sabato 28 febbraio 2015

Timbuktu: riflettere sulla jihad con il film di Abderrahmane Sissako



di Alessandro Leone (da www.cinequanon.it)




Ci sono tre film contenuti in Timbuktu di Abderrahmane Sissako. Il primo scorre sullo schermo, introdotto da una gazzella che fugge impaurita in una savana arida quasi assorbita dal deserto; il secondo si intravede per un momento e frattura il testo filmico del primo, preparando in prossimità della fine al dramma conclusivo; il terzo invece è totalmente fuori campo, ma preme con urgenza per farsi perlomeno sfondo: è il Mali spettacolare, offeso dalle milizie armate di un Islam estremo ma non marginale, intransigente e fondamentalista (parola talmente incrostata dal sangue, da rendere vano ogni tentativo di conversione semantica che non contempli l'ideologia), in dialettica con i principi coranici che supportano migliaia di piccole e pacifiche comunità musulmane d'Africa sahariana e sub-sahariana. Se Sissako avesse per qualche secondo montato un obiettivo a focale lunghissima, diciamo un tele spinto 1000 mm, avrebbe probabilmente squarciato la profondità, oltre le dune, per rivelare un paese nel caos, soprattutto nel nord dove da quasi tre anni ci sono scontri, e dove in nome della jihad (altra parola che chiede giustizia) si legittima l'occupazione di terre, la sottomissione di uomini e donne, la distruzione di mausolei dichiarati patrimonio Unesco, in particolare a Timbuktu. 
Il regista ha però scelto una strada diversa, raccontando, ai confini del gioiello del Mali, gli effetti di quel caos, identificando il dettaglio che potesse evocare il tutto. Timbuktu, città che pare edificata dal sole,è snodo strategico tra settentrione e meridione del paese, popolato da tribù che dall'Islam hanno distillato la sostanza, senza rinunciare alla libertà. L'arrivo di un gruppo di uomini armato fino ai denti, sconvolge le abitudini e le relazioni umane, sulla base di una discutibile interpretazione della Legge, come spiega ad un certo punto la guida spirituale del villaggio al leader dei miliziani che occupano il territorio. Agli abitanti vengono imposti una serie di divieti assurdi in lingua araba e in francese: non è permesso cantare, ballare, fumare, giocare a calcio (mentre gli occupanti ipocritamente fumano di nascosto e parlano di Zidane); alle donne vengono imposte calzature integrali e guanti neri.
Kidane e la moglie Satima, con la loro giovane figlia Toya e Issan, un pastore di dodici anni che si occupa delle loro mucche, sono riusciti a ricreare sotto la tenda in cui vivono, distanti dal centro abitato, un'oasi di pace. Nonostante Satima sia oggetto delle attenzioni di uno jihadista, nulla scalfisce il quieto vivere della famiglia, fino a quando Gps, la mucca preferita da Toya sfugge al controllo di Issan, attraversa il fiume che miracolosamente taglia in due il deserto, inciampando nelle reti del pescatore Amadou, che uccide l'animale. La resa dei conti tra Kidane e Amadou causa la morte accidentale del pescatore, condannando l'uomo alla sentenza senza appello di una corte improvvisata.
Sissako, se evita di affrescare con toni epici la resistenza di un paese il cui presente è quanto mai incerto, non cade neanche nella trappola del racconto morale di tante fiabe africane da esportazione, preferendo scommettere su una scrittura in versi, un canto poetico illuminato dalla bellezza dei paesaggi, dall'incanto del fiume, in rima baciata con gli afflati vitali di un popolo che non vuole piegarsi di fronte all'incomprensibile natura di norme insensate: ragazzi e ragazze cantano e suonano infischiandosene della più che probabile ritorsione, un gruppo di bambini gioca un'indimenticabile partita a calcio senza pallone, una donna si pavoneggia sfidando gli sguardi degli uomini protetta dalla sua follia; sprazzi di vita che la musica di Amine Bouhafa rende lirici e, per contrapposizione alla violenta applicazione della Sharia, tragici, ultime espressioni di civiltà prima dell'annichilimento. La tenda di Kidane è per questo il segno caldo di un paradiso violentato (e perduto) dall'ignoranza, un baluardo davvero resistente di una conoscenza che sembra inabissata nelle maglie (ora) indecifrabili di tutte le sacre scritture prodotte dall'uomo.
Che di questo avrebbe raccontato il regista si era capito già in apertura, perché la gazzella impaurita tentava di schivare colpi di Kalašnikov, sparati da una camionetta da "uomini di legge", veri e propri sfregi al bello. "Non ucciderla, sfiancala" - e ti immagini l'Africa martoriata da decenni di guerre intestine, carestie, sfruttamento. Dei feticci in legno vengono crivellati come fossero sagome in un poligono di tiro. Una donna che lavora pulendo il pesce non può accettare di doverlo fare con i guanti, grida, alza la testa, "tagliatemi le mani". Non viene uccisa. Sarà sfiancata e piegata. Una ragazzina è costretta a sposare un miliziano, nonostante l'opposizione della madre e del capo villaggio, in assenza del padre lontano, forse in guerra. Un uomo - afferma uno jihadista - non è colpevole se assicura un futuro dignitoso a una ragazza ancora sola. Anche lei sfiancata e piegata. La macchina da presa a 40 centimetri da terra segue in panoramica da destra a sinistra l'attraversamento di uomini armati nei locali di una moschea: la profanazione del tempio. Una delle inquadrature più belle e pregne di significato di tutto il film. Ancora una volta la poesia bisticcia con la crudeltà del reale, amplificandone la tragicità.
Il metodo di Sissoko diviene un principio estetico che scuote pupille e cervello. Quando il film, strutturato sull'alternanza tra la storia di Kidane e le vicende del villaggio, arriva alla convergenza delle sue tracce narrative con il processo farsa al pastore, il regista inganna di nuovo l'occhio con un'altra splendida e terribile immagine: un uomo e una donna sono sepolti fino al collo in attesa della lapidazione, una pietra colpisce lei che perde i sensi. Stacco. L'urlo del marito viene soffocato in una zona invisibile, anzi in-guardabile. E' il secondo film di cui si accennava in apertura, una frattura narrativa che rinvia alla lapidazione che nel 2012 mise fine alle vite di un uomo e una donna non sposati, puniti per aver messo al mondo figli fuori dal matrimonio, e che ispirò il regista. Una scena brevissima, non annunciata e non spiegata dopo, che però passa veloce fuori dallo schermo e percorre lo spettatore, adagiandosi come un demone nelle coscienze.
Cos'è Timbuktu allora, dov'è il Mali oggi? Chiediamoci se il cinema africano una volta tanto arriva in sala con tutta la potenza espressiva di un maestro per il valore alto del racconto e dell'estetica, o per l'incapacità dell'informazione di massa di fare racconto oltre il confine "occidentale", oppure perché il film diventa, mentre ne scriviamo, la messa in scena involontaria di tutte le nostre paure o il rafforzamento razionale della convinzione di essere nel giusto mentre, fuori, qualcosa sta andando storto.
Tentando una sintesi tra ciò vediamo sullo schermo, ciò che rimane evocato e fuori campo, ciò che scivola da un racconto confinante, resta forte l'angoscia per il destino di Toya, che corre come la gazzella, dopo la morte dei genitori, sola e disperata; e anche Issan (che pare arrivato da un film di Amir Naderi), stracolmo di sensi di colpa per aver perso Gps, anche lui di corsa tra le dune: due traiettorie che non riescono a incontrarsi e che finiranno per perdersi nel buio dei titoli di coda.




venerdì 27 febbraio 2015

Mai con Salvini, per contrastare il progetto funesto dei fascio-leghisti


di Annamaria Rivera (da Cronache di ordinario razzismo)



Il 28 febbraio le strade di Roma saranno percorse da un corteo della Lega Nord, con CasaPound e altri gruppi neofascisti, capeggiato da Matteo Salvini, prevedibilmente accompagnato dalla consueta appendice di provocazioni.
Non saranno i soli a manifestare. Da piazza Vittorio fino a Sant’Andrea della Valle, sfilerà il corteo promosso da #MaiconSalvini, ampio cartello di movimenti, centri sociali, associazioni antirazziste e Lgbt, circoli Anpi e altre realtà associative. L’appuntamento è stato lanciato sui social network con una campagna antirazzista cui ha partecipato un buon numero di artisti.
Il corteo, che auspichiamo sia pacifico e di massa, nasce dalla consapevolezza dell’importanza della posta in gioco. Infatti, #MaiconSalvini intende essere una tappa per contrastare l’ambizioso disegno della Lega Nord: porsi alla guida dell’opposizione al governo Renzi, grazie al consolidamento di un polo antieuropeista e razzista che ingloba l’estrema destra, da CasaPound a Fratelli d’Italia. E che aspira a essere parte importante dell’internazionale nera che dilaga in Europa.
Abbandonato il mito della Padania oppressa e sfruttata dal colonialismo terrone e da “Roma ladrona”, in favore del discorso nazionalista, la Lega cerca di guadagnare consensi e voti anche nelle regioni dei disprezzati colonizzatori-sfruttatori. Artefice di questa (apparente) metamorfosi è quello stesso Matteo Salvini che in tempi non remoti, pur parlamentare della Repubblica, intonava nelle feste di Pontida canzoncine graziose quali: “Senti che puzza, scappano anche i cani. Stanno arrivando i napoletani”. http://www.repubblica.it/2009/07/sezioni/politica/salvini-a-pontida/salvini-a-pontida/salvini-a-pontida.html
Nonostante l’innovazione (più che metamorfosi) che la ha risollevata dal baratro degli scandali e delle lotte intestine, la Lega salvinizzata rimane fedele alle proprie origini quanto a razzismo, omofobia, islamofobia. In realtà, essa ha recuperato i suoi più vecchi temi d’impianto razzista-biologista (si pensi alla campagna martellante contro l’allora ministra Cécile Kyenge) e perfino d’ispirazione nazionalsocialista. E’ proprio l’ideologia völkish (il völk inteso come comunità di sangue e suolo) che le ha permesso di passare con disinvoltura dall’etno-nazionalismo padano al nazionalismo völkish, per l’appunto.
Ugualmente in continuità col passato sono la tendenza a tradurre le questioni sociali in questioni identitarie e sicuritarie, e la propensione a sfruttare, organizzare, dirigere verso capri espiatori (anzitutto migranti, rifugiati e rom) la rabbia e il rancore di strati popolari duramente colpiti dalla crisi e dalle politiche di austerità. In tal modo essa si propone come artefice di un’uscita reazionaria dalla crisi, che, ribadiamo, non è solo economica, sociale e culturale, ma riguarda anche la democrazia parlamentare.
Troppe volte, a sinistra, si è minimizzato il ruolo della Lega Nord, riducendola talvolta a null’altro che fenomeno folclorico o considerandola addirittura “costola della sinistra” stessa. Non è cosa archiviata nel registro del passato. Assai recentemente, è per i voti decisivi di membri del Pd che la Giunta per le immunità del Senato ha negato ai Pm di Bergamo l’autorizzazione a procedere contro Roberto Calderoli per istigazione all’odio ‘razziale’: per aver egli, a luglio del 2013, assimilato a un orango la ministra Kyenge. Un senatore del Pd, Claudio Moscardelli, membro della Giunta, è arrivato a negare il carattere razzista della Lega. E con un’argomentazione (si fa per dire) grezza e risibile: la Lega non è razzista, ha affermato, perché “nel suo ambito operano anche diverse persone di colore”. http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2015/02/09/annamaria-rivera-il-pd-si-schiera-con-calderoli-contro-kyenge-a/
Oggi che essa si propone come punto di coagulo dell’estrema destra, il suo ruolo diviene ancor più pericoloso, in un paese devastato -socialmente, culturalmente, politicamente- dagli effetti della crisi e delle politiche di austerità, dalle “riforme” del governo Renzi, dalla stessa crisi della democrazia rappresentativa.
Non sarà un solo corteo a ostacolare un tale progetto e a spegnere le risonanze funeste che esso evoca. Nondimeno, quello del 28 febbraio, se pacifico e di massa –ribadiamo– può essere tappa importante per il rilancio di un movimento che lo contrasti sistematicamente, quel progetto, soprattutto incrementando le vertenze sociali e moltiplicando i presidi democratici nei quartieri popolari.


