dovere di aderire nella lotta comune, se ne potrebbe aggiungere un'altra.
Sarebbe il primo caso in cui parrebbe possibile incitare alla resistenza - dei fedeli prima e al martirio dei combattenti poi - per difendere un leader pacioccone e perditempo, un martire in pectore che non si sarebbe davvero speso con opere o azioni degne di nota per il suo popolo di elettori e, soprattutto, per un Paese dalla storia ingombrante.
Lo scorso 29 luglio, ormai conosciuto come "il massacro di Rabaa", nella roccaforte dei pro-Morsi sono morte 127 persone e 4500 sono state ferite negli scontri con l'esercito e la polizia. Chiedevano tutte di relegittimare Mohammed Morsi come presidente dell'Egitto.



lunedì 26 agosto 2013

L'uso di gas nervino in Siria




L'Osservatorio siriano per i diritti umani, che ha sede a Londra, in un primo momento, aveva parlato di decine di vittime; il coordinamento dell'opposizione locale ha parlato di più di 200 morti; 650 per la coalizione nazionale siriana e 750 per i comitati di coordinamento dei ribelli. Comunque è strage.
Centinaia di persone, tra cui donne e molti bambini, sono decedute negli ospedali siriani in cui lavora Medici senza frontiere. I rappresentanti della Ong hanno dichiarato che queste persone presentavano sintomi neurotossici: pupille dilatate, arti freddi, schiuma alla bocca. Sintomi causati dall'uso di gas nervino.
Questo attacco sarebbe stato lanciato in una roccaforte ribelle della regione di Goutha, ad est della città di Damasco, da parte delle forze del presidente Bashar al-Assad.
Nelle strutture ospedaliere di Medici senza frontiere sono state ricoverate circa 3600 persone e i sanitari hanno confermato la possibilità dell'utilizzo di armi chimiche, scrivendo: “ La sintomatologia, le caratteristiche epidemiologiche, l'afflusso di un numero così alto di pazienti in un lasso di tempo così breve, fanno pensare fortemente all'esposizione massiccia ad un agente tossico”.
La Coalizione Nazionale Siriana - la prima tra le forze di opposizione - ha sollecitato la comunità internazionale ad adottare iniziative ferme per contrastare questo genere di repressione. Ahmad Jarba, presidente della Coalizione, ha affermato: “ Di parole ne abbiamo avute abbastanza e adesso ci occorrono passi e azioni serie...per fermare la continua uccisione di siriani, con armi tanto tradizionali quanto chimiche. Finora, la risposta del mondo all'operato del regime di Bashar al-Assad è stata invece una 'vergogna', giacchè è rimasta ben lungi dal livello etico e legale che il popolo siriano si aspetta”.
A questo appello il segretario generale dell'ONU, Ban Ki-moon, ha affermato che, qualora si accertasse l'uso di armi chimiche, questo costituirebbe un crimine contro l'umanità e violerebbe il diritto internazionale; il Presidente americano, Barack Obama, ha fatto capire che, prima di una possibile azione - congiunta con l'Inghilterra - azione, chiederebbe l'appoggio della comunità internazionale, aggiungendo: “ Simpatizzo con la posizione del senatore McCain il quale desidera aiutare le persone ad attraversare situazioni estremamente difficili e dolorose, sia in Siria che in Egitto. Dobbiamo pensare strategicamente cosa sarà nei nostri interessi nazionali a lungo termine, anche se al tempo stesso cooperiamo a livello internazionale per fare il possibile per fare pressioni su chi è capace di uccidere civili innocenti”; dall'Europa, e in particolare dalla Germania, la cancelliera Angela Merkel, tramite il portavoce governativo, ha affermato di non voler seguire la strada di una soluzione militare, ma di credere nella possibilità di una soluzione politica. Infine, l'Iran: in caso di intervento americano, le autorità iraniane hanno minacciato ritorsioni.




