giovedì 30 aprile 2015

Migranti e accoglienza a Milano


L'Associazione per i Diritti Umani



in collaborazione con il Centro Asteria





PRESENTA



DIRITTI AL CENTRO:


MIGRANTI e ACCOGLIENZA A MILANO





Alla presenza di Pierfrancesco Majorino (assessore alle Politiche sociali) Caterina Sarfatti (legale presso il Comune di Milano) e LEMNAOUER AHMINE (regista)











DOMENICA 10 MAGGIO

ORE 17.30
presso



CENTRO ASTERIA
Piazza Carrara 17.1, ang. Via G. Da Cermenate (MM Romolo, Famagosta)



L’Associazione per i Diritti Umani presenta il terzo appuntamento della serie di incontri dal titolo “DiRITTI AL CENTRO”, che affronta, attraverso incontri con autori, registi ed esperti, temi che spaziano dal lavoro, diritti delle donne in Italia e all’estero, minori, carceri, immigrazione...
In ogni incontro l’Associazione per i Diritti Umani attraverso la sua vicepresidente Alessandra Montesanto, saggista e formatrice, vuole dar voce ad uno o più esperti della tematica trattata e, attraverso uno scambio, anche con il pubblico, vuole dare degli spunti di riflessione sull’attualità e più in generale sui grandi temi dei giorni nostri.

In questo incontro dal titolo MIGRANTI E ACCOGLIENZA A MILANO si affronterà il tema delle MIGRAZIONI: quali le politiche sbagliate in Europa, quali quelle locali per l'accoglienza dei migranti, profughi e dei rifugiati. Come Milano ha accolto i siriani e gli etiopi e molto altro. Presentazione del dossier “Milano, come Lampedusa?” con inserti del documentario intitolato “La trappola”.



IL DOSSIER


Migliaia di profughi attraversano il Mediterraneo per raggiungere l'Europa. Molti di loro approdano a Milano che è terra di passaggio e spazio umanitario da cui ripartire per raggiungere i Paesi desiderati. Questo libro racconta il vissuto delle fatiche, speranze, difficoltà e delle assenze di alcuni e distrazioni di altri.


PIERFRANCESCO MAJORINO

 
Pierfrancesco Majorino, politico e scrittore, è nato a Milano, città dove vive e lavora, nel 1973.
Dal 2011 è l'Assessore alle Politiche sociali e Cultura della salute della Giunta Pisapia e Vicepresidente nazionale della Rete Città sane.
E' membro dell'Assemblea nazionale del Partito Democratico.


CATERINA SARFATTI

Legale e consulente del Comune di Milano. Precedentemente ha fatto parte del Consiglio d'Europa per i rifugiati e della Fédération Internationale des Droits de l'Homme.


LEMNAOUER AHMINE

Ahmine nasce in Algeria ma vive da anni in Italia, dove si è trasferito definitivamente nel 1994. Segue corsi sul cinema e sulla TV. Dopo una lunga esperienza come pubblicitario, approda alla realizzazione di documentari per la TV, che raccontano spesso il viaggio e l'incontro. I suoi lavori sono stati premiati in vari festival nazionali e internazionali.






Festival del Cinema africano, d'Asia e America latina





Nell'anno e nei giorni in cui l'Esposizione universale viene inaugurata a Milano, parte in città anche la 25ma edizione del Festival del Cinema africano, d'Asia e America latina che si terrà dal 4 al 10 maggio in vari luoghi e spazi. Non potevano, quindi, mancare il contest fotografico dal titolo “ Il cibo più buono del mondo” e tanti altri riferimenti all'alimentazione, ma il programma della manifestazione guarda, come sempre, ad altri diritti (spesso negati) e alle condizioni di vita (o di sopravvivenza) dei popoli del sud del mondo.

Si parono le danze, il 4 maggio presso l'Auditorium San Fedele – alle 20.30, con la proiezione di Taxi Theran, il film vincitore dell'Orso d'Oro all'ultima edizione della Berlinare per poi proseguire con lungometraggi, corti e documentari che provengono, ad esempio, dalla Tunisia ( Le challat de Tunis di Kauter Ben hania, Pére di Lofti Achour), dal Marocco (L'homme au chien di Kamal Lazraq, The narrow frame of midnight di Tala Hadid), dal Perù (El sueno de Sonia di Diego Sarmiento), dal Burkina Faso (Oulinine Imdanate di Michel K. Zongo). E poi il ritorno di Raul Peck con Meurtre àu Pacot e Rachid Masharawi con Letters from Al Yarmouk.

Ma questo è solo un assaggio...Numerosi gli eventi collaterali come lo Spazio scuola con le proiezioni mattutine dedicate agli alunni delle scuole medie inferiori e superiori e gli incontri alla Casa del pane (casello di Porta Venezia) con autori, registi, esperti. Oltre alle sezioni competitive, inoltre, il festival propone la sezione Flash con anteprime e film evento;  Films that Feed, sezione realizzata in collaborazione con Acra-Ccs e dedicata ai temi dell'Expo 2015; la sezione Il Razzismo è una brutta storia in collaborazione con laFeltrinelli;
Africa Classics, 6 titoli capolavori del cinema africano restaurati dal 
World Cinema Project di Martin Scorsese, in collaborazione con Mudec - Museo delle Culture.




L'Associazione per i Diritti Umani parteciperà al festival e condurrà la presentazione della campagna #MAIPIUCIE con il regista del documantario Limbo, Matteo Calore.

L'incontro si svolgerà sabato 9 maggio, alle ore 15, presso la Casa del pane.





 

 

mercoledì 29 aprile 2015

MOSAIKON - Voci e immagini per i diritti umani





Cari lettori e cari amici,
l'Associazione per i Diritti Umani è felice di comunicarvi l'uscita di "MOSAIKON - Voci e immagini per i diritti umani" (Arcipelago edizioni), un libro in cui sono state raccolte tutte le interviste realizzate per il sito www.peridirittiumani.com durante i nostri primi due anni di attività.
L'intento è quello di proporre un testo - cartaceo e fruibile - ricco di notizie e approfondimenti. L'idea nasce, infatti, dagli atlanti di una volta grazie ai quali si poteva viaggiare...stando fermi: "MOSAIKON" permette ai lettori di muoversi nella geopolitica, all'interno dei nuovi assetti sociali e religiosi, tra le vite quotidiane di uomini - donne - bambini e di rimanere aggiornati sulla Storia contemporanea, sulla politica estera e sui grandi temi dell'attualità.
Crediamo che il testo possa essere utilizzato anche come strumento didattico, come punto di partenza per ulteriori ricerche, e per la ricchezza sitografica, bibliografica e per i rimandi dei contenuti.
Cogliamo l'occasione per ringraziare tutti coloro che ci hanno accordato le interviste, aiutandoci a dare voce a chi non ce l'ha; Basir Ahang per la sua importante prefazione; gli amici e Luciano che hanno creduto in questa avventura e in questo progetto editoriale.