giovedì 26 febbraio 2015

La Grecia, l'Europa e noi: intervista a Margherita Dean, giornalista greca




 


L'Associazione per i Diritti Umani ha posto alcune domande alla giornalista Margherita Dean, che vive e lavora ad Atene, per capire con lei cosa sta accadendo in Grecia, dopo le lezioni di Alexis Tsipras, e quale può essere l'apporto del nuovo governo per l'Europa e, quindi, anche per l'Italia.

Ringraziamo moltissimo Margherita Dean per la sua disponibilità.




La Grecia ha attraversato una delle crisi più gravi degli ultimi tempi: quali sono le conseguenze per la popolazione?


Le conseguenze sono state: l'impoverimento, con tagli agli stipendi e alle pensioni, che sono arrivati fino al 40% sia nel settore privato sia in quello pubblico. Al momento lo stipendio minimo garantito, nel privato, è di 560 euro e il nuovo governo vorrebbe portarlo a 760 euro; inoltre, ci sono stati la deregulation dei contratti di lavoro e l'innalzamento dell'età pensionabile a 67 anni e questo ha comportato l'allargamento della forbice tra ricchi e poveri. Nella sola Atene i nuovi “senza casa” sono 30mila e gli altri hanno dovuto mettere mano ai loro risparmi; è aumentata molto anche la pressione fiscale e l'ultimo caso è stato quello della tassa sulla prima casa (ENFIA) che ha considerato i valori catastali dell'immobile quando, invece, quei valori non hanno più alcun contatto con la realtà perchè, in alcuni casi, sono molto più alti rispetto al valore reale. C'è stato, quindi, un ribaltamento totale rispetto alla situazione pre-crisi.

La disoccupazione ha toccato il 27% e ora tenderebbe a stabilizzrasi sul 26% con gli under 256 che sono disoccupati in una percentuale di 65 su 100, senza contare i 300mila laureati che sono andati via dalla Grecia, in cerca di fortuna all'estero.



Ma c'è stata davvero una piccola ripresa?



E' una ripresa sulla carta, dovuta ai meccanismi di scrittura del bilancio. La ripresa si è vista nel settore turistico, ma se ci sono quei tassi di disoccupazione di cui abbiamo parlato prima, è improbabile parlare di ripresa. Non bisogna dimenticare poi che, stando agli accordi precedenti a quello dello scorso 20 febbraio 2015 con la Troika, la Grecia avrebbe dovuto presentare un avanzo primario determinato che strozza tutto il resto.
In Grecia, inoltre, non c'era una base produttiva solida di partenza: è sempre stata un'economia fatiscente, un po' di servizio, e questa è una distorsione come lo è anche quella dei cartelli che sembrerebbe che il nuovo governo voglia mettere al palo.



In che modo Tsipras può far cambiare direzione alla Grecia e all'Europa? 




Il nuovo governo sta andando una bozza di riforme strutturali, basate sulla lotta all'evasione fiscale e alla corruzione (che a un'impresa costa il 12%), sulla lotta ai cartelli e al contrabbando, soprattutto di carbuti. Un'altra misura sarebbe quella di rendere funzionale l'apparato pubblico e amministrativo. Infine, ma non meno importante, c'è da ricostruire lo Stato sociale, ma sarà difficile farlo senza i creditori. Gli intenti ci sono: per esempio, è nato il Ministero della Ricostruzione Produttiva, con cui il governo vorrebbe ripensare tutto il modello produttivo greco.

Per quanto riguarda l'Europa: la Grecia, all'inzio, era veramente sola. Negli ultimi tempi c'è stata una timida apertura da parte, ad esempio, di Francia e Italia, ma nessuno ha veramente ancora fiducia nel governo greco.

Secondo me bisogna sperare nella Commissione europea perchè Juncker, conservatore e profondamemte europeista, ha ammesso l'errore nella gestione della crisi greca. Ha, infatti, affermato: “Abbiamo lasciato fare la Troika” che è un organismo non istituzionale che, però, ha fatto politica, attuando imposizioni alla Grecia, senza un controllo. C'è anche una bella immagine che vorrei ricordare: la prima volta che Tsipras ha incontrato Juncker a Bruxelles, Juncker lo ha preso per mano...

Probabilmente tutti si stanno rendendo conto che se non si tratta con Tsipras, si finirà per trattare con Marine Le Pen.




Quali sono i motivi dell'alleanza con gli indipendenti greci e l'apertura verso Anel?


I greci erano già preparati a questo: in campagna pre-elettorale gli indipendenti hanno fatto addirittura uno spot pubblicitario con un trenino in cui il conducente era il piccolo Alexis, ma il capo degli Anel sarebbe stato quello che lo avrebbe supportato.

Anel è un partito di destra, ultranazionalista, ma il punto di contatto è la retorica, l'ideologia contro l'austerità (e lì si possono incontrare tutti).

A sinistra, Tsipras non trova nessuno perchè il Partito comunista ha commentato la riunione con l'eurogruppo allo stesso modo di Alba dorata, quindi c'è una chiusura totale.

In questa situazione il capo degli indipendenti ha ottenuto il Ministero della Difesa che è un ministero abbastanza isolato: è vero che c'è anche la Nato, ma il Ministro degli Esteri è appena stato in Russia e in Cina. Questo dimostra che la Grecia si sta muovendo e non dialoga solo con il resto dell'Europa. La posizione geopolitica della Grecia è importante (vedi Libia, Ucraina...) e questo dovrebbe far riflettere.








mercoledì 25 febbraio 2015

Domenica 1 marzo...tutti in piazza !

L'Associazione per i Diritti Umani aderisce alla seguente iniziativa e la documenterà con foto e interviste. Vi aspettiamo numerosi!



AFFERMARE I DIRITTI DELLE E DEGLI IMMIGRATI

COSTRUIRE UNA SOCIETA’ PER TUTTE E TUTTI




DOMENICA PRIMO MARZO ORE 15 PIAZZA DUOMO






In occasione della Giornata del Primo Marzo, data diventata simbolo in Italia del movimento antirazzista, le associazioni milanesi organizzano un iniziativa in Piazza Duomo alle ore 15.



L’evento vuole presentare le storie di Souad e Jorge, migranti che quotidianamente fanno mille sacrifici per vivere una vita degna di essere vissuta, storie che però raccontano anche la vita di Giovanni e Anna. Storie senza una specifica nazionalità, che in questi anni potrebbero appartenere a chiunque. Storie di chi si trova a fronteggiare la crisi, vivendo spesso tragedie che attentano ai principi fondamentali alla base delle democrazie moderne.




Il 1° marzo 2015 a Milano sarà dedicato a questi racconti di vita, alle contraddizioni che fanno emergere e alla possibilità che rappresentino un momento di incontro e riflessione, che alimentino l'impegno per costruire una società che non discrimina, una società senza razzismo, una società che possa garantire meglio i diritti di tutte e di tutti.




Le associazioni promotrici dell’evento rivolgono un appello al Sindaco di Milano e lo invitano a partecipare all’evento per ribadire il suo impegno affinché questa città sia sempre di più una città libera del razzismo e la discriminazione (di seguito la lettera aperta al Sindaco Pisapia).



Per informazioni: stessabarcamilano@gmail.com

Pruomovono: Arcobaleni in marcia, Convergenza delle culture, Arci lesbica, Todo Cambia, Ass.Dimensioni Diverse, Macao, Spazio Mondo Migranti, Coordinamento delle Associazioni Islamiche di Milano e Monza e Brianza, Sisa, Associazione d'amicizia Italia Cuba, Altra Europa Milano e Provincia, PRC-Federazione di Milano, Sel Zona 4, Studio 3R, Consulta Rom e Sinti-MI, Naga, Partito Umanista, Rete Scuole Senza Permesso.





Milano 23 febbraio 2015



Caro Sindaco,



da quasi un mese sono ritornata dal mio paese. Erano diversi anni che non camminavo per le strade della città della mia gioventù. Tuttavia ventidue anni vissuti là e ventidue qua mi hanno fatto diventare “bigama”! Milano occupa ormai nel mio cuore lo stesso posto della città che mi ha visto nascere. Ho due amori, lo confesso! E non posso, né voglio lasciare l’uno o l’altro!



Il mio rientro a Milano è avvenuto qualche giorno dopo la strage di Parigi. E purtroppo l’accoglienza non è stata delle migliori. Ho percepito la stessa aggressività che molti di noi, immigrati ed immigrate, avevamo già vissuto nel 2009, quando a seguito di episodi criminali commessi da singoli stranieri, tutti noi che appartenevamo a quella “categoria” diventammo indiscriminatamente oggetto di una violenta campagna di criminalizzazione.



Il razzismo di strada che si respirava in quegli anni (e che fu fomentato da mass media e politici) trovò la sua legittimazione a livello istituzionale con l’approvazione del cosiddetto “pacchetto sicurezza”, che istituì una serie di provvedimenti apertamente discriminatori, molti dei quali furono successivamente annullati dalla Corte di cassazione italiana. Furono anni in cui Milano venne tappezzata da manifesti apertamente razzisti, anni in cui i controllori degli autobus giravano insieme ai poliziotti a “caccia di clandestini”, anni di paura per il rischio di essere aggrediti perché stranieri, a maggior ragione se rom o arabi.



Una delle cose che ricordo con più gioia della tua elezione a sindaco di Milano, evento che molti di noi festeggiarono in Piazza Duomo, è che nei mesi successivi alla tua vittoria, per noi immigrati e immigrate, il vento cambiò veramente a Milano e l’aggressività in città diminuì.



Oggi invece, non solo a Milano, ma in tutta Italia si respira nuovamente quel clima di ostilità nei nostri confronti e in particolare verso chi proviene dal mondo arabo. Il mio viso non è di una milanese “Doc” e in questi giorni quella che considero la mia città me lo rinfaccia in ogni momento: quando l’impiegata del Comune, forse per ignoranza, al momento di rifare la mia Carta di Identità mi chiede il permesso di soggiorno nonostante le faccia vedere il passaporto italiano, quando i poliziotti fermano la macchina in cui mi trovo perché in compagnia di due “soggetti sospetti”: due amici arabi.