sabato 24 agosto 2013

L'estate dei CIE



Il mese di agosto sta per terminare, le città si riempiono e, nell'indifferenza di molti, continuano a sbarcare immigrati a Lampedusa. Da lì vengono parcheggiati nei CIE (questo argomento è stato da noi più volte trattato), ma il 10 agosto scorso è accaduto un fatto più grave del solito: nel centro di accoglienza Sant'Anna di Isola di Capo Rizzuto è scoppiata una rivolta che ha visto coinvolta una cinquantina di persone. Un uomo di nazionalità marocchina, di 31 anni, si è sentito male ed è stato portato al Pronto Soccorso dell'ospedale civile di Crotone dove è deceduto per una cardiopatia, probabilmente aggravata dall'uso di farmaci. La struttura di Capo Rizzuto è stata chiusa alla vigilia di ferragosto, dopo che la Procura l'ha dichiarata inagibile.
La notizia della morte dell'immigrato ha riacceso i riflettori sulle condizioni di sopravvivenza delle persone che vengono portate nei centri di identificazione e di espulsione: in un'interessante intervista ad Alexandra D'Onofrio - pubblicata nel mese di luglio sulla nostra piattaforma, nella quale si parlava del suo documentario intitolato “La vita che non CIE” - sono state raccontate le difficoltà, le paure, le aspettative di uomini, giovani e meno giovani, che partono dai loro Paesi d'origine, affrontando un viaggio pericoloso, per ritrovarsi all'interno di edifici-prigioni senza aver commesso reato, senza documenti, senza capire cosa stia accadendo; per mesi e mesi restano rinchiusi, abbandonati a se stessi, spesso senza conoscere la lingua con cui chiedere e comunicare e, per calmare l'ansia (ma anche per tenere sotto controllo l'aggressività) vengono sedati con psicofarmaci. E questa è solo una parte della situazione.
In alcuni casi, quindi, chi ha ancora forza e lucidità prova a protestare, usando mobili e arredi, bruciando materassi. Un modo per farsi sentire, una maniera per esprimere rabbia ed esasperazione. Negli ultimi giorni la rivolta ha toccato anche il CIE di Gradisca, in provincia di Gorizia, in cui sono rimasti feriti due immigrati (per uno di loro la prognosi è ancora riservata). All'interno dell'edificio, circa trenta detenuti sono saliti sul tetto, gridando slogan per denunciare le loro condizioni; all'esterno, si è creato un presidio durante il quale i manifestanti hanno esposto cartelli con le scritte: “Chiudiamo i lager di Stato” oppure “ Libertà/Freedom/Liberté”. A dar forza alla richiesta anche le parole della vicepresidente della Provincia di Gorizia, Mara Cernic, che ha dichiarato: “ Siamo contrari a questo modo di gestire l'immigrazione, che risulta inadeguato sul piano del rispetto dei diritti umani”.

venerdì 23 agosto 2013

Un omaggio ai bambini di Boavista, Capoverde


Molti sono figli di italiani o di coppie miste, di italiani e capoverdiani: e questi sono i più fortunati perchè i loro genitori lavorano e li seguono con attenzione; ma tanti bambini di Boavista, una delle isole dell'arcipelago di Capoverde, vivono nelle baracche, in povertà, circondati da spazzatura, con l'elettricità a pagamento e l'acqua che proviene da una grande cisterna. Non hanno l'opportunità di studiare, poche le prospettive per il futuro, quasi nessuna aspettativa perchè non sanno neanche cosa siano le “aspettative”...le madri lavorano (e nella maggior parte dei casi sono madri-bambine), i padri sono spesso ubriachi o tossicodipendenti. Forse solo la religione - cattolica o avventista - dà conforto e salvezza.
Le fotografie testimoniano, nonostante le difficoltà per giovani e adulti, la gioia di vivere di questi bambini e la capacità, per i capoverdiani e gli europei, di fare davvero “intercultura”...grazie al mare e al gioco, al mix di lingue e di sorrisi.
















giovedì 22 agosto 2013

Un premio di fotografia e altro



Bentrovati a tutti! Da lunedì prossimo ricominceremo ad aggiornare quotidinamente la nostra piattaforma con le notizie - gravi, importanti, utili - dei fatti accaduti nelle ultime settimane, con le interviste, con le segnalazioni culturali e con i vostri preziosi contributi. 
E, da settembre, cominceremo anche ad invitarvi alle prossime iniziative pubbliche organizzate, a Milano, dall'Associazione per i Diritti Umani: presentazioni dei saggi e dei romanzi di autori e di giornalisti di qualità, presentazioni di documentari con i registi in sala e molto altro ancora. Per riprendere insieme il cammino sulla strada del rispetto dei diritti di tutti. 
Per oggi, un articolo su un premio di fotografia: quando le immagini si fanno testimonianza dell'attualità.

