mercoledì 31 dicembre 2014

Dalle onde del mondo: immagini e parole su profughi e migranti



Lisa Tormena e Matteo Lolletti hanno girato il documentario intitolato Dalle onde del mondo che fa riflettere su uno dei temi che ci sta più a cuore: la sorte di migranti e rifugiati, i loro viaggi terribili nel Mediterraneo, il loro destino e le politiche sbagliate.

L'Associazione per i Diritti Umani ha rivolto alcune domande ai due registi e li ringraziamo.


 
 
 











Il documentario nasce da “Senza Confini - Progetto rifugiati” e dal “Teatro Due Mondi” a Lugo di Romagna: ce ne può parlare?


Il Teatro Due Mondi, sotto la guida di Alberto Grilli, ha sviluppato un progetto prezioso, di teatro di strada, con i profughi, rifugiati e richiedenti asilo presenti in provincia di Ravenna, prima a Lugo e poi a Faenza. Un progetto volto, da un lato, a stimolare un’integrazione attiva tra i profughi e il territorio, e, dall’altro, a raccontare la storia di questi uomini, in maniera non diretta, ma per metafore. Il laboratorio teatrale, all’interno del quale è nato lo spettacolo “Dalle onde del mondo”, che il nostro film racconta e da cui prende il nome, è durato molti mesi. Ha messo insieme i giovani richiedenti asilo (di origini subsahariane, ma provenienti in particolare dalla Libia da cui erano stati costretti a fuggire durante la rivoluzione) e numerosi volontari italiani, tra i quali alcune ex operaie dell’Omsa, coinvolte in precedenza nelle Brigate dell’Omsa. Il modello è molto simile a quello delle Brigate Omsa che sono riuscite, attraverso il teatro di strada, a raccontare in modo originale una battaglia sindacale e a far conoscere a livello nazionale la questione. Allo stesso modo, questo progetto ha cercato di raccogliere storie, mettendole in scena, e ha permesso ai richiedenti asilo di aprirsi, di trovare un grande spazio di condivisione, e a noi, al pubblico, di ascoltare queste storie. Si è così costituita la "Carovana Meticcia”, e poi il laboratorio di teatro partecipato SENZA CONFINI, che continua a incontrarsi e ha ripreso in settembre le proprie attività, e che giovedì 18 dicembre sarà in Piazza del Popolo a Faenza per un’”Azione contro la quotidiana indifferenza”. Come ci ha raccontato Alberto Grilli, regista del Teatro Due Mondi: “Negli ultimi mesi, siamo stati testimoni di molte manifestazioni razziste e mai nessuna a sostegno dei migranti. Ecco perché abbiamo deciso che sia necessario lanciare un forte segnale di accoglienza per dire no all'intolleranza.


Come si è sviluppato il vostro lavoro?         



E’ stato un lavoro molto lungo, durato circa un anno e mezzo. Avevamo già collaborato con il Teatro Due Mondi per il progetto dedicato alle operaie dell’Omsa, da cui era nato un altro film. In questo caso abbiamo cercato di realizzare qualcosa di diverso, meno politico in senso stretto, e più poetico. Non è stato semplice. Abbiamo seguito i ragazzi durante le prove e durante tutto il progetto, siamo stati con loro, abbiamo lasciato che si aprissero e abbiamo conquistato la loro fiducia, mentre preparavano, studiavano e realizzavano lo spettacolo. Lo abbiamo visto nascere e modificarsi nel tempo, fino alla forma definitiva, in cui ciascuno aveva il suo ruolo, il suo momento a riflettori accesi. E come abbiamo visto trasformarsi i giovani migranti, inizialmente sospettosi della forma teatrale e poi entusiasti, anche noi siamo cambiati, siamo cresciuti con le loro storie, i loro drammi e le loro speranze per il futuro.
Il momento più emozionante è stato lo spettacolo a L’Aquila, dove abbiamo passato insieme un paio di giorni. Sapevamo che erano le ultime riprese e poi avremmo iniziato il montaggio. Nella pausa tra le prove e lo spettacolo, abbiamo passeggiato insieme ai ragazzi nel centro storico della città, una città fantasma, ed è stato strano vederci tutti così curiosi e quasi tramortiti da ciò che vedevamo. Una città meravigliosa e silenziosa. Così come l'Aquila, anche questi ragazzi erano come fantasmi per la società italiana. E questa consapevolezza ci ha scosso.



Come possono, cinema e teatro, aiutare i profughi a elaborare le loro esperienze di vita?



A nostro modo di vedere, cinema e teatro offrono un modo diverso, altro, di narrare se stessi. Simbolizzando le proprie esperienze - traumatiche e drammatiche - è possibile rendersi conto del viaggio, del tragitto che si è affrontato. E diventa possibile farlo senza cercare di dover raccontare verbalmente, in una lingua differente da quella madre, esperienze che sono difficili da trasmettere, per pudore o per dolore. Cinema e teatro parlano una lingua più universale, e avvicinano.



In che modo sono stati accolti i profughi e i rifugiati in Emilia Romagna?



Non esiste una risposta univoca. Il nostro territorio ha una tradizione di ospitalità e accoglienza che è storica. Parallelamente ha anche maturato una forma di diffidenza - che spesso sfocia nel razzismo - che si sta ispessendo sempre di più. Non dimentichiamo che la maggior parte dei profughi che hanno raggiunto le nostre coste sono giovani o giovanissimi, portano con sé grandi paure e grandi speranze, e il loro arrivo può tramutarsi in una grande ricchezza per noi, una grande ricchezza umana che dobbiamo essere in grado di cogliere.



E qual è il loro futuro? Sono rimasti in Italia o sono andati in altri Paesi europei?


Non c’è un futuro, perché non c’è una risposta sistemica al loro dramma, ma solo episodica e parziale. Impossibilitati a svolgere un lavoro, molti preferiscono la clandestinità e cercano di raggiungere altri stati che vivono un periodo economico migliore del nostro e sono meglio attrezzati - per storia e volontà - all’accoglienza del migrante, sia esso profugo o meno. Alcuni dei ragazzi sono rimasti in Italia, a Faenza e a Lugo, altri, la maggioranza, si sono spostati in altre zone dell’Italia o all’estero. Segno che la nostra terra forse non è riuscita a farli sentire a casa.




 


martedì 30 dicembre 2014

La battaglia di Luca Abete (e non solo) contro la criminalità organizzata



Luca Abete è un noto show man televisivo e un fotografo: e vogliamo parlare di lui al presente perchè è vivo e vegeto. Scriviamo questo perchè, qualche settimana fa, su una pagina di Wikipedia a lui dedicata si leggeva, invece: “ Gianluca Abete, detto Luca (Avellino 2 0ttobre 1973 – Napoli 8 dicembre 2014) è stato un personaggio televisivo, etc. etc”. Si tratta di un necrologio, di uno scherzo di cattivissimo gusto - vogliamo sperare - ed è stato fatto dopo il servizio di Abete riguardante i beni confiscati alla camorra, in provincia di Caserta. Soltanto sei di questi immobili sono stati riutillizzati e messi a disposizione per il Bene comune.

Per sottolineare il messaggio, il falso necrologio continua con le seguenti parole: “Viene ucciso dalla camorra l'8 dicembre 2014 perchè troppo scomodo”. “ Questa è un'altra intimidazione che fa seguito alle numerose minacce già pervenute al nostro inviato “, ha dichiarato Ezio Greggio in una puntata di Striscia la notizia, per proseguire: “Luca Abete non si fa certo intimorire e prosegue nel suo lavoro”. E il diretto interessato, sulla pagina Facebook, ha scritto: “ L'8 dicembre vi invito tutti a pranzo! Brindiamo alla faccia dei vigliacchi”.



Intanto noi vi proponiamo la testimonianza di Pino Maniaci, Direttore di Telejato, contro la criminalità organizzata. Dal Nord al Sud diciamo NO alle mafie, un NO forte e chiaro.
 
 
 

lunedì 29 dicembre 2014

Confronti mediterranei di donne



di Ivana Trevisani



Quando uno sguardo di donna scruta il mondo, sempre si posa sulla vita, anche se la realtà a cui guardare è quella belligerante dei conflitti armati e degli scontri esplosivi tra diversità rese irriducibili.