Il pomeriggio del Primo Marzo in piazza Duomo dalle ore 15 daremo vita, con tante associazioni e persone che abitano a Milano, a un’iniziativa con la quale far arrivare un messaggio alla nostra città: affermare i diritti degli e delle immigrate, vuol dire costruire una società per tutti e per tutte.



Vogliamo far capire che non siamo noi il nemico. Vogliamo far comprendere alla società italiana che chi sta usando la violenza altrove, e chi diversamente la usa qui, non ci rappresenta anche se può avere la nazionalità del paese in cui siamo nati, o in cui sono nati i nostri genitori, o quella del paese in cui vogliamo vivere pacificamente.



Siamo stanchi dei luoghi comuni: non tutti gli arabi sono terroristi, non tutti i latinoamericani sono ladri, non tutti gli italiani sono mafiosi!



Vorremo tanto che il Primo Marzo, tu, che rappresentanti i cittadini di questa città, anche quei tanti fra noi che non hanno potuto votarti perché privi dei diritti elettorali, venissi in Piazza Duomo a farci sentire che Milano è anche la nostra città e che insieme, vecchi e nuovi milanesi, immigrati e italiani, possiamo ancora una volta spazzare via questo clima di razzismo ed affermare che la convivenza è possibile!



Ti aspettiamo Sindaco



Jorge, Aisha, Xiao, Virginia, Tsegehans, Urpi, Amr e tanti tanti altri ….

Convenzione del Consiglio d'Europa contro la violenza sulle donne



Il Ministro del Lavoro, delle Politiche Sociali e delle Pari Opportunità Elsa Fornero, alla presenza del Vice Segretario Generale del Consiglio d’Europa Gabriella Battaini-Dragoni, ha firmato a Strasburgo la Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne e la violenza domestica. La firma segue la mozione unitaria del Senato su questo tema votata il 20 settembre ed è accompagnata da una nota verbale in cui si specifica che la firma avviene nel rispetto dei principi della Costituzione italiana.

Nel loro incontro a Strasburgo, al quale ha preso parte anche il Sottosegretario agli Esteri Marta Dassù, il Ministro Elsa Fornero e il Vice Segretario Generale del Consiglio d’Europa Gabriella Battaini-Dragoni hanno sottolineato che la firma della Convenzione da parte dell'Italia è un passo fondamentale per proseguire l’azione del Paese contro queste forme di violenza che colpiscono le donne e le bambine.

La Convenzione di Istanbul, aperta alla firma l’11 maggio del 2011, costituisce oggi il trattato internazionale di più ampia portata per affrontare questo orribile fenomeno e tra i suoi principali obiettivi ha la prevenzione della violenza contro le donne, la protezione delle vittime e la perseguibilità penale degli aggressori. La Convenzione mira inoltre a promuovere l’eliminazione delle discriminazioni per raggiungere una maggiore uguaglianza tra donne e uomini. Ma l’aspetto più innovativo del testo è senz’altro rappresentato dal fatto che la Convenzione riconosce la violenza sulle donne come una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione.

All’indomani dell’approvazione in Senato del DDL di ratifica della Convenzione di Lanzarote per la protezione dei minori dall’abuso e dallo sfruttamento sessuale, il via libera alla firma della Convenzione di Istanbul ha rappresentato l’ulteriore segnale di una piena “consapevolezza che è di conforto al Governo” - afferma il Ministro Fornero - “e gli dà la forza per continuare in questa azione di diffusione di una cultura che rifiuti la violenza e la sanzioni, ma soprattutto che faccia crescere in ciascuno di noi qualcosa di positivo proprio nell’accettazione del prossimo”. E proprio sulla scia della recente approvazione del disegno di legge di ratifica della Convenzione di Lanzarote, l’auspicio è che il disegno di legge di ratifica della Convenzione di Istanbul, di prossima presentazione, possa ricevere la stessa condivisione in sede parlamentare e venga approvato in tempi rapidi.

“Desidero sottolineare l'aspetto innovativo della Convenzione del Consiglio d'Europa alla cui elaborazione l'Italia ha molto contribuito - afferma il vice-Segretario Generale Gabriella Battaini-Dragoni; la Convenzione di Istanbul è una delle ultime preparate a Strasburgo e può essere ratificata anche da paesi non europei come quelli della politica di vicinato”.



martedì 24 febbraio 2015

Legalità: i Comuni si alleano contro le mafie (e il saggio di Nando Dalla Chiesa)



Anci – in collaborazione con Confcommercio e Klaus Davi – promuove un importante movimento: i sindaci del Centro Nord si sono riuniti, nei giorni scorsi, a Palazzo Marino a Milano, per un confronto tra le municipalità colpite dai fenomeni mafiosi che stanno condizionando le attività politiche e sociali delle amministrazioni attraverso: minacce, estorsioni, tentata corruzione.

Le Regioni che hanno dato vita al Comitato tecnico sono: Lombardia, Toscana, Veneto, liguria, Piemonte, Friuli, Val d'Aosta e Emilia in cui, secondo i dati statistici, stanno operando più di 66 gruppi criminali e i Comuni già sciolti sono una decina.

Antonio Ragonese, di Anci, ha dichiarato: “Raccoglieremo testimonianze e segnalazioni dei sindaci sul territorio. Anci darà inoltre vita a un sito internet specifico. Ad aprile ci sarà poi una manifestazione dei cento sindaci con una proposta concreta sul piano legislativo e degli appalti”.

L'esperienza del territorio”, ha aggiunto Marco Granelli, assessore alla sicurezza e legalità del Comune di Milano, “dimostra la necessità di una semplificazione delle procedure, alla quale deve far da contraltare un rafforzamento delle attività di controllo sul territorio, a partire dalla rilevazione delle irregolarità”.



L'Associazione per i Diritti Umani si occupa anche di Educazione alla legalità per cui vi segnaliamo il seguente saggio di Nando Dalla Chiesa, intitolato “Il manifesto dell'antimafia.

Il manifesto dell'antimafia









Mentre Don Luigi Ciotti viene minacciato da Riina, noi rispondiamo a gran voce con la recensione di un libro importante e ve lo consigliamo di cuore. Stiamo parlando del Manifesto dell'Antimafia del Prof. Nando dalla Chiesa, edito da Einaudi.



Il Professore - docente di di Sociologia della criminalità organizzata presso l'Università degli studi di Milano - ha calcolato, insieme ai suoi studenti, che una tangente pagata alle mafie ha lo stesso valore economico di duemila assegni di ricerca: sostegno allo studio, sostegno al lavoro. Tutto questo sottratto alla società e ai cittadini onesti.



Parte proprio da qui l'ultimo lavoro di Nando dalla Chiesa: dalla mentalità, dalle pratiche quotidiane, diffuse e sotterranee, che alimentano la forza della criminalità. La mafia non è solo al Sud, la mafia non intacca solo politica e finanza; la mafia si annida nella mancanza di valori positivi e di indifferenza verso il Bene comune. Non a caso il professore definisce la 'ndrangheta come una “forza sociale criminale” perchè riguarda i comportamenti sociali, quindi anche quelli di ciascuno di noi.



Le mafie hanno un'anima, si continua a leggere nel testo, un'anima nera che si può tradurre in tabelle e schemi concreti. Si fa riferimento a tre “C” che non vanno sottovalutate: quelle dei complici, del concorso esterno e, soprattutto, dei codardi.



Il saggio si rivolge a tutta la società civile e, in particolare, ai giovani che forse si sentono schiacciati e scoraggiati da quella zona grigia, da quella palude (culturale, politica, istituzionale) che non riesce a sbloccare la situazione, per paura o per interesse...Pensiamo alle vicende che stanno caratterizando l'organizzazione di Expo 2015. Ma sono proprio loro, i giovani, portatori di speranza e di futuro e noi più grandi abbiamo il dovere di indicare e di ricordare che la strada è sempre e soltanto quella dell'etica e della giustizia.

lunedì 23 febbraio 2015

Gli sbarchi, l'accoglienza, i diritti: Milano e l'Italia



Spero che gestisca con minore approssimazione rispetto a quanto si è visto sin qui e ci metta più la faccia, assumendosi maggiormente le rsponsabilità”, queste le parole dure che Pierfrancesco Majorino, assessore alle Politiche sociali presso il Comune di Milano, ha scritto su Facebook in direzione del Ministro dell'Interno, Angelino Alfano subito dopo l'arrivo, nei giorni scorsi, delle centinaia di rifugiati e di profughi sulle coste italiane la maggior parte dei quali viene accolta dal capoluogo lombardo: polemiche a parte - quelle di chi lancia allarmismi ad ogni sbarco – l'assessore alla sicurezza, Marco Granelli, continua a ripetere che Milano non può essere lasciata sola nell'accoglienza a queste persone, molte delle quali sono anche minori: “ Ne accogliamo già circa 1000 fra Milano e hinterland. A questo punto intervengano anche le altre province. Occorre più organizzazione per gestire la crisi libica che non preoccupa solatnto per gli aspetti legati al terrosrismo, visto che già vi è massima allerta. A far temere è il contesto generale, perchè un Paese allo sbando, come la Libia adesso, favorisce la deregolation dei flussi e può diventare la porta aperta per entrare in Europa”.



L'Associazione per i Diritti Umani ha avuto l'occasione di parlare di questo argomento e di altro (ad esempio il diritto alla casa) con l'assessore Majorino, in oaccsione della presentazione del suo romanzo dal titolo “Maledetto amore mio”. Ecco il video dell'incontro:
 
 
 


domenica 22 febbraio 2015

Violenza contro le donne e la rieducazione ai sentimenti




L'Associazione per i Diritti Umani

in collaborazione con il Centro Asteria

PRESENTA



DIRITTI AL CENTRO:
UOMINI CHE ODIANO (AMANO) LE DONNE



Alla presenza di MONICA LANFRANCO (giornalista e scrittrice)



LUNEDI 9 MARZO



ORE 18.30

presso



CENTRO ASTERIA

Piazza Carrara 17.1, ang. Via G. Da Cermenate (MM Romolo, Famagosta)



L’Associazione per i Diritti Umani presenta il terzo appuntamento della serie di incontri dal titolo “DiRITTI AL CENTRO”, che affronta, attraverso incontri con autori, registi ed esperti, temi che spaziano dal lavoro, diritti delle donne in Italia e all’estero, minori, carceri, immigrazione...

In ogni incontro l’Associazione per i Diritti Umani attraverso la sua vicepresidente Alessandra Montesanto, saggista e formatrice, vuole dar voce ad uno o più esperti della tematica trattata e, attraverso uno scambio, anche con il pubblico, vuole dare degli spunti di riflessione sull’attualità e più in generale sui grandi temi dei giorni nostri.