(La repubblica)

Marco Luchetta, Alessandro Ota, Dario D'Angelo formavano una troupe giornalistica della RAI che, nel 1994, fu assassinata a Monstar; pochi mesi dopo, a Mogadiscio, anche l'operatore Miran Hrovatin, che faceva parte dello stesso gruppo, verrà ucciso insieme alla giornalista Ilaria Alpi.
A tutti loro è dedicato il Premio Luchetta, istituito proprio dalla “Fondazione Luchetta Ota D'Angelo Hrovatin” sotto l'Alto Patronato del Presidente della Repubblica: un riconoscimento rivolto ai rappresenanti della stampa, ai telecineoperatori, ai fotoreporter che testimoniano le realtà più dure nel mondo e, in particolar modo, si occupano delle sopraffazioni nei confrnto dei più indifesi: i bambini.
Per l'edizione 2013, la giuria - presieduta dal Direttore della Testata Giornalistica Regionale della RAI, Alessandro Casarin - ha ricevuto tantissimo materiale proveniente dal fronte siriano: vincitore del premio principale è stato, infatti, Ian Pannell, con un reportage per la BBC sugli sfollati siriani.
Il fotografo Marco Gualazzini si è aggiudicato il premio “Miran Hrovatin” per la fotografia con il suo intenso scatto che riprende altri sfollati, questa volta in un accampamento in Congo; come miglior reportage pubblicato su carta stampata, è stato selezionato il viaggio del corrispondente dall'Asia per “The Times”, Richiard Lloyd Parry che - per cinque anni e usando uno pseudonimo per evitare la deportazione - si è mosso clandestinamente in Birmania, riuscendo a documentare le atrocità del regime. Jean-Sèbastien Desbordes, giornalista di France2, ha raccontato, invece, le difficoltà di Sacha, un bimbo affetto da una particolare malattia genetica, per parlare del coraggio nella diversità; Marzio Milan, vicedirettore del periodoco “Io Donna” del Corriere della sera, si è guadagnato il Premio Luchetta con un'inchiesta sull'infanticidio delle bambine in India. E poi ancora: le donne di piazza Tahrir, le baby prostitute in Bangladesh, l'isola martoriata di Haiti.
Il premio Luchetta si conferma come un importante strumento di informazione e di conoscenza; come una valida testimonianza (e spesso denuncia) di ciò che accade nel mondo, testimonianza resa dalla sensibilità di coloro che si mettono in gioco per far circolare le notizie.





martedì 6 agosto 2013

Solo un po' di vacanza...


Carissimi amici,
dal 7 al 22 agosto saremo anche noi in vacanza, per rigenerare le energie e riprendere a lavorare con entusiasmo.

Aspettiamo, però, i vostri contributi sui temi inerenti ai diritti umani, sociali e civili (in forma di fotografie, video, articoli) che pubblicheremo, se possibile, durante le due settimane di vacanza, oppure immediatamente al rientro, a partire dal 23 agosto.

Vi suggeriamo inoltre - se volete e avete tempo - di “viaggiare” all'interno della nostra piattaforma (www.peridirittiumani.com) per leggere i pezzi, le interviste, le recensioni di film e di libri che “magari” vi sono sfuggiti e per guardare i video delle iniziative che abbiamo già proposto al pubblico.

L' Associazione per i Diritti Umani vi anticipa che - a partire dal prossimo 5 OTTOBRE - ha in cantiere una serie di incontri pubblici per continuare, insieme a tutti voi, il cammino dei diritti, per conoscersi, per scambiare idee e opinioni.