Per l'acquisto della copia potete scrivere una mail all'indirizzo: peridirittiumani@gmail.com con il vostro nome/cognome/indirizzo compreso di CAP e ve la invieremo subito per posta.
Potete effettuare il pagamento (di euro 12,50) con PAYPALL, BONIFICO o CARTA DI CREDITO. Sarebbe anche un bel modo per sostenerci ! Grazie!

martedì 28 aprile 2015

Ad un anno dal rapimento delle studentesse nigeriane da parte di Boko Haram



Pochi giorni fa, il 14 aprile scorso, è ricorso l'anniversario del rapimento delle studentesse nigeriane da parte di Boko Haram, ma pochi hanno riportato la notizia e sembra che l'interesse verso questa grave situazione sia scemato nel corso del tempo.



L'Associazione per i Diritti Umani ha intervistato il giornalista Lorenzo Simoncelli che ha avuto occasione di parlare con alcune delle ragazze che sono riuscite a scappare dai rapitori. Ringraziamo moltissimo Simoncelli per il tempo che ci ha dedicato e per le notizie che ci ha voluto fornire.





Come si è preparato e organizzato per questo viaggio?



Rispetto agli altri viaggi professionali, c'è stato da limare tutto l'aspetto legato alla sicurezza. Sono andato nel Nord Est del Paese, cioè nella parte più colpita da Boko Haram, e mi sono appoggiato ad una mozione diplomatica che è stata portata avanti dall'ambasciata svizzera e, una volta in loco, ho avuto il supporto tecnico-logistico dell'American University di Yola, l'unica realtà accademica internazionale nella zona del Nord Est che mi ha facilitato fornendomi le “stringhe”: i traduttori, gli autisti e una sicurezza fisica con guardie personali.

Ventuno delle ragazze rapite sono all'interno dell'università di Yola: ho avuto la possibilità di conoscere il Rettore - una professoressa della California - e ho avuto l'accesso all'incontro con quattro ragazze, nello scorso mese di febbraio, durante il periodo delle elezioni.


Qual è la situazione attuale in Nigeria?

 

La situazione è di caos calmo. La Nigeria è, in realtà, un continente. Non è enorme per quanto riguarda la superficie, però è un Paese con 180 milioni di abitanti e il PIL di Lagos comprende, da solo, 19 Stati africani.

C'è una netta separazione tra Nord e Sud: un Nord poverissimo, arido e prevalentemente musulmano e un Sud di varie confessioni cristiane, più ricco, con una Lagos con un neoliberismo totale e una roccaforte petrolifera, nel delta del Niger, in cui, secondo me, ci saranno i problemi maggiori perchè ci sono dei guerriglieri che negli anni passati sono stati artefici di molti rapimenti soprattutto di imprenditori stranieri e che, nel 2009, hanno siglato questo tacito accordo con il governo (in carica fino a maggio) in cui dicevano: “Voi ci date parte delle royalties dell'estrazione del petrolio e in cambio noi stiamo tranquilli”. Questo “patto”, con la vittoria di Muhammadu Buhari, rischia di saltare.

Buhari, inoltre, ha più di settant'anni, non si parlava di lui da tanto tempo, è per la dissciplina ferrea, ma è sembrato l'uomo giusto perchè il precedente governo è stato caratterizzato da una fortissima corruzione, considerando anche che durante la dittatura militare sono state uccise tante persone, è stata applicata una dura censura giornalistica e sono stati incarcerati anche alcuni politici. Ho paura, quindi, che sia stato fatto un voto di protesta, mirato ad abbattere la corruzione e a tenere sotto controllo i guerriglieri, attraverso la disciplina (perchè è stato un generale), recuperando anche un esercito.

 

Prima di essere rapite, dove vivevano le ragazze? In che condizioni le hai trovate?

 

Le ragazze vivevano a Chibok, città in uno dei tre Stati più colpiti da Boko Haram, nel Nord Est. Si tratta di una zona desertica, dove non c'è nulla: hanno vite semplicissime, in condizioni precarie e caldo terribile. Ci sono scuole che, in realtà, sono costruzioni fatiscenti. Le ragazze sono cristiane in un posto in cui la popolazione è al 97% musulmana.

Prima del rapimento, le ragazze andavano a scuola al mattino, al pomeriggio si dedicavano alla famiglia, cucinavano insieme alle madri e lavoravano nei campi. Non erano mai uscite dal villaggio e non sapevano nulla di quello che passa nel mondo.

Io dico che la ragazze con cui ho parlato, hanno avuto la “sorte” di fuggire dai rapitori. Appena i guerriglieri sono entrati nella scuola: alcune sono riuscite a scappare dalla finestra; due sorelle, appena caricate sui sette camion dei guerriglieri, sono scappate in corsa; altre sono riuscite a venire via dai campi di Boko Haram nelle prime ore del mattino. 


La sorella di una delle ragazze rapite lavorava come guardia di sicurezza all'interno dell'università americana ed è riuscita a sapere che sua sorella era riuscita a scappare: ho chiesto,quindi, al Rettore se si poteva fare qualcosa e, tramite un lavoro di squadra anche con il Senato, sono riuscite ad ottenere un fondo di circa 50.000 dollari per creare delle borse di studio. Da Yola al luogo dove sono state rapite, ci sono circa tre ore di autobus: il rettore dell'università ha mandato la ragazza della sicurezza a Chibok che ha iniziato a parlare con le famiglie delle studentesse, famiglie spaventate e che avevano paura di mandare le ragazze in una realtà occidentale anche perchè “Boko Haram” significa proprio “contro l'istruzione, contro l'educazione”. Sono riusciti a convincere alcune famiglie, i genitori che hanno dato il permesso di andare all'università americana sono scappati e vivono in altri Stati. Le ragazze sono state portate via dai villaggi, scortate dalle guardie del corpo e si sono presentate ad una rotonda, senza sapere chi sarebbe andato a prenderle, con un sacchetto di palstica che era tutto il loro bagaglio e senza scarpe. Uno dei padri di queste ragazze aveva due figlie, entrambe rapite: all'inizio le borse di studio erano dieci e questo padre si è trovato a dover scegliere tra le due figlie. Quando, arrivate alla rotonda, è stata fatta la conta, l'uomo ha preso due fogli di carta e ha fatto un sorteggio: di fronte a questa immagine, il Rettore ha concesso una borsa di studio in più.