In questo incontro dal titolo “Uomini che odiano (amano) le donne” di Monica Lanfranco, per Marea Edizioni, affronteremo il tema della violenza contro le donne: un'analisi del fenomeno anche dal punto di vista maschile. Si parlerà di femminismo e di emancipazione in Italia e all'estero, di percorsi psicoterapeutici, dell'importanza di una rete sociale e molto altro.



IL LIBRO:

Tutto comincia con un viaggio in treno e un articolo di Internazionale: la giornalista inglese Laurie Penny, (collaboratrice del Guardian) racconta di aver provato a fare alcune domande rivolte agli uomini sulla loro sessualità, chiedendo ai suoi contatti maschili, in forma anonima, se avessero avuto voglia di rispondere.
Le domande: 1) Che cosa è per te la sessualità? 2) Pensi che la violenza sia una componente della sessualità maschile più che di quella femminile? 3) Cosa provi quando leggi di uomini che violentano le donne? 4) Ti senti coinvolto, e come, quando si parla di calo del desiderio? 5) Essere virile: che significa? 6) La pornografia influisce, e come, sulla tua sessualità?

Per una volta, invece che parole di donne sulla sessualità e la violenza, si è chiesto agli uomini di esporsi, di mettersi in relazione, di soffermarsi a pensare su di loro, il loro corpo, il loro desiderio, i lati oscuri del loro genere.
Uomini che odiano amano le donne è il risultato del lavoro di raccolta e sistemazione delle oltre 200 risposte arrivate, ma non solo: è la testimonianza dell’esistenza di voci di uomini connotate da curiosità, voglia di capire e comunicare. L’intento del testo è di restituire questa interlocuzione, e di offrire a chi legge parole e riflessioni maschili su virilità, sesso, violenza, pornografia, desiderio.


L' AUTRICE

Giornalista, attivista femminista e formatrice sui temi della differenza di genere e sul conflitto.




 
 

sabato 21 febbraio 2015

Sguardi mediterranei di donne


di Ivana Trevisani



Quando uno sguardo di donna scruta il mondo, sempre si posa sulla vita, anche se la realtà a cui guardare è quella belligerante dei conflitti armati e degli scontri esplosivi tra diversità rese irriducibili.

E' quanto ancora una volta si è realizzato a Milano lo scorso novembre, all'incontro promosso dall'Associazione Blimunde “Sguardi di donne sui fondamentalismi e i conflitti in medio-oriente”, nello scambio di riflessioni tra le donne al tavolo di relazione: la cooperante italiana Irene Viola, l'operatrice sociale libanese Tamara Keldani, la Tunisina Ouejdane Mejiri da anni in Italia, insegnante al Politecnico di Milano e la Siriana Souheir Katkhouda, da vent'anni in Italia presidente delle donne musulmane d'Italia.

Ognuna di loro, nonostante il titolo, ha scelto di parlarci delle pratiche di vita che le donne stanno comunque agendo nei luoghi associati ormai soltanto, nei media e nell'immaginario collettivo occidentali, ad azioni di morte.

Certo queste donne, da sempre attive nel politico sociale dei loro Paesi e in Italia, non hanno ingenuamente rimosso la questione della violenza dilagante, ma l'hanno riletta nel registro dell'articolazione piuttosto che in quello del giudizio sbrigativo.

Così Viola, con il video dell'agricoltrice libanese Elham, che mostra fiera i frutti della sua attività agraria di cui sottolinea la rilevanza per una possibile ripresa di vita di una società, un'economia e un ambiente devastati dalle guerre infinite che hanno attraversato il Libano, ci ha riportate alla straordinaria potenza delle donne per l'amore e la cura della terra, che genera vita ed è amore per il mondo. Ma Elham ha voluto anche non scivolare sul valore di rela zione tra donne che sanno comprendersi e camminare insieme, confermandone anzi energicamente la straordinaria rilevanza nel ribadire la portata, per lei vitale, dell'incontro con il lavoro della cooperante Viola, di quella cooperante, che le ha consentito di pensare, progettare e realizzare il suo proposito di nuova vita dopo le lacerazioni patite da lei e dalla gente nel suo Paese.

Keldani da parte sua, attraverso la restituzione di senso del lavoro sulla differenza sessuale, soprattutto nelle zone rurali del Libano, con la sua associazione Les Amis des Marionettes, ci ha rivelato come agendo attraverso il simbolico di giochi di ruolo, sia stato possibile radicare nei vissuti di ragazzi e ragazze partecipanti ai laboratori, il senso e il valore di tale differenza e la potenza dell'essere donna.

Keldani ha voluto inoltre sottolineare come, muovendo dalla consapevolezza guadagnata grazie al progetto dai dalle adolescenti coinvolti, abbiano potuto di rimbalzo consolidarsi anche nel quotidiano delle comunità, il riconoscimento concreto e non di semplice adesione convenzionale alla consuetudine, la convinta certezza che la donna è il pilastro della famiglia e che reggendo l'equilibrio della famiglia può contribuire all'equilibrio dell'intera società. Restando a tema, quanto alla piaga dei matrimoni precoci, indistintamente tutte tutti gli allievi delle scuole coinvolte dai laboratori, hanno saputo con grande lucidità e maturità indiividuare e indicare il danno sociale di una pratica che, non permettendo alla madre troppo precoce di sviluppare appieno il senso di sè, non le consente di educare con pienezza i figli, non potendo trasmettere loro il sentimento della propria identità. E poichè la questione dell'identità è un problema di non poco conto nel tessuto frammentato, lacerato, interrotto dell'attuale società libanese, ne consegue l'enorme portata del guadagno trasmesso per genealogia femminile di quel senso di identità e radicamento a sé che consente di eludere le spinte a derive identitarie rigidamente arroccate a qualsivoglia ideologia totalitaria.

A seguire, Katkhouda ci ha partecipato il suo impegno non solo nel “soccorso” e nell'accoglienza dei suoi, delle sue connazionali in fuga dalla Siria, ma anche e forse soprattutto, stante il sistema informativo del nostro Paese, nel persevante, instancabile lavoro di presenza-testimonianza in ogni occasione possibile, per ricordare a un pubblico disattento e male informato, la tragedia che nel suo paese d'origine sta continuando a consumarsi e a consumare le vite di un intero popolo. Kathouda, presidente delle donne musulmane in Italia, non ha dissertato su veli, arroccamenti o strumentalizzazioni religiose, ma ha detto di sé, di come sta nel mondo, ci ha testimoniato del suo infaticabile impegno ad aprire sempre più fessure nel silenzio che uccide, anche più delle armi, quello che continua a sentire come il suo popolo e ci ha restituito intera la sua potente autorevolezza.

Per concludere, Mejri nel suo intervento ha con forza sottolineato la realtà, pressochè ignorata dal sistema mediatico italiano, dell'agire positivo delle donne al centro del ritrovato protagonismo dell'intera società civile tunisina. E' stato soprattutto il protagonismo delle donne, ha voluto ribadire Mejri, a sostenere il processo di partecipazione sociale alle ultime tornate elettorali, le parlamentari prima e le presidenziali successivamente. Un impegno che ha consentito l'evoluzione politica di avvicendamento, da Ennhada, il precedente governo di cifra religiosa, al nuovo governo non religiosamente orientato. Non solo la presenza attiva delle donne, ma l'intero processo di alternanza che hanno saputo sostenere, sono stati solo sfiorati dal nostro sistema mediatico, forse troppo allineato alla “dittatura del pensiero occidentale”, parole di Mejri, senza troppi dubbi condivisibili.

Che la positività sia la cifra dell'agire delle donne non è certo sogno, ma costituente del reale, è tuttavia possibile riconoscerla solo se si apre lo sguardo, se oltre l’evidenza si accetta di entrare nel profondo delle vicende dove le donne si giocano, scoprendo da dove nascono e verso dove procedono.

Cogliere la forza e l'eccellenza femminile è possibile a patto di affinare la capacità di ascolto necessario e prepararsi a uno sguardo più attento, di aprire la disponibilità autentica “a guardarci l’una con l’altra, a restituirci vicendevolmente l’immagine della nostra eccellenza, a riconoscere la loro e la nostra”, per dirlo con le parole della filosofa Diana Sartori. E “saper fare da specchio all’altra, lì in quel che sta facendo lei, come noi” pur nelle diversità di eccellenza di donna, consente di riconoscere lei e noi stesse.

Per scostarsi dai luoghi comuni e dai pre-giudizi che le vogliono e vedono unicamente oscure donne schiacciate da guerre maschili e da veli inflitti, e che le rendono di fatto evanescenti, le donne dell'altra sponda del Mediterraneo in questo incontro, per dirsi e dirci di sè hanno scelto di eludere la contrapposizione e preferito offrirci la proposta di esperienze e pratiche concrete di vita. I frammenti di storie, vissute in proprio o incontrate in altre donne, dispiegati all'attenzione delle persone presenti, erano tutti con forza orientati a ribadire che, come già la filosofa Hanna Arendt sosteneva, non si è libere da una condizione data, ma si è libere nell'apertura di senso di quella condizione.

Le considerazioni esposte dalle relatrici, accompagnandone le narrazioni, hanno voluto ricordare come le potenti storie di donne offerte al nostro ascolto, più comuni di quanto si voglia o possa credere in Occidente, ci possono insegnare a spostare la prospettiva di lettura, a non concentrarsi sul dolore ma a proiettare uno sguardo diverso sulla tragedia, per trovarvi comunque la vita.

Coniugando le testimonianze dipanate dalle donne nel corso dell'incontro con le parole della riflessione di Sartori è plausibile concludere che in questa urgenza presente, quando la misura maschile mostra la sua incapacità a fare ordine, e quella femminile in questo passaggio si pone come ordinatrice di realtà e finalmente si pone la questione di quale è la misura in un mondo davvero comune”, si può ri-trovare la vita: nella parola, nello sguardo, nelle pratiche, nella misura di donna.

Ciascuna a partire da sé e tutte indistintamente, sempre usando le sue parole, hanno voluto e potuto ancora una volta ricordarci che “se noi donne non sapremo esporci al mondo come misura, il mondo non avrà misura.

venerdì 20 febbraio 2015

Progetto ONDA D'URTO: progetto di prevenzione del tumore al seno



L'Associazione per i Diritti Umani segnala un importante progetto di prevenzione del tumore al seno, "ONDA D'URTO".

Il progetto, al quale è stato concesso il patrocinio congiunto degli Assessorati Politiche Sociali e Cultura del Comune di Milano, è organizzato dall'Associazione Scuola Italiana di Senologia Onlus.


E' rivolto a tutte le donne di Milano ma in particolare a quelle appartenenti ad alcune categorie che, per ragioni sociali, economiche e culturali, sono meno attente alla salvaguardia della salute e, per questo, presentano, purtroppo, elevati tassi di mortalità per cancro al seno.


L'iniziativa si articolerà in più fasi e avrà una durata triennale.




In particolare, in collaborazione con il Tavolo di Lavoro "Donne e Culture" del Forum della Città Mondo, saranno organizzati 12 incontri con le donne delle comunità internazionali presenti nel territorio milanese. Obiettivo è la promozione di sani stili di vita e la presentazione degli strumenti finalizzati alla prevenzione precoce del tumore al seno

Saranno anche occasioni di informazione e confronto con senologi esperti e fra donne che porteranno le loro esperienze.