Vi salutiamo con la nostra news letter, ma ogni tanto continuate a consultarci e a condividere le notizie...Il 23 agosto torneremo!!!  Ringraziandovi, vi auguriamo buona estate.

lunedì 5 agosto 2013

Un'interessante novità letteraria: Nessun requiem per mia madre



Claudiléia Lemes Dias - nata a Rio Brilhante, nel cuore del Brasile - dopo essersi laureata in Legge si trasferisce in Italia dove consegue il Master in Mediazione Familiare e in Tutela Internazionale dei Diritti Umani e oggi è al suo esordio letterario con il romanzo intitolato “Nessun requiem per mia madre”, per Fazi Editore.
Marta è arrivata in Italia dal Brasile. Non è una ragazza in fuga, non ha un passato da dimenticare. Marta ha soltanto un futuro da costruire: qui studia, si innamora e si sposa. È felice della propria vita. Ma allora perché è l’unica grande assente al funerale di sua suocera, Genuflessa De Benedictis? La madre di suo marito Franco, salutata ora con commozione dall’intero quartiere Parioli in cui viveva, è stata in realtà la più terribile e distruttiva delle suocere. Possessiva e pronta a tutto pur di non lasciare il figlio prediletto nelle grinfie dell’“approfittatrice straniera”.

Abbiamo intervistato l'autrice


Nel suo romanzo fa un ritratto feroce della famiglia italiana - borghese e cattolica - a contatto con lo straniero: possiamo chiederle se è una storia di fantasia o, in parte, autobiografica?

Le suocere e le nuore hanno spesso tratti comuni un po’ in tutto il mondo. Sono arrivata in Italia per approfondire gli studi con un Master in Mediazione Familiare, che pensavo, sarebbe stato il campo del mio futuro lavorativo. Molti degli avvenimenti provengono da testimonianze ascoltate in quegli anni di studio. Certamente l’atmosfera ricreata nel libro proviene dalle storie più estreme e patologiche che hanno modificato e segnato, fino a devastare, matrimoni basati su affinità che sembravano solide. Il mio tentativo è stato quello di immedesimarmi, sia nella madre che nel figlio, ed essere voce narrante di una asfissiante simbiosi in cui la madre non ammette che venga sottratto “il suo bastone della vecchiaia”. Non penso però sia solo una storia italiana dello stereotipato “mammone” o ultimamente politicizzato “bamboccione”. Le dinamiche dell’accettazione dello straniero sono quasi in secondo piano rispetto al rifiuto di una separazione fisica, che agli occhi della madre è vista come un tradimento. Poco importa che Marta, la nuora, sia straniera o autoctona. È la possibilità di aprirsi al mondo e di abbandonare le vecchie morbose abitudini a spaventare Genuflessa.

Cosa rappresenta Genuflessa De Benedictis, la “madre”, la “suocera”, al di là del suo ruolo familiare? E il suo è vero amore nei confronti dei figli o c'è dell'altro?

Genuflessa De Benedictis è madre e nella sua personale religione è Dio. Non ha solo procreato, ma creato i propri figli, uomini che vengono descritti nel romanzo come una sua propaggine inalienabile, cellule omozigote...Essendo ermeticamente chiusa in sé stessa, solo di sé (e quindi dei figli), Genuflessa crede di potersi fidare. Direi che non è amore ma spietato narcisismo.

Quali sono gli stereotipi da demolire quando si parla di brasiliani, sudamericani e di immigrati in genere?

Ridurre con le parole un popolo è il modo più semplice per odiarlo o per provarne simpatia. Se parlo dei romeni si pensa immediatamente alle badanti o ai pirati della strada, se dico peruviano o filippino la mente si sposta su bravi domestici, al brasiliano invece si associa alla trans della Cassia o della Cristoforo Colombo, al calcio e alle mulatte che camminano sulle spiagge bianche di Ipanema. Quanto di più fuorviante ci può essere, se con sei termini ho sintetizzato circa 350 milioni di persone? Gli stereotipi sono molti e cambiano spesso sulla base della volontà politica di strumentalizzare determinate situazioni o momenti storici.

L'Italia è un Paese razzista?

L’Italia ha una storia complessa. Non va capita ma psicanalizzata come un’affascinante donna profondamente insicura e impaurita che ha bisogno di eterne conferme sulla propria identità. Un Paese andrebbe misurato non attraverso lo spread o i rating delle banche, ma attraverso l’umanità e cultura che ha sviluppato nei secoli di storia. Da questo punto di vista definire l’Italia un Paese razzista sarebbe storicamente sbagliato, si pensi solamente alla globalità dell’impero Romano con il suo straordinario Diritto, ma anche alla storia più recente come la Carta dei Diritti dell’Uomo (Carta di Roma). Atteggiamenti incivili di pochi non possono condizionare un quadro generale che si presenta positivo e in costante evoluzione, anche se non voglio tuttavia minimizzare una certa inquietudine recente verso atteggiamenti sessisti e di fanatismo religioso.