Ed quanto ancora una volta si è realizzato a Milano lo scorso novembre, all'incontro “Sguardi di donne sui fondamentalismi e i conflitti in medio-oriente”, nello scambio di riflessioni tra le donne al tavolo di relazione: la cooperante italiana Irene Viola, l'operatrice sociale libanese Tamara Keldani, la Tunisina Ouejdane Mejiri da anni in Italia, insegnante al Politecnico di Milano e la Siriana Souheir Katkhouda, da vent'anni in Italia presidente delle donne musulmane d'Italia.

Ognuna di loro, nonostante il titolo, ha scelto di parlarci delle pratiche di vita che le donne stanno comunque agendo nei luoghi associati ormai soltanto, nei media e nell'immaginario collettivo occidentali, ad azioni di morte.

Certo queste donne, da sempre attive nel politico sociale dei loro Paesi e in Italia, non hanno ingenuamente rimosso la questione della violenza dilagante, ma l'hanno riletta nel registro dell'articolazione piuttosto che in quello del giudizio sbrigativo.

Così Viola, con il video dell'agricoltrice libanese Elham fiera dello sviluppo della sua attività agraria, ci ha riportate alla straordinaria potenza delle donne per l'amore e la cura della terra, che dà vita ed è amore per il mondo.

Keldani da parte sua, attraverso la restituzione di senso del lavoro, soprattutto nelle zone rurali del Libano, con la sua associazione Les Amis des Marionettes, ci ha rivelato come agendo attraverso il simbolico di giochi di ruolo sia stato possibile radicare nei vissuti di ragazzi e ragazze partecipanti ai laboratori sulla differenza sessuale, il senso e il valore di tale differenza e la potenza dell'essere donna.

Muovendo dalla consapevolezza degli delle adolescenti coinvolti nel progetto, di rimbalzo nel quotidiano delle comunità ha potuto guadagnare spazio e consolidarsi il riconoscimento concreto e non solo di convenzionale adesione alla tradizione, certezza che la donna è il pilastro della famiglia e che reggendo l'equilibrio della famiglia può contribuire all'equilibrio dell'intera società. Restando a tema, quanto alla piaga dei matrimoni precoci, indistintamente tutte tutti gli allievi delle scuole coinvolte dai laboratori, hanno saputo indicare il danno sociale di una pratica che non permettendo alla madre troppo precoce di sviluppare appieno il senso di sè, non le consente di educare con pienezza i figli, trasmettendo loro il sentimento della propria identità. E poichè la questione dell'identità è un problema di non poco conto nel tessuto frammentato, lacerato, interrotto dell'attuale società libanese, ne consegue l'enorme portata del guadagno trasmesso per genealogia femminile di quel senso di identità e radicamento a sé che consente di eludere le spinte a derive identitarie totalitarie.

A seguire Katkhouda, riportando il suo impegno non solo nel “soccorso” e nell'accoglienza dei suoi, delle sue connazionali in fuga dalla Siria, ma anche e forse soprattutto, stante il sistema informativo del nostro Paese, nel persevante, instancabile lavoro di presenza-testimonianza in ogni occasione possibile, per ricordare a un pubblico disattento e male informato, la tragedia che nel suo paese d'origine sta continuando a consumarsi e a consumare le vite di un intero popolo, ci ha restituito intera la sua potente autorevolezza. Kathouda, presidente delle donne musulmane in Italia, non ha dissertato su veli, arroccamenti o strumentalizzazioni religiose, ma ha detto di sé, di come sta nel mondo, ci ha testimoniato del suo infaticabile impegno ad aprire sempre più fessure nel silenzio che uccide, anche più delle armi, quello che continua a sentire come il suo popolo.

Per concludere, Mejri con il suo intervento ha con forza sottolineato la realtà, pressochè ignorata dal sistema mediatico italiano, dell'agire positivo delle donne al centro del ritrovato protagonismo dell'intera società civile tunisina. E' stato soprattutto il protagonismo delle donne, ha voluto ribadire Mejri, ha sostenere il processo di partecipazione sociale alle ultime tornate elettorali, le parlamentari prima e le presidenziali successivamente, che ha consentito l'evoluzione politica di avvicendamento ad Ennhada, il precedente governo di impronta religiosa, del nuovo governo non religiosamente orientato. Non solo la presenza attiva delle donne, ma l'intero processo di alternanza che hanno saputo sostenere sono stati solo sfiorati dal nostro sistema mediatico, forse troppo allineato alla “dittatura del pensiero occidentale”, condivisibili parole di Mejri.

Che la positività sia la cifra dell'agire delle donne non è un miraggio, ma è possibile riconoscerla solo se si apre lo sguardo, se oltre l’evidenza si accetta di entrare nel profondo delle vicende dove le donne si giocano, scoprendo da dove nascono e verso dove procedono.

Cogliere la forza e l'eccellenza femminile è possibile a patto di affinare la capacità di ascolto necessario e prepararsi a uno sguardo più attento, di aprire la disponibilità autentica “a guardarci l’una con l’altra, a restituirci vicendevolmente l’immagine della nostra eccellenza, a riconoscere la loro e la nostra”, per dirlo con le parole della filosofa Diana Sartori, all'incontro non in presenza ma in pensiero, e “saper fare da specchio all’altra, lì in quel che sta facendo lei, come noi” pur nelle diversità di eccellenza di donna, consente di riconoscere lei e noi stesse.

Per scostarsi dai luoghi comuni e dai pre-giudizi che le vogliono e vedono unicamente oscure donne schiacciate da guerre maschili e da veli imposti, e che le rendono di fatto evanescenti, le donne dell'altra sponda del Mediterraneo in questo incontro, per dirsi e dirci di sè hanno scelto di eludere la contrapposizione e preferito offrirci la proposta di esperienze e pratiche concrete di vita, vissute in proprio o verificate in altre e affermare come Hanna Arendt sosteneva, che non si è liberi da una condizione data, ma si è libere nell'apertura di senso di quella condizione.

Le considerazioni esposte dalle relatrici, accompagnandone le narrazioni hanno voluto ricordare come le potenti storie di donne offerte, più comuni di quanto si voglia o possa credere in Occidente, ci possono insegnare a spostare la prospettiva di lettura, a non concentrarsi sul dolore ma a proiettare uno sguardo diverso sulla tragedia, per trovarci comunque la vita.

Coniugando le testimonianze dipanate dalle donne nel corso dell'incontro con le parole della riflessione di Sartori è plausibile concludere che in questa urgenza presente, quando la misura maschile mostra la sua incapacità a fare ordine, e quella femminile in questo passaggio si pone come ordinatrice di realtà” si può ri-trovare la vita: nella parola, nello sguardo, nelle pratiche, nella misura di donna e “finalmente si pone la questione di quale è la misura in un mondo davvero comune”.

Ciascuna a partire da sé e tutte indistintamente, sempre usando le sue parole, hanno voluto e potuto ancora una volta ricordarci che “se non sapremo esporci al mondo come misura, il mondo non avrà misura”.


domenica 28 dicembre 2014

Linee guida OCSE e cooperazione


Come integrare le Linee Guida OCSE nella cooperazione allo sviluppo italiana?