Quando sono entrate nell'università, una di loro con cui ho parlato, mi ha detto: “Pensavo di essere stata addormentata e di trovarmi negli Stati Uniti perchè non ho mai visto delle strutture del genere”: questo è stato il loro primo shock.il secondo è stato quello della lingua perchè parlavano solo il dialetto locale. Tutti gli operatori dell'università sono stati molto bravi a prendersi cura di loro, anche a livello educativo: le ragazze hanno giornate piene di lezioni, sono molto attive e una di loro vorrebbe fare il pilota...Oggi usano Internet anche se fino a un anno fa non sapevano cosa fosse un computer, ma non accettano il counceling psicologico e cercano di farcela da sole. E' anche vero che sono le meno traumatizzate perchè non hanno vissuto la prigionia e le torture, resta il trauma del rapimento e tra noi c'era un patto: non parlarne troppo.

Molte di loro vogliono tornare a Chibok per migliorare la realtà locale e questo mi ha colpito: vogliono creare fondazioni, senza negare la realtà e nonostante siano ancora adolescenti.

 

Ci sono notizie delle studentesse ancora in mano a Boko Haram?


Poco fa (14 aprile 2015) ho parlato con un giornalista nigeriano, che ha molti contatti con Boko Haram e la verità assoluta non c'è. Ci sono due correnti di pensiero: una sostiene che sono morte (tesi sostenuta anche dall'ONU) e l'altra sostiene, invece, che per un qualsiasi gruppo terrorista (e Boko Haram si trova in mezzo al nulla, con poche fonte di approvvigionamento) avere 200 ragazze come ostaggi che tutto il mondo rivuole, rappresenta una enorme possibilità di scambio e io sono più per questa seconda ipotesi. Altri ancora sostengono che, quando Buhari diventerà presidente (il prossimo 29 maggio), ci sarà un colpo di scena e sarà proprio quello della liberazione delle ragazze.

Tre settimane fa sono state viste circa 50 studentesse ancora in vita ma, ripeto, la verità non la conosce ancora nessuno.

lunedì 27 aprile 2015

Quei ragazzi divorati in mezzo al mare dalla nostra indifferenza


di Igiaba Scego    (da Internazionale, 20-04-2015)


 
 

Mio padre e mia madre sono venuti in Italia in aereo.

Non hanno preso un barcone, ma un comodo aeroplano di linea.

Negli anni settanta del secolo scorso c’era, per chi veniva dal sud del mondo come i miei genitori, la possibilità di viaggiare come qualunque altro essere umano. Niente carrette, scafisti, naufragi, niente squali pronti a farti a pezzi. I miei genitori avevano perso tutti i loro averi in un giorno e mezzo. Il regime di Siad Barre, nel 1969, aveva preso il controllo della Somalia e senza pensarci due volte mio padre e poi mia madre decisero di cercare rifugio in Italia per salvarsi la pelle e cominciare qui una nuova vita.

Mio padre era un uomo benestante, con una carriera politica alle spalle, ma dopo il colpo di stato non aveva nemmeno uno scellino in tasca. Gli avevano tolto tutto. Era diventato povero.

Oggi mio padre avrebbe dovuto prendere un barcone dalla Libia, perché dall’Africa se non sei dell’élite non c’è altro modo di venire in Europa. Ma gli anni settanta del secolo scorso erano diversi. Ho ricordi di genitori e parenti che andavano e venivano. Avevo alcuni cugini che lavoravano nelle piattaforme petrolifere in Libia e uno dei miei fratelli, Ibrahim, che studiava in quella che un tempo si chiamava Cecoslovacchia. Ricordo che Ibrahim a volte si caricava di jeans comprati nei mercati rionali in Italia e li vendeva sottobanco a Praga per mantenersi agli studi. Poi passava di nuovo da noi a Roma e quando era chiusa l’università tornava in Somalia, dove parte della famiglia aveva continuato a vivere nonostante la dittatura.

Se dovessi disegnare i viaggi di mio fratello Ibrahim su un foglio farei un mucchio di scarabocchi. Linee che uniscono Mogadiscio a Praga passando per Roma, alle quali dovrei aggiungere però delle deviazioni, delle curve. Mio fratello infatti aveva una moglie iraniana e viaggiavano insieme. Quindi c’era anche Teheran nel loro orizzonte e tanti luoghi in cui sono stati ma che ora non ricordo con precisione.

Mio fratello, da somalo, poteva spostarsi. Come qualsiasi ragazzo o ragazza europea. Se dovessi disegnare i viaggi di un Marco che vive a Venezia o di una Charlotte che vive a Düsseldorf dovrei fare uno scarabocchio più fitto di quello che ho fatto per mio fratello Ibrahim. Ed ecco che dovrei disegnare le gite scolastiche, quella volta che il suo gruppo musicale preferito ha suonato a Londra, le partite di calcio del Manchester United, poi le vacanze a Parigi con la ragazza o il ragazzo, le visite al fratello più grande che si è trasferito in Norvegia a lavorare. E poi non vai una volta a vedere New York e l’Empire State Building?

Per un europeo i viaggi sono una costellazione e i mezzi di trasporto cambiano secondo l’esigenza: si prende il treno, l’aereo, la macchina, la nave da crociera e c’è chi decide di girare l’Olanda in bicicletta. Le possibilità sono infinite. Lo erano anche per Ibrahim, nonostante la cortina di ferro, anche nel 1970. Certo non poteva andare ovunque. Ma c’era la possibilità di viaggiare anche per lui con un sistema di visti che non considerava il passaporto somalo come carta igienica.

Oggi invece per chi viene dal sud del mondo il viaggio è una linea retta. Una linea che ti costringe ad andare avanti e mai indietro. Si deve raggiungere la meta come nel rugby. Non ci sono visti, non ci sono corridoi umanitari, sono affari tuoi se nel tuo paese c’è la dittatura o c’è una guerra, l’Europa non ti guarda in faccia, sei solo una seccatura. Ed ecco che da Mogadiscio, da Kabul, da Damasco l’unica possibilità è di andare avanti, passo dopo passo, inesorabilmente, inevitabilmente.