Ci può rivelare il significato del titolo del romanzo?

È l’incapacità di perdonare le debolezze di chi ci ha generato. È l’eterno risentimento che si ha quando i genitori affidano nei figli il proprio riscatto.


Claudiléia Lemes Dias




venerdì 2 agosto 2013

PER UN PIANO NAZIONALE D’AZIONE CONTRO IL RAZZISMO, LA XENOFOBIA E L’INTOLLERANZA


Il ministro per l'integrazione e le politiche giovanili ,Cè Kyenge, il 30 luglio scorso ha presentato lo schema del piano nazionale d'azione contro il razzismo, la xenofobia e l'intolleranza per il triennio 2013-2015 (che potete leggere a seguire e che è stato pubblicato sul sito del governo).
Il piano, come ha spiegato il ministro, "richiede nelle prossime settimane la necessaria collaborazione e condivisione, non solo delle associazioni di settore, ma anche delle istituzioni, centrali e territoriali, a vario titolo coinvolte, al fine di pervenire a una strategia che possa essere di supporto alle politiche nazionali e locali in materia di prevenzione e contrasto del razzismo, della xenofobia e dell'intolleranza".
In occasione delle presentazione, Cècile Kyenge ha anche chiesto ufficialmente al segretario della Lega Nord, Roberto Maroni, di intervenire per condannare gli insulti che, ripetutamente, vengono ripetuti nei suoi confronti dai militanti del partito leghista. Maroni ha risposto che avrebbe telefonato al ministro, confermandole l'invito alla festa della Lega, ma ribadendo che: “Non e' una questione politica, ma generale, la Lega non fa mai questioni personali: noi combattiamo le idee sbagliate, le proposte sbagliate e quella dello ' ius soli' non e' una proposta sbagliata, ma e' una proposta sbagliatissima e noi la contrastiamo, perche' siamo convinti delle nostre idee".



Piano nazionale d'azione contro il razzismo, la xenofobia e l'intolleranza

Perché un Piano

Il Piano rappresenta il primo esempio a livello nazionale di una risposta dinamica e coordinata delle istituzioni e della società civile alla recrudescenza del fenomeno razzista
alla quale stiamo assistendo non solo nel nostro Paese ma in tutto il contesto europeo.
Si tratta di un lavoro che richiede nelle prossime settimane la necessaria collaborazione e
condivisione, non solo delle associazioni di settore, ma anche delle istituzioni, centrali e
territoriali, a vario titolo coinvolte, al fine di pervenire a una strategia che possa essere di
supporto alle politiche nazionali e locali in materia di prevenzione e contrasto del
razzismo, della xenofobia e dell’intolleranza, con l’obiettivo finale di valorizzare una
società multietnica e multiculturale, aperta e democratica.

Il contesto del Piano

Come previsto dal D. lgs 215/2003 e dall’art. 43 dell’ex Legge 40/1998, il Piano si propone di offrire una definizione chiara ed unitaria di cosa si debba intendere per
contrasto al razzismo, alla xenofobia e all’intolleranza. Per questo motivo, è immediatamente esplicitato che il Piano d’azione riguarda le discriminazioni basate
sulla razza, sul colore, sull’ascendenza, sull’origine nazionale o etnica, sulle convinzioni e le pratiche religiose.
Naturalmente il Piano tiene conto e appresta ulteriori strumenti in ragione del diverso impatto che le stesse forme di discriminazione possono avere su donne e uomini, in un’ottica di genere, nonché dell’esistenza di forme di razzismo a carattere culturale.