In breve, l’OCSE e le Nazioni Unite hanno sancito che, al fine di rispettare i diritti umani (ma riteniamo che ciò valga anche per le clausole ambientali, la responsabilità sociale, i diritti del lavoro, il contrasto alla corruzione) ogni impresa deve fare tre cose:
Adottare un documento di policy che includa un impegno formale a rispettare tali diritti e standard internazionali;
Metter in atto un sistema di processi interni (di dimensione e sofisticazione adeguata all’attività dell’impresa) che garantiscano che l’impresa rispetta tali diritti e standard;
Prevedere o prendere parte agli opportuni meccanismi rimediali.I regolamenti attuativi della Legge 125/2014 dovrebbero quindi richiedere a tutte le imprese che vogliono partecipare ai programmi della cooperazione allo sviluppo italiana di preparare due tipi di rapporti di pubblico accesso che dimostrino l’applicazione delle Linee Guida OCSE. Il primo, da pubblicare prima della decisione di eleggibilità al finanziamento dell’iniziativa di cooperazione allo sviluppo, dovrebbe includere:
Un documento di policy in cui l’impresa si impegna a rispettare i diritti umani e del lavoro, le clausole ambientali e a contrastare ogni forma di corruzione;
Una descrizione dei processi interni che garantiranno che l’impresa rispetterà tali diritti e impegni nel lavoro svolto per la cooperazione allo sviluppo;
Una descrizione degli opportuni meccanismi rimediali che l’impresa attiverà, o a cui l’impresa parteciperà.Il secondo tipo di rapporti, da pubblicare a intervalli regolari o alla fine dell’attività, dovrebbe includere:
Una descrizione di come hanno funzionato o non, durante il lavoro, i processi interni dedicati a fare in modo che l’impresa garantisse il rispetto dei diritti umani e degli altri impegni assunti (con una schema standard);
Una descrizione di come hanno funzionato o non gli opportuni meccanismi rimediali che l’impresa ha attivato, o cui ha partecipato (con una schema standard).
Migliori pratiche in altri paesi
Un esempio utile a livello Europeo è offerto dal Governo olandese. Lo “Strumento Commercio e Industria” (OS bedrijfsleveninstrumentarium) è un’iniziativa che garantisce sussidi alle imprese olandesi che conducono attività che contribuiscono allo sviluppo del settore privato nei paesi in via di sviluppo. Lo Strumento richiede esplicitamente che le imprese partecipanti debbano seguire procedure di due diligence basate sulle Linee Guida OCSE.
Altri esempi sono offerti dalla giurisdizione statunitense, come il Dodd Frank Act e la disciplina sugli investitori in Birmania. Una parte del Dodd Frank Act richiede a tutte le imprese che usano minerali provenienti dalla Repubblica Democratico del Congo di preparare un rapporto che descriva le procedure di due diligence che sono messe in atto per assicurare che l’approvvigionamento di queste materie prime non contribuisca al conflitto nel paese. Gli Stati Uniti richiedono anche a tutti coloro che investono almeno $500,000 in Birmania (o che investono nel settore estrattivo Birmano) di preparare un rapporto che descriva le procedure di due diligence che sono messe in atto per assicurare che queste investimenti non abbiano impatti negativi sui diritti umani. Entrambi questi requisiti sulla Repubblica Democratico del Congo e sulla Birmania si basano sui Principi Guida delle Nazioni Unite come modello per la due diligence.

sabato 27 dicembre 2014

In piedi nella neve: ricordare la Storia ai ragazzi, con un romanzo





Cari lettori, abbiamo rivolto alcune domande a Nicoletta Bortolotti sul suo ultimo romanzo per ragazzi intitolato In piedi nella neve, che uscirà il prossimo febbraio per Einaudi.



L'Associazione per i diritti umani sta organizzando alcune presentazioni nelle scuole del precedente lavoro della Dott.ssa Bartolotti dal titolo: Sulle onde della libertà. Se interessati, cercate l'articolo qui sul sito e scriveteci alla mail peridirittiumani@gmail.com



Ringraziamo Nicoletta Bortolotti anche per questa intervista.



Il romanzo si basa su un fatto storico: ce lo può ricordare?



Siamo a Kiev, nel 1942. La città è stata occupata dalla Wermacht di Hitler nel settembre dell’anno precedente con la crudele Operazione Barbarossa, uno dei momenti più drammatici della Seconda Guerra Mondiale. Questo romanzo si propone di narrare attraverso lo sguardo disincantato di una ragazzina tredicenne, Sasha, un episodio singolare ed emozionante avvenuto durante l’avanzata tedesca sul fronte orientale: la partita di calcio disputata fra ucraini, ex campioni del Dinamo, e nazisti, che rimarrà nella storia come la tragica “partita della morte”.

«Giocate per perdere, se vincete morite». Sasha sente l’ufficiale tedesco minacciare i macilenti avversari. E suo padre. Perché lei è figlia del portiere Nikola Trusevich, costretto a fare il panettiere per sopravvivere nella città occupata, prima da Stalin e poi da Hitler.

A tutt’oggi l’incontro, ripreso in alcuni docu-film e nell’hollywoodiano Fuga per la vittoria con Sylvester Stallone, che però ne stravolge del tutto la verità storica, non è mai stato raccontato in un libro per ragazzi e da una voce femminile.



La Storia passata si intreccia al Presente, anche alla luce di quello che sta accadendo in Ucraina, una nazione poco conosciuta, forse, dal punto di vista storico e geopolitico: come si è documentata per la stesura di questo libro?



Nei due anni che mi ci sono voluti a scriverlo, tra la prima e la seconda stesura, ho praticamente vissuto a Kiev tramite libri, articoli e immagini online e nelle infinite steppe ucraine coperte in inverno di neve e in estate di girasoli e spighe di grano.

La storia di questa partita è interessante per comprendere le spinte indipendentiste ed europeiste del popolo ucraino, nonché il suo rapporto con la Russia.

Non bisogna infatti dimenticare che l’Ucraina, dopo il passato glorioso della Rus’ di Kiev e dei Cosacchi, era entrata nel 1922 a far parte dell’URSS come Repubblica socialista sovietica ucraina, sotto l’Armata Rossa di Stalin. Stalin confiscò le terre ai contadini per collettivizzarle, deportò e uccise gli agricoltori ribelli, distrusse oltre 250 chiese e provocò una carestia che costò al paese circa 10 milioni di morti.

Non deve sorprendere pertanto che nel 1941, quando Kiev fu invasa dai tedeschi, in principio l’Esercito Insurrezionale Ucraino salutò i nazisti come liberatori dal giogo sovietico. Ma poi combatté sia l’Armata Rossa di Stalin sia la Wermacht di Hitler.

Alla resistenza partigiana per le strade della città parteciparono distinguendosi alcuni giocatori del Dinamo Kiev, la squadra di calcio più forte dell’Ucraina. Gli atleti erano considerati nemici di Hitler e del Reich, poiché, durante l’occupazione sovietica, nella rigida struttura sportiva voluta da Stalin, per poter essere tesserati nelle squadre più prestigiose, dovevano collaborare con la polizia segreta sovietica, l’NKVD, e con il Partito Comunista.

E forse fu proprio questa la loro condanna, anche se la verità è molto difficile da accertare, al di là delle leggende e del negazionismo dell’una e dell’altra parte.





Vediamo i protagonisti: Sasha è una ragazza, una femmina che ama il gioco del calcio. Maxsym è un maschio, ma ama ballare. Come possono superare i pregiudizi e le convenzioni?



Il pregiudizio culturale molto radicato negli anni ’40, ma ancora oggi duro a morire, per cui esistono sport o giochi rigidamente di genere, porta spesso i ragazzi a nascondere o a non sviluppare parti di sé per il timore del giudizio sociale. Il calcio è da “maschi” e la danza da “femmine”. Si potrebbe pensare che questo modo di ragionare così schematico sia superato, ma non è così: fino ai quindici anni di età, per esempio, esistono ancora oggi solo squadre di calcio maschili, mentre ai corsi di hip-hop i maschi sono ancora pochi. Ma per fortuna la situazione sta lentamente cambiando… I due protagonisti del racconto, Sasha e il suo migliore amico Maxsym, cercheranno con l’ingenua “disperazione” della gioventù di realizzare il loro destino e i loro sogni, nonostante “entrambi amino cose che non possono amare”…


Quali sono i valori veicolati da questo racconto?



La necessità talvolta drammatica di superare la “linea d’ombra” per usare una metafora conradiana e di crescere, di lasciarsi alle spalle l’adolescenza, di prendere posizione, esponendo se stessi. E un amore immaginato. Il calcio e lo sport come strumenti di riscatto, da sempre nei sogni dei ragazzi. Perché gli ultimi minuti del secondo tempo scorrono veloci, non solo in partita ma anche nella vita. A volte è il pallone a decidere. E in quel memorabile 9 agosto del 1942, a pochi metri dalla rete, la sfera di cuoio sembra gridare a Sasha: io non spreco le mie occasioni…





Un libro per ragazzi, ma non solo: si tratta, infatti, di una riflessione sulla memoria storica, sul riscatto e sul senso di responsabilità...



Quando ho scritto questo libro stavo pensando anche a situazioni del presente, vicine a noi, in cui la giustizia viene sistematicamente calpestata e i diritti negati. Non si tratta solo di guerre o genocidi eclatanti ed esplosivi come quelli che insanguinano buona parte del mondo, ma anche di tragedie silenziose, invisibili, “senza sangue”, ma non per questo meno dolorose, come per esempio, quella dei giovani precari.