Una linea retta in cui, ormai lo sappiamo, si incontra di tutto: scafisti, schiavisti, poliziotti corrotti, terroristi, stupratori. Sei alla mercé di un destino nefasto che ti condanna per la tua geografia e non per qualcosa che hai commesso.

Viaggiare è un diritto esclusivo del nord, di questo occidente sempre più isolato e sordo. Se sei nato dalla parte sbagliata del globo niente ti sarà concesso. Oggi mentre riflettevo sull’ennesima strage nel canale di Sicilia, in questo Mediterraneo che ormai è in putrefazione per i troppi cadaveri che contiene, mi chiedevo ad alta voce quando è cominciato questo incubo, e guardando la mia amica giornalista-scrittrice Katia Ippaso ci siamo chieste perché non ce ne siamo rese conto.

È dal 1988 che si muore così nel Mediterraneo. Dal 1988 donne e uomini vengono inghiottiti dalle acque. Un anno dopo a Berlino sarebbe caduto il muro, eravamo felici e quasi non ci siamo accorti di quell’altro muro che pian piano cresceva nelle acque del nostro mare.

Ho capito quello che stava succedendo solo nel 2003. Lavoravo in un negozio di dischi. Erano stati trovati nel canale di Sicilia 13 corpi. Erano 13 ragazzi somali che scappavano dalla guerra scoppiata nel 1990 e che si stava mangiando il paese. Quel numero ci sembrò subito un monito. Ricordo che la città di Roma si strinse alla comunità somala e venne celebrato a piazza del Campidoglio dal sindaco di allora, Walter Veltroni, un funerale laico. Una comunità divisa dall’odio clanico quel giorno, era un giorno nuvoloso di ottobre, si ritrovò unita intorno a quei corpi. Piangevano i somali accorsi in quella piazza, piangevano i romani che sentivano quel dolore come proprio.

Ora è tutto diverso.

Potrei dire che c’è solo indifferenza in giro.

Ma temo che ci sia qualcosa di più atroce che ci ha divorato l’anima.

L’ho sperimentato sulla mia pelle quest’estate ad Hargeisa, una città nel nord della Somalia.

Una signora molto dignitosa mi ha confessato, quasi con vergogna, che suo nipote era morto facendo il tahrib, ovvero il viaggio verso l’Europa.

“Se l’è mangiato la barca”, mi ha detto. La signora era sconsolata e mi continuava a ripetere: “Quando partono i ragazzi non ci dicono niente. Io quella sera gli avevo preparato la cena, non l’ha mai mangiata”. Da quel giorno spesso sogno barche con i denti che afferrano i ragazzi per le caviglie e li divorano come un tempo Crono faceva con i suoi figli. Sogno quella barca, quei denti enormi, grossi come zanne di elefante. Mi sento impotente. Anzi, peggio: mi sento un’assassina perché il continente, l’Europa, di cui sono cittadina non sta alzando un dito per costruire una politica comune che affronti queste tragedie del mare in modo sistematico.

Anche la parola “tragedia” forse è fuori luogo, ormai dopo venticinque anni possiamo parlare di omicidio colposo e non più di tragedie; soprattutto ora dopo il blocco da parte dell’Unione Europea dell’operazione Mare Nostrum. Una scelta precisa del nostro continente che ha deciso di controllare i confini e di ignorare le vite umane.

Nessuno di noi è sceso in piazza per chiedere che Mare Nostrum fosse ripresa. Non abbiamo chiesto una soluzione strutturale del problema. Siamo colpevoli quanto i nostri governi. Non a caso Enrico Calamai, ex viceconsole in Argentina ai tempi della dittatura, l’uomo che salvò molte persone dalle grinfie del regime di Videla, sui migranti che muoiono nel Mediterraneo ha detto: “Sono i nuovi desaparecidos. E il riferimento non è retorico e nemmeno polemico, è tecnico e fattuale perché la desaparición è una modalità di sterminio di massa, gestita in modo che l’opinione pubblica non riesca a prenderne coscienza, o possa almeno dire di non sapere”.



domenica 26 aprile 2015

Medioriente e Occidente: un equilibrio possibile?

Vi aspettiamo oggi , alle 17.30, per la conferenza della giornalista LAURA SILVIA BATTAGLIA che ci parlerà di Islam, Medioriente, informazione e stampa,  traffico di bambini...e molto altro ancora!
 
Presso il Centro Asteria a Milano: Piazza Carrara 17.1

Politiche migratorie: gli errori fatali dell'Europa e dell'Italia




Cari lettori, oggi vi proponiamo il video dell'incontro che l'Associazione per i Diritti Umani ha organizzato con l'Avv. Alessandra Ballerini e Edda Pando sui temi delle migrazioni. Siamo partiti dal saggio intitolato Storie di migranti e di altri esclusi, per le edizioni Melampo, per approfondire quali sono i problemi, le falle e le scelte sbagliate, in termini di politiche migratorie, che hanno portato anche all'ultimo naufragio nel Mediterraneo in cui hanno perso la vita tanti, troppi migranti. Anche bambini.
 
 




L'Associazione per i Diritti Umani organizza e conduce questi incontri anche nelle scuole medie inferiori e superiori e nelle università.



Per informazioni, scrivere a: peridirittiumani.com

sabato 25 aprile 2015

Milano: medaglia d'oro per la Resistenza

Oggi, 25 aprile 2015, Milano ci ha fatti sentire orgogliosi di  appartenere a questa città: per il 70mo anniversario della Liberazione, tanti, tantissimi sono scesi in piazza. Una manifestazione, nel primo tratto, composta e rispettosa poi, via via sempre più musicale e colorata. Bandiere, striscioni, cartelli, facce, sorrisi, colori. Questi sono i milanesi, gli stranieri, gli italiani che vogliamo vedere: di tutte le età, di tutte le nazionalità, di tutti i generi, di tutte le estrazioni INSIEME per ricordare un Passato che ha posto le basi per la nostra vita e per i valori di libertà, giustizia e democrazia.
C'eravamo anche noi e diamo la nostra testimonianza di questo bel momento di partecipazione con le nostre immagini, ringraziando chi c'era e chi non  ha potuto esserci. E le dedichiamo a chi, oggi, si trova su altri fronti di resistenza.

 
 




 
 














 




Freedom, Equality, Secularism: ecco la nostra cultura



di Monica Macchi


Per celebrare i 20 anni di Marea, “rivista femminista”, è stato organizzato a Genova un seminario pubblico sulla laicità come arma per lottare contro tutti i fondamentalismi che si basano sull’asse patriarcato-uso politico della religione. Sono intervenute Marieme Helie Lucas (sociologa algerina fondatrice della rete Wluml, Women Living Under Muslim Laws), Nadia Al Fani (regista tunisina di “Laicitè, inshallah”), Maryam Namazie (iraniana fondatrice di One law for all) e Inna Shevchenco (leader ucraina di Femen).