Il primo incontro si svolgerà giovedì 26 febbraio dalle ore 18.00 presso la Casa dei Diritti via De Amicis, 10 Milano.

Gli altri incontri, attualmente previsti, si svolgeranno nello stesso spazio, stessa ora

Giovedì 12 Marzo
Giovedì 9; 16; 23 e 30 Aprile
Giovedì 7; 14 ; 21 e 28 Maggio




Ho fatto della rabbia la mia spinta, così ho vinto contro il bullismo (da Nobullismo.it)



La mia storia ha inizio in prima media, quando d’un tratto hanno iniziato ad umiliarmi in ogni modo possibile e inimmaginabile. Niente violenza fisica, quella se la sono risparmiati, ma una violenza psicologica continua, che per quattro anni ho subito in silenzio. Ho sopportato tutto e i professori non facevano niente, guardavano e incolpavano me. Ecco allora la bocciatura e la rabbia. Tanta rabbia, non verso gli altri, ma verso me stessa, per aver acconsentito che mi trattassero cosi per tutto quel tempo.
E’ la rabbia che mi ha dato la spinta per reagire e rialzarmi.
Sono diventata più sicura, dura e cattiva con chi se lo meritava e ho fatto di tutto per riconquistare una parvenza della felicita che mi avevano strappato, come squali e ci sono riuscita.

Ho vinto io non il bullismo. A volte scherzando dico di aver giocato i miei Hunger Games e si, io li ho vinti. Mi ritengo fortunata di non avere le problematiche che purtroppo hanno ancora le ex vittime, come problemi di ansia, di insicurezza. Per altri è stato ed è difficile rialzarsi ed andare avanti.

Sono fortunata e ringrazio la rabbia costruttiva che mi ha guidata. A piccoli passi ho riconquistata un’autostima disintegrata e con pazienza l’ho ricomposta. Ho alti e bassi ma sto in piedi alla faccia dei miei ex bulli, sono felice e serena. La mia rivincita è ogni giorno, quando mi alzo dal letto e vado avanti con la mia vita,non mi volto certo indietro. Guardo avanti.

Penso che per risolvere il problema si dovrebbe sensibilizzare prima di tutto il corpo docente in materia e introdurre pene severe, visto che in alcuni casi ci sono stati dei suicidi che io definisco “omicidio premeditato”. Attuerei l’ergastolo, visto la gravità del bullismo, che induce al suicidio vittime innocenti.

Questa è la mia storia e adesso nessuno potrà farmi del male, sono rinata, e sono più forte che mai!

A tutti i ragazzi, usate la vostra rabbia, la vostra energia e le vostre emozioni come spinta per andare avanti, per superare i bulli e vincere la vostra battaglia. Non lasciate che vi fermino e vi facciano cadere.

giovedì 19 febbraio 2015

Anche Sanremo canta i diritti

Non siamo qui a parlare del Festival di Sanremo (per carità!) e nemmeno vogliamo giudicare una canzone italiana dalla melodia, a nostro parere, piuttosto noiosa. PERO', c'è un "però": vale la pena ascoltare il testo del pezzo intitolato "Io sono una finestra" di Grazia Di Michele e Mauro Coruzzi (in arte "Platinette").
Gli artisti cantano i diritti degli omosessuali e dei transgender con delicatezza e poesia, cantano l'ipocrisia di molti e il rifiuto di altri. Interessante, anche se semplice, l'idea del video: due identità che si scambiano, forse una stessa persona che parla a se stessa.
Buon ascolto!




Giovani profughi si raccontano con la fotografia: “Between – In sospeso”



Parla di giovani profughi in cerca di un futuro, la mostra dal titolo Between – In sospeso della fotografa Nanni Schiffl-Deiler, allestita nel foyer del Goethe Institut Rom, a Roma dal 9 febbario al 9 aprile 2015.                          


Questa mostra evidenzia lo stato dei profughi come esseri umani che si sforzano di esprimere, malgrado tutta la delusione e la disperazione, il loro destino difficilmente sopportabile. Le fotografie di questi giovani rifugiati comunicano come si svolge la loro vita quotidiana: molto vuoto, molto disordine, pochi esseri umani, talvolta solo ombre, sempre nuove strade...”: queste alcune parole con cui Lothar Krappmann – membro del Comitato ONU sui diritti dell'Infanzia e dell'Adolescenza 2003/2011 – commenta il lavoro della fotografa tedesca.

I ragazzi e le ragazze non sono solo i soggetti delle immagini, illuminati da una luce caravaggesca e spirituale su fondo buio, ma sono anche coloro che hanno usato il mezzo fotografico per esprimere raccontarsi. Un racconto che unisce foto e parole: “ A tutt'oggi non mi è dato sapere se posso rimanere qui in Germania o meno. Così, ogni mia giornata è priva di un futuro perchè non mi è concesso concepirlo” dice Hossein dall'Afghanistan; “ ...Al momento non sto per niente bene perchè non sono soddisfatto del modo in cui sono costretto a vivere. Mi auguro che rpesto cambi qualcosa”, afferma Michel dalla Nigeria; “ Felicità significa per me essere spiritualmente liberi. Se sono libera, anche il mio cuore si affranca”, questa è l'opinione di Eva dall'Uganda.

Nanni Schiffl-Dieler, per questo progetto, è partita dalla Dichiarazione universale dei Diritti dell'Uomo e ha voluto lavorare per e con i giovani profughi.



Eccovi la breve intervista che l'Associazione per i Diritti Umani ha fatto alla fotografa. (Ringraziamo anche la traduttrice Claudia Giusto)



Perchè la scelta di parlare dei profughi e dei rifugiati giovani?

Con questa mostra ho voluto richiamare l’attenzione sulla situazione dei profughi minorenni non accompagnati e adolescenti, perché sono proprio loro ad avere bisogno di maggiore protezione. Spesso purtroppo anche qui in Europa al loro arrivo non viene rispettata la convenzione ONU sui i diritti dell’infanzia, sottoscritta dagli stati membri dell’Unione Europea.

Come si è sviluppato il progetto fotografico?

Una fotocamera digitale compatta con il compito di fotografare semplicemente la loro quotidianità. In modo spontaneo, senza un vero tema. Abbiamo parlato dei muri, visibili e invisibili, di fronte ai quali costantemente si ritrovano. Per molto tempo durante i nostri incontri periodici abbiamo osservato le immagini e ne abbiamo discusso. Poi ho fatto loro delle domande e li ho ritratti.

Quali sono le aspettative e le difficoltà di queste persone (considerando anche le differenti aree di provenienza)?

Questi ragazzi desiderano una vita in libertà e sicurezza, un’istruzione, vogliono potersi costruire una famiglia. Tutte cose che fanno parte della dignità umana. Dopo una fuga spesso pericolosa e traumatica, le difficoltà hanno inizio con l’arrivo nella “Fortezza Europa”. Spesso questi ragazzi vengono sistemati in Centri di primo soccorso e accoglienza insieme agli adulti, devono studiare in condizioni molto difficili. L’obbligo di residenza non gli permette di muoversi liberamente. Solitamente devono vivere a lungo nella condizione di sospensione temporanea del provvedimento di espulsione (Duldung), il che comporta un grave peso psicologico. Particolarmente difficile è la situazione dei giovani africani, sempre più svantaggiati rispetto agli altri a causa del colore della loro pelle.

Qual è il loro rapporto con il Paese d'origine e i loro familiari?

La maggior parte di loro non ha più alcun contatto con famiglia, parenti e amici. È un argomento molto delicato, del quale per molto tempo non riescono neppure a parlare. Sentono la mancanza della loro terra di origine e delle persone che hanno lasciato. Alcuni di loro sono stati mandati via proprio dalla famiglia nella speranza di una vita migliore per loro.

Fotografie e parole: due modi diversi di esprimere emozioni...

È la mia prima mostra fotografica nella quale coniugo fotografia e testo. L’argomento è molto complesso e volevo esprimere insieme emozioni e fatti mettendoli sullo stesso piano. In particolare per me era importante far notare la discrepanza tra i Diritti dell’Uomo sanciti dall’ONU, che spettano ad ogni persona indifferentemente dalla razza, e le condizioni di vita nei paesi di origine. E volevo dare visibilità a questi ragazzi attraverso le loro immagini e le loro citazioni, mostrando come ogni profugo, anonimo nella massa, sia sempre una persona.




mercoledì 18 febbraio 2015

Dichiarazione di non sottomissione: Islam e laicità




di Monica Macchi



Occorre distinguere non tra credenti e non credenti

ma tra pensanti e non-pensanti”

Cardinal Carlo Maria Martini



La non sottomissione si regge

sul principio della separazione incondizionata

tra fede e diritto”

Fethi Bensalama


Sui principi non bisogna essere prudenti, ma riaffermarli,

per evitare i riflessi di autocensura e il trionfo degli estremisti”.

Malek Chebel, antropologo







Fethi Benslama, di origine tunisina, è psicoanalista ed insegna Psicoanalisi e Psicopatologia all'Università di Parigi VII Jussieu. Ha fondato nel 1990 la rivista Intersignes di cui oggi è Direttore ed è autore di numerosi libri: La nuit brisée (Ramsay, 1988), Une fiction troublante (Editiond de l'Aube, 1994), La psychanalyse à l'épreuve de l'Islam (Aubier, 2004) e Soudain la revolution (Denoel, 2011).



Questo breve testo sviluppa il MANIFESTO DELLE LIBERTA’ firmato il 16 febbraio 2004 a Parigi da un gruppo di intellettuali musulmani che si riconoscono nei valori della laicità e si oppongono all’ideologia dell’islamismo ed è costruito attorno a quattro istanze fondamentali.

La prima istanza sottolinea la polisemia del termine “islam” in quanto la radice trilittera S-L-M significa “guarire salvare, dare un bacio, riconciliare” e solo la decima forma “istaslama” significa “sottomissione”. Da questo derivano due importanti conseguenze: innanzitutto la differenza tra islam (scritto graficamente con la minuscola) inteso come religione e Islam (con la maiuscola) inteso come civiltà con molteplici culture ma soprattutto l’esigenza della liberazione dal paradigma identitario che legittima solo chi è assolutamente uguale a me.


Per questo occorre fare appello alla soggettività dell’individuo contro l’ipertrofia del comunitarismo e così la seconda istanza rivendica l’emancipazione femminile: infatti la donna incarnazione della “fitna”, la seduzione che diventa sedizione, rappresenta un’alterità interna minacciosa rispetto al “fahl” uomo stallone, destinato alla lotta, alla riproduzione e “dunque” alla guida della società ed alimenta l’ideologia della purezza. Secondo i firmatari del manifesto bisogna invece immettere “il disordine nella purezza” cioè il cosmopolitismo inteso come riconoscimento della dignità dell’altro come “non-simile” e come fondamento sia dell’uguaglianza che della libertà a cui sono dedicate la terza e la quarta istanza. E Benslama scrive: “l'avrete capito, se consideriamo che l'emancipazione delle donne è il punto dove si stringe e dove si dispiega il ventaglio dei problemi più cruciali per l'avvenire democratico del mondo musulmano è perchè il complesso religioso che organizza i rapporti di alterità nell'islam ha, più che altrove, inchiodato la posizione del genere femminile, con lo scopo di imporre il potere maschile”.