Rispondo alla tua domanda con un brano tratto dal romanzo che forse ne racchiude lo spirito e il senso. Affido i lettori alle parole di Sasha:



Mi era venuto l’impulso di afferrare il barattolo e di aprirlo e di fare volare via la farfalla. Ma, come gli altri, ho tenuto le mani in tasca.

Se avessi aperto il barattolo, la professoressa si sarebbe arrabbiata e mi avrebbe rimproverata. E se poco fa Maksym avesse preso le mie difese, Oleh gli avrebbe mollato un calcio negli stinchi o un pugno in mezzo alle scapole, di quelli che ti fanno mancare il respiro, e poi lo avrebbe preso in giro fino alla fine dell’anno scolastico.

Ho pensato questo, ho pensato che ha ragione Kordik. Una volta l’ho sentito parlare con mio padre delle persone che vengono portate via su un autobus per andare nei treni diretti ai campi di prigionia e dei lavoratori ebrei che vengono licenziati e non hanno più lo stipendio, e dei loro colleghi che stanno a guardare. Guardano e basta.

Kordik ha detto a mio padre: «Tra la voglia di fare una cosa giusta e farla davvero c’è un viaggio lunghissimo.» E poi ha detto: «In questo viaggio devi calcolare quello che hai da perdere e da guadagnare. Magari la vita.»

Ecco perché Oleh mi ha dato una scarpata sulla mano e la farfalla è morta nel barattolo e Hitler è venuto a Kiev senza che noi lo avessimo invitato e Maxsym non ha detto niente per difendermi da Oleh, anche se è mio amico. Quando c’è da aprire un barattolo e magari puoi fare volare via una farfalla, questa paura non te lo fa aprire.

venerdì 26 dicembre 2014

Fata morgana e le mafie (S)disonorate



Di Anna Giuffrida (www.annagiuffrida. Wordpress.com)

Le femmine hanno risorse, e le mie figlie che restano e parlano, le mie sorelle, diventano cataratte di parole, fermano i morti, acchiappano la vita, parlano, riparlano. Fiumi in piena sono”. Così Marica Roberto, attrice e autrice siciliana del potente testo teatrale “La Fata Morgana, fantasia su un mito”, fa memoria delle donne “sdisonorate” (citando il titolo del dossier dell’associazione DaSud, da cui trae spunto la piece). Donne libere, e per questo uccise dalle mafie, a cui il teatro ha ridato la parola. E un volto, quello del mito femminile di Fata Morgana che, dalle acque dello stretto di Messina alle tavole di legno del palco del Teatro Lo Spazio a Roma, ha fatto rivivere le sue “sorelle” morte ammazzate. Nove donne, delle oltre 150 vittime della criminalità organizzata, dai 14 ai 74 anni. Nove donne, del Sud ma anche del Nord. Nove donne accomunate dall’amore pulito per uomini sporchi, insudiciati dall’appartenenza a famiglie criminali e dalla convinzione di possederle come delle cose. Perché è così che la donna è catalogata nel registro mentale e linguistico delle mafie, la “cosa”. Eppure queste donne non hanno rinunciato alla loro dignità, alla loro libertà, anche se innamorate. Anzi. Hanno combattuto con coraggio in nome dell’amore, anche per se stesse. Come ha fatto la piccola Palmina Martinelli, innamorata di un giovane che voleva farla prostituire e uccisa con “alcol e fiammiferi” per essersi rifiutata di farlo. E Tita Buccafusca, che amò e sposò Pantaleone Mancuso potente boss della ‘ndrangheta, considerata da tutti come la “matta” dopo una lunga depressione. Ma per amore del figlio decise di allontanarsi e raccontare quello che sapeva. La solitudine ebbe poi il sopravvento, e fu così spinta al suicidio che mise in atto ingerendo acido muriatico. E anche Lea Garofalo, che guardò negli occhi le storture della criminalità sposando un uomo di ‘ndrangheta di cui si era innamorata, e che per amore della figlia scelse la libertà della verità e di non tenere più la bocca chiusa, fino alla fine. Storie di donne, figlie, madri vissute nell’ombra e quasi sempre delegittimate, persino come esseri umani. Vittime spesso rimaste senza giustizia, perché la giustizia al massimo ha scelto di considerarle morte per femminicidio. Una comoda distorsione della realtà, come ha fatto notare la deputata di SEL Celeste Costantino al termine dello spettacolo: “Il dossier (“Sdisonorate” di DaSud, ndr) vuole dare forza alla memoria e svelare un falso storico: che le mafie non toccano donne e bambini. Bisogna anche raccontare l’eccezionalità dentro la normalità. Questa specificità delle mafie di uccidere le donne ha una sua normalità, cioè che il femminicidio è stato sempre considerato un’emergenza e invece avviene quotidianamente. Si parla solo dell’atto finale, ma prima di arrivare a quell’uccisione c’è un calvario”. Per questo amore coraggioso ma anche fragile, per queste donne innamorate ma anche libere Fata Morgana/Marica Roberto si addolora ma combatte. In un palco lasciato nudo ed essenziale, come la verità, l’attrice messinese presta il suo corpo a quell’amore, a quel dolore, in un ritmo incalzante che spezza il fiato e le lacrime. La sola incessante scenografia, con la presenza di tamburi marranzano e zampogna suonati con forza e passione, la ricreano le canzoni e sonorità della compagnia siciliana Unavantaluna. La legalità ha bisogno del sostegno della cultura, e il teatro è il luogo dove la parola non può essere modulata e va dritta al cuore. Eppure la compagnia Attori & Musici, e la nostra Marica Roberto, questo testo in lingua quasi del tutto siciliana non è riuscita ancora a mostrarlo nelle scuole del sud, come vorrebbe. Mancate risposte, o anche risposte sbrigative del tono “Non abbiamo i soldi per ospitare lo spettacolo”. Peccato. Peccato che non ci siano fondi da destinare all’educazione alla legalità. E che il sistema scuola non sappia tenersi al passo con le nuove esigenze culturali che deve trasmettere.


giovedì 25 dicembre 2014

Commissione Diritti Umani del Senato e la questione Rom







La Commissione Diritti Umani del Senato visita a Roma il “Best House Rom”. Associazione 21 luglio: «Diritti violati e sperpero di denaro pubblico. Consegnato a Marino il “conto”»






Spostati come “pacchi” dal «villaggio della solidarietà» di via della Cesarina, 120 rom sono stati concentrati un anno fa nel “Best House Rom”, un centro di raccolta rom “fuorilegge” e con un costo pro/capite mensile di 600 euro. Ieri la comunità rom ha ricevuto la visita – organizzata dall’Associazione 21 luglio - di una delegazione della Commissione Straordinaria per la tutela e la promozione dei Diritti Umani del Senato.

Il fabbricato, gestito dalla Cooperativa Inopera dietro convenzione dell’Assessorato alle Politiche Sociali di Roma Capitale, è accatastato come locale di deposito e non potrebbe fungere da civile abitazione. Gli spazi destinati agli ospiti sono inadatti e lontani da quanto previsto dalla normativa regionale: ogni nucleo familiare, composto in media da cinque persone, dispone di fatto della sola zona notte, che svolge anche funzioni di zona giorno e studio per i minori, composta da un’unica stanza di circa 12 mq priva di fonte di luce e aria naturale. Ogni ospite, pertanto, ha a disposizione circa 2,5 mq contro i 12 mq indicati dalla Legge Regione Lazio n. 41/2003.

La delegazione della Commissione Diritti Umani del Senato ha potuto verificare come le stanze del “Best House Rom”, oltre a non garantire la metratura sufficiente pro capite, non sono dotate di finestre o punti luce dai quali possa filtrare la luce naturale e l’aria, e ciò espone a grave rischio lo stato di salute psico-fisico degli ospiti. La presenza di numerosi inquinanti, favoriti dalla mancanza di ricambio di aria, unita al clima caldo-umido prodotto dai condizionatori di calore, potrebbero sicuramente contribuire all’aumento dell’incidenza di patologie respiratorie croniche, come l’asma, e all’incremento della loro evoluzione verso forme persistenti, gravi e invalidanti.

La mancanza di luce naturale potrebbe favorire l’insorgere di disturbi della vista. A tutto ciò si aggiungono altre importanti carenze quali: la non completa somministrazione dei pasti unita al divieto di cottura e preparazione di cibo in maniera autonoma, la mancanza di un numero di servizi igienici adeguato al numero degli ospiti, la carenza di adeguati spazi comuni e l’assenza, all’interno delle stanze, di qualsivoglia arredo escluso il letto, elementi, questi, che compromettono ulteriormente la qualità della vita degli ospiti.