Marieme Helie Lucas ha posto l’accento su due fenomeni contigui ma non esattamente sovrapponibili cioè la crescita dell’estrema destra xenofoba e dell’estrema destra religiosa dove Islam e Cristianesimo hanno gli stessi valori e le stesse rivendicazioni (come dimostrato ad esempio alla conferenza di Rio+20 quando l’OIC-Organizzazione per la Cooperazione Islamica e la Santa Sede si sono alleati contro il paragrafo 244 sui diritti di riproduzione). Spesso le forze progressiste in Europa giustificano il fondamentalismo islamico dicendo che “bisogna rispettare la loro cultura” ma non esiste un’unica cultura musulmana ed inoltre cultura e religione non sono sinonimi: per questo bisogna decidere con chi dialogare. E’ un suicidio politico lasciare che le risposte della destra estrema siano le uniche risposte possibili anche perché c’è il rischio di abbandonare la nozione di universalismo e cittadinanza per approdare al comunalismo dove i diritti diversi in base alla comunità di appartenenza: solo la laicità può dunque garantire democrazia ed uguaglianza di fronte alla legge. Inoltre la sinistra deve capire di sostenere le forze progressiste perché solo insieme possiamo cambiare la narrazione sulle donne: così l’intervento di Maryam Namazie si è incentrato sulla vicenda di Farkhondeh accusata di aver bruciato il Corano e per questo aggredita e lapidata a Kabul da una folla inferocita. Ebbene in Occidente si è parlato pochissimo di questa storia ma ancor meno della resistenza delle donne che dopo aver protestato hanno portato a spalle la bara in modo che nessun altro uomo la toccasse, hanno marciato intorno alla bara, hanno intonato canti e quando il Mullah che ha giustificato l’omicidio ha intonato la preghiera gli hanno impedito di avvicinarsi e l’hanno costretto ad andarsene. Ma la resistenza delle donne ha avuto altri risultati, ad esempio suo fratello Najibullah ha preso come secondo nome Farkhondeh; le è stata intitolata la strada in cui è stata uccisa e ci sono stati 28 arrestati e 13 poliziotti sospesi.




Inna Shevchenco ha parlato del termine “ateo” che nell’uso corrente ha un’accezione negativa che limita la libertà di espressione oltre a concedere spazio agli estremisti: così la legge omofobica in Russia usa l’argomentazione che la propaganda gay può offendere la sensibilità dei russi. Bisogna imporre il dibattito sulla laicità riconoscendo che esistono anche gli atei e riconoscerne il valore positivo. Analogamente Nadia El-Fani nel suo film inizialmente titolato Ni Allah ni maître («Né Allah, né padroni», richiamo al motto anarchico Né Dio, né Stato, né servi, né padroni) e poi, dopo le minacce di morte cambiato in Laïcité, Inch’Allah! («Laicità, se Dio vuole!») tocca un tema chiave dell’agenda politica tunisina, cioè il riconoscimento di pieni diritti per i fedeli di tutte le religioni ma anche per gli atei. La richiesta fondamentale è la separazione tra diritto e religione per evitare, come succede invece in Marocco, di essere arrestati se non si rispetta pubblicamente il digiuno durante il Ramadan.

Trailer del film https://www.youtube.com/watch?v=SDPz0UcaMVM

venerdì 24 aprile 2015

I bambini sanno: domande e risposte semplici e vere...dai più piccoli

 
 





Il nuovo documentario di Walter Veltroni, dal titolo I bambini sanno, è appena uscito nelle sale cinematografiche e fa riflettere il fatto che un uomo, adulto, padre e con un ruolo pubblico importante si ponga all'altezza di bambino per cercare risposte e domande. Gli occhi, le espressioni, i gesti delle bimbe e dei bimbi riportano tutto ad una dimensione più umana, vera, genuina.

Un lavoro interessante perchè affronta temi seri e universali, ma anche perchè li dipana senza infrastrutture ideologiche. Dare voce ai piccoli è come ritornare ad un terreno incontaminato, da dove si può ripartire per un futuro migliore.


L'Associazione per i Diritti Umani ha rivolto alcune domande a Walter Veltroni e lo ringrazia per questa opportunità.




Da quale assunto nasce il soggetto di questo documentario?

 

Sono sempre stato molto affascinato dai bambini. Mi piace la loro purezza, il loro modo di vedere le cose. Si pongono tantissime domande. Anch’io lo ricordo sulla mia pelle, quando ero piccolo e mi ritrovavo la notte da solo nella mia stanza al buio, quello era il momento delle domande, la vita, la morte, la religione…Mi interessava capire come ci vedono i bambini, come vedono il nostro paese oggi.



Dove ha incontrato i bimbi che ha ripreso e perché la scelta di parlare con gli adulti e i cittadini di domani?


Abbiamo visto 350 bambini in tutta Italia, alla fine ho scelto trentanove bambini dagli 8 ai 13 anni. In quella fascia d’età si interrogano su tutto poi, dopo i 13 anni, cominciano a darsi anche le risposte, per questo mi interessavano i bambini proprio di questa età. Sono all’avvio della vita, sono puri ma, allo stesso tempo, hanno una grande profondità.



Certo che ha posto loro domande impegnative...da qui il titolo del documentario: ce lo vuole spiegare?



Per il titolo sono partito da una citazione di Saint Exupéry: “I grandi non capiscono mai niente da soli e i bambini si stufano di spiegargli tutto ogni volta.” Ho scelto il titolo prima di girare le interviste ma dopo ho capito che era giusto, che funzionava. Ho posto delle domande su temi complessi, la crisi, la religione, l’amore, l’omosessualità. I bambini hanno un loro sguardo su tutto, rispondono con grande semplicità ma, allo stesso tempo, le loro affermazioni sono dirette, efficaci, sorprendenti, oneste.

 

Interessante che un uomo adulto si confronti con i più piccoli: quale può essere, o dovrebbe la comunicazione oggi tra generazioni diverse?



Credo che oggi ci sia poca comunicazione fra generazioni. Prendiamo il caso dei bambini, noi adulti non li ascoltiamo mai veramente e invece loro hanno una grande quantità di cose da dire. Nelle interviste del film mi pare si siano sentiti liberi, ascoltati davvero. Se prendevano una strada, li seguivo, andavo insieme a loro. A parte la timidezza iniziale, erano a loro agio, nelle loro stanze mi hanno raccontato anche cose che non avevano mai detto a nessuno.