La terza istanza ammonisce che la libertà non può essere concessa ma deve essere conquistata attraverso l’azione trasformatrice a partire dai propri desideri e dalle proprie convinzioni: per questo sono necessari spazi in cui sperimentarla come ad esempio “l’Università delle libertà”, un’università popolare.

La quarta istanza cita esplicitamente il concetto di laicità per superare definitivamente il mito identitario riappropriandosi degli strumenti culturali, rifacendosi alla filosofia di Ibn Ruchd (Averroè) e Ibn Bajja (Avempace) che distingue tra reato e peccato fino alla teologia del sudanese Mahmoud Taha secondo cui l’atto di nascita dell’uguaglianza è la separazione tra spirituale e legislativo. Laicità questa che non è laicismo e non ha come obiettivo la distruzione dell’istituzione religiosa ma quello di limitare la pulsionalità e di costituire un luogo dove articolare le fratture.


martedì 17 febbraio 2015

Antisemitismo, islamofobia e razzismo. Rappresentazioni, immaginari e pratiche nella società italiana


 



Ponendo particolare attenzione al dibattito intorno alle vecchie e nuove forme con cui il razzismo si è manifestato all’interno delle società occidentali, il volume intitolato “Antisemitismo, islamofobia e razzismo. Rappresentazioni, immaginari e pratiche nella società italiana”, edito da Ediesse, ne discute i caratteri sociali e storici, affrontando temi salienti quali l’antisemitismo e l’islamofobia. Gli autori sono: Alfredo Alietti, Claudio Vercelli e Dario Padovan.


L'Associazione per i Diritti Umani ha intervistato per voi i Professori Alfredo Alietti e Claudio Vercelli che ringrazia molto per la disponibilità.

Quali sono le vecchie e nuove forme di razzismo e quali le loro matrici?



C. Vercelli: Non è agevole distinguere tra vecchie e nuove forme di razzismo, trattandosi di un fenomeno per più aspetti polimorfo, ossia in grado di assumere connotazioni in base alle circostanze del momento e alle esigenze di chi ne fa ricorso, non importa però quanto consapevolmente. Piuttosto, ed è questo l’elemento dal quale partire, il razzismo comprende una vasta gamma di atteggiamenti basati sul pregiudizio che, dall’ indifferenza possono arrivare anche alla violenza fisica fino, in ultimo, alle politiche di Stato per l’eliminazione delle diversità attraverso la distruzione fisica dei “diversi”. L’elemento peculiare ai razzismi, ovvero condiviso comunemente, è il convincimento che un individuo non possa né debba essere considerato in base alla sua personalità e alla sua soggettività bensì come parte di una serie precostituita – la cosiddetta “razza” – che assommerebbe in sé dei tratti immutabili, Come tali questi influenzerebbero l’individuo medesimo nelle sue condotte, nel suo modo di porsi dinanzi ai fatti del mondo, nelle relazioni che intrattiene con il resto della comunità umana. Tale attribuzione di caratteri fissi, ovvero intesi come immutabili, ha una natura ascrittiva ed inchioda la persona ad una sorta di “destino” immodificabile. Non a caso, il razzismo intende la diversità come un dato di natura e non come una costruzione sociale. Il qual fatto induce, chi fa propria tale visione delle cose, a ritenere che sia impossibile trasformare gli altri (ma anche se stessi) e che da tale riscontro non possa che derivare un conflitto tra le diversità oppure l’obbligo ad adottare politiche di separazione tra gli appartenenti a gruppi razziali diversi se non, in ultimo, l’eliminazione di quanti sono ritenuti una minaccia per la propria sopravvivenza. Sta, all’interno del dispositivo razzista, una concezione del mondo che cancella la cultura, intesa come insieme di pratiche umane evolutive, fondate sullo scambio, alla quale si sostituisce l’idea che le differenze non compongono il quadro della varietà umana ma una sorta di confine insormontabile e come tale perennemente a rischio da parte di chi, invece, pratica i meticciati. Un elemento fondamentale per relazionare i razzismi contemporanei da un punto di vista storico è verificare, tra gli altri, due elementi indice: le migrazioni e la struttura del mercato del lavoro. Il razzismo, da tale punto di vista, riordina i rapporti di forza e di dominio, stabilendo scale gerarchiche, vincolando le scelte degli uni, allocando risorse a favore di altri e così via.


A. Alietti: Nella prospettiva sociologica e psicosociologica la questione delle forme mediante le quali si manifesta l’atteggiamento razzista risulta assai ampia. A partire dalla metà degli anni ’70 alcuni studi rivelarono come l’attore sociale tendesse ad esprimere opinioni e atteggiamenti avversi alle minoranze etniche in maniera indiretta, occultando il più possibile quelle forme linguisticamente aperte e dirette, in contrasto con le norme sociali di condanna del razzismo. Da tale analisi, vi è stato un fiorire di termini con cui indicare questa inedita forma: razzismo moderno, simbolico, nascosto, debole. Indubbiamente, il clima culturale europeo e nordamericano, pur con dei profondi distinguo legati alla specificità storica dei rapporti interetnici, sorto alla fine della guerra mondiale con il portato del genocidio nazista ha contribuito a combattere l’ideologia razzista fondata sulla dimensione biologica che legittimava la gerarchia tra le supposte diverse razze.

Ciò non ha significato il venire meno del razzismo quale fenomeno di esclusione di determinati gruppi nel dopo guerra fino ad oggi. Infatti, alla parola razza che ha accompagnato il discorso scientista a cavallo del XIX e XX secolo si è sostituito il concetto di etnia, ovvero un approccio culturalista alle differenze il quale appare meno escludente in termini generali e più democratico nel trovare “buone ragioni” all’atteggiamento razzista. Tuttavia, questa alchimia sociale che nasconde l’atteggiamento di rifiuto della diversità etnica non ha mutato nel profondo il senso del razzismo tradizionale. Alla cristallizzazione di caratteri biologici si è venuta a costruire una retorica sociale che cristallizza ed essenzializza i tratti culturali, in una sorta di “biologizzazione molle”. Su questo piano di analisi si avverte come vi sia una forte continuità tra il cosiddetto “vecchio” e “nuovo razzismo”, al di là delle definizioni adottate dagli studiosi negli ultimi trent’anni. L’orizzonte comune è un discorso sull’immutabilità (di razza e/o di etnica) dei destini dei soggetti sui quali si riversa la logica razzizzante dentro un disegno gerarchico delle diversità umane sostenute e rafforzate da politiche istituzionali tese a riprodurre tale ordine sociale ed etnico. Inoltre, alla luce delle dinamiche sociali, politiche, economiche e culturali occorse in Europa, dall’avvento della globalizzazione e del trionfo del neoliberalismo, vi è da valutare seriamente gli effetti della crisi del multiculturalismo e di crescenti conflitti interni ai paesi europei generati dalla perdurante crisi e dalle retoriche neo-nazionaliste, populiste e, specificatamente, anti-islamiche. Appare evidente che nella nostra contemporaneità il razzismo sia divenuto un potente fattore di legame sociale in negativo, soprattutto a fronte della crescente insicurezza e instabilità delle traiettorie dei gruppi autoctoni più vulnerabili e più prossimi socialmente agli immigrati. Basta osservare con un minimo di attenzione alle reazioni nello spazio neutro del web, ad esempio ai commenti delle notizie dei giornali nazionali on-line, per verificare che dichiararsi razzisti non più argini, non ha più quel velo, per quanto ipocrita, di possibile condanna collettiva.

Il razzismo oggi è sociologicamente e socialmente ancora forte e in grado di minare le basi degli assetti democratici e della convivenza.



Qual è il legame tra religione, politica ed economia, soprattutto in relazione all'Islam di cui si è parlato da poco, anche alla luce dei fatti di Parigi?



C. Vercelli: Impossibile dare una risposta esaustiva a questa domanda. Non in poche righe, almeno. Ciò a cui stiamo assistendo non è il ritorno della religione ma il suo spregiudicato uso politico. Dinanzi a società che mutano, anche drasticamente e repentinamente, e davanti alla marginalità di un grande numero di persone, escluse dal mercato del lavoro così come dalla partecipazione politica, il razzismo cavalca disagi e timori, traducendosi in condotte xenofobe. Più che ad uno scontro tra civiltà, come certuni prediligono affermare, ci troviamo di fronte alla crisi interna alle stesse “civiltà”, e soprattutto alle società che hanno prodotto, laddove queste non riescono a dare risposte adeguate al bisogno di integrazione degli individui. Parlerei quindi di una crisi della politica, nel momento in cui questa dovrebbe essere il mezzo più importante per creare le condizioni della convivenza e, invece, non riesce a svolgere tale funzione. Non di meno il razzismo, che non è solo un problema del mondo cosiddetto occidentale ma attraversa un po’ tutte le comunità umane, si inserisce all’interno dei grandi disagi collettivi scavando solchi incolmabili. Se la politica è in crisi, e se invece certe ideologie hanno spazio oltre misura, ciò è dovuto anche al fatto che l’idea che l’economia sia il punto di partenza e di arrivo dell’uomo – in buona sostanza alla pari quasi di una religione – oggi più che integrare tende a disintegrare le persone, corrodendone i legami con la comunità di riferimento e consegnandoli ad una solitudine senza consolazione.



A. Alietti: Il tema di questa complessa relazione richiederebbe un’analisi approfondita in grado di ricomprendere passati processi sociali e storici con quelli attuali. Il fondamentalismo islamico non è l’esito impazzito e irrazionale di eventi caotici che hanno favorito il suo emergere quale realtà diffusa nel mondo islamico. Vi di fatto nella comprensione dell’Islam e delle sue derive uno spirito etnocentrico che ne confonde la sua articolata espressione politica, economica e religiosa.

L’aspirazione alla democrazia di una parte dei paesi rientranti nella denominazione “islamici” è stata per molto tempo frustrata da una volontà di potenza dell’occidente priva di un progetto serio e di lungo periodo. La guerra civile in corso nel mondo islamico e la globalizzazione del terrorismo di matrice jihadista risultano diversi nella loro natura. Da un lato, le vecchie dittature sconfitte dall’occidente (Iraq e Libia, ad esempio) hanno lasciato uno spazio di potere alla crescita delle nuove oligarchie islamiste radicali sostenute dalle potenze petrolifere della regione. Dall’altro, una parte di cittadini europei figli dell’immigrazione hanno trovato un’identità forte capace di arginare i processi di segregazione e di povertà subiti nelle estese periferie metropolitane europee, promuovendo un’istanza di ribellione a questa condizione di subalternità. Non si pretende di giustificare l’atto, o gli atti, di violenza perpetrati da cittadini europei in nome di un confuso anti-occidentalismo, nondimeno parte di questi giovani sperimentano quotidianamente la debolezza della democrazia e della sua incapacità di combattere le disuguaglianze.