«Abbiamo incontrato persone terrorizzate di parlare davanti agli operatori che lavorano nella struttura. Vivono in una situazione di costante ricatto - ha dichiarato la senatrice Manuela Serra - Noi come Commissione Diritti Umani daremo voce a questa gente perché non è ammissibile che nel 2014 a Roma uomini, donne e soprattutto bambini vivano in una ex fabbrica senza finestre».

«Porteremo avanti un'inchiesta per chiarire come il Comune di Roma utilizza realmente queste ingenti risorse economiche con il risultato di far vivere le persone in questo modo», ha concluso Serra.

Il “Best House Rom”, finanziato dal Comune di Roma con un costo annuo superiore ai 2.200.000 euro alla luce delle caratteristiche strutturali, organizzative e gestionali suddette, non rispetta pertanto i principi internazionalmente riconosciuti di cui è portatrice anche la Carta Sociale Europea.

Nel “Best House Rom” la delegazione di senatori ha avuto la possibilità di fermarsi a parlare con i rom trasferiti quasi un anno fa da via della Cesarina dall’Assessorato alle Politiche Sociale. L’operazione voluta dall’Assessorato a guida Cutini aveva previsto – nonostante le contrarietà espresse da organizzazioni della società civile e dal Municipio III – lo spostamento dei 130 rom e il rifacimento dell’insediamento. Dopo 11 mesi i lavori non sono ancora iniziati e le spese sono lievitate.

Per tale ragione alcuni rappresentanti dell’Associazione 21 luglio hanno consegnato il “
conto” dell’operazione Cesarina – fortemente voluta dall’Assessore Rita Cutini – al sindaco Ignazio Marino. Più di 1 milione di euro spesi per segregare e concentrare 130 rom nel “Best House Rom” senza che alcun lavoro sia stato iniziato.

«Una scelta folle – commenta l’Associazione 21 luglio – che rivela, se ce ne fosse stata la necessità di ulteriore conferma, l’operato di un Assessorato incapace di trattare la “questione rom” secondo i principi espressi nella Strategia Nazionale per l’Inclusione dei Rom».


mercoledì 24 dicembre 2014

Dipinti da Gaza: la mostra del collettivo Shababik




L'Associazione per i Diritti Umani ha presentato, al Centro Asteria, la mostra pittorica intitolata Windows from Gaza, a cura di Fotografi Senza Frontiere.

Le opere sono degli artisti che fanno parte del collettivo Shababik. E' stata l'occasione per capire cosa è accaduto nella Striscia di Gaza da quest'estate e quale sia la situazione attuale; per entrare nella quotidianità del popolo palestinese e per conoscere le aspettative dei giovani.

Si è parlato, infine, dell'Arte e della fotografia come testimonianza e forma di giornalismo.



Per voi il video della serata.







Se apprezzate il nostro lavoro e volete aiutarci, potete fare una piccola donazione, anche di due euro: in alto a destra sulla homepage trovate la scritta “Sostienici”. Cliccate e potrete fare la vostra donazione con Paypall o bonifico. Facile e sicurissimo. GRAZIE!


martedì 23 dicembre 2014

Capire cosa accade in Siria, oggi.




Per fare il punto sulla situazione siriana (e del Medioriente) l'Associazione per i Diritti Umani ha intervistato il giornalista Shady Hamadi, autore del saggio La felicità araba. Storia della mia famiglia e della rivoluzione siriana, per Add editore.

Ringraziamo sempre Shady Hamadi per la sua disponibilità.





Cosa, gli analisti occidentali, non hanno voluto vedere a proposito di ciò che è accaduto e che accade in Siria?



La prima questione odierna è la presenza di una società civile in Siria e le motivazioni vere che hanno mobilitato la società siriana che è uscita da un regime dopo quarant'anni e dopo averci provato varie volte, nel 2000 e nel 2005, ma anche nell'82 con la strage di Hama: nonostante ci siano state colpe acclarate dei Fratelli Musulmani, una certa parte aveva scelto la strada del dialogo. E, secondo me, oggi, non bisogna trovare una sorta di dicotomia tra regime e fondamentalisti.



Il suo racconto parte da lontano, da suo nonno e da suo padre: parla di loro per arrivare a capire il Presente...



Recentemente ho fatto una riflessione, sul Corriere della sera, riguardo al senso della Storia applicato in Siria e sarebbe un discorso da approfondire.

Mio padre è cresciuto, per volontà di mio nonno, presso una scuola salesiana vicino a Talkalakh e allora c'era un sistema di istruzione che funzionava, anche perchè era un retaggio del colonialismo.

La differenza, invece, tra la sua generazione e quella odierna è che quella di oggi è stata indottrinata per quarant'anni e non ha una conoscenza della Storia dalla quale viene, i loro piedi non affondano bene nelle radici storiche e questo si sta presentando in ciò che avviene in Siria: invece, dovremmo guardare, ad esempio, agli anni'50 quando un Cristiano era Primo Ministro. L'incosapevolezza crea un problema e lo creerà anche in futuro.



I giovani che hanno lottato per il Presente, lo hanno fatto, quindi, senza conoscere il Passato?





All'inizio c'era una élite consapevole (e lo dicevano anche gli slogan “Il popolo siriano conosce la Storia”), ma c'è anche una facilità di radicalizzazione nei ragazzi che ha due motivazioni: la prima, è che la Siria è stato costituita, durante l’era della famiglia al Asad, su un sistema comunitario e confessionale, mettendo, per la prima volta nella storia contemporanea del paese, le minoranze al potere. Questo ha prodotto che l'80% della popolazione si sentisse esclusa dalla possibilità di gestire il potere, creando quel risentimento che poi si è concretizzato. La seconda motivazione è lo smantellamento della scuola, per cui quello che accade oggi ai giovani siriani è comprensibile se noi guardiamo a quello che è accaduto negli ultimi quarant'anni.



In contrapposizione a questi ragazzi, troviamo una piccola élite di giovani,anche sunniti, che sostengono il regime perchè hanno guadagnato dei benefit e si sono, in qualche modo, occidentalizzati. Questa piccola élite non guarda alla mancanza di diritti politici e di libertà ma ha scelto di accontentarsi di una libertà apparente: una modernità, fatta di discoteche e belle macchine, priva di ogni pensiero critico verso il brutale status quo imposto dal regime.




Come si può avviare, allora, una transizione verso una forma democratica di governo?



Jawdat Said, una guida religiosa sunnita, ha detto che la democrazia è come una ruota: una volta inventata, tutti la vogliono.

Io penso che la democrazia, prima di tutto, nasca da una cultura, nel senso che ci deve essere rispetto reciproco per le idee. Invece la società mediorientale è una società che non nasce da un'esperienza di confronto, ma è repressa. La mancanza di dialogo fa sì che non ci sia un'autocritica: ad esempio, non c'è una riforma religiosa perchè il governo vieta una critica e non c'è nemmeno la possibilità di progredire in altre maniere. Se noi vediamo la produzione di papers accademici delle università del mondo arabo, è molto più bassa rispetto a quella di alcuni Paesi africani.

La democrazia, quindi, è un percorso ed è necessario un dialogo interno.



Ci racconta la vicenda del vignettista Alì Ferzat?



Alì Ferzat, un po' come tutti gli intellettuali, nel 2011 si è schierato e ha iniziato a parlare apertamente contro il regime siriano: è stato caricato su una camionetta, da parte dei servizi segreti, e gli hanno spezzato le mani proprio perche faceva il vignettista. Questo è un messaggio simbolico sull'impossibilità di avere qualsiasi tipo di espressione che possa prescindere da quella che è la dottrina del regime.



Qual è la situazione in Siria, oggi e quali saranno, a suo parere, gli scenari futuri?



In Siria c'è una mancanza di senso storico, ma c'è un profondo senso nazionale, nonostante la disgregazione su base confessionale.

Per il futuro prevedo che ci sarà un perenne stato di conflitto che può durare dieci, forse vent'anni, ma che si dovrà poi risolvere. Come? Ad esempio, guardando a quelli che sono stati gli accordi di Ta'if, quelli libanesi, dove si può creare una Camera Alta a elezioni universali e una Camera Bassa a elezioni confessionali.