La comunicazione fra generazioni diverse ci aiuta a capirci meglio. Una bambina, dopo aver visto il film ha detto: “Spero di portarci i miei genitori così mi capiranno meglio.” Questa frase ci ha colpito a tal punto che abbiamo deciso di metterla sul manifesto del film.


C'è un messaggio che vuole mandare, attraverso questo suo ultimo lavoro, a chi come lei si occupa di politica?


Direi che bisogna saper ascoltare e sapere quanto bisogno ci sia di comunità oggi.




giovedì 23 aprile 2015

Nomadi per forza: l'ultimo rapporto del Naga




Mentre Salvini dichiara di voler spianare i campi rom, l'Associazione per i Diritti Umani ha intervistato Norina Vitali del Naga, in occasione dell'uscita dell'ultimo rapporto dell'associazione, intitolato “Nomadi per forza: indagine sull'applicazione delle linee guida Rom, Sinti e Caminanti del Comune di Milano”.



 



Come avete raccolto i dati per questa indagine?



Abbiamo iniziato questa indagine nel marzo 2013 e l'abbiamo terminata alla fine di settembre 2014. “Medicine di strada” è uno dei gruppi del Naga ed è un camper che esce sul territorio per dare assistenza sanitaria e, negli ultimi dieci anni, si è concentrato sui cmpi irregolari rom.

Per l'indagine abbiamo realizzato delle interviste alle famiglie che sono passate attraverso i Centri di Emergenza sociale (CES) di prima accoglienza, istituiti dopo che sono state approvate le linee guida dal Comune, nel novembre del 2012. in questi centri vengono accolte le famiglie rom sgomberate: però non tutte, perchè i centri possono accogliere 270 persone in totale, ma le persone sgomberate sono molte di più. C'è stato, comunque, un cambiamento: mentre con la precedente amministrazione, dopo gli sgomberi, le persone non venivano accolte in alcun modo, ora ci sono questi centri che accolgono uomini, donne e bambini.

Le interviste sono state fatte anche agli enti gestori e all'assessore Granelli e al suo staff, l'assessorato alla sicurezza.



Quali sono gli stereotipi e i pregiudizi che ancora sussistono nei confroti di queste etnie?



Ci accorgiamo che ce ne sono tantissimi, anche guardando dentro noi stessi. La situazione dei Rom è la cartina di tornasole della democrazia di un Paese. Sono stata insegnante per quarant'anni e, quando sono andata in pensione, ho deciso di lavorare con i Rom e, nonostante la mia famiglia fosse di sinistra, ho litigato con mio padre ed è stato proprio a causa di questa scelta.

Granelli e Majorino (assessore alle Politiche sociali) hanno detto di dover trattare questa questione come se i Rom fossero dei senzatetto, come qualsiasi altra persona, ma è anche vero che i Rom sono davvero un popolo con abitudini diverse dalle nostre, con le proprie tradizioni ed è un'etnia che va riconosciuta. Alcuni aspetti della loro cultura non li condivido, ma va data loro la possibilità di esistere.



Quali sono le risorse messe in campo a livello locale?  
 
 



Poco dopo l'approvazione delle linee guida, nel 2013, c'è stata una riunione tra il Comune e la Prefettura per decidere come finanziarle ed è stato deciso di utilizzare i fondi rimasti dei famosi 13 milioni del piano Maroni “Emergenza nomadi”. Di quel denaro, stanziato per Milano, erano rimasti circa 5 milioni e la differenza è stata spesa dall'amministrazione precedente per attuare gli sgomberi.

Al di là delle condizioni in cui si buttano le persone che vengono sgomberate, fare gli sgomberi costa e non è efficace: le persone non si possono eliminare (come è successo durante il nazismo), quindi si spostano, si disperdono e formano altri insediamenti. E il problema non si risolve mai.

L'attuale amministrazione ha continuato con gli sgomberi e ha creato i cenri di emergenza sociale che sono una soluzione temporanea. I Rom che possono o accettano di entrarci, possono rimanere per un periodo limitato.



Quali sono le restrizioni e, una volta scaduto questo periodo, cosa succede?



Una volta scaduto il periodo ritornano sul territorio.

Per entrare nei CES i Rom devono firmare un contratto che, in realtà, è un elenco di regole da rispettare, scritto in italiano. Consideriamo che spesso i Rom di una certa età o sono analfabeti o non conoscono la lingua italiana. Questo regolamneto è rinnovabile di 40 giorni in 40 giorni per un periodo massimo di 200 giorni. All'interno dei CES (di Garibaldi e Lombroso) non c'è privacy, dormoni in stanzoni comuni di 20-30 persone proprio perchè questa non deve essere considerata una soluzione abitativa fissa.

Ci sarebbe, poi, la possibilità di intraprendere percorsi di inclusione lavorativa e scolastica: ottima intenzione sulla carta, ma per tutte le persone che sono passate dai CES (dall'aprile 2013 alla fine del nostro reporto, nel 2014) in realtà solo 9 progetti sono andati a buon fine e i lavori erano sempre stagionali, sul breve periodo e la maggioranza veniva pagata in nero. Infine, delle 43 persone che si sono trovate a lavorare molte hanno dichiarato di essere romeni e non Rom proprio a causa dei pregiudizi ancora in corso nei loro confronti.

mercoledì 22 aprile 2015


L'Associazione per i Diritti Umani



in collaborazione con il Centro Asteria





PRESENTA



DIRITTI AL CENTRO:


MEDIORIENTE e OCCIDENTE: un EQUILIBRIO POSSIBILE ?



Alla presenza di Laura Silvia Battaglia (giornalista e videomaker)



DOMENICA 26 APRILE



ORE 17.30

presso



CENTRO ASTERIA

Piazza Carrara 17.1, ang. Via G. Da Cermenate (MM Romolo, Famagosta)



L’Associazione per i Diritti Umani presenta il terzo appuntamento della serie di incontri dal titolo “DiRITTI AL CENTRO”, che affronta, attraverso incontri con autori, registi ed esperti, temi che spaziano dal lavoro, diritti delle donne in Italia e all’estero, minori, carceri, immigrazione...

In ogni incontro l’Associazione per i Diritti Umani attraverso la sua vicepresidente Alessandra Montesanto, saggista e formatrice, vuole dar voce ad uno o più esperti della tematica trattata e, attraverso uno scambio, anche con il pubblico, vuole dare degli spunti di riflessione sull’attualità e più in generale sui grandi temi dei giorni nostri.