La struttura del Piano: gli Assi

Sulla base delle intese fra il Ministro per l’integrazione ed il Viceministro del lavoro e delle politiche sociali con delega alle pari opportunità, lo schema di Piano è stato predisposto dall’UNAR secondo un approccio integrato e multidisciplinare.
Per l’individuazione degli Assi prioritari, si è tenuto conto non solo dei dati statistici sui
casi di discriminazione rilevati dal contact center dell’Unar, tramite il numero verde
800.90.10.10 e il sito web www.unar.it, ma anche dei principali ambiti di intervento
individuati dall’Unione europea per il contrasto e la rimozione delle discriminazioni. In tale individuazione, grande rilievo hanno avuto, infine, i risultati raggiunti dall’Ufficio
nella rimozione della discriminazione, prendendo spunto dalle numerose raccomandazioni emanate o dalle best practice individuate e messe a sistema.
Al Gruppo Nazionale di Lavoro, pertanto, verranno proposti i seguenti Assi prioritari, di azione per i quali occorrerà individuare misure ed azioni positive da mettere subito in
campo: Occupazione, Alloggio, Istruzione, Mass Media e Sport, Sicurezza.
Ciascun asse sarà declinato per ambiti strategici, obiettivi operativi e misure positive
concretamente attuabili a legislazione vigente.
L’elemento innovativo offerto dal Piano risiede nella sua multisettorialità, vale a dire
nell’ampliamento del target dei destinatari. Il Piano, infatti, non riguarderà, solo i cittadini stranieri che vivono in Italia, ma anche i cittadini italiani di origine straniera, tra i quali le seconde e terze generazioni, con un focus specifico sulle seconde generazioni
che hanno acquisito la cittadinanza italiana dopo i 18 anni.
Un approfondimento, inoltre, sarà dedicato alla discriminazione basata sul colore della
pelle. Diverse ricerche hanno evidenziato, infatti, come il colore della pelle sia uno
specifico elemento di discriminazione, in particolare nelle scuole o nel mondo del lavoro.
Nell’analisi statistica saranno analizzate tali ricerche e approfondito il tema della specifica discriminazione basata sul colore della pelle.
Si terrà conto anche dei minori stranieri presenti in Italia, e, come dimensione evolutiva,
anche dei dati relativi alle nascite e alla presenza nelle scuole negli ultimi 3/5 anni.
Il Piano riguarderà, infine, anche le persone appartenenti alle minoranze religiose ed
etnico-linguistiche.

Quale Governance del Piano

La definizione e l’attuazione del Piano richiede un sistema di governance
multilivello, che coinvolga tutti gli attori a vario titolo interessati alle politiche in materia di prevenzione e contrasto della discriminazione per motivi razziali ed etnici. Si tratta, quindi, di un modello articolato e integrato che prevede l’azione sinergica delle istituzioni, centrali e locali, della società civile, delle parti sociali e di tante associazioni coinvolte.
Tra gli attori maggiormente coinvolti vi è il Gruppo Nazione di Lavoro delle
associazioni di settore che svolgerà un ruolo essenziale nell’elaborazione e condivisione
del Piano. Il GNL è costituito ad oggi da 85 associazioni.

I dati del Contact center – UNAR

Dall’analisi dei dati rilevati dal Contact center si evidenzia che nel corso del 2012 sono
stati segnalati in totale 1.283 casi di discriminazione pertinenti per le diverse forme di
discriminazione (disabilità, età, etnia/razza, genere, orientamento sessuale, religione).
Rispetto al 2011 si è registrato un incremento del 61%: ciò non vuol dire solo che il fenomeno della discriminazione in generale è in crescita nel nostro Paese, ma anche che,
grazie alla campagne di sensibilizzazione e comunicazione, si sta sviluppando una
maggiore attitudine al reporting e alla denuncia, anche da parte di testimoni, che ne
favorisce la emersione.
Nel 2012, l’UNAR ha registrato specificamente 659 casi di discriminazione per motivi
etnico/razziali, pari al 51,4% del totale dei casi di discriminazione trattati nell’anno.
Il 40,9% delle segnalazioni sono state effettuate dalle vittime che hanno subito la
discriminazione e il 35,7% da parte dei testimoni della situazione discriminatoria.
Nel complesso, nel corso del 2012, quindi, si è registrato una maggiore propensione
all’emersione dei casi di discriminazione sia da parte delle vittime (nel 2011 era il 30%,) che dei testimoni (nel 2011 era il 21%).