Non credo che lo Stato Islamico resisterà o creerà un califfato perchè le loro prime vittime sono gli stessi musulmani in quanto i musulmani che non sono d'accordo con loro vengono chiamati “apostati”, tagliati a pezzi e crocefissi.

Un'altra possibilità per il futuro della Siria è che possa rimanere Assad, che si crei uno Stato confessionale, con una piccola percentuale di sunniti, e rimanga lì a baluardo delle necessità della Russia o dell'Iran; penso che questa ipotesi sia lontana e credo, invece, che arriveremo ad un dialogo, ma non so se questo dialogo porterà all'estromissione degli Assad (perchè non c'è la volontà internazionale) oppure se si arriverà ad una Siria federale in senso confessionale per poi trovare una unità.



Perchè la comunità internazionale non si occupa della Siria?

 

Prima di tutto, gli americani lo avrebbero fatto se ci fosse stato, in Siria, il petrolio. In secondo luogo, Obama non ha una politica estera credibile in Medioriente, invece Putin ha le idee molto chiare su quello che c'è da fare. E come se si fosse ricreato un muro di Berlino a Damasco...

Non sottovalutiamo, inoltre, l'Iran che è una Repubblica imperialista, ma teocratica, che adopera lo scontro tra sciiti e sunniti per costruire le sue aree di influenza.

Infine, l'Unione Europea non ha una politica estera comune: vediamo che la Francia fa una cosa e l'Italia un'altra, ad esempio. E, come detto, gli Stati Uniti aspettano.


lunedì 22 dicembre 2014

No al fascismo, No alla violenza




Lo scorso 20 dicembre si è tenuto, a Milano, il congresso dell'estrema destra, di Alba dorata.

Lo stesso giorno si è tenuta, davanti alla sede della Camera del Lavoro, una manifestazione per dire No al razzismo e a tutte le altre forme di violenza.

Ecco il video, per voi milanesi e non.



Jimmy's Hall - Una storia d'amore e libertà







Ken Loach è tornato. Non solo il suo ultimo film nelle sale cinematografiche, ma il suo Cinema impegnato e sociale, la sua poetica graffiante e qui dolce allo stesso tempo, il suo sguardo sui valori più alti, come quelli della Libertà e dell'Amore, citati nella traduzione italiana del titolo: Jimmy's Hall – Una storia d'amore e libertà.

Loach lavora ancora con il suo fidato sceneggiatore, Paul Laverty, e insieme raccontano una storia realmente accaduta, poi trasposta in opera teatrale e adesso in film. Si tratta della vicenda di Jimmy Gralton che, tra gli anni '20 e '30 diventò leader sindacale e politico. Era comunista, Gralton, ma un comunismo basato sulla convinzione sincera di uno spirito solidale e attento alle necessità dei più deboli.

Il film è ambientato nell'Irlanda del 1932, poco anni più tardi rispetto alla guerra d'Indipendenza dalla Gran Bretagna, dove si respira ancora l'afflato della possibilità di scelta e lo spirito rivoluzionario anche se le speranze di tanti sono state disilluse dal governo di Eamon de Valera. E proprio per ribellarsi alle vessazioni della Chiesa cattolica e dei grandi proprietari terrieri, Gralton ricorda agli appartenenti alla classe operaia quali sono i loro diritti e per cosa devono continuare a lottare, ma lo fa in un modo del tutto anticonvenzionale: attraverso la musica jazz e il ballo importanto dall'America. Sì, perchè Jimmy è da poco tornato da New York dove era scappato per fuggire alla violenza di O'Keefe, il capo dell'Ira, l'esercito repubblicano (e non quello che decenni dopo opererà nell'Ulster).

Proprio la colonna sonora, nell'ultimo lavoro del regista britannico, diventa anch'essa protagonista: un mix di jazz e musica tradizionale irlandese, un mix – metaforico – tra Passato e Presente. Il jazz appartiene alla contemporaneità, le note sincopate fanno parte dello spirito moderno e aperto al futuro e ai cambiamenti senza, però, dimenticare la tradizione, quella che dovrebbe ricordare che tutti sono degni di rispetto e dignità, anche i poveri, i contadini, gli umili.
   
 
 
Il film è stato presentato all'ultima edizione del festival di Cannes dove Loach ha dichiarato: “ Se oggi Jimmy fosse vivo, si opporrebbe al neo-liberismo, alle lobby e alle multinazionali che controllano tutto, anche la democrazia...Gli appartenenti alla classe operaia in quel periodo erano considerati alla stregua di delinquenti, ma non era così. Erano contadini e navigatori, ma sapevano anche fare poesia e arte, danzare, ballare ed esprimere la propria coscienza politica e far valere le proprie esperienze”.

E, a proposito di poesia, Jimmy e i suoi amici leggono Yeats e la sua Canzone di Aengus il vagabondo: ” Sono invecchiato vagabondando per vallate e colline...”, rileggerla, oggi, fa venire ancora i brividi.


domenica 21 dicembre 2014

Slogan e immigrazione


18 DICEMBRE. GIORNATA DEL MiIGRANTE
GLI SLOGAN NON AIUTANO A CAPIRE E GOVERNARE LA COMPLESSITA’ DEI FENOMENI MIGRATORI

COMUNICATO
delle ONG di sviluppo e umanitarie di Link 2007-Cooperazione in Rete



La mobilità umana esiste da sempre e, in un mondo globalizzato e connesso, è destinata ad assumere dimensioni sempre più ampie. Negare questa realtà o banalizzarla, riducendola a slogan riduttivi, semplificativi, basati su chiusure e paure, non aiuta le nostre società ad affrontare e governare l’insieme delle migrazioni. Esse infatti non potranno essere fermate né dagli slogan né dalle paure. Come è accaduto, in particolare in Italia, continueranno ad essere affrontate con politiche emergenziali e di corta visione, se non viene assunta una decisa volontà politica di governarle guardandole per quello che sono: inevitabili, inarrestabili, problematiche e al tempo stesso necessarie e fonte di opportunità. Solo conoscendone e affrontandone la complessità, le migrazioni umane possono essere governate.

La rete di Ong “LINK 2007” ha diffuso, lo scorso ottobre, un approfondito
documento
che evidenzia tale complessità, con le problematicità ma anche le opportunità che possono prodursi. Il documento spazia dai fattori che causano le migrazioni ai dati sulla popolazione mondiale in rapida crescita e su quella europea in progressiva diminuzione, alle politiche internazionali ed europee finora adottate, ai differenti interessi degli Stati e dei migranti e alle opportunità che potrebbero derivarne per entrambi, al possibile ruolo degli immigrati nello sviluppo sia dei paesi di accoglienza che di quelli di origine, al decisivo ruolo della cooperazione internazionale allo sviluppo, ai fruttuosi partenariati territoriali che possono essere stabiliti tra territori e comunità nei due paesi di accoglienza e di origine.

Quest’anno, la giornata del migrante è stata preceduta dal Consiglio europeo del 12 dicembre 2014 in cui i ministri degli esteri e della cooperazione internazionale hanno definito, per la prima volta e con lungimiranza, un cammino per massimizzare l’impatto positivo delle migrazioni anche sullo sviluppo dei paesi più poveri. L’Unione Europea intende gestire al meglio i flussi migratori e la presenza dei migranti in Europa e, con lo strumento della cooperazione allo sviluppo, si propone di apportare un contributo significativo per far fronte all’instabilità economica e politica e affrontare temi quali le violazioni dei diritti umani, la fragilità, i conflitti, la vulnerabilità dell’ambiente, la disoccupazione e la povertà estrema che causano spesso l’emigrazione. Si tratta di un segnale importante, ancora limitato ma di significativa valenza politica, anche perché va decisamente nel senso di una maggiore coerenza tra le politiche europee: relazioni internazionali, migrazioni, diritti umani, ambiente, cooperazione allo sviluppo, percependo le migrazioni in modo positivo e come opportunità.

sabato 20 dicembre 2014

PERCHE'  SOSTENERCI





Cari amici,

L'Associazione per i Diritti Umani è un'associazione piccola e giovane, nata un anno e mezzo fa e già attiva a Milano e in Provincia con incontri pubblici di presentazioni di saggi, romanzi, documentari, tavole rotonde su alcuni temi inerenti ai diritti umani e civili.

E' in corso la nuova manifestazione che si intitola “D(i)RITTI al CENTRO!” di cui trovate il programma completo sul sito www.peridirittiumani.com.