In questo incontro dal titolo “Medioriente e Occidente: un equilibrio possibile?si parlerà di Medioriente attraverso l'approfondimento della giornalista Laura Silvia Battaglia che – attraverso le sue opere scritte e documentaristiche – proporrà un viaggio dall'Iraq allo Yemen. Laura Silvia Battaglia vive e lavora tra Italia e Yemen. Gli argomenti saranno tanti: equilibri geopolitici, condizioni di vita delle popolazioni in guerra, Islam religioso e politico e il ruolo dell'informazione.





LAURA SILVIA BATTAGLIA



Laura Silvia Battaglia giornalista professionista freelance e documentarista, è nata a Catania e vive tra Milano e Sanaa (Yemen). Corrisponde da Sanaa per l'agenzia video-giornalistica americano-libanese Transterra Media, e per gli americani The Fair Observer e Guernica Magazine. Per i media italiani, collabora stabilmente con quotidiani di carta stampata (Avvenire, La Stampa), network radiofonici (Radio Tre Mondo, Radio Popolare, Radio In Blu), televisione (TG3 - Agenda del mondo, Rai News 24), magazine (D - Repubblica delle Donne, Popoli, Lookout), agenzie (Redattore Sociale), siti web (TGcom 24, Lettera43, Assaman). Ha iniziato a lavorare nel 1998 per il quotidiano La Sicilia di Catania. Dal 2007 si dedica al reportage in zone di conflitto (Libano, Israele e Palestina, Gaza, Afghanistan, Kosovo, Egitto, Tunisia, Libia, Iraq, Iran, Yemen, confini siriani). Ha girato, autoprodotto e venduto cinque video documentari. Il primo, Maria Grazia Cutuli. Il prezzo della verità, ha vinto il Premio Giancarlo Siani 2010. Ha inoltre ricevuto il Premio Maria Grazia Cutuli 2013 come giornalista siciliana emergente. Dal 2007 insegna al master in Giornalismo dell'Università Cattolica di Milano.


Armenia: tra le polemiche, noi parliamo di cultura



Da quando Papa Francesco, in occasione della Santa Messa, ha ricordato la Storia del XX secolo, affermando che per il popolo armeno si deve parlare di genocidio, si sono scatenate le polemiche e la diplomazia. Durante la celebrazione il Pontefice ha detto: “ Anche oggi avvengono genocidi come quello contro gli armeni...La nostra umanità ha vissuto nel secolo scorso tre grandi tragedie inaudite: la prima, quella che generalmente viene considerata come 'il primo genocidio del XX secolo; essa ha colpito il vostro popolo armeno, prima nazione cristiana, insieme ai siri cattolici e ortodossi, agli assiri, ai caldei e ai greci” e , a questa dichiarazione, si è poi aggiunta la voce del portavoce della sala stampa vaticana, Padre Lombardi, che ha voluto sottolineare che Papa Francesco: “ha fatto riferimento alla dichiarazione comune di Giovanni Paolo II e Karekin, cioè ha usato il termine genocidio mettendosi in continuità con un uso già compiuto di quella parola, ha sottolinenato la contestualizzazione storica, ricordando che era uno di tante altre cose orribili successe nel secolo scorso e che stanno succedendo ancora”.

Importante ricordare che, proprio in questi giorni, il Parlamento europeo abbia approvato una risoluzione che riconosce il genocidio degli armeni e che sia stata istituita una giornata europea del suo ricordo.

Il Presidente turco, Yayyp Recep Erdogan, risponde a tutto questo ignorando la risoluzione europea e affermando che dietro ad essa ci siano “fanatismo culturale e religioso”, nonostante la Turchia sia, dal 2005, in negoziato per l'adesione all'Unione europea.



Ma noi preferiamo parlarvi della ricca e profonda cultura armena e lo facciamo segnalandovi le fiabe di Hovhannes Tumanian.



 



Tumanian nasce alla fine dell'800 nella famiglia di un sacerdote; tutta la sua opera è legata al folklore armeno dal quale ha attinto temi e personaggi che si possono paragonare a quelli delle favole e delle fiabe europee (Nazar ricorda Don Chichotte, Il re macina assomiglia a Il gatto con gli stivali). Ma la produzione letteraria di Tumanian è molto vasta: ha scritto saggi, poesie, racconti, ballate. E' stato impegnato sempre nel sociale e il suo è stato un apporto fondamentale nell'aiuto ai sopravvissuti al genocidio.

La raccolta italiana (con testo a fronte) delle sue fiabe si intitola “Nazar il prode”, dal titolo della fiaba più famosa, ed è a cura della Sinnos editrice per la collana Zefiro. I personaggi , come sempre avviene nelle fiabe, ricalcano valori e tipi umani: il ricco e il povero, l'umile e il potente, il coraggio e la viltà, la saggezza e l'ingenuità. Le storie, le avventure e le esperienze riportano ad una cultura antica e genuina. I testi sono arricchiti dalle coloratissime illustrazioni degli alunni del Centro di Educazione Artistica della città di Erevan, capitale dell'Armenia.

La cultura (l'arte, la letteratura, la musica) è parte integrante dell'identità armena, identità che si basa principalmente sulla religione e sull'alfabeto. Ecco l'importanza dei riferimenti continui alla fede cristiana e alla lingua, scritta e parlata. In appendice al testo è possibile trovare alcune informazioni interessanti sulla cultura e sulle tradizioni di questo piccolo-grande Paese.

martedì 21 aprile 2015

La rimozione forzata della memoria



di Angelo D'Orsi (da Il Manifesto)




«Ad Auschwitz, uno dei monu­menti più note­voli tra quelli dedi­cati alle varie comu­nità degli inter­nati è il cosid­detto "Memo­riale Ita­liano"».Vogliono spostarlo da quel luogo. . Perchè no.