Come qualcuno recentemente ha ricordato l’Isis, il califfato islamico, promuove non solo terrore, guerra ma anche un esteso sistema di welfare nelle zone occupate che accentua il consenso delle popolazioni deprivate. In questo caso il legame tra la religione, la società e l’economia si salda allontanando l’ipotesi di una emancipazione democratica delle masse arabe-musulmane. A ciò si aggiunge la cecità dell’occidente sui tradizionali alleati dei paesi del Golfo con i quali si parla la stessa lingua del potere economico e finanziario. Le speranze disattese delle “primavere arabe”, tranne (forse) nel caso della Tunisia, nel dare una forma democratica reale alle società islamiche è l’esempio lampante di un diseguale ordine geopolitico che non vuole cambiare lo status quo funzionale all’immagine reiterata di una inconciliabilità tra la democrazia e l’Islam. Parafrasando una citazione, spesso evocata, dal famoso libro di Samir Kassir “L’infelicità araba”, si può affermare che nelle società islamiche vi sia una ineluttabile e diffusa sensazione che il futuro e, aggiungiamo noi la democrazia, sia una strada ostruita.



Quanto è importante il linguaggio per veicolare pregiudizi e stereotipi?



C. Vercelli: Tralasciando i deboli e fallaci convincimenti del “politicamente corretto”, dove si ritiene invece che non nominando una cosa, o facendolo secondo un lessico improntato a obblighi di espressione (quindi anche a censure e autocensure) il linguaggio rimane un vettore fondamentale nel generare stereotipi così come nel liberare energie e risorse. Non è un caso se quei regimi politici che storicamente hanno fatto massimo ricorso al razzismo come politica di Stato, abbiamo sempre aspirato a contrarre il pluralismo lessicale e la grande ricchezza linguistica. Poiché nella semplificazione della terminologia, nell’impoverimento della lingua, nella riduzione dei significati si manifesta quel fenomeno di banalizzazione che sta all’origine dell’indifferenza verso l’altrui esistenza. Non di meno il linguaggio, per la sua natura di veicolo di relazione, di scambio, di comunicazione è uno degli snodi fondamentali dai quali si deve ripartire per dare sostanza ad una politica di inclusione. Non è solo una questione di “galateo”, e neanche di pedagogia civile ma di capacità di costruire relazioni attive, basate non sulla sottomissione o sul narcisismo, bensì sulla recirprocità.



A. Alietti: Il linguaggio è fondamentale, senza di esso non è possibile rappresentare il mondo sociale e raccontarlo. Di conseguenze il vettore linguistico in riferimento alla riproduzione ideologica del razzismo assume un valore decisivo. Nel quotidiano si utilizzano termini e parole che rappresentano l’alterità etnica in una ottica stereotipata la quale sedimenta immagini negative.

In diversi studi sul linguaggio nei mass-media, nell’ambito della socialità si evidenziano i meccanismi cognitivi che amplificano l’omogeneità del proprio gruppo di appartenenza e, al contempo, la distanza sociale da chi è diverso. Lo svelamento del linguaggio razzista è un passo fondamentale per contrastare l’egemonia di un diffuso e potente regime discorsivo che solidifica le pseudo ragioni dell’avversione a determinati gruppi etnici. L’esempio classico della frase “Io non sono razzista, ma….” segnala con chiarezza la forza del linguaggio quotidiano a rappresentarsi quali portatori di una verità indiscutibile ed auto-evidente. Il lessico razzista, come affermato in precedenza, diventa sempre meno condannabile, da cui ne consegue che lo sforzo di denunciare quantomeno le sue forme pubbliche sia un impegno costante. Il problema non è di abbracciare un fantomatico “political correct”, spesso grottesco nei suoi risultati, ma di avviare una propedeutica del linguaggio del rispetto e del riconoscimento dell’alterità nelle sue mutevoli declinazioni (non solo etniche).



Perché, come scrivete nel testo, nel razzismo si identifica una forma di "falsa razionalità"?




C. Vercelli: Il razzismo solo in parte nasce dall’ignoranza, come comunemente si vorrebbe invece credere. Semmai, tanto più in una età come quella che stiamo vivendo, è rimesso in circolazione dai processi di globalizzazione. I quali, per la loro natura “liquida”, dal momento stesso che mettono in discussione confini e sovranità, come anche diritti e opportunità, alimentano paure e angosce da sconfinamento. Tutto si fa più fragile e, a tratti, incomprensibile nella percezione dei molti, che subiscono passivamente quanto avviene. Il razzismo, non necessariamente inteso come una dottrina precostituita bensì nella sua natura di interpretazione banalizzante dei processi sociali e storici, dà invece un senso di comprensibilità a ciò che altrimenti rischia di rimanere incomprensibile. Per il fatto stesso di dividere l’umanità, di rifiutarne la varietà, di stabilire delle gerarchie, di legittimare rapporti di potere spesso ingiusti, si configura agli occhi di quanti sono spiazzati e, nel medesimo tempo, disincantati rispetto al mutamento in atto, come uno strumento attivo per “governare” le difficoltà che incontrano. Si tratta di una falsa razionalità perché dietro la plausibilità dei discorsi e delle condotte razziste non c’è il mondo ma una immagine di esso, basata perlopi, se non esclusivamente, sulla paura. Cosa che serve a fare da propellente a condotte fondate sul pregiudizio, nella convinzione che da ciò si possa trarre un beneficio personale. Non di meno, quando tutto ciò si incontra e si traduce in politiche di Stato, come è avvenuto ben più di una volta nel Novecento, il disastro collettivo è dietro l’angolo.


A. Alietti: La risposta a questa domanda si palesa nell’idea, più volte richiamata, che il razzismo prefigura nella sua logica un ordine sociale fondato su una razionalità auto-evidente, indiscutibile, in grado di giustificare il suo affermarsi e il suo riprodursi. La falsa razionalità, inoltre, si manifesta nel momento in cui crea le condizioni per legami sociali fittizi, il più delle volte, basati sul risentimento, dunque su emozioni che poco o nulla hanno a che fare con la riflessione razionale.

In altre parole, la vulgata razzista agisce come collettore di insicurezze, frustrazioni collettive alle quali si fornisce una spiegazione semplice delle cause attraverso l’individuazione dello straniero quale responsabile tout court.





Ponendo particolare attenzione al dibattito intorno alle vecchie e nuove forme con cui il razzismo si è manifestato all’interno delle società occidentali, il volume intitolato “Antisemitismo, islamofobia e razzismo. Rappresentazioni, immaginari e pratiche nella società italiana”, edito da Ediesse, ne discute i caratteri sociali e storici, affrontando temi salienti quali l’antisemitismo e l’islamofobia. Gli autori sono: Alfredo Alietti, Claudio Vercelli e Dario Padovan.


L'Associazione per i Diritti Umani ha intervistato per voi i Professori Alfredo Alietti e Claudio Vercelli che ringrazia molto per la disponibilità.



Quali sono le vecchie e nuove forme di razzismo e quali le loro matrici?



C. Vercelli: Non è agevole distinguere tra vecchie e nuove forme di razzismo, trattandosi di un fenomeno per più aspetti polimorfo, ossia in grado di assumere connotazioni in base alle circostanze del momento e alle esigenze di chi ne fa ricorso, non importa però quanto consapevolmente. Piuttosto, ed è questo l’elemento dal quale partire, il razzismo comprende una vasta gamma di atteggiamenti basati sul pregiudizio che, dall’ indifferenza possono arrivare anche alla violenza fisica fino, in ultimo, alle politiche di Stato per l’eliminazione delle diversità attraverso la distruzione fisica dei “diversi”. L’elemento peculiare ai razzismi, ovvero condiviso comunemente, è il convincimento che un individuo non possa né debba essere considerato in base alla sua personalità e alla sua soggettività bensì come parte di una serie precostituita – la cosiddetta “razza” – che assommerebbe in sé dei tratti immutabili, Come tali questi influenzerebbero l’individuo medesimo nelle sue condotte, nel suo modo di porsi dinanzi ai fatti del mondo, nelle relazioni che intrattiene con il resto della comunità umana. Tale attribuzione di caratteri fissi, ovvero intesi come immutabili, ha una natura ascrittiva ed inchioda la persona ad una sorta di “destino” immodificabile. Non a caso, il razzismo intende la diversità come un dato di natura e non come una costruzione sociale. Il qual fatto induce, chi fa propria tale visione delle cose, a ritenere che sia impossibile trasformare gli altri (ma anche se stessi) e che da tale riscontro non possa che derivare un conflitto tra le diversità oppure l’obbligo ad adottare politiche di separazione tra gli appartenenti a gruppi razziali diversi se non, in ultimo, l’eliminazione di quanti sono ritenuti una minaccia per la propria sopravvivenza. Sta, all’interno del dispositivo razzista, una concezione del mondo che cancella la cultura, intesa come insieme di pratiche umane evolutive, fondate sullo scambio, alla quale si sostituisce l’idea che le differenze non compongono il quadro della varietà umana ma una sorta di confine insormontabile e come tale perennemente a rischio da parte di chi, invece, pratica i meticciati. Un elemento fondamentale per relazionare i razzismi contemporanei da un punto di vista storico è verificare, tra gli altri, due elementi indice: le migrazioni e la struttura del mercato del lavoro. Il razzismo, da tale punto di vista, riordina i rapporti di forza e di dominio, stabilendo scale gerarchiche, vincolando le scelte degli uni, allocando risorse a favore di altri e così via.


A. Alietti: Nella prospettiva sociologica e psicosociologica la questione delle forme mediante le quali si manifesta l’atteggiamento razzista risulta assai ampia. A partire dalla metà degli anni ’70 alcuni studi rivelarono come l’attore sociale tendesse ad esprimere opinioni e atteggiamenti avversi alle minoranze etniche in maniera indiretta, occultando il più possibile quelle forme linguisticamente aperte e dirette, in contrasto con le norme sociali di condanna del razzismo. Da tale analisi, vi è stato un fiorire di termini con cui indicare questa inedita forma: razzismo moderno, simbolico, nascosto, debole. Indubbiamente, il clima culturale europeo e nordamericano, pur con dei profondi distinguo legati alla specificità storica dei rapporti interetnici, sorto alla fine della guerra mondiale con il portato del genocidio nazista ha contribuito a combattere l’ideologia razzista fondata sulla dimensione biologica che legittimava la gerarchia tra le supposte diverse razze.