Il sito è aggiornato TUTTI i GIORNI con articoli, approfondimenti, interviste e comunicazioni...

Vi chiediamo, quindi, se siete interessati e se apprezzate il nostro lavoro, di sostenerci con un piccolo contributo anche di 2 euro. A destra in alto, sulla homepage del sito, trovate la dicitura “Sostienici”: il contributo può essere dato con Paypall (facile e sicurissimo) oppure con bonifico.

I vostri contributi per noi sarebbero molto importanti per:



  • migliorare il sito
  • tradurre i post in inglese e francese
  • poter invitare relatori da altre parti di Italia e dall'estero
  • poter chiedere contributi scritti ad altri collaboratori
  • andare nelle scuole gratuitamente e coinvolgere gli studenti





Vi ringraziamo sempre per il vostro interesse !


Cristo nelle periferie con la Buona Novella


di Mohamed Ba
 
Nascerebbe qui, disse Don Gallo, guardando gli ultimi della società raccolti in preghiera.



Non capita tanto spesso di assistere a uno spettacolo in cui il ‘nome’ (e quello di Fabrizio De André indubbiamente lo è) non costituisca l’elemento catalizzatore che annulla qualsiasi altra opportunità di lettura. In questa “Buona Novella” c’è sicuramente lo spirito di Faber ma c’è anche molto di più. C’è, innanzitutto una compagine di attori tutti giovani e tutti straordinariamente vitali, efficaci, partecipi e (per utilizzare un termine onnicomprensivo) bravi. Potrebbero essere portati come esempio a tanti loro blasonati colleghi costantemente microfonati anche quando cantano sotto la doccia. Qui si canta e si recita con la propria voce e non ce n’è uno che per questo perda di efficacia. Anzi. 

La regia di Russo e Spadaro li sottopone a un tour de force che li porta dalle note di De André ai blues di Harlem senza dimenticare il canto popolare italiano ma non perdono un colpo. A Russo si deve anche un testo che prende le mosse da una frase di un altro genovese che è sempre andato in direzione ostinata e contraria: Don Gallo. Il sacerdote affermava: «Sapete dove sceglierebbe di nascere oggi? Vorrebbe nascere qui, in questo campo, tra voi nomadi, in questa periferia del mondo. E come pastori sceglierebbe proprio voi per un presepio... colorato, con il colore di chi soffre come voi, ma vive».
Il pregio però è quello di non restare rigidamente legato all’impostazione iniziale ma di svariare poi su diversi registri fino a mescolare, in una cacofonia produttrice di senso, i dialetti. Gli interrogativi dell’umanità emergono costantemente e vengono affidati a tutti i personaggi sia con riflessioni che partono dall’oggi sia collocandole in quel passato sempre presente che è scritto nei Vangeli (canonici e non). Dall’accettazione dell’Annuncio sino alla rivolta disperata davanti alla Croce dell’intensa Maria di Giulia Vecchio, la figura di Cristo viene riletta con passione e partecipazione così che la vicenda terrena di colui che era ‘venuto da molto lontano a convertire bestie e gente’ ci possa risultare nuovamente vicina.


TEATRO MENOTTI di Milano, Via Ciro Menotti, fino al 31 dicembre

venerdì 19 dicembre 2014

Appello per i siriani in Grecia



L'Associazione per i Diritti Umani aderisce al seguente appello:




Sono morti due dei giovani siriani che stanno dando vita a una protesta in piazza Syntagma, ad Atene, davanti al Parlamento greco, per affermare il loro diritto ad essere accolti in Europa, con piena libertà di residenza e di movimento. La manifestazione va avanti dal 19 novembre e coinvolge centinaia di rifugiati – uomini, donne e bambini – riuniti in presidio permanente e, quasi tutti gli adulti, in sciopero della fame. Sciopero che molti minacciano di prolungare ad oltranza. Chiedono, in sostanza, di revocare o modificare il trattato di Dublino 3 che, vincolando i richiedenti asilo al primo paese Schengen al quale si rivolgono, vieta loro di spostarsi in altri paesi Ue.




Il primo dei due giovani è stato stroncato da un infarto proprio nel corso della protesta: debilitato dallo sciopero della fame, si è sentito male e poco dopo ha cessato di vivere nell’ospedale dove era stato trasportato. Ancora più drammatica la sorte del secondo: stanco di aspettare ad Atene il permesso di raggiungere un altro paese europeo, ha tentato di passare di nascosto il confine tra Grecia e Albania attraverso i monti ma è stato ucciso dal freddo.




Sono le ultime due vittime delle barriere alzate dalla Fortezza Europa contro il diritto di migliaia di rifugiati e migranti ad essere accolti, ascoltati, aiutati, come prevede il diritto internazionale. Le ultime due delle almeno 3.600 che, dall’inizio del 2014 ad oggi, si sono registrate nel Mediterraneo, nel deserto africano, nei paesi di transito e prima sosta. Un numero enorme ma che è certamente sottostimato, perché poco o nulla si sa di quanto accade ai profughi durante la traversata del Sahara, al momento del passaggio dei vari confini statali che incontrano nel loro viaggio verso il Mediterraneo, nelle carceri e nei centri di detenzione in cui spesso vengono rinchiusi in Africa.




Il Comitato Giustizia per i Nuovi Desaparecidos esprime il suo cordoglio per queste ennesime vite innocenti spezzate e la sua totale solidarietà con i protagonisti della protesta di Atene per il rispetto dei diritti umani. E invita ad aderire all’appello lanciato da numerosi esponenti della cultura e della società civile europea ed italiana a sostenere la manifestazione in corso in piazza Syntagma.




Per aderire all’appello contattare il seguente indirizzo mail: ggabrielle65yahoo.it

Il massacro di bambini in Pakistan e l’infanticidio come arma di guerra




di Basir Ahang




Martedì 16 dicembre i Talebani hanno attacco una scuola militare in Pakistan uccidendo 132 bambini e nove persone dello staff. L'istituto si trova in Warsak Road nella zona nord occidentale di Peshawar ed è gestita dall'esercito pakistano per i bambini dei militari e dei civili.

Come affermato dagli stessi Talebani, la strage è stata pianificata in ogni dettaglio con l’obiettivo dichiarato di colpire duramente l’esercito al fine di vendicarsi dei recenti attacchi subiti dalle forze armate pakistane. In realtà la scelta di colpire una scuola non è determinata solo dal desiderio di vendetta.

Le scuole, infatti, sono da sempre state tra i principali obiettivi dei Talebani, perché un popolo istruito porterebbe all’automatica distruzione del terrorismo, il quale raccoglie i propri membri soprattutto nelle zone povere e a basso livello d’istruzione.

Durante il governo del generale Muhammad Zia-ul-Haq, ISI ”Inter-Services Intelligence” fondò poi moltissimi gruppi terroristici, come ad esempio la rete Haqqani, Lashkar-e Jhangvi e Sepahe-Sahaba per combattere contro l’India e ottenere il controllo dell’Afghanistan.

Anche il primo ministro del Pakistan Benazir Bhutto sostenne attivamente i talebani, sia politicamente che economicamente. Forse a quel tempo nessuno si sarebbe aspettato che un giorno, quegli stessi Talebani si sarebbero rivoltati contro di loro.

Negli anni ‘90 il generale Hamid Gul, capo dell’ISI, era orgoglioso di presentarsi pubblicamente come padre dei Talebani.

Oggi la bandiera del Pakistan è a mezz’asta anche al palazzo centrale dell’ISI, mentre i suoi stessi capi mantengono forti legami con i terroristi. Il Pakistan è un paese ormai fuori controllo. Il governo non è più in grado di controllare i gruppi terroristici da lui stesso creati e finanziati perché ormai i Talebani sono forti e indipendenti e hanno preso il controllo di vaste aree del paese ottendendo importanti finanziamenti da paesi come l’Arabia Saudita.

I Talebani che ieri hanno attaccato la scuola sono gli stessi che ogni giorno fanno strage di civili, tra i quali molte donne e bambini, in Afghanistan. Il Pakistan è oggi fulcro e centro di produzione del terrorismo e solo un’onesta strategia a livello internazionale potrebbe davvero cambiare le cose. Una strategia che differisca però da quella attuata in Afghanistan, dove il vero intento non era quello di cacciare i Talebani ma di proteggere gli interessi economici e politici.