Ad Ausch­witz, uno dei monu­menti più note­voli tra quelli dedi­cati alle varie comu­nità degli inter­nati è il cosid­detto «Memo­riale Ita­liano». Un paio di anni or sono le auto­rità polac­che deci­sero di chiu­derlo al pub­blico, nel silen­zio del governo ita­liano, e dell’Aned, in teo­ria pro­prie­ta­ria dell’opera. Pochi mesi fa la sovrin­ten­denza del campo, ormai museo, ha deciso di pro­ce­dere alla rimo­zione del Memo­riale. La sua colpa? Quella di ricor­dare che nei lager non furono sol­tanto depor­tati e ster­mi­nati gli ebrei, ma gli slavi, i sinti, i rom, i comu­ni­sti insieme a social­de­mo­cra­tici e cat­to­lici, gli omo­ses­suali, i disa­bili. Quel Memo­riale opera egre­gia, alla cui idea­zione, su pro­getto dello stu­dio BBPR (Banfi Bel­gio­joso Perus­sutti Rogers, il pre­sti­gioso col­let­tivo mila­nese di cui faceva parte Ludo­vico Bel­gio­joso, già inter­nato a Buche­n­wald) col­la­bo­ra­rono Primo Levi, Nelo Risi, Pupino Samonà, Luigi Nono…, ha dei «torti» aggiun­tivi, come l’accogliere fra le sue tante deco­ra­zioni e sim­bo­lo­gie anche una falce e mar­tello, e una immagine di Anto­nio Gram­sci, icona di tutte le vit­time del fasci­smo.
Ora, ai gover­nanti polac­chi, desi­de­rosi di rimuo­vere il pas­sato, distur­bano quei richiami, agli ebrei il fatto che il monu­mento metta in crisi «l’esclusiva» ebraica rela­tiva ad Ausch­witz. Ed è grave che una città ita­liana, Firenze, si sia detta pronta ad acco­glierlo. Con­tro que­sta scel­le­rata ini­zia­tiva si sta ten­tando da tempo una mobi­li­ta­zione cul­tu­rale, che si spera possa avere un riscon­tro poli­tico forte e oggi su que­sto si svol­gerà nel Senato ita­liano una ini­zia­tiva di denun­cia pro­mossa da Ghe­rush 92-Committee for Human Right e dall’Accademia di Belle Arti di Brera. Spo­stare quel monu­mento dalla sua sede natu­rale, equi­vale a tra­sfor­marlo in mero oggetto deco­ra­tivo, men­tre esso deve stare dove è nato, per il sito per il quale fu pen­sato, a ricor­dare, pro­prio là, die­tro i can­celli del campo di ster­mi­nio, cosa fu il nazi­smo e il suo lucido pro­getto di annien­ta­mento, che, appunto, non con­cer­neva solo gli ebrei, col­lo­cati in fondo alla gerar­chia umana, ma anche tutti gli altri popoli, giu­di­cati essere «razze infe­riori» come gli slavi, o i nemici del Reich, comu­ni­sti in testa, o ancora gli «scarti» di uma­nità, secondo le oscene teo­rie degli «scien­ziati» di Hitler.

Insomma, la rimo­zione del Memo­riale, è una rimo­zione della memo­ria e un’offesa alla sto­ria. Ebbene, l’atteggiamento dell’Aned e delle Comu­nità israe­li­ti­che ita­liane, che o hanno taciuto, o hanno appro­vato la rimo­zione del Memo­riale (in attesa della sua sosti­tu­zione con un bel manu­fatto poli­ti­ca­mente adat­tato ai tempi nuovi), appare grave.

E in qual­che modo richiama le pole­mi­che di que­sti giorni rela­tive alla mani­fe­sta­zione romana del 25 aprile.

Pre­messo che la cosa «si svol­gerà di sabato», e dun­que, come ha pre­te­stuo­sa­mente pre­ci­sato il pre­si­dente della Comu­nità israe­li­tica romana, gli ebrei non avreb­bero comun­que par­te­ci­pato, la denun­cia che «non si vogliono gli ebrei», è un rove­scia­mento della verità: non si vogliono i pale­sti­nesi. Ed è grave l’assenza annun­ciata dell’ANED, per la prima volta, anche se la bagarre si è sca­te­nata sull’assenza della «Bri­gata Ebraica». La quale ha le sue ori­gini remote niente meno in Vla­di­mir Jabo­tin­sky, sio­ni­sta estre­mi­sta di destra con legami negli anni ’30 mai smen­titi con Mus­so­lini, che con­vinse le auto­rità bri­tan­ni­che, nella I guerra mon­diale, a dar vita a una Legione ebraica. Nel II con­flitto mon­diale, fu Chur­chill a lasciarsi con­vin­cere a orga­niz­zare un Jewish Bri­gade Group, inqua­drato nell’esercito bri­tan­nico: 5000 uomini che ope­ra­rono in par­ti­co­lare nell’Italia cen­trale, con­tri­buendo alla libe­ra­zione di Ravenna e di altri bor­ghi. Ebbe i suoi morti, e le sue glo­rie. Bene dun­que cele­brarla. Ma non fu né avrebbe potuto avere un ruolo emi­nente, come sem­bre­rebbe a leg­gere certe dichia­ra­zioni. Ma il fuoco media­tico supera il fuoco delle armi. E che dire di ciò che avvenne dopo? Come sto­rico ho il dovere di ricor­darlo. Quei sol­dati diven­nero il nucleo ini­ziale delle mili­zie dell’Irgun e del Haga­nah — quelle che cac­cia­rono i pale­sti­nesi nella Nakba — e poi dell’esercito del neo­nato Stato di Israele, al quale offri­rono anche la ban­diera.

Si capi­sce l’imbarazzo dell’Anpi di Roma, tra l’incudine e il mar­tello. Ma quando leggo che il suo pre­si­dente afferma che «i pale­sti­nesi non c’entrano con lo spi­rito della mani­fe­sta­zione», mi vien voglia di chie­der­gli se gli amici di Neta­nyahu c’entrino di più. Altri hanno dichia­rato in que­sti giorni che biso­gna lasciar par­lare solo chi ha fatto la guerra di libe­ra­zione; ma se così intanto andreb­bero cac­ciati dai pal­chi tanti trom­boni in cerca di applausi; e soprat­tutto se si adotta que­sta logica è evi­dente che tra poco non ci sarà più modo di festeg­giare il 25 aprile, per­ché, ahimè, i par­ti­giani saranno tutti scom­parsi.



E allora — visto l’articolo 2 dello Sta­tuto dell’Anpi che riven­dica un pro­fondo legame con i movi­menti di libe­ra­zione nel mondo — come non dare spa­zio a chi oggi lotta per libe­rarsi da un regime oppres­sivo, discri­mi­na­to­rio come quello israe­liano, rap­pre­sen­tato ora dal governo di destra di Neta­nyahu? Chi più dei pale­sti­nesi ha diritto oggi a recla­mare la «libe­ra­zione»? E invece temo si vada verso que­sto (addi­rit­tura in que­ste ore in forse a Roma) e i pros­simi 25 Aprile inges­sati e reistituzionalizzati.