Ciò non ha significato il venire meno del razzismo quale fenomeno di esclusione di determinati gruppi nel dopo guerra fino ad oggi. Infatti, alla parola razza che ha accompagnato il discorso scientista a cavallo del XIX e XX secolo si è sostituito il concetto di etnia, ovvero un approccio culturalista alle differenze il quale appare meno escludente in termini generali e più democratico nel trovare “buone ragioni” all’atteggiamento razzista. Tuttavia, questa alchimia sociale che nasconde l’atteggiamento di rifiuto della diversità etnica non ha mutato nel profondo il senso del razzismo tradizionale. Alla cristallizzazione di caratteri biologici si è venuta a costruire una retorica sociale che cristallizza ed essenzializza i tratti culturali, in una sorta di “biologizzazione molle”. Su questo piano di analisi si avverte come vi sia una forte continuità tra il cosiddetto “vecchio” e “nuovo razzismo”, al di là delle definizioni adottate dagli studiosi negli ultimi trent’anni. L’orizzonte comune è un discorso sull’immutabilità (di razza e/o di etnica) dei destini dei soggetti sui quali si riversa la logica razzizzante dentro un disegno gerarchico delle diversità umane sostenute e rafforzate da politiche istituzionali tese a riprodurre tale ordine sociale ed etnico. Inoltre, alla luce delle dinamiche sociali, politiche, economiche e culturali occorse in Europa, dall’avvento della globalizzazione e del trionfo del neoliberalismo, vi è da valutare seriamente gli effetti della crisi del multiculturalismo e di crescenti conflitti interni ai paesi europei generati dalla perdurante crisi e dalle retoriche neo-nazionaliste, populiste e, specificatamente, anti-islamiche. Appare evidente che nella nostra contemporaneità il razzismo sia divenuto un potente fattore di legame sociale in negativo, soprattutto a fronte della crescente insicurezza e instabilità delle traiettorie dei gruppi autoctoni più vulnerabili e più prossimi socialmente agli immigrati. Basta osservare con un minimo di attenzione alle reazioni nello spazio neutro del web, ad esempio ai commenti delle notizie dei giornali nazionali on-line, per verificare che dichiararsi razzisti non più argini, non ha più quel velo, per quanto ipocrita, di possibile condanna collettiva.

Il razzismo oggi è sociologicamente e socialmente ancora forte e in grado di minare le basi degli assetti democratici e della convivenza.



Qual è il legame tra religione, politica ed economia, soprattutto in relazione all'Islam di cui si è parlato da poco, anche alla luce dei fatti di Parigi?




C. Vercelli: Impossibile dare una risposta esaustiva a questa domanda. Non in poche righe, almeno. Ciò a cui stiamo assistendo non è il ritorno della religione ma il suo spregiudicato uso politico. Dinanzi a società che mutano, anche drasticamente e repentinamente, e davanti alla marginalità di un grande numero di persone, escluse dal mercato del lavoro così come dalla partecipazione politica, il razzismo cavalca disagi e timori, traducendosi in condotte xenofobe. Più che ad uno scontro tra civiltà, come certuni prediligono affermare, ci troviamo di fronte alla crisi interna alle stesse “civiltà”, e soprattutto alle società che hanno prodotto, laddove queste non riescono a dare risposte adeguate al bisogno di integrazione degli individui. Parlerei quindi di una crisi della politica, nel momento in cui questa dovrebbe essere il mezzo più importante per creare le condizioni della convivenza e, invece, non riesce a svolgere tale funzione. Non di meno il razzismo, che non è solo un problema del mondo cosiddetto occidentale ma attraversa un po’ tutte le comunità umane, si inserisce all’interno dei grandi disagi collettivi scavando solchi incolmabili. Se la politica è in crisi, e se invece certe ideologie hanno spazio oltre misura, ciò è dovuto anche al fatto che l’idea che l’economia sia il punto di partenza e di arrivo dell’uomo – in buona sostanza alla pari quasi di una religione – oggi più che integrare tende a disintegrare le persone, corrodendone i legami con la comunità di riferimento e consegnandoli ad una solitudine senza consolazione.

A. Alietti: Il tema di questa complessa relazione richiederebbe un’analisi approfondita in grado di ricomprendere passati processi sociali e storici con quelli attuali. Il fondamentalismo islamico non è l’esito impazzito e irrazionale di eventi caotici che hanno favorito il suo emergere quale realtà diffusa nel mondo islamico. Vi di fatto nella comprensione dell’Islam e delle sue derive uno spirito etnocentrico che ne confonde la sua articolata espressione politica, economica e religiosa.

L’aspirazione alla democrazia di una parte dei paesi rientranti nella denominazione “islamici” è stata per molto tempo frustrata da una volontà di potenza dell’occidente priva di un progetto serio e di lungo periodo. La guerra civile in corso nel mondo islamico e la globalizzazione del terrorismo di matrice jihadista risultano diversi nella loro natura. Da un lato, le vecchie dittature sconfitte dall’occidente (Iraq e Libia, ad esempio) hanno lasciato uno spazio di potere alla crescita delle nuove oligarchie islamiste radicali sostenute dalle potenze petrolifere della regione. Dall’altro, una parte di cittadini europei figli dell’immigrazione hanno trovato un’identità forte capace di arginare i processi di segregazione e di povertà subiti nelle estese periferie metropolitane europee, promuovendo un’istanza di ribellione a questa condizione di subalternità. Non si pretende di giustificare l’atto, o gli atti, di violenza perpetrati da cittadini europei in nome di un confuso anti-occidentalismo, nondimeno parte di questi giovani sperimentano quotidianamente la debolezza della democrazia e della sua incapacità di combattere le disuguaglianze.

Come qualcuno recentemente ha ricordato l’Isis, il califfato islamico, promuove non solo terrore, guerra ma anche un esteso sistema di welfare nelle zone occupate che accentua il consenso delle popolazioni deprivate. In questo caso il legame tra la religione, la società e l’economia si salda allontanando l’ipotesi di una emancipazione democratica delle masse arabe-musulmane. A ciò si aggiunge la cecità dell’occidente sui tradizionali alleati dei paesi del Golfo con i quali si parla la stessa lingua del potere economico e finanziario. Le speranze disattese delle “primavere arabe”, tranne (forse) nel caso della Tunisia, nel dare una forma democratica reale alle società islamiche è l’esempio lampante di un diseguale ordine geopolitico che non vuole cambiare lo status quo funzionale all’immagine reiterata di una inconciliabilità tra la democrazia e l’Islam. Parafrasando una citazione, spesso evocata, dal famoso libro di Samir Kassir “L’infelicità araba”, si può affermare che nelle società islamiche vi sia una ineluttabile e diffusa sensazione che il futuro e, aggiungiamo noi la democrazia, sia una strada ostruita.



Quanto è importante il linguaggio per veicolare pregiudizi e stereotipi?



C. Vercelli: Tralasciando i deboli e fallaci convincimenti del “politicamente corretto”, dove si ritiene invece che non nominando una cosa, o facendolo secondo un lessico improntato a obblighi di espressione (quindi anche a censure e autocensure) il linguaggio rimane un vettore fondamentale nel generare stereotipi così come nel liberare energie e risorse. Non è un caso se quei regimi politici che storicamente hanno fatto massimo ricorso al razzismo come politica di Stato, abbiamo sempre aspirato a contrarre il pluralismo lessicale e la grande ricchezza linguistica. Poiché nella semplificazione della terminologia, nell’impoverimento della lingua, nella riduzione dei significati si manifesta quel fenomeno di banalizzazione che sta all’origine dell’indifferenza verso l’altrui esistenza. Non di meno il linguaggio, per la sua natura di veicolo di relazione, di scambio, di comunicazione è uno degli snodi fondamentali dai quali si deve ripartire per dare sostanza ad una politica di inclusione. Non è solo una questione di “galateo”, e neanche di pedagogia civile ma di capacità di costruire relazioni attive, basate non sulla sottomissione o sul narcisismo, bensì sulla reciprocità.



A. Alietti: Il linguaggio è fondamentale, senza di esso non è possibile rappresentare il mondo sociale e raccontarlo. Di conseguenze il vettore linguistico in riferimento alla riproduzione ideologica del razzismo assume un valore decisivo. Nel quotidiano si utilizzano termini e parole che rappresentano l’alterità etnica in una ottica stereotipata la quale sedimenta immagini negative.

In diversi studi sul linguaggio nei mass-media, nell’ambito della socialità si evidenziano i meccanismi cognitivi che amplificano l’omogeneità del proprio gruppo di appartenenza e, al contempo, la distanza sociale da chi è diverso. Lo svelamento del linguaggio razzista è un passo fondamentale per contrastare l’egemonia di un diffuso e potente regime discorsivo che solidifica le pseudo ragioni dell’avversione a determinati gruppi etnici. L’esempio classico della frase “Io non sono razzista, ma….” segnala con chiarezza la forza del linguaggio quotidiano a rappresentarsi quali portatori di una verità indiscutibile ed auto-evidente. Il lessico razzista, come affermato in precedenza, diventa sempre meno condannabile, da cui ne consegue che lo sforzo di denunciare quantomeno le sue forme pubbliche sia un impegno costante. Il problema non è di abbracciare un fantomatico “political correct”, spesso grottesco nei suoi risultati, ma di avviare una propedeutica del linguaggio del rispetto e del riconoscimento dell’alterità nelle sue mutevoli declinazioni (non solo etniche).



Perché, come scrivete nel testo, nel razzismo si identifica una forma di "falsa razionalità"?

C. Vercelli: Il razzismo solo in parte nasce dall’ignoranza, come comunemente si vorrebbe invece credere. Semmai, tanto più in una età come quella che stiamo vivendo, è rimesso in circolazione dai processi di globalizzazione. I quali, per la loro natura “liquida”, dal momento stesso che mettono in discussione confini e sovranità, come anche diritti e opportunità, alimentano paure e angosce da sconfinamento. Tutto si fa più fragile e, a tratti, incomprensibile nella percezione dei molti, che subiscono passivamente quanto avviene. Il razzismo, non necessariamente inteso come una dottrina precostituita bensì nella sua natura di interpretazione banalizzante dei processi sociali e storici, dà invece un senso di comprensibilità a ciò che altrimenti rischia di rimanere incomprensibile. Per il fatto stesso di dividere l’umanità, di rifiutarne la varietà, di stabilire delle gerarchie, di legittimare rapporti di potere spesso ingiusti, si configura agli occhi di quanti sono spiazzati e, nel medesimo tempo, disincantati rispetto al mutamento in atto, come uno strumento attivo per “governare” le difficoltà che incontrano. Si tratta di una falsa razionalità perché dietro la plausibilità dei discorsi e delle condotte razziste non c’è il mondo ma una immagine di esso, basata perlopi, se non esclusivamente, sulla paura. Cosa che serve a fare da propellente a condotte fondate sul pregiudizio, nella convinzione che da ciò si possa trarre un beneficio personale. Non di meno, quando tutto ciò si incontra e si traduce in politiche di Stato, come è avvenuto ben più di una volta nel Novecento, il disastro collettivo è dietro l’angolo.


A. Alietti: La risposta a questa domanda si palesa nell’idea, più volte richiamata, che il razzismo prefigura nella sua logica un ordine sociale fondato su una razionalità auto-evidente, indiscutibile, in grado di giustificare il suo affermarsi e il suo riprodursi. La falsa razionalità, inoltre, si manifesta nel momento in cui crea le condizioni per legami sociali fittizi, il più delle volte, basati sul risentimento, dunque su emozioni che poco o nulla hanno a che fare con la riflessione razionale.

In altre parole, la vulgata razzista agisce come collettore di insicurezze, frustrazioni collettive alle quali si fornisce una spiegazione semplice delle cause attraverso l’individuazione dello straniero quale responsabile tout court.