In tutti i conflitti l’uccisione di bambini viene costantemente utilizzata come arma di guerra per ferire il nemico nel suo punto più debole, per mettere in ginocchio un paese distruggendone il futuro nel corpo e nello spirito. Quando nemmeno l’innocenza viene riconosciuta allora non esistono più tabù, tutto diventa possibile.

Questa è la guerra e così è sempre stata in ogni luogo del mondo, la religione in tutto questo non c’entra nulla ma viene strumentalizzata dagli stessi Talebani per obiettivi politici ed interessi economici.

giovedì 18 dicembre 2014

Crimini contro l'ospitalità. Vita e violenza nei centri per stranieri







Da poco uscito per le edizioni Il Melangolo, il saggio Crimini contro l'ospitalità. Vita e violenza nei centri per stranieri, di Donatella Di Cesare, tra politica e reportage filosofico, è un viaggio in un centro di identificazione e espulsione, quell'Ade invisibile e nascosto dove vengono relegate le scorie umane della globalizzazione. Ma il viaggio diventa occasione per riflettere sui campi per gli stranieri, sulla retorica ambigua dell' accoglienza. Dove finisce la protezione umanitaria e dove comincia il controllo poliziesco?
Il neorazzismo è la convinzione che ciascuno debba vivere nel proprio paese, la reazione alla mobilità degli esseri umani, la pretesa di bandire gli indesiderabili. Mentre mette allo scoperto il dispositivo dell'immigrazione, l'autrice indica gli effetti perversi di una politica che fa appello alla paura e si interroga sui pericoli di una democrazia che non conosce il valore della coabitazione.



L'Associazione per i Diritti Umani ha intervistato la Prof.ssa Di Cesare. La ringraziamo molto per questo suo intervento.





Lei parla, nel saggio, di “retorica ambigua dell'accoglienza”: ci può spiegare a cosa si riferisce?



Mi riferisco a quel linguaggio apparentemente benevolo con cui sono stati coperti gli abusi, sono state dissimulate le illegalità. A partire dall’inizio degli anni novanta, da quando è iniziata in Italia la cosiddetta “emergenza sbarchi” si è spacciato per azione etica l’intervento della polizia. I profughi, soccorsi in mare, accolti al centro di Lampedusa, hanno potuto poi essere spediti nei CIE. Per questo nel mio libro mi sono chiesta: in che modo il soccorso diventa pretesto per legittimare l’internamento? Perché si consegnano esseri umani, inermi e spogliati di ogni diritto, al dominio burocratico degli agenti?





Per riprendere una sua domanda: dove finisce la protezione umanitaria e dove inizia il controllo poliziesco?



Protezione umanitaria e controllo di polizia sono, a ben guardare, termini che dovrebbero essere antitetici. E invece sono stati invece saldamente uniti nel modello italiano di gestione degli “indesiderabili”. Da una politica dell’eccezione si è passati all’eccezione come politica. È così che quelle misure, che per la Costituzione sarebbero eccezionali, sono divenute ordinarie. I centri di detenzione amministrativa per stranieri sono stati apparentemente accettati come una banale norma. Quasi si trattasse di un espediente inevitabile, dettato dalle circostanze. Ma dietro la facciata di legalità affiora continuamente quella sorta di infra-diritto amministrativo che domina sovrano nei centri e che null’altro è se non arbitrio poliziesco.

Terra di emigrati, l’Italia di tutto il dopoguerra non aveva leggi che riguardassero la presenza di stranieri sul territorio nazionale. Per anni e decenni ha prevalso il diritto di polizia. Lo straniero era un sospetto da tenere sotto sorveglianza e affidare alla disciplina delle forze dell’ordine. Da allora il diritto di polizia ha improntato la legislazione e, più in generale, l’atteggiamento verso gli stranieri immigrati.

Già la legge Martelli, che ha contribuito a regolamentare il soggiorno degli stranieri, era dettata dalla logica poliziesca: prevedeva misure di contrasto all’immigrazione “illegale” mentre non considerava né i diritti umani né l’inserimento degli stranieri nella società civile. Tra esigenze di ordine pubblico e emergenza umanitaria, la legislazione che, da un decreto all’altro, si è andata sviluppando nel corso degli anni novanta, ha introdotto l’obbligo di dimora in vista di “accertamenti supplementari” per stabilire l’identità e procedere all’espulsione.

La parola “centri” compare per la prima volta nella legge Puglia che dopo l’internamento degli albanesi nello stadio di Bari mirava a disciplinare la gestione degli sbarchi; nascono di qui i centri di accoglienza, nell’ambiguità, tra assistenza e controllo.

La detenzione amministrativa degli stranieri è stata introdotta dalla legge del 6 marzo 1998, detta Turco-Napolitano. Al respingimento e all’espulsione si aggiunge la possibilità che lo straniero possa essere trattenuto, per un massimo di trenta giorni, in un “centro di permanenza temporanea” (CPT). La decisione viene attribuita al questore. Sorgono in tal modo, con un successivo cambio di acronimo, i CIE.

Com’è noto, la legge Bossi-Fini ha inasprito ulteriormente le misure contro l’immigrazione, estendendo il periodo di trattenimento nel CIE e privilegiando l’espulsione. Di fatto ha confermato la logica poliziesca, sottesa già alla legislazione precedente, affidando la “detenzione umanitaria” ai burocrati della sicurezza. I centri per identificare e espellere gli stranieri sono stati così sottratti al diritto e lasciati al controllo e alla discrezione delle forze di polizia.




Su quali basi poggia la politica della paura nei confronti degli stranieri poveri? E quali sono le conseguenze di questa politica?



La battaglia contro la criminalità, accortamente spettacolarizzata, ha assunto un rilievo smisurato rispetto ai grandi problemi sui quali dovrebbe piuttosto concentrarsi l’attenzione pubblica. Non ci si interroga sulle cause e tutto viene ridotto a drastiche prese di posizione. Così viene messo in scena un mondo suddiviso tra criminali e custodi dell’ordine. E si punto l’indice contro l’estraneo che è il sospetto, lo straniero che è il nemico, l’immigrato che è il criminale.

La difesa dell’identità territoriale passa attraverso la messa al bando di quegli “scarti” che invadono le vie delle metropoli: mendicanti molesti, lavavetri, zingari, profughi, extra-comunitari, migranti da espellere. I media, a loro volta, amplificano e drammatizzano contribuendo efficacemente alla stigmatizzazione. La lotta alla criminalità diventa spettacolo mediatico, mentre si fa labile il confine tra i “fatti di cronaca” riportati dal Tg e la trama del telefilm dove eroici detective rischiano la vita per la sicurezza di tutti. La paura cresce. Si può parlare di una politica della paura, oculatamente alimentata, effetto di una quotidiana orchestrazione mediatica.

La retorica dell’invasione va letta nel contesto di questa più ampia politica della paura. Non si tratta solo di trasformare gli stranieri – alcuni e non altri – in comodi nemici. Si tratta anche di imporre a tutti i cittadini il “noi” delle élite egemoni, preoccupate per le rivendicazioni di giustizia sociale che le migrazioni mettono in moto. Chi è dunque il noi che ha paura? È quello di chi vorrebbe occultare le disuguaglianze del mondo globalizzato rimuovendo così anche le proprie responsabilità politiche. Gli stranieri non sono infatti esclusi, ma sono invece attratti e respinti secondo un complesso dispositivo con cui si vuole governare la mobilità dei migranti e ottenere la flessibilità di tutti.





Qual è la sua opinione riguardo all'operazione “Mare Nostrum”?



Io penso che il dovere dell’ospitalità, che per secoli non è mai stato messo in discussione, sia il pilastro di una società civile. E penso anche che non si possa limitare il diritto alla mobilità di nessun essere umano. In crisi sono oggi i diritti umani che sono tutelati solo dagli stati-nazione. Chi non appartiene a uno stato, chi si trova senza cittadinanza e senza passaporto, è escluso anche dai diritti umani. Occorre in tal senso ripensare i diritti umani. E occorre inoltre interrogarsi sul razzismo. C’è chi crede che razzismo sia la convinzione che esistono le razze. Direi che il razzismo, eredità del passato ultimo europeo, è la pretesa di scegliere con chi coabitare. Su questo ho insistito nel mio libro. “Mare nostrum” è il minimo che si possa fare. Ma dopo aver salvato una vita in mare, non la si può segregare in un campo.